La proiezione cinese in Asia Centrale

La proiezione cinese in Asia Centrale, sviluppo della SCO
A seguito dell’implosione dell’ex “impero” sovietico, che ha sancito la fine della guerra fredda e
il dissolvimento del sistema dei “blocchi” contrapposti, è emerso nell’area centro-asiatica un
nuovo spazio geopolitico indipendente, la cui importanza strategica ed economica è risultata
accresciuta fin dal principio dalla presenza di abbondanti riserve energetiche e naturali.
Il risultato è che nei territori lungo i quali per svariati secoli si sono svolti i commerci tra Oriente e
Occidente (antica Via della Seta), passano oggi prevalentemente gas e petrolio, quindi gasdotti,
oleodotti, e infrastrutture varie che continuano a collegare luoghi lontani ma accomunati da interessi
di natura prettamente economico-finanziaria, nonché strategica, facendo sì che la regione dell’Asia
Centrale tornasse ad essere il teatro di un nuovo “Grande gioco”, in cui si dispiegano la
competizione e le rivalità tra le grandi potenze regionali, Russia e Cina in primis, e gli Stati
Uniti, per influenzare politicamente le élite al potere, ma, soprattutto, per assicurarsi il controllo
e lo sfruttamento delle sopraccitate risorse, dalle quali dipendono sempre più le sorti del nuovo
ordine mondiale.
La nuova “centralità” dell’Asia centrale nel contesto internazionale ha portato gli osservatori a
parlare, oltre che di nuovo “Grande gioco”, anche dell’emergere di una “Grande scacchiera”,
come ha fatto l’ex consigliere per la sicurezza americana Zbigniew Brzezinski, dell’“inizio” dello
scontro finale tra civiltà (Samuel P. Huntington), e addirittura vi è chi ha visto nell’Asia centrale
una sorta di lebensraum cinese (Zhongguo dingwei), per l’evidente rilevanza strategica che le
risorse dell’area rivestono per l’economia cinese.
In virtù di ciò, con la nascita di nuove entità statali indipendenti in Caucaso e in Asia Centrale, lo
spazio postsovietico è stato inevitabilmente sottoposto ad influenze multiple e contraddittorie. Se,
da un lato, il governo di Mosca ha continuato a svolgere nell’area un ruolo dominante, facendosi
promotore, fin dal 1991, della costituzione della Comunità degli Stati indipendenti (CSI), e
dell’adozione, nel quadro della stessa CSI, di una serie di progetti di integrazione e di accordi di
carattere economico e militare, tra cui il CIS Collective Security Treaty (1992), la CSTO (2002) e
successiva creazione di una Collective Rapid Reaction Forces (2003), accordi che, oltre a creare un
circuito di alleanze, avrebbero dovuto svolgere un effetto di deterrenza verso fattori di
destabilizzazione, con particolare riguardo al rischio terroristico, rappresentavano nondimeno un
tentativo da parte russa di tenere fuori dal sistema centroasiatico potenze “esterne”, in particolare gli
Stati Uniti, che sarebbero potute diventare competitrici pericolose per gli interessi di Mosca nella
regione, ma anche la crescente influenza cinese, il cui potenziale avrebbe potuto avere un grande
impatto in un futuro molto prossimo.
Come è noto, però, il rapporto tra le potenze regionali è divenuto meno problematico in seguito alla
costituzione, nel 1996, del cosiddetto “Shanghai Five” (comprendente Cina, Russia, Kazakistan,
Kirghizistan e Tajikistan), mirante sia alla regolamentazione delle dispute confinarie che alla stipula
di accordi di collaborazione in materia di sicurezza tra gli stati della regione. A seguito della sua
trasformazione in struttura permanente, sotto il nome di Shanghai Cooperation Organization, il
“Gruppo” è divenuto un importante veicolo diplomatico e si presenta sempre più come uno
strumento adeguato per regolare i rapporti tra le due potenze regionali e le nazioni
centroasiatiche, oltre a rispondere ad una serie di esigenze di sicurezza e di stabilità; dall’altro
lato, i cambiamenti intervenuti hanno comportato uno stravolgimento totale della carta politica
dell’area, contribuendo a dare all’antica “Via della seta” una rinnovata importanza, soprattutto dal
punto di vista strategico, il che è ancor più vero se si accetta la visione secondo la quale gli equilibri
mondiali starebbero spostandosi sempre più verso Oriente, e che il XXI secolo sarà il secolo della
Cina, e più in generale dell’Asia, così come il XIX lo è stato della Gran Bretagna e il XX degli Stati
Uniti.
