IV Forum del Progetto culturale
Il futuro dell’uomo
Un progetto di vita buona: corpo, affetti, lavoro
Il futuro dell’uomo
Robert Spaemann
Possiamo designare l’epoca in cui viviamo come la fine delle utopie, la fine dei
“lendemains qui chantent” (i domani che cantano). Certamente vale ancora la pena di
leggere un libro come la Politeia (La Repubblica) di Platone o il libro cui le utopie
devono il loro nome: l’Utopia di Tommaso Moro. Entrambi i libri non sono scritti
programmatici. In essi non si nasconde la speranza di realizzazione. L’Utopia di
Tommaso Moro, come dichiara l’autore, non è un progetto per il futuro, ma una specie
di manuale repubblicano per il principe. Descrive gli uomini nello status naturae purae,
quindi in condizioni che Moro stesso, da buon cattolico, riteneva irreali: uno stato senza
peccato, senza rivelazione e senza redenzione. I pagani ideali di questo stato, che non ci
sono mai stati né ci saranno mai, dovevano umiliare gli Stati cristiani esistenti, tra gli
altri anche quello di cui Moro stesso era cancelliere.
Le utopie in senso moderno avevano un significato del tutto diverso. Erano
progetti che riguardavano il futuro, con carattere programmatico. Subentrarono al posto
della speranza cristiana nel ritorno di Cristo e in un regno di Dio, in un nuovo cielo e in
una nuova terra di là dal confine della morte. Soprattutto due aspetti distinguono questa
speranza dalle utopie moderne. Primo: il regno di Dio alla fine dei tempi non è prodotto
dall’uomo e non è il risultato di una dinamica interna alla storia. Quest’ultima piuttosto
conduce, negli ultimi tempi, alla scomparsa della fede e il suo ultimo prodotto è
l’anticristo. Il compito di tutte le autorità politiche prima del sedicesimo secolo, non era
perciò quello di affrettare il processo storico, ma di arrestarlo, di rallentare il declino,
così come non è compito del medico di accelerare la vita, ma di differire il deperimento
e la morte. Alla fine la vita stessa è vittima dell’entropia. Fintantoché un organismo vive
oppone resistenza a questo processo della “ananke”, come dice Platone, della necessità.
La speranza cristiana si orienta all’irruzione di una potenza, che si contrappone alla
legge del declino immanente ad ogni sistema vivente. Insomma si orienta alla vittoria
della vita, che da un punto di vista fisico è impossibile. La seconda differenza nei
confronti dell’utopia moderna sussegue alla prima: la completa novità di ciò che si
aspetta, di cui Paolo afferma che sono “cose che occhio non vide, né orecchio udì, né
mai entrarono in cuore d’uomo” (1 Cor 2,9).
L’utopia moderna è l’ispirazione di un programma strategico. Essa non
comprende la sua meta come l’irruzione di qualcosa di completamente nuovo.
L’assolutamente nuovo non esiste. L’utopia è l’estrapolazione di una tendenza, che si
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fonda su un potere già presente, quello della scienza naturale moderna e della tecnica,
che è legata nel modo più stretto ad essa. La scienza moderna non è teoria nel senso
classico, non è lo sforzo di comprendere una natura, il cui paradigma per noi è l’uomo.
Piuttosto è determinata dal rifiuto d’ogni antropomorfismo nell’osservazione della
natura. Comprende se stessa come disincanto. Non osserva la natura per comprenderla,
ma per dominarla. Conoscere una cosa non significa più, come una volta, diventare uno
con essa. (Vale la pena di considerare che la parola ebraica per “conoscere” è la stessa
usata per il “coito”!). Conoscere una cosa significa per Thomas Hobbes “to know what
we can do with it when we have it”. Al posto dell’antropomorfismo subentra
l’antropocentrismo. La conoscenza non è più la forma più alta della prassi umana, ma
diventa uno strumento della prassi e la sua meta è il dominio della natura, l’aumento del
potere sulla natura. L’interesse per il dominio della natura appartiene in modo
costitutivo all’uomo. L’uomo come “essere carente” (Mängelwesen) può imporsi nel
mondo solamente attraverso conoscenze che gli permettono di servirsi della natura.
