Gennaio-Marzo 2007 n. 1 Anno XXI Quaderni di Minimondo Rivista culturale Braille Periodico trimestrale Fascicolo I Direzione Redazione Amministrazione Biblioteca Italiana per i Ciechi 20052 Monza - Casella postale 285 c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71 e-mail: [email protected] Dir. Resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani, Antonietta Fiore, Ilaria De Cristofaro Pietro Piscitelli (Responsabile) Copia in omaggio Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi via G. Ferrari, 5/a 20052 Monza Sommario Nicola Occhiocupo: Piccola storia dell'attualità della Costituzione («il Mulino» n. 426/06) Valerio Castrnovo: Fare luce e produrre energia («Prometeo» n. 96/06) Stefano Cagliano: RU-486: la «pillola della discordia» («le Scienze» n. 458/06) Alessandra Girardi, Nicoletta Beschin, Sergio Della Sala: Fantasmi del corpo («Psicologia contemporanea» n. 197/06) Fabiana Fusco: «Messaggiarsi» («Prometeo» n. 96/06) Dario Enrico Baudini: Amarcord della radio libera nell'era dei grandi network («Vita e pensiero» n. 4/06) Theodor Kissel: La regina di Saba («le Scienze» n. 460/06) Arianna Dalzero: Le mille voci di Trieste («Luoghi dell'Infinito» n. 104/07) Marina Verzoletto: Béla Bartók: ritorno alla terra e creazione del suono («Letture» n. 625/06) Comunicati: Concorso nazionale di poesia e racconti «Basilio Beltami - Pensieri e Parole» Nuovo Consiglio di Amministrazione della Biblioteca Contenitori dei libri in restituzione Piccola storia dell'attualità della Costituzione Tra le parole d'ordine messe in circolazione in occasione della campagna referendaria sulla riforma costituzionale, approvata, nella passata legislatura, dalla sola maggioranza di centrodestra, e respinta dai cittadini italiani con il voto del 25 e 26 giugno 2006, una delle più diffuse è stata quella relativa alla presunta vecchiaia della Costituzione. Un postulato, invero, non nuovo e alla base anche della fioritura, negli ultimi anni, di numerosi progetti di riforma. Sembra di trovarsi nella situazione evocata da Vincenzo Cuoco, impegnato a esaminare nel 1799 il progetto di Costituzione di Mario Pagano: «Noi rassomigliamo - scrive lo studioso molisano - ai filosofi della Grecia dei tempi di Platone e di Aristotele, quando, stanchi dei vizi di tutti i popoli e dei disordini di tutti i governi loro noti, si occupavano della ricerca di una Costituzione che fosse senza difetti, da servire a un popolo, che non avesse vizio alcuno. Allora fu moda, come lo è oggi, che ognuno il quale ambisse fama di pensatore formasse un progetto di Costituzione; e ciascuno spacciava la sua come l'unica che potesse stabilirsi e durare». Orbene, senza entrare nel merito delle diverse proposte di riforma costituzionale, di cui tanto si parla e si parlerà, sembra utile richiamare, invece, i principi fondamentali e l'ispirazione di fondo della nostra Costituzione, evocati, ma non esaminati in profondità, che consentono di coglierne la vitalità e attualità, pur in uno scenario interno, europeo e internazionale profondamente diverso da quello esistente, al momento della sua elaborazione, negli anni 1946-1947. È indispensabile, infatti, come osservava Giuseppe Dossetti in una magistrale lezione tenuta all'Università di Parma, conoscere e comprendere la Costituzione, più e meglio di quanto sia stato fatto, anche per rilevare e sottolineare, sia pure in una necessaria visione di sintesi, come sussista un patrimonio costituzionale che può essere, oggi, comune a tutto il popolo italiano, che non preclude, tra l'altro, la possibilità di realizzare, come si vedrà, riforme costituzionali condivise, anche di tipo federale, nella salvaguardia della unità e della indivisibilità della Repubblica. L'«oggetto particolare» della nostra Costituzione Scrive Montesquieu ne Lo spirito delle leggi (cap. V, libro XI): «Quantunque tutti gli Stati abbiano generalmente un oggetto medesimo, che è di conservarsi, nulla di meno ogni Stato ne ha uno che gli è particolare. L'ingrandimento era l'oggetto di Roma; la guerra quello di Sparta; la religione quello delle leggi giudaiche; il commercio quello di Marsiglia; vi è altresì nel mondo una nazione, la quale ha per oggetto diretto della sua costituzione la politica libertà». Montesquieu ricorda che ogni Costituzione, in ogni tempo e in ogni Paese, ha avuto un «oggetto» peculiare, ovvero un fine supremo che impronta di sé l'intero ordinamento. «Oggetto particolare» della Costituzione italiana è la persona umana, soggetto, fondamento e fine dell'ordinamento repubblicano, con i diritti inviolabili, e i doveri, inderogabili, ad essa consustanziali e che ad essa si riconnettono nel continuo fluire della storia, che l'ordinamento statuale riconosce, non crea. Una persona umana, concepita non come entità astratta, ma nella concretezza della sua esistenza, della sua esperienza di vita, nella multidimensionalità dei suoi bisogni, materiali e spirituali, immanenti e trascendenti, che essa cerca di soddisfare nella concreta realtà dei gruppi in cui viene a trovarsi, naturalmente e volontariamente, in cui nasce, cresce, entra, e si sviluppa, in rapporto con altre persone, in una relazione reale di solidarietà. Essenziale e costitutiva della persona è, dunque, la dimensione sociale, secondo la ispirazione aristotelica, ripresa e sviluppata dalla filosofia tomistica, nel senso che la persona è persona proprio nella società, nelle sue diverse articolazioni, portatrice di diritti «innati», che «la società non può disconoscere». Tale concezione trova la sua consacrazione nell'articolo 2, che «riconosce» e «garantisce» i diritti che ad essa fanno capo, ritenuti «inviolabili», e sancisce, con plastica formulazione, che riecheggia il motivo fondamentale del pensiero di Giuseppe Mazzini, la stretta correlazione fra il «godimento» dei diritti e l'«adempimento» dei doveri, inderogabili, di solidarietà, ribadita, in modo esplicito e implicito, in molti articoli della Costituzione. L'articolo 2 fa espresso riferimento alle «formazioni sociali», in cui la società si articola e dove il soggetto plasma la sua personalità, tra le quali alcune formazioni sono ritenute «tipiche», quali, ad esempio, la famiglia, la scuola, le chiese, i partiti, i sindacati, le comunità di lavoratori, le imprese, le cooperative ecc. Esse, tuttavia, non esauriscono i fenomeni organizzativi, che si manifestano nella società, dal momento che, essendo molteplici e diversi gli interessi che fanno capo alla persona umana, molteplici e diversi possono essere le formazioni in cui essa cerca di soddisfare i suoi bisogni. L'articolo 2 racchiude, dunque, il principio ispiratore della intera Costituzione, la persona umana nella sua dimensione sociale, che si trova in una posizione di primato, non più di sudditanza e/o di soggezione nei confronti dell'ordinamento statuale nuovo. Ben può dirsi, che l'articolo 2 è l'articolo che, secondo la significativa espressione di Giorgio La Pira, «governa l'architettura di tutto l'edificio costituzionale». Dalla concezione di persona e di società accolta nella Costituzione, discende anche il principio di sussidiarietà, orizzontale e verticale, su cui si è aperto un vasto dibattito, in Europa, e si è formata una abbondante letteratura, specie con il suo formale inserimento nel Trattato istitutivo dell'Unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Nel nostro Paese, tale principio non era esplicitato, come noto, nel testo costituzionale del 1948. Si può dire, tuttavia, che esso fosse presupposto proprio per la predetta concezione di persona e società in esso consacrato. È da rilevare, comunque, che, ora, con la riforma del Titolo V del 2001, il principio di sussidiarietà è espressamente formalizzato. Uno dei pilastri dell'edificio costituzionale, secondo la terminologia lapiriana, proiezione della dimensione sociale della persona, è dato dal pluralismo sociale, giuridico, istituzionale. L'istanza pluralistica consente anche alla persona di realizzare il suo sviluppo nelle formazioni sociali a carattere territoriale comuni, province, regioni - che, non a caso, la Repubblica, come è previsto nell'articolo 5 della Costituzione, riconosce e promuove come comunità storicamente esistite ed esistenti, che concorrono a costituire l'ordinamento della Repubblica medesima, secondo le disposizioni appunto del Titolo V, parte seconda, della Costituzione. Si tratta di un'altra «novità», molto bene evidenziata dal presidente della Commissione dei «Settantacinque», Meuccio Ruini, il quale ricorda come essa riecheggi l'affermazione di Stuart Mill che nelle autonomie locali si ha un «ingrandimento della persona umana», e che «senza istituzioni locali una nazione può darsi un governo libero, ma non lo spirito della libertà». L'esperienza storica dimostra che la promozione e la tutela del pieno sviluppo della persona non si ottengono con il mero riconoscimento di diritti, con la pur solenne proclamazione della libertà e dell'eguaglianza per tutti, come era avvenuto, in Europa, con l'avvento della Rivoluzione francese e la nascita della forma di Stato moderno, la cui «monade