Con l’indipendenza, dunque, per le neonate repubbliche centroasiatiche si è posto fin dal principio il
problema di un riallineamento sul piano internazionale, e data la loro posizione strategica – nel
“cuore del mondo”, lo heartland, e le immense risorse di cui sono ricchi i loro territori, sono tornate
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ad essere al centro delle attenzioni delle grandi potenze, sia regionali che non. L’antica “via della
seta” è tornata così alla ribalta, sia pure con nuove denominazioni: si è cominciato a parlare di
“via del petrolio”, di “via della droga”; vi è chi è giunto ad evocare lo spettro dei Balcani, vedendo
nell’Asia Centrale una potenziale “polveriera” a livello mondiale. In effetti, gli stati centroasiatici
si sono ritrovati a confinare con “grandi potenze”, come Russia e Cina, e con aree di intervento e di
interesse occidentale, anche dal punto di vista militare, come l’Afganistan, o, ancora, con stati,
come l’Iran o l’insieme degli stati caucasici, con i quali, la collaborazione è tutt’altro che semplice.
Se è vero che la Russia ha continuato ad esercitare nell’area un controllo sia politico, attraverso i
governi locali i cui esponenti appartengono ancora alla vecchia nomenklatura, sia economico, grazie
alla formazione della CSI e delle alleanze sopraccitate, è vero anche che, contemporaneamente, le
nazioni centroasiatiche hanno iniziato a muovere i primi passi verso una politica estera
indipendente e autonoma, tentando di costruirsi una rete di rapporti indipendenti dalla Russia e di
inserirsi all’interno di strutture regionali includenti anche attori esterni; dopo i fatti dell’11
settembre, in particolare i cinque stati centro-asiatici hanno approfittato della rinvigorita
competizione strategica tra Russia e USA (che hanno installato basi militari nei loro territori dopo
lo scoppio della guerra contro il regime talebano in Afganistan) per cercare di ottenere vantaggi per
sé.
Fin dal principio, il loro interesse principale è stato quello di uscire dall’isolamento politico ed
economico in cui si erano trovate durante i decenni sovietici; il che ha significato cercare nuovi
punti di riferimento nei quali impostare il processo di modernizzazione e nuove opportunità di
crescita economica. Pronte risposte sono giunte appunto sia dal mondo occidentale (USA) che da
quello musulmano, ma anche da quello orientale (Cina).
Come si è già detto, “la” ragione principale dell’interesse delle potenze, sia delle superpotenze sia
delle potenze regionali, verso le nazioni centroasiatiche risiede nel controllo e nelle esportazioni
delle loro riserve energetiche.
Le rivalità derivanti dalla corsa allo sfruttamento delle immense riserve petrolifere e di gas del Mar
Caspio e dell’Asia Centrale si sono presto estese ad altre questioni di rilevanza strategica, come per
esempio, come mantenere la stabilità in una regione vasta e fragile, confinante con un così gran
numero di paesi irrequieti, come l’Afganistan, e, in generale, come fronteggiare la crescente
minaccia del fondamentalismo islamico. Come è noto, una delle principali conseguenze della
dissoluzione dell’ex URSS e della fine della guerra fredda in Asia Centrale, è stata proprio
l’espansione su vasta scala dell’influenza islamica; in quanto parte integrante del tradizionale
mondo islamico, infatti, la regione centroasiatica ha costituito un terreno fertile per la rinascita
islamica; ma un ruolo fondamentale in questo senso lo hanno avuto molti paesi musulmani –
dalla Arabia Saudita al Pakistan, all’Iran – intervenendo con ingenti investimenti, donazioni
religiose, contributi per i pellegrinaggi e favorendo scambi culturali. La particolare posizione
(“incastonata”) dei paesi centroasiatici ha rappresentato una delle maggiori difficoltà cui le grandi
potenze hanno cercato di far fronte adottando delle politiche che consentissero loro di controllare
l’accesso al mare e le vie commerciali, battendo la concorrenza. Nel fare questo, tuttavia, hanno
dovuto prendere coscienza del fatto che le cose sono cambiate, cioè che i leader dei regimi
centroasiatici si rifiutano di svolgere il ruolo di semplici pedine negli schemi delle
superpotenze, ma ambiscono sempre più ad avere ognuno un proprio ruolo, a giocare ognuno
una propria partita, con le proprie regole.