Accanto a quest’interesse c’è ancora quello di conoscere il mondo, così che noi stessi ci
comprendiamo come una parte della natura, anche se come una parte privilegiata di
essa, e così che ci possiamo sentire a casa nel mondo. Il primo interesse ci spinge a
rendere la natura un oggetto. Al mondo degli oggetti è contrapposta una soggettività che
non ha nulla in comune con questi oggetti. L’altro interesse ci guida a contemplare tutto
ciò che vive, tutta la realtà, sotto il punto di vista della sua similitudine con noi. Il primo
modo di vedere è antropocentrico, il secondo antropomorfico. La predominanza
unilaterale del primo, dell’interesse per il dominio, è cominciata nel sedicesimo secolo.
Conduce ad una specie di dominio che, come si esprime Max Frisch, “non sopporta la
creazione come partner, che non sa cosa fare con essa” e così diventa una tecnica,
“un’astuzia, che consiste nel far scomparire dal mondo il mondo come resistenza, per
esempio nel senso dell’assottigliamento del tempo, in modo che noi non ne dobbiamo
fare esperienza”. La predominanza dell’interesse per il dominio, che è giunta nel
frattempo al suo culmine, ha condotto ad una conseguenza paradossale. Come
paradigma per ciò che significhi “reale”, vale solamente ciò che noi definiamo
“oggettivo”; questo si costituisce per mezzo dello sguardo disciplinato della scienza.
Però non si può negare la similitudine dell’uomo con quanto è al di fuori di lui. Ora
questa similitudine dell’uomo con quanto è al di fuori di lui non è compresa come
similitudine della materia al di fuori dell’uomo con l’uomo, ma come similitudine
dell’uomo con la materia. Dapprima la natura è ridotta allo stato di un oggetto opaco per
poi aggiungere l’uomo stesso a questo mondo degli oggetti, per lo meno sempre nel caso
in cui sussista la pretesa di affermare alcunché di teoricamente rilevante su di lui.
Ovviamente la soggettività esiste ancora. Essa c’è come piacere e dolore. Ma che cosa
siano “propriamente” il piacere e il dolore, ce lo dice la neurofisiologia. Ora, il mondo
degli oggetti non si costituisce più attraverso i soggetti reali, che nel frattempo sono essi
stessi diventati oggetti, ma attraverso una soggettività trascendentale, chiamata “la
scienza”. Né essi, né io, né uomini reali, che sanno qualcosa e vogliono sapere di più,
sono la scienza. Quest’ultima è un sistema virtuale del sapere, che, in quanto tale, non è
sapere di nessuno. Ma, proprio come questo sistemista senza soggetto, la scienza è
diventata l’autorità ultima e più schiacciante dell’epoca in cui viviamo.
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Se affermo che quest’epoca è contrassegnata dalla fine dell’utopia, ciò significa
che noi viviamo già nell’era dell’utopia che si realizza. La cara vecchia science fiction è
quotidianamente superata dalla realtà, così come la caduta delle due torri gemelle di
New York ha superato un’intera sezione dei film di Hollywood. Certamente ci si può
immaginare qualcosa di nuovo, ma “nuovo” significa solamente: di più della stessa
cosa. Quel che rimane è il problema della distribuzione. Karl Marx si aspettava la
soluzione definitiva del problema della distribuzione e così del problema della giustizia
attraverso la produzione della sovrabbondanza materiale e il superamento di quel
fenomeno che è per ora fondamentale per la vita in ognuna delle sue forme: il fenomeno
della scarsità. Per Marx ogni forma di giustizia è ideologia. Ci sono solo interessi. La
meta può essere perciò solamente di rendere superflua (überflüssig) la giustizia
attraverso la sovrabbondanza (Überfluß). Questa variante marxista del progetto della
modernità può essere considerata come fallita, se non vogliamo far largo a delle visioni
fantastiche di una colonizzazione del cosmo. La finitezza delle nostre risorse materiali
in rapporto all’illimitatezza della concupiscenza (Begierde) dell’uomo, che è
condizionata antropologicamente, fanno della scarsità, in una qualsivoglia forma,
un’accompagnatrice abituale della vita e fanno così della giustizia, come sempre, una
necessità umana. A meno che l’uomo non sia manipolato geneticamente, così da essere
velocemente soddisfatto come un animale. Ma probabilmente in questo modo
allontaniamo da lui, allevandolo, il meglio della sua persona; infatti, questo “meglio“
risulta sempre dalla sublimazione degli impulsi, che in una forma non sublimata sono
rovinosi. Vogliamo davvero un uomo senza desiderio (Sehnsucht)? Oltre a ciò l’uomo è
fatto evidentemente in modo tale che la scarsità è per lui la condizione della gioia più
profonda, cioè dell’esperienza della preziosità delle cose, degli uomini, della propria
vita, insomma è condizione della gratitudine.