costitutiva», come sottolineava Vittorio Emanuele Orlando, era ritenuto, per l'appunto, l'individuo, nato libero e eguale nei diritti, naturali e imprescrittibili, secondo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo dell''89. Nonostante le solenni proclamazioni, racchiuse nella Dichiarazione e nelle Costituzioni successive, la grande maggioranza dei cittadini veniva, infatti, a trovarsi in condizioni di profonda e diffusa disuguaglianza nei diritti politici, civili, sociali, economici. Assume particolare significato, ad esempio, la denuncia, fatta da un noto esponente della destra storica, Sidney Sonnino, della discrasia esistente, in Italia, tra enunciazioni di libertà e di eguaglianza, che, pur teorizzate dallo Statuto Albertino, «restano affermazioni dottrinarie e gli istituti di garanzia formale, in esso previsti, tutelano in effetti gli interessi di una oligarchia». E amaramente concludeva che: «Quella italiana è una libertà da tre soldi, che non cammina e che, invece di dar vita a tutte le forze della nazione per farle collaborare al suo benessere e al suo vigore, li accascia con tutte le debolezze proprie delle oligarchie decrepite». La situazione era destinata a cambiare, come noto, sia pure in modo lento, travagliato, a volte drammatico, con la industrializzazione, la nascita e il diffondersi, in tempi diversi, del movimento operaio, socialista e cattolico, dei partiti di massa, dei sindacati, dello stesso fascismo. Il Legislatore costituente non poteva non tener conto della esperienza vissuta, in Italia e negli altri Paesi, dalla persona umana nell'ordinamento prefascista e fascista; non poteva non tener conto della immane tragedia della seconda guerra mondiale, con la morte di oltre cinquantacinque milioni di persone innocenti, il loro annientamento materiale e spirituale, in forme e misure che non hanno eguali nella storia recente. Giuseppe Dossetti ha individuato proprio nella tragedia della seconda guerra mondiale «la vera matrice della nostra Costituzione». Eventi che hanno portato il nostro Legislatore costituente non solo a porre, come detto, la persona umana come valore originario e finale dell'ordinamento nuovo, con i diritti e doveri ad essa consustanziali, ma anche a prevedere una serie di norme e di istituti, diretti a costruire un ordine sociale proiettato a consentire alla persona, a ogni persona, di essere veramente tale, libera, cioè, dai bisogni, dai condizionamenti, dalla miseria che le impediscono di vivere veramente la sua vita. Tra questi, assume valore strategico l'articolo 3. Dopo aver stabilito la «pari dignità sociale» e l'eguaglianza davanti alla legge dei cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di condizioni personali e sociali, esso recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». L'articolo 3 ha posto numerose questioni su cui non è possibile soffermarsi. Ci limitiamo, più semplicemente, a ricordare che il Legislatore costituente, partendo dalla constatazione, storicamente accertata, che nella società esistono i suddetti ostacoli, stabilisce che la Repubblica ovvero tutti gli enti preposti a esercitare funzioni pubbliche e i loro organi sono impegnati a rimuoverli per consentire ad ogni persona il raggiungimento del suo pieno sviluppo e la partecipazione effettiva alla vita del Paese, nelle sue diverse articolazioni. In questa prospettiva, non esiste separazione tra primo e secondo comma: l'uno espressione della forma di Stato liberale, fondato sull'eguaglianza formale delle persone; l'altro, espressione della forma di Stato sociale, proiettato a realizzare l'eguaglianza in senso sostanziale. I due commi dell'articolo 3 non sono inconciliabili, ma interdipendenti, dal momento che entrambi hanno la finalità di eliminare le discriminazioni delle e tra le persone, di diritto e di fatto, esistenti nelle leggi e nella società, con l'obiettivo di procedere a una graduale trasformazione della società, promuovendo, per l'appunto, il pieno sviluppo di ogni persona e uno Stato strumento al servizio della persona. Altra conseguenza che scaturisce dalla impostazione di fondo richiamata è la proclamazione, ad apertura del testo costituzionale, che la «Repubblica è fondata sul lavoro». La disposizione è espressione di accettazione, da parte del Legislatore costituente, di un valore come denominatore comune di tutte le persone, essendo il lavoro elemento di vita e di sviluppo, che, secondo l'insegnamento di Costantino Mortati costituisce la sintesi fra il principio personalistico (che implica la pretesa all'esercizio di una attività lavorativa) e quello solidarista (che conferisce a tale attività carattere doveroso). La Costituzione, assumendo, quindi, il lavoro come criterio di qualificazione del merito, impone alla Repubblica di creare le condizioni per realizzare, nel rispetto anche della libertà di iniziativa economica privata e dell'economia di mercato, una efficace politica di sviluppo per evitare, tra l'altro, quella specie di «agonia» per la persona, che è la disoccupazione, e dare effettività alla eguaglianza, alla dignità di ogni persona, alla libertà, che non sia, pertanto, quella libertà da «tre soldi» di cui parlava Sidney Sonnino. La Costituzione vuole coniugare, non contrapporre, libertà ed eguaglianza, e realizzare una democrazia sociale, politica, economica, nella prospettiva storica di una operante solidarietà. Strettamente correlata con la richiamata concezione della persona umana è la proclamazione, carica di significati giuridici e politici, contenuta nell'articolo 1 della Costituzione, che «l'Italia è una repubblica democratica» e che «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione». La democrazia non può trovare fondamento che nella persona umana: «Nessun regime democratico potrebbe consolidarsi se non fosse diffusa e compenetrata - scriveva Costantino Mortati - nella coscienza comune la credenza ineffabile di ogni persona umana, quale che sia la sua condizione, credenza che può essere alimentata non già dal ritenere l'uomo mero prodotto dell'ambiente, bensì dal risalire alla sua origine divina, ai diritti congeniti e inalienabili che da essa derivano». Vasta e complessa è la problematica che scaturisce dall'articolo 1, che contiene la sintesi generalissima dei caratteri della forma di Stato e i criteri ermeneutici necessari per svelarne la portata. In esso, si proclama che la sovranità è attribuita al popolo in titolarità e in esercizio, al popolo inteso non quale entità astratta, mistica o spirituale, ma come insieme di cittadini, ciascuno individuato nella sua storica concretezza, ciascuno titolare di situazioni giuridiche a carattere costituzionale, che ciascuno esercita in forma singola e collettiva nella comunità, ripartita nelle diverse formazioni sociali, in comunità territoriali, che la stessa Costituzione individua, come fa, ad esempio, con gli articoli 114 e 131, in riferimento ai comuni, alle province, alle regioni e in altre entità (partiti, sindacati ecc.), ove si svolge la sua personalità. Il dato rilevante, dunque, è che il Costituente non si è limitato a dichiarare la semplice spettanza della sovranità al popolo, ma ha voluto stabilire che al popolo appartiene l'esercizio della sovranità. In questa scelta, è stata anche vista una svolta rivoluzionaria, rispetto all'ordinamento statutario, nato «oligarchico» e rimasto «predemocratico». Occorre evidenziare, a tal proposito, un dato esplicitato nella stessa Costituzione: l'articolo 1, secondo comma, nel dichiarare che la sovranità appartiene al popolo, aggiunge che l'esercizio relativo sarà svolto «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Il che significa, tra l'altro, che l'esercizio della sovranità non è illimitato, ma è limitato ed è disciplinato dalla stessa Costituzione, che, fuori dalla Costituzione e dal diritto - commentava, già nel 1948, Carlo Esposito - non c'è sovranità, ma l'arbitrio popolare, e che la Costituzione viene ad assumere una posizione di supremazia, rispetto a tutti gli altri normativi, il cui garante e promotore è la Corte costituzionale. Si tratta della consacrazione di uno dei principi del costituzionalismo contemporaneo derivante dall'ordinamento degli Stati Uniti d'America. Tra i corollari più vistosi, derivanti dall'articolo 1, è che la Costituzione ha dato formale consacrazione a quella che era già una tendenza del periodo prefascista, il trapasso, cioè, della «sovranità» dal Parlamento al popolo, ovvero a tutti i cittadini, viventi e operanti in una pluralità di formazioni sociali. Partiti, sindacati, enti locali territoriali, altre formazioni sociali in cui la persona, il cittadino vive e opera, sono concepiti come strumenti di penetrazione della società, nella sua multiforme e variegata realtà, nelle istituzioni, viste anch'esse come strumenti al servizio della società. L'obiettivo è, tra l'altro, quello di portare al superamento della contraddizione tra società civile e stato, tra Paese reale e Paese legale, che ha caratterizzato la storia italiana dopo l'unificazione. Si può dire che la Costituzione delinei quella che Giuseppe Capograssi, in