Il nuovo “grande gioco”, dunque, sembra essere reso più complesso dall’elevato numero di
“competitori”, e soprattutto dal fatto che esso non riguarda più soltanto un’astratta supremazia
geostrategica, bensì il controllo delle risorse di petrolio e di gas presenti nell’area, e il loro
trasporto verso i mercati occidentali. È opinione sempre più diffusa, in effetti che chiunque si
assicuri la quota maggiore nel transito delle pipelines, guadagnerà un’influenza crescente, non solo
nel Caucaso e nell’Asia Centrale, ma su scala globale. I giacimenti petroliferi del Mar Caspio e
dell’Asia Centrale sono destinati ad assumere una valenza geopolitica sempre più rilevante in vista
della continua crescita della domanda petrolifera globale, al punto che secondo alcuni analisti lo
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sfruttamento dei giacimenti, unitamente alla costruzione e alla gestione degli oleodotti, saranno le
principali cause di possibili conflitti futuri.
La crescente presenza cinese nell’area, dettata dalla pressante domanda interna di energia, si è
accompagnata dunque ad una crescente presenza militare americana (dettata dalle esigenze della
guerra al terrorismo), e ad una sorta di reimpegno russo e indiano nella regione. Vi è chi ritiene
probabile la creazione di una nuova alleanza tra Cina, Russia e India in contrapposizione alla
presenza americana, alleanza che si sarebbe in realtà già concretizzata in seno alla SCO, della quale
l’India – assieme a Mongolia, Pakistan e Iran – è, come noto, membro osservatore. Sebbene la
SCO nasca, infatti, come organizzazione antiterroristica, volta a combattere ogni forma di
terrorismo, separatismo e fondamentalismo all’interno dei confini degli stati che la compongono, i
cd. “tre mali diabolici”, e per combattere i quali è stata istituito un’apposita struttura (la RATS
ovvero Regional Anti-terrorism Structure, Struttura regionale anti-terroristica), non è un mistero
che essa ambisca a giocare sempre più un ruolo da protagonista nella regione anche dal punto di
vista militare. Come ha ammesso Gregory Logninov, membro permanente della Russia nella
Segreteria della SCO, sebbene l’organizzazione non avesse in programma di trasformarsi in un
blocco militare, tuttavia il crescente aumento delle minacce di “terrorismo, separatismo e
fondamentalismo” ha reso necessario un coinvolgimento massiccio delle forze armate. Si
spiegherebbero così le numerose esercitazioni militari effettuate fino ad ora all’interno della SCO,
le più imponenti delle quali hanno avuto luogo nell’agosto del 2005 tra Russia e Cina, denominate
significativamente Peace Mission 2005. Alla fine dell’agosto del 2006 si sono svolte invece le
prime esercitazioni militari congiunte tra Cina e Kazakistan, realizzate tra la regione autonoma dello
Xinjiang e la regione di Almaty, con l’impiego di elicotteri armati, veicoli anti-sommossa e forze
speciali militari e di polizia, alla presenza di 100 osservatori provenienti da tutti i paesi aderenti alla
SCO; le ultime hanno avuto luogo nell’agosto del 2007 e hanno coinvolto per la prima volta le forze
militari di tutti i paesi membri, con l’impiego di mezzi dell’aviazione e di armi ad alta precisione. Il
che ha portato qualche osservatore a lanciarsi in paragoni alquanto azzardati, definendo la SCO
come una “Nato orientale” o un nuovo “Patto di Varsavia”, con l’obiettivo di contrapporsi
all’unipolarismo e unilateralismo adottati dagli Stati Uniti nell’area, e nel mondo intero,
all’indomani della fine della guerra fredda e del sistema bipolare. Il fatto che tra i membri aventi lo
status di “osservatori”, il cui ingresso è auspicabile in un futuro più o meno prossimo, ve ne siano
alcuni in possesso dell’arma nucleare (almeno due sicuri, l’India e il Pakistan, e uno incerto, l’Iran)
ne sarebbe una prova ulteriore. Possono aver contribuito in questo senso alcune dichiarazioni, come
quelle fatte, per esempio, nell’aprile del 2002, dall’allora Presidente cinese, Jiang Zemin, in
occasione di una visita ufficiale in Iran, quando affermò che “la politica di Pechino è contraria alle
strategie di forza e alla presenza militare americana in Asia Centrale e nella regione del Medio
Oriente”, o che “Pechino lavorerà insieme con le nazioni in via di sviluppo per far fronte
all’‘egemonismo’ americano”. Francesco Sisci, analista esperto di questioni estremo orientali, ha
definito assolutamente “farsesca” l’ipotesi che la SCO possa trasformarsi da struttura di
cooperazione regionale a struttura di contrapposizione a NATO e USA, in virtù del fatto che
oggigiorno Russia e Cina non solo non avrebbero la forza per contrapporsi agli Stati Uniti e
all’Occidente, in generale, ma soprattutto non avrebbero alcun interesse a farlo, in quanto sanno
benissimo che la presenza militare americana in Asia Centrale rappresenta un argine
all’integralismo islamico, e che un eventuale disimpegno militare americano potrebbe provocare
l’esplosione della regione. Tanto più che per Mosca, è la Collective Security Treaty Organizatio
(CSTO), più che la SCO, il contrappeso naturale alle presenza strategica americana in Asia
centrale. Evidentemente, dietro alcune di queste argomentazioni, si cela una certa ignoranza
relativa alla vera natura dell’organizzazione. In effetti, per quanto sia giunta oramai al suo sesto
anniversario, e nonostante gli anni precendenti come “Shanghai Five”, la SCO rimane sconosciuta
ai più ed è oggetto di molti pregiudizi da parte della comunità internazionale. Alcune
organizzazioni ne criticano la mancanza di trasparenza: è il caso di Human Rights Watch, che ha
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sollevato dubbi riguardo alla possibile strumentalizzazione da parte degli stati membri della
questione del terrorismo e degli estremismi religiosi per sopprimere le libertà democratiche e
reprimere i movimenti dissidenti e autonomisti.