Noi pensiamo a Dio come un essere che è capace di comprendere in modo
adeguato la preziosità d’ogni cosa concreta che esiste, senza essere costretto, in forza
della quantità, all’astrazione. Dio è, per così dire, un nominalista. Noi, però, non siamo
capaci di ciò. Tutti desideriamo vivere a lungo, ma senza la finitezza della vita terrena
tutto sprofonderebbe nella banalità. Jürgen Habermas, nel suo piccolo scritto sul futuro
della natura umana, ha affermato che il prolungamento della vita umana è una meta
legittima della manipolazione genetica, perché quest’ultima può contare, con sicurezza,
sull’assenso dell’uomo così cambiato. Ma le cose stanno realmente così? È realmente
desiderabile per l’umanità nella sua totalità che gli uomini diventino sempre più
anziani? Ma soprattutto il cambiamento del nostro senso della vita, in forza di una tale
mutazione genetica, è imprevedibile. Habermas vuole solamente che sia permessa
l’eliminazione, a livello genetico, di malattie evidenti. Ma se noi abbiamo una vita
media di 75 anni, ciò non è per nulla una malattia, così come non lo è la possibilità per
una donna di rimanere incinta, se dorme con un uomo, senza particolari provvedimenti.
Natura come malattia: senza dubbio questo pensiero nel frattempo è sempre più abituale
ed è la logica conseguenza della riduzione dell’uomo in coscienza e materia, con
l’eliminazione di ciò che costituisce l’essere dell’uomo: la vita. In Europa ci sono già
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delle sentenze a livello giudiziario alto, in cui la vita di un uomo è riconosciuta come un
danno, di cui il dottore precedentemente consultato deve rispondere, perché non ha
evitato il suo sorgere.
Ma in questo modo sono arrivato al centro delle domande che si pongono
proprio in questi anni e in questi giorni perché il dominio della natura ha raggiunto
violentemente - ma in modo prevedibile - nel frattempo la natura dell’uomo stesso.
Rousseau aveva contrapposto all’homme de la nature l’homme de l’homme. E con
quest’ultimo aveva inteso l’uomo deformato dall’educazione e dai vincoli sociali e la
cui spontaneità doveva venire riscoperta. La nuova situazione è contrassegnata così che
l’homme de la nature in quanto tale deve diventare l’homme de l’homme, non attraverso
il fatto che la natura debba posteriormente essere formata per mezzo dell’educazione e
posta in un contesto culturale, ma che venga già in anticipo come natura cambiata in un
senso, che corrisponda all’intenzione dell’allevatore (Züchter). Attualmente è in corso
un dibattito dai toni forti se vogliamo ciò, se lo dobbiamo, se ci sia lecito, su che cosa
significhi per l’essenza e l’autocomprensione dell’uomo.