una penetrante e lungimirante analisi delle cause e degli effetti della trasformazione della società e del conseguente ruolo dello Stato, chiama la «nuova democrazia diretta». Nuova democrazia diretta, fondata sul primato della società, di palpitante attualità, nei suoi profili generali, che merita un'attenta riflessione a parte. È alla luce dei principi ricordati che debbono essere interpretati, anche, gli articoli della Costituzione dedicati ai «rapporti economici e sociali», che riconoscono e garantiscono, tra l'altro, l'iniziativa economica privata, l'impresa, la proprietà, la cooperazione, come oggetto di un diritto e di una libertà della persona, come manifestazione specifica della sua personalità in formazioni sociali cui è possibile dare vita. È appena il caso, in questa sede, di sottolineare che dalle norme costituzionali emerge chiaramente che l'attività economica, in ogni sua forma, di gestione della proprietà, di impresa, di prestazione del lavoro, è libera e deve essere finalizzata al perseguimento del «razionale sfruttamento» dei beni, di «equi rapporti sociali», della «funzione sociale», della «utilità sociale». Il fine immediato cui è indirizzata e coordinata la disciplina costituzionale dei «rapporti economici» è, per l'appunto, la «utilità sociale», il progresso economico della società attraverso cui ogni persona può trovare sviluppo, sicurezza, libertà, dignità, per adoperare la stessa terminologia della Costituzione. In questo contesto, l'economia, al pari di ogni altra forma di attività umana, non può sottrarsi alle norme che la società si è data. Essa e la sua organizzazione sono al servizio della persona al cui sviluppo, dunque, i meccanismi dell'economia di mercato debbono operare. Un altro principio fondamentale che concorre a caratterizzare la forma di stato delineata nella Costituzione repubblicana è il principio supernazionale, affermato, in particolare, negli articoli 10 e 11 della Costituzione medesima, che stabiliscono, tra l'altro, l'adattamento automatico delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, ossia la loro immissione diretta nell'ordinamento; il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali; la promozione e l'adesione, anche mediante limitazioni della propria sovranità in condizione di parità con gli altri Stati, alle organizzazioni internazionali dirette a realizzare un ordinamento internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. E si sa bene che la pace, come non si è stancato di sottolineare, nel suo lungo pontificato, Giovanni Paolo II, «si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo - opera di giustizia e di pace - mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sé ancor più gravi violazioni di essi». La Costituzione vuole attuare un sistema di rapporti tra gli Stati imperniato sul principio del reciproco rispetto e di solidarietà. Alla luce di queste concezioni, Piero Calamandrei, a chiusura di un lungo saggio sulle vicende storiche che precedettero l'elaborazione della Costituzione repubblicana, notava acutamente, nel 1950, come, dalle tante «finestre» aperte dalla Costituzione verso l'avvenire, poteva intravedersi negli articoli citati, «qualcosa che potrebbero essere gli Stati Uniti d'Europa e del Mondo». È appena il caso di sottolineare che il processo di creazione dell'unità economica, politica e sociale dell'Europa è un processo in atto che dovrà continuare ad essere perseguito con determinazione. La forma parlamentare Nel quadro delineato, debbono operare istituti e organi della forma di governo parlamentare, prescelta dal Legislatore costituente, già all'inizio dei lavori dell'Assemblea, e qualificata, per gli aspetti problematici che presenta, che altererebbero il suo schema «classico», forma di governo parlamentare «razionalizzata a tendenza equilibratica», a «multipartitismo estremo». Ma, al di là delle formule, significative certo, ma, oggi, tutte in fase di risistemazione per le riforme in atto, costituzionali e non, sembra utile ricordare che la Costituzione ha istituito una pluralità di organi - Camera, Senato, presidente della Repubblica, Corte costituzionale, governo, presidente del Consiglio dei ministri, Consiglio superiore della magistratura - di cui ha anche determinato direttamente le funzioni, il carattere monocratico e collegiale, il sistema di elezione, i criteri per la loro formazione e composizione, la responsabilità e la irresponsabilità, le prerogative, ciascuno con una propria sfera di competenza, che non si contrappone né è separata l'una dall'altra, ma reciprocamente coordinata, armonizzata, interdipendente, secondo il principio non della separazione dei poteri, ma del principio dei checks and balances, ciascuno istituzionalmente preposto, secondo le funzioni attribuite, a concorrere, a dare concretizzazione ai principi e ai diritti consacrati nella Costituzione, a soddisfare i bisogni della società, del popolo, che viene a porsi come la fonte originaria di ogni potere, a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, per raggiungere le finalità di cui parla il citato articolo 3. Il Legislatore costituente ha dato anche vita a una serie di istituti di garanzia, di ordine formale e sostanziale, finalizzati a evitare la violazione della Costituzione, di cui ha affermato la supremazia e la conseguente rigidità, garantita da una procedura aggravata per l'approvazione delle leggi di revisione costituzionale e delle leggi costituzionali, da limiti, espliciti e impliciti, alla sua revisione, dal controllo di costituzionalità delle leggi, ad opera di un organo appositamente creato, la Corte costituzionale, per l'appunto. È appena il caso di rilevare che un altro organo supremo è preposto a garantire la Costituzione, sia pure in momenti e forme diversi, rispetto al giudice delle leggi: il presidente della Repubblica. Non mancano altri organi istituzionalmente competenti a garantire, in posizione di indipendenza e autonomia, diritti e interessi ai cittadini, come sono naturalmente gli organi della giurisdizione, ordinaria, amministrativa, contabile, e, da qualche decennio, le Autorità indipendenti. Fra intesa e compromesso Ho cercato di richiamare, a grandi linee, la ispirazione di fondo della Costituzione, i principi fondamentali che la caratterizzano, nella forma di Stato e nella forma di governo, intorno a cui gli esponenti più significativi dei partiti, rappresentati all'Assemblea costituente, si sforzarono di trovare un solido e ampio terreno d'intesa, come attestano i lavori preparatori e la votazione finale, il 22 dicembre 1947, sul testo definitivo della Costituzione: deputati presenti e votanti 515; maggioranza richiesta 258; voti favorevoli 453; voti contrari 62. Non si ignora, di certo, la critica che la Costituzione è, nel suo complesso, espressione di un «compromesso». È così e non avrebbe potuto essere diversamente in presenza di un'Assemblea elettiva, costituita non da rappresentanti di un unico partito, come è accaduto e accade in Paesi dove la democrazia non c'è, ma da rappresentanti di tutti gli orientamenti politici e culturali esistenti nella società italiana. Si tratta di una critica facile, ripetuta meccanicamente come un ritornello, anche nei tanti discorsi in Assemblea costituente, ignorando e/o volendo ignorare che il «compromesso» è connaturato a un ordinamento democratico, come già Kelsen aveva sottolineato, negli anni venti, e Jürgen Habermas ha ricordato più recentemente. Senza poi dire che sulla ispirazione di fondo, sui principi ricordati non ci fu neanche il «compromesso», ma una intesa, come si ricava dai lavori preparatori. Va a merito dei Costituenti aver messo da parte le differenti e contrapposte posizioni di cui erano portatori, al fine di dar vita a una Costituzione in cui tutti o quasi gli Italiani potessero riconoscersi. La maggioranza così ampia raggiunta, tale da superare largamente i due terzi dei componenti l'Assemblea, rappresentò, quindi, una «felice convergenza» di opinioni, secondo Aldo Moro; l'«espressione concorde» della volontà della grande maggioranza degli italiani, secondo Lelio Basso; la «unità necessaria» per fare, come affermò Palmiro Togliatti, la Costituzione non dell'uno o dell'altro partito, non dell'una o dell'altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la nazione. I ricordati principi fondanti della Costituzione del 1948 non solo non sono invecchiati, e tanto meno superati, ma sono vivi e attuali, oggi più che mai. A differenza di quanto pregiudizi di varia specie e natura e letture ideologiche o superficiali hanno potuto e possono far ritenere, essi sono in grado di soddisfare le istanze provenienti e presenti nella società contemporanea complessa e articolata, nel rispetto dei vincoli, europei e internazionali, assunti dal Paese. La persona umana, con i diritti e i doveri, vecchi e nuovi, ad essa connaturati; la democraticità dell'ordinamento; la sovranità popolare; la partecipazione di tutti i cittadini all'esercizio del potere; il pluralismo delle e nelle istituzioni e della società; il lavoro; la famiglia; la religione; la