In maniera forse più appropriata, qualcuno ha sostenuto invece come dietro la SCO via sia
“semplicemente” la sorte dell’oro nero (petrolio) e che, pertanto, tale organizzazione non sia altro
che una sorta di “grande trattato di reciproca non aggressione” siglato per arginare eventuali spinte
espansionistiche provenienti dall’una o dall’altra parte, potenzialmente in grado di mettere in
pericolo gli equilibri geopolitici dell’area e di conseguenza la gestione stessa del petrolio, risorsa di
cui come si è visto hanno un gran bisogno i paesi occidentali in generale (Stati Uniti in primis), e i
nuovi giganti asiatici, in particolare. Ancora, vi è anche chi ha definito la SCO come un “veicolo
per gli interessi cinesi in un mondo che cambia”, o al massimo uno “strumento sinergico della
politica estera di Cina e Russia”, un vessillo di cui servirsi per spingere le nazioni centroasiatiche
ad un maggiore coinvolgimento economico e militare e per coordinare simultaneamente le politiche
repressive nei confronti delle minacce interne provenienti soprattutto dai movimenti islamici
militanti; una sorta di podio per gli stati aderenti, dunque, ma soprattutto per Mosca e Pechino,
dal quale poter esternare al mondo intero le proprie visioni politiche. Non è un caso che, subito
dopo la sua nascita, la SCO rilasciò un comunicato congiunto che sottolineava, tra le altre cose, la
legittimazione del governo di Pechino a rappresentare sia la Cina continentale che Taiwan,
questioni sulle quali i governi di Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan si erano
raramente espressi prima; infine, vi è chi ha visto negli interessi cinesi riflessi nell’organizzazione
la rinascita delle tradizionali relazioni che l’Impero del Centro aveva con i suoi stati vassalli, una
sorta di edizione moderna del vecchio ordine sino-centrico.
Secondo Dmitri Trenin, esperto del Canergie Institute di Mosca, la SCO per la Cina è sinonimo di
Asia centrale: attraverso la SCO, Pechino può prendere parte alle discussioni e alla risoluzione
dei problemi di sicurezza e di sviluppo in A.C. in modo legittimo rispetto ai paesi della regione,
senza per questo rischiare l’antagonismo di Mosca.
In altre parole, per la Cina, la SCO ha rappresentato una via di ingresso strategica per
partecipare alla definizione di un equilibrio regionale conforme agli interessi nazionali,
nonché una tribuna dalla quale manifestare le proprie visioni per la revisione dei rapporti
internazionali esistenti.