Una parte di questo dibattito si riferisce al problema se l’umanità, analogamente
a determinati pesci, i cui maschi mangiano le proprie uova, possano servirsi della
propria discendenza, in un primissimo stadio, come materiale per migliorare lo stato di
salute di coloro che non hanno subito un tale destino. Ciò che spaventa di più in questo
dibattito è che esso accade perché palesemente l’oscenità di questo progetto non viene
quasi più percepita. In questo luogo non voglio dare nessun contributo al dibattito.
Vorrei solo provare a capire che cosa significhi che esso accada.
Il semplice fatto che accada un tale dibattito, insomma che esso sia discusso,
cambia l’autocomprensione dell’uomo, o meglio, rivela un cambiamento che è in corso
da molto tempo: la trasformazione del mondo in un universo chiuso, senza un futuro
aperto e senza un’attesa del nuovo. Infatti il futuro non deve essere null’altro che un
prodotto pianificato, realizzazione delle idee del presente e senza la possibilità di
emanciparsi da esse. Questa possibilità è infatti legata alla naturalità (Naturwüchsigkeit)
dell’uomo. La società umana deve diventare un closed shop. Non è più possibile entrare
in essa come “membro dalla nascita”, in forza dell’appartenenza al genus humanum, ma
in forza di determinate proprietà, che sono stabilite dai membri attualmente esistenti
della comunità di cui gli uomini fanno parte giuridicamente. Questo è il senso della
sostituzione, proposta recentemente da alcuni filosofi dell’etica e del diritto, dei diritti
dell’uomo con quelli della persona. Non tutti gli uomini devono essere riconosciuti
come portatori dei diritti della persona. Allo stesso tempo la naturalità del sorgere
dell’uomo è distrutta in modo subdolo per mezzo del concepimento in vitro, con la cui
approvazione, come ha spiegato il presidente della comunità tedesca di ricerca - del
resto con soddisfazione - si è già passato il Rubicone della produzione di “embrioni in
eccedenza”. Di fatto si è trattato di un Rubicone. Per la prima volta è resa vera la frase
del famulus Wagner nel Faust di Goethe: “Wie einst das Zeugen Mode war, erklären
wir für eitel Possen” [“Il procreare che fu già di moda, noi lo dichiariamo una vuota
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farsa” (trad. it. di Giovanni V. Amoretti, Faust e Urfaust, Feltrinelli, Milano 1965/1976,
p. 386)]. Per la prima volta gli uomini sono fatti invece che generati. Il loro sorgere non
è dovuto ad una relazione tra uomini, che Gottfried Benn descrive così: “Non crediate
che abbia pensato a voi, quando sono andato con vostra madre; i suoi occhi diventavano
così belli nell’amore”. Gli uomini generati devono la loro esistenza alla stessa natura,
cui la dovevano anche i loro genitori. Entrano in forza di un diritto proprio in una
società di uguali. I bambini fatti devono la loro esistenza alla volontà dei propri genitori,
il che obbliga i genitori, naturalmente, a dare conto di questa esistenza. Ma chi è in
verità così ingenuo da credere di rispondere dell’esistenza di un uomo? Dobbiamo
comprendere che tutti e quattro gli elementi vanno insieme: il fare uomini, il progettare
uomini, l’eliminare uomini, che non corrispondono al design desiderato, e il
cannibalismo, cioè il consumo di una parte della discendenza come materiale per
migliorare la qualità di vita di coloro cui è stato possibile sopravvivere.
Vorrei definire lo sfondo spirituale della nostra situazione con ciò che chiamo la
dialettica tra naturalismo e spiritualismo o anche la dialettica tra soggettivismo ed
oggettivismo. In questo modo di vedere il mondo l’uomo appare per così dire due volte:
una volta come soggettività ed un’altra come oggetto. Ma entrambe le prospettive
rimangono senza legame. Noi cambiamo continuamente la prospettiva, senza un punto
di vista, dal quale poter integrare queste polarità. Per questo motivo parlo di dialettica.