cultura; l'ambiente; la salute; la pace; l'eguaglianza formale e sostanziale; la solidarietà; la giustizia; la identificazione dell'Italia con la Repubblica, le limitazioni di sovranità, in condizioni di parità con altri Stati, necessarie per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni, ad esempio, non sono termini mistificatori, usati per coprire un sistema di potere, propri di una classe o di un partito, ma sono termini che esprimono principi, valori, bisogni, aspirazioni di base della società di oggi, della persona vivente nel «villaggio globale», nell'epoca della rivoluzione scientifica e tecnologica, e intorno a cui ricostituire, pur nella naturale dialettica delle idee e degli interessi, il frantumato tessuto connettivo della società italiana, come recentemente ha sottolineato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio di insediamento. Una conferma della loro attualità può anche trovarsi nei non pochi atti approvati da organismi internazionali, dal 1948, che non è possibile richiamare; nelle Costituzioni, adottate, nel sessantennio, da diversi Stati; nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nei Trattati di Maastricht e di Amsterdam e nello stesso «Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa». Atti tutti che, sia pure con diversa accentuazione, affermano la centralità della persona umana, della sua dignità, dei diritti, di diversa specie, che ad essa fanno capo, valori, principi, che emergono sempre più come patrimonio comune dei Paesi operanti nel nuovo spazio costituzionale europeo. Si rende indispensabile, tuttavia, che essi siano tradotti, più e meglio di quanto sia avvenuto nel sessantennio trascorso, in prassi operative a tutti i livelli - politico, economico, sociale, giudiziario, amministrativo - e penetrino nelle coscienze dei cittadini, ne diventino patrimonio comune. Si sa bene che la strada per la loro affermazione è ancora irta di ostacoli. Tuttavia, bisogna operare per renderla effettivamente concreta. Che è poi la concretizzazione di un «mondo umano», ovvero, per adoperare le significative parole di Giuseppe Capograssi, di un «mondo umano cioè giusto, di una giustizia realizzata con mezzi giusti, e libero, di una libertà realizzata per mezzo della libertà. Mondo umano della storia: mondo fatto dagli uomini, per gli uomini, ma umanamente, cioè rispettando l'uomo e le leggi profonde e le profonde esigenze spirituali dell'umanità». Il giurista, il costituzionalista, in particolare, non meno del politico di professione, hanno il dovere di lottare per la edificazione di questo mondo umano, nella consapevolezza che, oggi, la «lotta per il diritto», per riprendere la efficace locuzione di Rudolf von Jhering, è lotta per la persona umana, per l'affermazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, essendo, peraltro, la persona umana, secondo la plastica espressione di Antonio Rosmini, «diritto umano sussistente». Le pur rapide considerazioni svolte testimoniano, tra l'altro, come scriveva Paolo Barile, che la «cultura dei costituenti, non era una cultura del passato, ma anzi, sorprendentemente, del futuro. Essa li portò a scrivere una Costituzione che, come Gustav Mahler diceva della sua musica, «era destinata non ai contemporanei, che erano sgradevolmente colpiti dalla sua novità, ma ai posteri». Conclusioni In questo sessantennio, il processo di trasformazione economica, sociale, culturale del Paese si è realizzato, nell'alveo della Costituzione, che ha garantito, pur in mezzo a tante difficoltà e tragedie, libertà, sviluppo e democrazia, in misura che non trova riscontro in nessun'altra epoca della nostra storia. Nessuno, tuttavia, può negare la esistenza di gravi disfunzioni delle e nelle istituzioni, centrali e periferiche; l'enorme debito del bilancio dello Stato; le mancate riforme strutturali dell'economia; i ritardi nei processi di liberalizzazione e di privatizzazione; la diffusa corruttela; la persistente illegalità. Questi e altri fenomeni sono da addebitare a una Costituzione malfatta o non piuttosto a una classe politica che, per molteplici ragioni, non ha saputo o potuto realizzare il disegno di un ordinamento statuale nuovo, concepito come strumento al servizio della persona e della società, delineato nella Costituzione del 1948? Invero, le cause di questi fenomeni estremamente negativi per lo sviluppo del Paese sono da ricercare non nelle manchevolezze, nelle imperfezioni che nessuno, peraltro, ha mai negato e nega, della Costituzione, ma nella crisi che, per diverse ragioni, ha colpito, per decenni, i partiti, i rapporti tra i partiti, tra i partiti e la società civile e nella conseguente incapacità di dare vita a una maggioranza in grado di assolvere a quella che è la sua funzione propria: governare. Era inevitabile che la crisi si riverberasse anche nelle supreme istituzioni dello Stato, costituite da uomini scelti dai partiti, che alla logica di partito, quando non di corrente, hanno obbedito e obbediscono. Si è assistito e si assiste così a una costante inadeguatezza delle istituzioni investite della funzione di «direzione» politica, tant'è che si è potuto parlare del Parlamento «esautorato» dal governo; del governo «supplito» dai partiti; i partiti, a loro volta, «suppliti» dai sindacati. I «vuoti», lasciati liberi dalle istituzioni inattive, sono stati riempiti in forma, misura e tempi diversi, dalle istituzioni «garantistiche» (presidente della Repubblica, Corte costituzionale, ordine giudiziario) che hanno cercato, per quanto possibile, di far valere «l'imperio della Costituzione» nei confronti di tutti gli operatori politici. Il nodo è, dunque, essenzialmente politico e il problema vero, allora, non sembra quello di dare al Paese una Costituzione diversa da quella elaborata e approvata dall'Assemblea costituente sessant'anni fa. Le brevi considerazioni svolte non vogliono però significare che la Costituzione sia immodificabile. Si sa bene che essa non è il Vangelo, il Corano o il Talmud, e che la stessa Costituzione prevede, del resto, all'articolo 138, la possibilità della propria revisione, secondo procedure e maggioranze stabilite, nei limiti, espliciti e impliciti, che la Corte costituzionale ha individuato, già nella sentenza n. 1146 del 29 dicembre 1988. Anche da parte mia, peraltro, nel lontano 1975, è stata proposta una modifica della Costituzione con la trasformazione del Senato in «Camera delle Regioni», ispirata fondamentalmente dall'intento di risolvere i problemi del sistema bicamerale paritario e dei rapporti tra Stato e regioni, nel processo, avviato all'Assemblea costituente e rimasto incompiuto, di costruzione dello Stato regionale, come si diceva allora, oggi detto di tipo federale, nella salvaguardia dell'unità e della indivisibilità della Repubblica. Non si è affatto contrari, dunque, a riforme, puntuali e ben definite, di disposizioni della Costituzione, che, alla luce dell'esperienza, abbiano mostrato di sentire l'usura del tempo e delle circostanze. A mio avviso, le riforme debbono essere dirette non a istituzionalizzare forme di governo di tipo plebiscitario o cesaristico, ma a dare rinnovata vitalità, maggiore funzionalità, sicura stabilità al governo. Obiettivo che è possibile raggiungere con meccanismi adeguati e coerenti con una forma di governo parlamentare razionalizzata, da inserire nel testo costituzionale e nei regolamenti parlamentari, e con l'adozione di una legge elettorale idonea alla formazione di una maggioranza omogenea, capace di dare attuazione all'indirizzo politico di cui è espressione. Mi sembra, altresì, urgente procedere alla richiamata trasformazione del Senato in organo di rappresentanza delle regioni, sul tipo dello Stato federale tedesco, nel pieno e inequivoco rispetto dell'unità e dell'indivisibilità della Repubblica. Verrebbe così a realizzarsi compiutamente l'ordinamento statuale, delineato nella Costituzione del 1948, in grado, nei suoi ben definiti livelli di governo, nella dimensione europea, di operare come strumento di liberazione e di promozione della persona umana, di ogni persona umana, senza distinzione alcuna. Nicola Occhiocupo («il Mulino» n. 426/06) Fare luce e produrre energia - I prodigi e gli effetti rivoluzionari dell'elettricità e dei suoi derivati. Un denominatore comune ha collegato come in una filiera le più importanti innovazioni di sistema che si sono susseguite negli ultimi cent'anni. Ossia quelle innovazioni che hanno determinato un mutamento radicale di scenario e di prospettiva. È l'elettricità con i suoi effetti cumulativi e a catena sia sul versante economico e tecnologico che nell'organizzazione sociale. Da un lato l'elettrificazione ha segnato il compimento della seconda rivoluzione industriale, la progressiva automazione di impianti e macchinari, e la comparsa di nuove forme di comunicazione, per poi dare il via agli esordi dell'informatica. Dall'altro, ha contribuito a trasformare modi e stili di vita, e a alleviare le fatiche entro le pareti domestiche; e ha assecondato, moltiplicando risorse e servizi collettivi, la formazione di una società di massa e