Tornando a discutere sugli interessi che spingono maggiormente la Cina a proporsi come
partner privilegiato in seno alla SCO, è bene sottolineare come la RPC, seguita da vicino
dall’India, è indubbiamente il Paese che oggi si batte con maggior determinazione per la conquista
delle risorse. Il boom economico determinato dall’adozione di alcuni meccanismi di libero mercato,
nell’ambito della politica di “riforma e apertura” di Deng Xiaoping, ne ha fatto, in effetti, un vero e
proprio divoratore di petrolio, gas e carbone, la cui fame non accenna a diminuire. Non a caso
Mazzei e Volpi in Asia al centro parlano di vera e propria “bulimia di materie prime”. Interessi
vitali spingono Pechino a una politica “aggressiva” di accapparramento di queste risorse, attraverso
investimenti diretti per l’acquisto di giacimenti all’estero, costruzione di infrastrutture per
l’estrazione e il trasporto, contratti di fornitura a lungo termine. Peraltro, nella loro corsa per la
conquista delle risorse i governanti cinesi hanno dimostrato di avere meno scrupoli
dell’Occidente, trattando indifferentemente con i dittatori africani, con i mullah islamici
radicali del Medio Oriente e con i populisti di sinistra dell’America Latina, pur di
accaparrarsi le risorse di cui abbisognano per muovere la locomotiva del loro sviluppo. La
strategia di diversificazione dei fornitori adottata da Pechino si rivela necessaria al fine di limitare la
sua vulnerabilità energetica, riducendo l’impatto di eventuali crisi politiche che possono
coinvolgere uno o più paesi fornitori. Non bisogna trascurare il fatto che, oggigiorno, la stragrande
maggioranza delle sue importazioni di petrolio avviene via mare e che circa l’80% transita dallo
Stretto di Malacca, infestato dalla piaga della pirateria. Ciò fa sì che per la Cina sia assolutamente
prioritario cercare di garantirsi la sicurezza dei traffici navali lungo la rotta delle petroliere che dal
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Golfo si dirigono verso l’Estremo Oriente; dal momento che allo stato attuale delle cose il governo
cinese non è in grado di far fronte a tale esigenza, sta considerando alcune opzioni per aggirarlo,
potenziando la costruzione di oleodotti e gasdotti, che le consentirebbero, sia di ridurre i costi, sia di
risolvere, anche se in parte, il problema della vulnerabilità delle importazioni via mare.
La questione rischia di complicarsi ulteriormente alla luce di svariate proiezioni che indicano come,
in relazione alla crescente domanda di petrolio prevista per i prossimi 15/20 anni (sempre guidata
essenzialmente dai due colossi asiatici), ci si debba attendere una nuova seria “crisi petrolifera” a
partire dal 2015-2020. Stando alle stesse proiezioni, il picco massimo, il cd. “Peak oil Scenario”,
sarebbe già stato raggiunto o lo sarà entro breve (nel 2008), mentre ci si aspetta un possibile
esaurimento delle riserve entro il 2050. È facile dunque rendersi conto della rilevanza che
assumerà negli anni a venire la stabilità delle Repubbliche centroasiatiche, chiamate ad agire
come punto di snodo per il trasporto del petrolio della regione (ma anche di quello medioorientale) verso quelli che saranno i mercati petroliferi del futuro: Cina e India. Dal canto loro,
le nazioni centroasiatiche potranno trarre molti benefici dello sviluppo delle pipelines, sia in termini
di ricadute economiche che in termini di stabilità e di sicurezza.
Un’ulteriore opportunità strategica per i paesi dello spazio post-sovietico potrebbe derivare dal
crescente interscambio fra le economie europee e quelle dell’Asia orientale, e, in particolare, dallo
sviluppo dei cd. “corridoi di trasporto internazionali” (CTI). Per i Paesi centroasiatici, i suddetti
corridoi potrebbero trasformarsi infatti in “corridoi di sviluppo”, e rappresentare una possibilità di
fuoriuscita dalla condizione di sottosviluppo e di stagnazione economica in cui sono caduti dopo la
scomparsa dell’URSS, oltre che contribuire alla loro stabilità e sicurezza. In questo senso,
rappresentano un importante punto di convergenza fra gli interessi degli Stati che si affacciano
sull’Asia centrale e le potenze orientali, in particolare la Cina. In effetti, è senza dubbio la Cina ad
avere il maggiore interesse a collegare la sue zone interne ai mercati mondiali, sviluppando le vie
trasfrontaliere, garantendosi contemporaneamente la sicurezza dei confini e quella dei suoi
approvvigionamenti energetici.
RIASSUMENDO
I principali interessi della RPC in Asia Centrale possono essere ricondotti ai seguenti punti:
1. fare dell’Asia Centrale una delle fonti di approvvigionamento delle risorse energetiche
nell’ambito della strategia di diversificazione delle stesse, nonché un partner economico
regionale
2. fare dell’Asia Centrale un mercato di sbocco per l’economia delle sue regioni interne
3. relegare le forze separatiste del Turkestan orientale e garantire la sicurezza dei confini
Interessi Russia in Asia Centrale
Gli interessi della Russia in Asia centrale sono complessi, tuttavia, l’interesse principale di Mosca
nell’area risiede nel cercare di mantenere le sue relazioni speciali con i paesi centro-asiatici
riguardo a:
1. politica e sicurezza
2. economia e commercio
3. cultura, storia, lingua
Interessi USA in Asia Centrale
1. lotta al terrorismo e salvaguardia della sicurezza regionale
2. controllo delle risorse energetiche
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