All’inizio di questa dialettica, in cui ci troviamo, e che oggi si inasprisce in
modo drammatico, si trova una svolta ontologica, gravida di conseguenze, già all’inizio
della modernità. Come è noto Cartesio ha diviso la realtà nei due regni della soggettività
e dell’oggettività, del pensiero e della materia definita dall’estensione, della coscienza e
dell’essere. Questo dualismo si basava sulla rinuncia da parte di Cartesio di una
divisione ben più antica che risale a Platone: la tripartizione essere-vita-coscienza.
Questa era pensata come accrescimento. Il concetto centrale era quello della vita. La vita
è, come afferma Aristotele, l’essere dei viventi. Quando un cane non vive più, non è più.
Quanto non è vivente ha il suo essere o solamente come oggetto per ciò che è vivente,
oppure, se oltre a questo è qualcosa in se stesso, allora possiamo comprendere il suo
essere solo in modo biomorfo, cioè analogicamente a ciò che è vivente. Ma d’altra parte
la coscienza è vita accresciuta, che giunge a se stessa. Che cosa sia la vita poi lo
possiamo comprendere solamente in modo analogico alla vita cosciente. “Chi non è
cosciente di se stesso - scrive Tommaso d’Aquino - non vive nel pieno senso della
parola, ma solo a metà”. Nella riduzione della realtà all’essere materiale da una parte e
alla coscienza dall’altra, scompare ciò che costituisce la realtà dell’uomo: la vita. La
tendenza di disconoscere a molti uomini lo stato di persone dipende dal dualismo di
materia e coscienza, cioè dall’idea che gli uomini siano qualcosa come degli spiriti in
una macchina. E laddove non si può osservare alcuno spirito, allora abbiamo solo a che
fare con delle macchine che possiamo usare come vogliamo e spegnere quando
vogliamo. Secondo questo modo di vedere, le persone non sono creature (Wesen), la cui
natura è costituita in modo tale che in determinati momenti pensa, in altri parla, in altri
ancora è disponibile a delle considerazioni riguardanti la giustizia o prende delle
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decisioni libere. La personalità consiste invece nell’attuazione rispettiva di tali stati del
pensare, del parlare e del volere. Quindi essa sussiste solo per una parte degli uomini ed
anche per questi solo temporaneamente. Bambini, uomini affetti da debolezza mentale o
demenza senile, ma anche uomini che dormono non sono perciò persone e
conseguentemente non possono pretendere che siano riconosciuti loro i diritti
dell’uomo.
Questo modo di vedere è alla base delle proposte che oggi sono presentate per
consumare la nostra discendenza nel suo primo stadio. E tuttavia esso rimane un modo
di vedere estremamente contrario all’intuizione. La fame, di cui divento cosciente come
della mia fame, non è mia solamente dal momento in cui sono cosciente di essa. Essa
assume attraverso il suo venire alla coscienza uno stadio di intensità accresciuta.
Ponendoci il problema del futuro dell’uomo, non ci poniamo un problema
puramente teorico. Infatti questo futuro dipende da come gli uomini del futuro si
vogliano comprendere. Naturalismo e spiritualismo, soggettivismo ed oggettivismo
possono esistere, nonostante la loro dialettica, molto comodamente insieme. La scienza,
che oggettiva gli uomini, crede di sapere che cosa siano in realtà gli stati personali. Ma
essa non nega che queste condizioni in sé materiali abbiano una parte soggettiva. Non
nega che il piacere ed il dolore, anche se sono definibili neurofisiologicamente,
posseggano un aspetto soggettivo e che essi stessi si definiscano solamente attraverso
questo momento soggettivo. Ma da questa soggettività non vi è alcun ponte che porti a
ciò che è oggettivo. “We never do one step beyond ourselves” - così scriveva già David
Hume. L’uomo illuminato (aufgeklärt), in forza di questo modo di comprendere, non
può che comportarsi ironicamente con tutto ciò che per gli uomini è alcunché di serio.