di un'economia sempre più terziarizzata. Tuttavia si usa definire il Novecento come «il secolo dell'automobile»; mentre quello che l'ha preceduto è passato alla storia come il «secolo del vapore». Come si spiega che all'elettrificazione nelle sue diverse valenze non sia stato riconosciuto il ruolo dominante e pervasivo che pur ha esercitato nel corso del Novecento? Il fatto è che l'energia elettrica si diffuse su larga scala soltanto nel primo ventennio del Novecento. Dunque, troppo tardi, per detronizzare la macchina a vapore dal piedistallo in cui era assisa dall'inizio dell'Ottocento (da quando l'«acqua che bolle» di James Watt aveva cominciato a imprimere cadenze più impetuose alla produzione industriale e inaugurato l'epoca dei piroscafi e delle strade ferrate). Ma l'espansione delle centrali idroelettriche è anche avvenuta troppo tardi per tenere testa con successo all'irruzione sulla scena dell'automobile con cui Henry Ford (da quando comparve nel 1909 il famoso «modello T») tenne a battesimo l'era della motorizzazione di massa. D'altra parte, la macchina a vapore e il motore a combustione interna avevano dalla loro un vantaggio che il «carbone bianco» non possedeva, quello della visibilità, in ragione della loro intrinseca natura di entità materiali, immediatamente percepibili tanto nelle loro concrete fattezze che nel loro modo di funzionare. Basti pensare, da un lato, alla poderosa struttura di una rombante locomotiva con le sue bielle e con le sue grandi ruote; dall'altro, all'involucro tirato a lucido, composto per metà da congegni meccanici e per metà da un abitacolo, piazzato su quattro ruote e in grado di lanciarsi in corsa per ogni dove. In entrambi i casi si trattava di oggetti tangibili e di cui era relativamente facile comprendere come e con quali pezzi fossero stati realizzati. Tutt'altro, quindi, della scintilla scoccata fra i conduttori della pila di Alessandro Volta, quale generatrice di una forza cinetica che, racchiusa poi in un trasformatore di corrente alternata, veniva trasmessa a lunghe distanze dalle viscere delle centrali idroelettriche. A quanti assistettero nell'ultimo quindicennio dell'Ottocento all'accensione delle prime lampade ad arco per l'illuminazione pubblica, in sostituzione delle insicure lanterne a gas e dei vecchi lumi a petrolio, l'elettricità sembrò insomma una sorta di fluido magico, di fenomeno sovrannaturale. E Thomas Edison, che per primo aveva impiantato nel 1882 una centrale nel cuore di New York, assunse, per alcuni suoi contemporanei, le sembianze di uno «stregone», di un personaggio con capacità altrettanto mirabolanti che misteriose. E a altri egli apparve come un novello Prometeo che aveva sottratto agli dei il fuoco del sapere, di un sapere benefico e portentoso, per farne dono agli uomini. In effetti, quale altro ritrovato avrebbe potuto eguagliare le virtù innate e le applicazioni a cascata dell'elettricità? Essa aveva prodotto, innanzitutto, il miracolo di annullare la distinzione fra il giorno e la notte, diradando d'un colpo le tenebre che fino a allora avevano avvolto d'oscurità quasi metà dell'esistenza quotidiana dell'uomo. Dal «Ballo Excelsior» al Manifesto del futurismo la luce cristallina e affascinante della lampada a incandescenza di Edison venne perciò celebrata come si trattasse di una stupenda Sheherazade o di una «creatura divina». E assurse così a metafora sublime della civiltà, della forza creatrice dell'intelletto, della ragione e della scienza, in antitesi con i vincoli retrivi dell'oscurantismo e del misoneismo. D'altra parte, quale emblema allegorico più pregnante del fulgore della luce avrebbe potuto esercitare un impatto più eclatante nell'immaginario collettivo all'alba di un secolo che sembrava possedere lo splendore e le connotazioni elegiache di una Belle Epoque? Ma l'illuminazione non era che uno dei tanti prodigi scaturiti dall'avvento dell'elettricità. Insieme alla luce, essa produceva all'istante calore, energia, forza motrice. Nella combinazione di questi vari elementi stava infatti l'essenza, e, insieme, il tratto distintivo, della tecnologia elettrica. Una tecnologia che, grazie alla sua versatile convertibilità e flessibilità, aveva la capacità di generare in continuazione nuovi strumenti utili e campi d'impiego per il miglioramento delle condizioni di vita individuali e collettive, nuove soluzioni organizzative e nuove sinergie in ogni campo d'attività, nuove opportunità di crescita economica e di benessere materiale. Inoltre, l'elettricità si rivelò in tempi relativamente brevi, rispetto a ogni altra fonte di energia utilizzata in passato, una risorsa accessibile a tutti indistintamente, trasferibile da un luogo all'altro, e estensibile a ogni latitudine. Di fatto essa valse a standardizzare e a accelerare i sistemi di produzione e i procedimenti di lavoro; a rendere possibile (rispetto alle vecchie localizzazioni) la diffusione territoriale a raggiera delle imprese di ogni genere; a far marciare tramvie, metrò e treni; a accrescere il patrimonio di equipaggiamenti e infrastrutture. Non è poi il caso di spendere troppe parole sul ruolo che l'elettrificazione ha svolto nel trasformare molti aspetti della vita sociale tanto nella sfera pubblica che in quella privata. È noto come essa abbia corrisposto a un numero incalcolabile di esigenze, e influenzato orientamenti e modelli di comportamento. E ciò, man mano che, dagli anni Trenta in poi, si propagò dalle principali città ai centri minori, ai borghi di campagna, e via via che la gamma poliedrica delle sue applicazioni divenne alla portata anche delle classi popolari, dei ceti più minuti. Di fatto, se nella prima metà del Novecento si ebbe la sensazione di vivere in un'epoca animata da continue mutazioni, da cadenze assai più rapide e intense rispetto al passato, quest'impressione fu dovuta in misura rilevante al profluvio di novità introdotte e sviluppatesi sulla scia dell'elettricità. Dato che esse valsero a modificare la percezione dello spazio e del tempo, riducendo le distanze fra luoghi ancorché assai lontani, riproducendo voci e suoni in diretta, e accelerando il movimento di uomini e di mezzi. Perché questo fu l'effetto che produssero, ognuno per la sua parte, nuovi strumenti di comunicazione come il telegrafo, il telefono e la radio nonché i mezzi di trasporto collettivi azionati da grandi motori e da apparati elettrici. In considerazione delle caratteristiche e delle dinamiche peculiari di una risorsa come l'elettricità, si spiega anche come essa sia stata considerata, al suo apparire, una chiave di volta per l'espansione dell'economia capitalistica e, allo stesso tempo, per l'edificazione di un'economia socialista. Da un lato, l'elettrificazione accrebbe infatti nei paesi occidentali le potenzialità delle più grosse concentrazioni industriali con tendenze oligopolistiche e le compagnie elettriche, attraendo sui propri titoli un'ingente massa di risparmi, contribuirono allo sviluppo dei mercati finanziari. Dall'altro, la massimizzazione in tempi rapidi delle applicazioni elettriche apparve in Unione Sovietica una sorta di scorciatoia per il passaggio da una condizione di relativa arretratezza economica allo stadio di uno sviluppo avanzato, nell'ambito di un sistema collettivista. E ciò all'insegna del teorema di Lenin per cui il comunismo sarebbe stato il risultato di un binomio fra politica e tecnologia, fra il potere dei Soviet e il ruolo propulsivo dell'elettrificazione. Realtà e mito, risvolti pratici e valori simbolici, interessi concreti e aspettative palingenetiche sono andati perciò intrecciandosi lungo il percorso di quello che, al suo avvento, appariva del resto ai contemporanei il prodotto della scienza positivista e, insieme, di un incantesimo miracoloso. Sta di fatto che nella valorizzazione delle attitudini e delle proiezioni sempre più estese della tecnologia elettrica, quali sono andate manifestatesi nella seconda metà del Novecento, ha finito per avere la meglio l'economia capitalistica. E ciò per due motivi fondamentali. In primo luogo, perché essa ha convertito alcuni prodotti scaturiti dagli sviluppi dell'elettrificazione (dagli elettrodomestici, alla televisione, agli audiovisivi) in altrettanti beni di consumo durevoli, destinati da un lato a fare della casa di ognuno una sorta di terminale a rete della filiera elettrica, e dall'altro a moltiplicare le forme di svago e d'intrattenimento, di fruizione del tempo libero. Così che quest'insieme di beni e di servizi ha finito per divenire un emblema per eccellenza di una società affluente. In secondo luogo, un'importanza rilevante hanno avuto i fattori d'ordine strutturale. Nei paesi dell'Occidente, in quanto caratterizzati da un assetto economico competitivo e propenso all'innovazione rispetto al burocratismo e alla progressiva sclerosi del «socialismo sociale», si è giunti nel corso degli anni Ottanta a porre le basi in anticipo dell'informatica e della multimedialità. E ciò grazie ai forti progressi conseguiti nel campo dell'elettronica e delle telecomunicazioni che, dopo aver segnato l'irruzione sulla scena del robot e del computer, hanno visto l'incorporazione dell'intelligenza artificiale in nuove apparecchiature sempre più miniaturizzate e sofisticate. Giunti a questo punto, c'è da domandarsi se oggi si deve considerare concluso il ciclo dell'elettricità, nel suo ruolo di vettore di tante trasformazioni. O se, invece, c'è da pensare che quanto ora siamo portati a ritenere qualcosa di prodigioso non sarà reso obsoleto da qui a pochi anni da ulteriori sviluppi, da un nuovo salto di qualità. Di certo, quel che si può dire è che le applicazioni dell'elettronica non finiscono di stupirci. Non solo la microelettronica, per la sua natura di tecnologia trasversale, ha modificato i processi decisionali e i sistemi di produzione convertendoli da verticali in orizzontali, segnando così il passaggio delle imprese a un'organizzazione modulare e a rete. Ma, quel che più colpisce, è il suo ultimo ritrovato. Il prodotto informatico è infatti un bene che sfida l'immaginazione, in quanto è tale da non essere consumato né dal tempo né dallo spazio, e perciò immagazzinabile e costantemente recuperabile. In sostanza l'ultima «rivoluzione silenziosa» dell'elettricità, quella dei microchips, ha segnato l'alba di una nuova era in cui la rilevanza della materia sta lasciando il posto a quella delle idee e dei saperi, grazie alla loro elaborazione e memorizzazione in sistemi computerizzati di sempre maggior potenza e funzionalità. Pertanto, si può ben dire che sia ancora l'elettricità, grazie alle sue più recenti e mirabili applicazioni, a recitare una parte da protagonista. Poiché essa ha fatto da battistrada alla rivoluzione post-industriale e è un elemento basilare del processo di globalizzazione sia del mercato sia dell'economia della conoscenza. Vorrei fare, in conclusione, una considerazione di carattere generale. Molti oggi temono gli effetti prorompenti della tecnoscienza, ossia il pericolo che essa si trasformi da mezzo in fine a se stessa. Invece che il progresso civile e la padronanza assoluta della natura, che in tal modo pensava di conseguire, l'uomo si troverebbe sotto il dominio totalizzante di un'entità anonima e onnipotente come la tecnologia. In realtà, la scienza e la tecnica presentano, alla stessa stregua di una medaglia, due facce, il diritto e il rovescio. Dipende perciò dal modo con cui ce ne avvaliamo, il ruolo in positivo o meno che esse possono esercitare. Di fatto, quantunque sia giunta a racchiudere in sé potenzialità sempre più estese, la tecnoscienza va considerata per quello che è: non di più di una leva che sta a noi usare, per quel che ci può dare, in modo razionale e secondo prospettive corrispondenti tanto ai bisogni effettivi della collettività quanto a determinate norme etiche e compatibilità di carattere ecologico. A questo riguardo è evidente come spetti innanzitutto ai leader politici il compito di effettuare delle scelte responsabili e confacenti a un buon uso della tecnologia. Ma anche la comunità scientifica non può sottrarsi al dovere di valutare e ponderare le conseguenze in un senso o nell'altro di quel vasto potenziale di risorse e di cognizioni di cui essa è l'agente principale e che passa in primo luogo per le sue mani. Valerio Castronovo («Prometeo» n. 96/06) RU-486: la «pillola della discordia» - Storia, vantaggi e rischi del mifepristone, una scoperta avvenuta quasi per caso e divenuta uno dei progressi scientifici più controversi della storia dei farmaci. Dal 1988 a oggi, in Francia sono stati eseguiti più di 1,2 milioni di aborti non con un intervento, ma con il ricorso a un farmaco, il mifepristone, che causa un aborto spontaneo. Dal 2000 a oggi negli Stati Uniti vi sono stati 500.000 aborti per via chimica con lo stesso farmaco, il cui mercato si estende dalla Cina a diversi paesi europei, passando per Israele. Non per l'Italia, tuttavia, dove non è stato ancora registrato, e pochi mesi fa è stato motivo di contrasto tra l'ex ministro della salute Storace e qualche ASL che ne voleva introdurre l'impiego. Il mifepristone - meglio noto con la sigla RU-486 con cui fu contrassegnato dall'azienda che lo scoprì - è il primo di una nuova generazione di farmaci per il controllo delle nascite, utile per causare l'aborto spontaneo (vedremo in quali condizioni), come contraccettivo d'emergenza e per altri scopi. Agisce bloccando soprattutto i recettori del progesterone, ovvero le serrature chimiche che permettono a questo ormone di sostenere la gravidanza, e, preso assieme alle prostaglandine, si è dimostrato utile allo scopo nelle prime nove settimane di gestazione. In sintesi, i vantaggi della tecnica dell'aborto chimico rispetto a quella alternativa dell'aspirazione praticata sinora sono la maggiore praticità, il minor rischio d'infezione e il maggior rispetto della privacy della donna durante un'esperienza che crea un comprensibile disagio psicologico. D'altra parte, come accade spesso con ogni altro farmaco, la sua applicazione ha dimostrato che la RU-486 può essere fonte di sgradite sorprese. Un fatto, questo, particolarmente enfatizzato dagli ambienti religiosi più conservatori, che, non solo in Italia, portano avanti da anni una forte opposizione all'uso della RU-486. Come osservava già nel 1993 Allan Rosenfield, della Columbia University di New York, sulle colonne del «New England Journal of Medicine»: «Raramente un progresso scientifico è stato oggetto di tante controversie politiche, ideologiche e sociali come il mifepristone». Ed è appena del 17 maggio scorso l'intervista rilasciata dal dottor Ralph P. Miech, professore emerito alla Brown University di Providence, nel Rhode Island, al quotidiano «Avvenire», e intitolata: «Ho studiato la RU486, vi spiego come uccide». Storia di una scoperta casuale La ricerca di un metodo chimico per interrompere la gravidanza è durata decenni. Le prime molecole impiegate a questo scopo furono le prostaglandine, sostanze che inducono contrazioni della parete uterina e la cui produzione è normalmente inibita dal progesterone. Ma, come ricordavano oltre 15 anni fa su «le Scienze» André Ulmann, Georges Teutsch e Daniel Philbert, i tre «padri» del mifepristone, (si veda La pillola RU-486, un antiormone, n. 258, febbraio 1990) «le dosi necessarie erano elevate, con la comparsa di effetti secondari molto rilevanti che ne impedivano l'impiego nella pratica corrente». Bisognava cercare altrove; ma la scoperta dell'utilità del mifepristone non fu frutto di un programma di ricerca destinato a quello scopo. Al risultato contribuì il caso, perché gli studiosi non stavano cercando una pillola per l'aborto chimico. Nei laboratori della casa farmaceutica Roussel-Uclaf si conducevano ricerche sugli ormoni steroidi, una famiglia di sostanze che hanno in comune la parte della molecola detta steroide. Una famiglia eterogenea dal punto di vista chimico e funzionale. Per esempio, solo nella famiglia dei progestinici, ovvero degli ormoni che preparano la mucosa dell'utero all'accoglimento di un embrione, si riconoscono almeno tre gruppi di molecole: uno con struttura ed effetti simili al progesterone, uno simile al norgestrel, e il terzo con effetti analoghi al 19nortestosterone, i cui componenti rappresentano i primi progestinici di sintesi, diversi l'uno dall'altro per la presenza di questo o quel gruppo chimico. La famiglia ha come denominatore comune l'azione progestinica, ma i gruppi variano anche per la diversa attività androgenica o la diversa facilità a essere metabolizzati dal fegato. Tutto dipende da come varia la struttura chimica della molecola base del progesterone, o per un bricolage chimico naturale o per le variazioni introdotte con la ricerca chimico-farmaceutica, che in qualche caso ha portato a composti molto diffusi. Nell'articolo di «le Scienze» i padri del farmaco ricordano che nel 1975, al Centro ricerche Roussel-Uclaf a Romainville, Georges Teutsch mise a punto un metodo semplice per la sintesi di varianti di 19-nor, con gruppi chimici aggiunti in una specifica posizione. «Questa serie di molecole fino ad allora di difficile sintesi - scrivevano i tre studiosi - si è dimostrata di grande interesse per lo studio dell'attività biologica degli ormoni sessuali e quindi del controllo delle nascite». Per certi versi, però, sembrò un risultato inutile. La ricerca scientifica delle case farmaceutiche, allora come oggi, era condizionata dall'interesse commerciale di un farmaco, ovvero dal fatturato potenziale delle scoperte commisurato al tempo necessario per passare dallo studio di molecole a un farmaco vero e proprio. Per sviluppare un contraccettivo chimico che agisse durante la fase luteinica, quella che va dal 15o al 28o giorno del ciclo mestruale, allora si pensava che occorressero 10-17 anni, mentre i brevetti che proteggevano una molecola duravano vent'anni nel migliore dei casi. Così, l'azienda decise di non procedere oltre. Ma ci fu una sorpresa. Mentre c'era chi si dedicava a introdurre variazioni nelle molecole, altri studiavano il rapporto tra variazioni ottenute e potenziali effetti, come faceva Alain Bélanger, un giovane canadese che tra il 1975 e il 1976 lavorava