E, di fatto, l’ironia, anche per Richard Rorty, è lo scopo ultimo dell’educazione. L’uomo
illuminato (aufgeklärt), in questo modo di comprendere, sa che ad ogni uomo importa in
realtà solamente di sentirsi bene. Ciò che veramente conta è il sistema sociale, che
aumenta continuamente la sua complessità e la velocità con cui cambia. Gli uomini sono
solo mezzi perché il sistema funzioni. Devono essere immobilizzati. I disoccupati, in
quanto tali, non danneggiano il sistema, si deve solo tenerli di buon umore.
Per l’uomo illuminato la tolleranza è la virtù più grande. La tolleranza nei
confronti delle convinzioni degli altri non si fonda, però, nel rispetto di ciò con cui gli
uomini s’identificano. Al contrario, avere delle convinzioni è già considerato come
intollerante. Giacché se uno ha delle convinzioni, deve considerare come false le
convinzioni contrarie. Tolleranza autentica è tolleranza verso le convinzioni che si
ritengono false. Tolleranza, come sostituzione delle convinzioni e come unica
convinzione, significa nichilismo. Perseguendo come meta educativa più importante la
tolleranza, si educano i bambini a diventare dei nichilisti. La tolleranza può essere
solamente una virtù secondaria. Proprio l’avere delle convinzioni è il presupposto
perché si capisca che cosa vi sia di rispettabile nelle convinzioni degli altri. Il ventesimo
secolo era l’epoca del nichilismo eroico, delle fedi fanatiche per amore della fede stessa.
Quindi non la quiete calma di una fede che crede realmente ciò che crede: per esempio
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che l’uomo possieda qualcosa come una dignità. Il nichilismo eroico è tramontato. Esso
viveva ancora del ricordo di un assoluto perduto. Il ricordo è impallidito. Al posto del
nichilismo eroico è subentrato quello banale, il nichilismo dell’ultimo uomo di cui ha
parlato Nietzsche. Così si afferma nell’introduzione del Così parlò Zarathustra:
«Che cos’è amore? È creazione? È anelito? È stella?» - così domanda
l’ultimo uomo e strizza l’occhio. La terra allora sarà diventata piccola e su di
essa salterà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è
indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di
tutti.
«Noi abbiamo inventato la felicità» - dicono gli ultimi uomini e
strizzano l’occhio.
Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole
calore. Si ama anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore...
Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevole i sogni. E molto
veleno alla fine per morire gradevolmente...
Nessun pastore ed un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti
sono eguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio.
«Una volta erano tutti matti» - dicono i più raffinati e strizzano
l’occhio.
Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva
restando la salute.
«Noi abbiamo inventato la felicità» - dicono gli ultimi uomini e
strizzano l’occhio.
(ed. italiana a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Piccola
Biblioteca Adelphi, pp. 11-12). [Il pubblico filosofico italiano associa al
termine nichilismo banale il “pensiero debole”, cioè il nichilismo “debole”
del filosofo torinese Gianni Vattimo, ndt].
Oggi, un secolo dopo Nietzsche, possiamo presentare l’immagine dell’ultimo
uomo e del suo mondo in modo ancor più preciso. Per esempio così:
Il mondo dell’ultimo uomo è un mondo virtuale. Quest’uomo non vuole la realtà,
ma rappresentazioni della realtà. In ogni modo egli crede che ci siano solamente
rappresentazioni, non qualcosa come la verità. “We never do one step beyond
ourselves”. Ma la tecnica scientifica gli permette di produrre un mondo coerente di
rappresentazioni secondo il suo desiderio.
La forma specifica della sessualità dell’ultimo uomo è l’onanismo, e questo
anche nel caso in cui si tratti di due persone. Non c’è un’autentica trascendenza. Non si
tratta dell’altro in quanto tale, ma del proprio arricchimento ed eccitazione per mezzo
della rappresentazione dell’altro. In linea di principio l’altro potrebbe anche essere
simulato. Nella simulazione dell’altro ciò che veramente conta è quanto essa sia
perfetta. L’illusione perfetta è meglio della realtà imperfetta.