alla RousselUclaf con Teutsch. Bélanger scopri che alcuni di questi composti presentavano un'affinità molto forte per i recettori dei glucocorticoidi, un fatto che convinse i ricercatori della Roussel-Uclaf di aver individuato una serie chimica molto particolare. Antiormoni L'idea iniziale fu proprio di aver scoperto una molecola con attività antiglucocorticoide, cioè capace di contrastare molecole come il cortisone. In pratica, erano stati scoperti degli antiormoni, che nelle loro interazioni con i recettori si comportavano esattamente come composti agonisti, senza tuttavia indurre risposte biologiche. Entravano nella serratura molecolare senza aprire la porta, e così impedivano alla chiave - l'ormone - di fare il suo effetto. Secondo questa ipotesi, più elevata era l'affinità per il recettore, più potente doveva essere l'effetto antagonista, il che costituiva un buon metodo per la selezione in vitro delle molecole sintetizzate. Le cose andarono avanti più speditamente solo alla fine del 1979 quando, anche con il contributo di sir Derek Barton e di EtienneEmile Beaulieu, si decise di iniziare le ricerche sugli antiglucocorticoidi. «Il coordinamento di questo progetto fu affidato a Daniel Philibert - si legge sull'articolo di «le Scienze» del 1990 - che mise a punto diversi test biologici destinati a mettere in evidenza una eventuale attività antiglucocorticoide. Nell'aprile 1980 furono sintetizzate in successione tre molecole, e poi affidate ai biologi: RU-38140, RU-38473 e RU-38486. Rispetto alla RU-25055 l'attività antiglucocorticoide di queste nuove molecole era molto più marcata in vitro, ma soltanto la RU-38486 (indicata in seguito con la sigla RU486) si dimostrò capace di opporsi a tutti gli effetti del dexametasone (un potente glucocorticoide di sintesi)». Nello studio degli ormoni si era decisamente imboccata una strada nuova. A quel punto, tuttavia, ci fu una doppia considerazione. Primo, la RU-486 si fissava in maniera altrettanto efficace ai recettori del progesterone, il che avrebbe potuto provocare effetti indesiderati nel caso di un eventuale trattamento antiglucocorticoide nella donna. Secondo, negli esperimenti sugli animali la RU-486 si dimostrava priva di attività agonista nei confronti del progesterone, e quindi doveva essere un suo antagonista, dato che ne occupava i recettori senza indurre una risposta biologica. In conclusione, fu solo per via indiretta che si arrivò a una molecola tanto attesa dai ricercatori e dai medici che lavoravano nel campo del controllo delle nascite. Comprendendo l'importanza della scoperta, Beaulieu convinse la direzione generale della Roussel-Uclaf della necessità di dare priorità alle ricerche nella direzione dei composti antiprogesterone. Nei sei mesi seguenti il gruppo di farmacologi completò gli studi biologici sulla RU-486, così che Beaulieu, nell'ottobre 1981, propose la sperimentazione di questa molecola sulla donna a Walter Herrmann, a Ginevra, sperimentazione che ottenne risultati molto incoraggianti: «La RU486 si dimostrò in grado di interrompere la gravidanza e di provocare l'espulsione dell'embrione in 9 donne su 11. Questi risultati costituirono il punto di partenza per lo sviluppo clinico della RU-486», ovvero di ricerche ulteriori su donne intenzionate a interrompere una gravidanza. Le ricerche sulla donna Ma era solo l'inizio. Ricercatori e industria si convinsero ad ampliare le ricerche cliniche su un numero più ampio di donne usando la RU-486 come metodo medico d'interruzione della gravidanza. I primi studi iniziarono nel 1985 e permisero di precisare come andava usato il farmaco, ovvero che una dose unica di 600 milligrammi dava i risultati migliori. Tuttavia non si poteva essere del tutto soddisfatti perché nei casi migliori il farmaco aveva un'efficacia dell'80 per cento. Alta per qualsiasi altro farmaco, ma non soddisfacente considerate le ragioni per cui si usava il mifepristone. Un'ipotesi per spiegare il mancato successo in quel 20 per cento di casi era che occorresse una contrazione uterina più energica per espellere l'embrione. E così Marc Bygdeman, del Karolinska Institut di Stoccolma, propose di rinforzare l'azione dell'RU-486 con piccole dosi di prostaglandine della serie E, vale a dire proprio quei farmaci usati senza successo in passato per interrompere la gravidanza ma che stavolta avrebbero potuto essere usati a dosi più basse. Furono organizzati studi clinici in Francia, Gran Bretagna, Scandinavia e Cina per valutare l'efficacia di una tecnica che prevedeva la somministrazione di 600 milligrammi di RU-486 seguita da una piccola dose di prostaglandine da 36 a 48 ore più tardi, intervallo necessario perché la RU-486 sensibilizzasse la muscolatura uterina all'azione delle prostaglandine, e ritenuto non abbreviabile. L'associazione si rivelò felice. I due farmaci così combinati mostravano un'efficacia del 96 per cento, paragonabile a quella dell'aborto tramite aspirazione allo stesso stadio della gravidanza. Altri studi dimostrarono poi che l'efficacia restava la stessa anche in uno stadio più avanzato di ritardo delle mestruazioni. Il risultato ottenuto in tutti i casi di successo era quello di un «aborto spontaneo», ovvero di un'interruzione spontanea della gravidanza quando l'espulsione dei frammenti ovulari si accompagna da emorragie uterine che, nel 4-5 per cento dei casi, sono gravi e possono imporre un intervento chirurgico per arrestare l'emorragia e in qualche caso obbligare a una trasfusione sanguigna. Un'eventualità possibile e in qualche caso accaduta anche con la somministrazione combinata di RU-486 e prostaglandine, che rende necessario usare il metodo in una struttura sanitaria. A dispetto di quanto a volte raccontano i suoi detrattori, la RU-486 non può in alcun caso consentire di compiere un'interruzione di gravidanza a domicilio, senza controllo medico. D'altra parte, l'esperienza accumulata era nel complesso rassicurante, e per questo la Roussel-Uclaf chiese alle autorità sanitarie francesi l'autorizzazione per l'immissione sul mercato dell'RU-486; autorizzazione che venne accordata il 23 settembre 1988, corredata da disposizioni destinate a evitare che il prodotto potesse essere usato al di fuori dei centri autorizzati a effettuare interruzioni di gravidanza. L'approvazione negli Stati Uniti Da allora, l'interesse verso questo farmaco e verso la tecnica farmacologica d'interruzione della gravidanza andò crescendo un po' in ogni parte del mondo, sia riguardo alla sua efficacia sia per i suoi possibili rischi e controindicazioni. La RU-486 ha avuto tanto sostenitori entusiasti quanto detrattori. Le riviste mediche se ne sono occupate ripetutamente. Il quindicinale di aggiornamento sui farmaci «Medical Letter» ne parlò per la prima volta nel 1991, e il nome mifepristone è comparso ripetutamente sulle pagine dell'autorevole periodico medico statunitense «New England Journal of Medicine», la prima volta nel 1993, quando la rivista dedicò all'argomento quattro articoli e un editoriale che chiedeva polemicamente: «Mifepristone (RU-486) negli Stati Uniti cosa ci riserva il futuro?». Negli Stati Uniti, tuttavia, il farmaco fu proposto per la registrazione solo il 14 marzo 1996, otto anni dopo l'inizio della sua circolazione in Francia. In quel momento, il corredo scientifico della proposta erano due studi su 4600 donne, ma nei quattro anni successivi si arricchì di un articolo di revisione dei dati disponibili basato su 14 studi diversi. Nell'autunno 2000, l'esperienza complessiva e controllata del farmaco era quella raccolta in studi diversi su un totale di 26.000 donne. E non si limitava solo a questo, perché a quel punto il farmaco era in commercio in più di 12 paesi, dove era stato usato da circa mezzo milione di donne. Fu su queste basi che il 28 settembre 2000 la Food and Drug Administration (FDA), l'autorità responsabile dell'approvazione dei farmaci, diede il via libera al suo impiego negli Stati Uniti. L'esperienza accumulata negli anni successivi all'approvazione ha portato la FDA a rivedere di continuo le sue informazioni ai medici sui rischi possibili e le controindicazioni del mifepristone. Nel novembre 2005 sulle confezioni statunitensi è stato rafforzato il messaggio relativo a possibili complicazioni fatali, con due considerazioni. La prima è connessa al caso di gravidanze ectopiche, quando l'embrione non si impianta all'interno della parete uterina. La seconda è quella di possibili shock settici, ovvero di gravi infezioni del sangue causa di shock. Alla base della prima considerazione c'era un singolo caso, a giustificare la seconda quello di quattro donne (un quinto caso era avvenuto in Canada nel 2001), in due delle quali l'infezione era stata causata dallo stesso microbo, Clostridium sordellii. E poiché in quei mesi la FDA stava discutendo la sospensione dal mercato dell'antinfiammatorio Vioxx per il suo sfavorevole rapporto rischiobeneficio, ci fu chi chiese la stessa misura anche per il mifepristone. Sull'argomento, ha raggiunto un'improvvisa notorietà il già citato dottor Miech, pubblicando uno studio sulla rivista «Annals of Pharmacotherapy» nel 2005. Secondo Miech, «la RU-486 permetterebbe il passaggio nell'utero del batterio presente nella normale flora vaginale e allo stesso tempo determinerebbe un catastrofico abbassamento delle difese immunitarie. Ne risulterebbe un'infezione massiccia, lo shock settico e quindi la morte». La risposta della FDA a queste osservazioni è stata, e continua a essere, che la pericolosità non può essere misurata in assoluto, ma relativamente a quella di altri sistemi per interrompere la gravidanza. Sostiene un documento dell'agenzia che «per quanto siano tragici i decessi di queste signore, il loro numero resta piccolo e dovuto, tra l'altro, a un fatto senza una chiara connessione causale con la tecnica adottata per interrompere la gravidanza». Tra l'altro, negli Stati Uniti il farmaco fu assunto all'inizio come candeletta vaginale, e tutti i casi di sepsi si sono verificati con questa via di assunzione. Per questo alla fine si è scelta la via orale anche per il misoprostolo. Inoltre, sempre negli Stati Uniti, i Centers for Diseases Control and Prevention hanno poi segnalato altri due decessi causati da C. sordellii, entrambi avvenuti in seguito ad aborto spontaneo nel secondo trimestre di gravidanza. Alla luce delle informazioni disponibili, questo ha portato gli esperti delle agenzie sanitarie federali a ritenere che l'infezione del microbo non sia dovuta a un semplice effetto del farmaco, ma coinvolga «fattori multipli legati alla gravidanza», e a sollecitare maggiori ricerche e migliori controlli in quella direzione. Considerato il dibattito che lo ha circondato dal momento della sua comparsa sul mercato, il farmaco ha stimolato anche l'interesse dei gruppi Cochrane, che nell'insieme formano oggi forse la più affidabile rete di revisione sistematica di proposte terapeutiche. La revisione relativa ai metodi per aborto farmacologico, aggiornata al 2006, sostiene tra l'altro che «sono disponibili metodi sicuri ed efficaci di aborto medico. I metodi che prevedono l'impiego di più farmaci sono più efficaci di quelli basati su uno soltanto. Nel sistema combinato, la dose di mifepristone può essere abbassata a 200 milligrammi senza che l'efficacia sia ridotta. Inoltre, il misoprostolo per via vaginale è più efficace che assunto per bocca». L'aborto farmacologico, quindi, prevede due farmaci: prima il mifepristone e due giorni dopo, in caso di aborto mancato, il misoprostolo. Accanto a tutto questo, c'è da ricordare che sin dai primi anni novanta il mifepristone è stato oggetto d'interesse scientifico per il suo possibile impiego in caso di recidiva del cancro della mammella, sindrome di Cushing, glaucoma, per la terapia di certi meningiomi, come contraccettivo d'emergenza, e infine per indurre il parto, anche se su quest'ultimo punto le prove sinora raccolte sono meno convincenti. Una ragione per provare il farmaco anche su questo fronte è che il progesterone tende a bloccare le contrazioni uterine durante il parto, e considerato che il mifepristone contrasta l'azione ormonale ci si potrebbe aspettare una sua azione di facilitazione del parto. Ciò nonostante, in una revisione che prende in esame il possibile uso del mifepristone in questo senso, gli studiosi dei Cochrane fanno tre osservazioni. Primo, «gli studi clinici effettuati sinora in proposito non forniscono prove convincenti tanto da suggerire l'uso del farmaco». Secondo, «abbiamo poche informazioni sui possibili effetti avversi sia sulla madre che sul feto». Terzo, «ci sono invece prove che il farmaco possa ridurre il ricorso al parto cesareo e occorre studiare meglio questo fronte d'impiego». Il caso italiano Nel 1993, il «New England Journal of Medicine» sottolineava in un editoriale che la casa farmaceutica produttrice ritardò la richiesta di registrazione del farmaco temendo le reazioni dei gruppi antiabortisti. Gruppi analoghi, con l'appoggio di una parte della classe politica e della stampa, in Italia impediscono da anni l'uso di un farmaco già estesamente collaudato in altri paesi, negando alle donne italiane l'opportunità di usarne i vantaggi in una situazione difficile come l'interruzione volontaria di gravidanza. Le motivazioni di questa opposizione fanno in genere appello alla tutela della salute della donna, ma un sospetto diffuso è che dietro questa preoccupazione ci sia un'opposizione di principio all'interruzione volontaria di gravidanza. Nel 2002, per esempio, l'ospedale Sant'Anna di Torino tentò una prima volta di realizzare un trial (l'ennesimo) per verificare efficacia e sicurezza del farmaco, presentando una richiesta controfirmata dalla Commissione regionale per le sperimentazioni cliniche. «Nel 1997 l'Organizzazione mondiale della Sanità definì il metodo sicuro ed efficace ricordava tra l'altro la commissione piemontese nel motivare il suo parere favorevole - e proprio sotto il coordinamento dell'OMS l'Italia partecipò a uno studio multicentrico che, pubblicato nel 1991, diede il via libera all'introduzione del mifepristone e della metodica medica in molti paesi europei». Ma a bloccare la richiesta, oltre al Ministero della Salute, si mobilitò persino la magistratura, aprendo un fascicolo sulla possibile violazione della Legge 194. Un argomento, questo, che è tornato più volte al centro del dibattito, e a cui i sostenitori della RU-486 controbattono sottolineando che la legge sull'interruzione volontaria di gravidanza non dà indicazioni limitative in merito al metodo. La sperimentazione al Sant'Anna è poi iniziata nel settembre 2005, prontamente seguita dall'iscrizione del ginecologo responsabile nel registro degli indagati e da una nuova ordinanza ministeriale di sospensione. Di pochi mesi fa è anche lo scontro tra l'allora ministro Storace e i medici dell'ospedale di Pontedera, in Toscana, che avevano iniziato a somministrare la RU-486 importando il farmaco dalla Francia. In quell'occasione, il ministro affermò che la RU-486 rappresentava «un incentivo all'aborto». Alla luce di questi e di altri elementi illustrati in queste pagine, il divieto opposto finora dalle autorità di governo italiane appare insomma motivato, più che da preoccupazioni di natura medico-scientifica sulla salute della donna, dal timore che la soluzione farmacologica possa permettere alle presunte «peccatrici» di farla franca. Oggi l'Italia è l'unico paese europeo, insieme al Portogallo e all'Irlanda, dove la RU-486 non è commercializzata. Mifepristone-misoprostolo: casi di interazioni con farmaci e malattie L'esperienza di questi anni ha indicato interazioni tra l'associazione mifepristonemisoprostolo e altri farmaci, e altre novità come complicazioni nel caso di alcune malattie che possono rappresentare controindicazioni al ricorso all'interruzione chimica della gravidanza. Per quanto riguarda i farmaci, può accadere che si riduca l'efficacia di uno dei medicamenti o che se ne alteri l'eliminazione oppure la concentrazione nel sangue. Questo si verifica anche con prodotti di erboristeria, considerato per esempio che l'erba di San Giovanni (Hypericum perforatum) può ridurre la concentrazione di mifepristone nel sangue. In ogni caso, occorre segnalare al medico se si fa uso di carbamazepina, desametasone e altri cortisonici, come pure di fenobarbitale, fenitoina, rifampicina, eritromicina, anticoagulanti, ketoconazolo. Per quanto riguarda le malattie, il medico va informato se si soffre di malattie surrenali o della coagulazione, di diabete, malattie di cuore, ipertensione, malattie renali, del fegato o dei polmoni. Cronologia di una scoperta 1933: Due studiosi statunitensi isolano un ormone dal corpo luteo e lo chiamano progestin. 1934: Diversi gruppi di studio europei isolano lo stesso ormone e, inconsapevoli della scoperta dei colleghi statunitensi, lo chiamano luteo-sterone. 1935: In un meeting svoltosi in un albergo londinese, il farmacologo sir Henry Dale arriva alla soluzione compromissoria di progesterone. Lo studio dell'ormone però è reso difficile dalle difficoltà di ricavarlo dagli animali: a metà degli anni trenta, un grammo costava 1000 dollari, un prezzo astronomico per l'epoca. 1941-1949: Russel Marker scopre un metodo di sintesi chimica del progesterone a partire da un prodotto vegetale, la diosgenina. 1950-1955: Si scoprono ormoni con attività simile al progesterone, ma attivi anche dopo assunzione orale, il noretindrone, identificato da Carl Djerassi alla Syntex, e il noretinodrel, sintetizzato da Frank Colton. 1975: Presso il Centro ricerche RousselUclaf a Romainville, Georges Teutsch mette a punto un metodo per la sintesi di un tipo particolare di derivati steroidei, la famiglia dei 19-norsteroidi sostituiti in posizione 11. 1980: Daniel Philibert inizia le prime indagini sull'attività biologica del mifepristone presso la Roussel-Uclaf. 1981: Prima segnalazione di attività antiprogestiniche del mifepristone. 1982: Segnalazione della prima interruzione di gravidanza con mifepristone all'Accademia francese delle scienze. 2000: Ingresso del farmaco sul mercato statunitense dopo l'approvazione della FDA. Stefano Cagliano («le Scienze» n. 458/06)