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Qualcosa come dei legami che durino tutta la vita è per l’ultimo uomo assurdo. È
vero che qualche volta egli fa tali promesse, se si sente di farle. Ma crede che sia
sconveniente che gli si ricordino tali promesse, se lo stato d’animo non è più lo stesso.
Per il resto non solo non c’è più nessuna trascendenza verso l’altro. Non v’è nessuna
trascendenza neppure verso il proprio futuro. Poiché non posso sapere se mi sentirò di
fare qualcosa dopodomani, non posso neanche dire che cosa farò dopodomani. In ogni
caso mai farò qualcosa perché oggi l’ho promesso e perché un altro conta su di ciò.
L’ultimo uomo non ha un’opinione così alta della libertà dell’uomo da pensare di poter
superare la contingenza del tempo attraverso un legame da lui voluto. L’ultimo uomo
ama un amore senza conseguenze. Tende ad un’esistenza da single.
L’ultimo uomo non comprende se stesso come persona ma come una sequenza
di stati soggettivi, che sono causati a livello corporale e a cui è necessario dare forma in
modo piacevole. Il corpo non è il mezzo (Medium) del manifestarsi della persona e della
sua trascendenza, ma strumento (Instrument) manipolabile di una soddisfazione
soggettiva.
L’ultimo uomo tollera tutto, tranne l’intolleranza. Ma intendendo con
intolleranza tutte le convinzioni decise, che non sono a disposizione, la sua tolleranza è
in realtà un’intolleranza contro tutto ciò che per gli uomini è proprio serio.
L’ultimo uomo ha abolito la parola “gioia” (Freude), perché quest’ultima è una
cosa seria, e l’ha sostituita con la parola “piacere”. Ultimamente si consigliano anche gli
uffici divini come degli spettacoli, che fanno piacere. E così abbiamo a che fare con il
prete come clown o conferenziere. Solo che ci sono degli spettacoli migliori, è così la
gente non viene ugualmente in Chiesa.
L’ultimo uomo vuole che lo si aiuti ad uccidersi, se la bilancia del divertimento
pesa decisamente sul lato negativo. Ma del resto ritiene che sia una pretesa se ci si
aspetta che egli rischi la propria vita per qualcosa.
Questo è, però, il suo tallone d’Achille. Perché nei confronti della risolutezza di
persone che non comprendono né ironia né divertimento e per i quali v’è qualcosa di
serio e che perciò rischiano la propria vita e la vita degli altri, è intellettualmente e
moralmente privo d’aiuto. Per questo motivo l’islamismo è oggi percepito come una
minaccia inquietante. Si può discutere con i musulmani se Dio voglia veramente ciò che
fanno i terroristi. Cristiani e musulmani pensano che Egli non lo voglia. Ma chi prova a
chiarire a dei musulmani che il concetto “volontà di Dio” è una metafora problematica
non può sperare di essere preso sul serio da loro. Il presidente dell’Iran, l’ajatollah
Chatani, che in paragone ad altri può essere definito un liberale, ha detto al teologo
svizzero Hans Küng, in un incontro tra le religioni organizzato dal presidente tedesco,
Johannes Rau, che egli parla, a differenza del presidente, che è un protestante, come un
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ministro degli esteri, non come un teologo. Questo significa che l’ajatollah non lo ha
preso sul serio come teologo.
Uomini che non temono la morte, come il male più grande, sono pericolosi.
Questo lo sapeva già Thomas Hobbes e perciò voleva permettere una chiesa come
chiesa di stato, affinché le prospettive aperte dalla religione non possano in nessun caso
entrare in concorrenza con le sanzioni presentate dallo stato. Bisogna però affermare che
la religione cristiana, a differenza dell’Islam, in caso di conflitto insegna la
disobbedienza, non la violenza. Ma come ha detto in modo bello Gandhi, la non
violenza è per lui la forma massima del coraggio, però se fosse obbligato a scegliere,
preferirebbe la violenza contro l’ingiustizia che la non violenza per codardia. Su questo
punto i cristiani non avrebbero dovuto litigare con lui.
L’ultimo uomo vuole stabilire il suo potere, soprattutto il suo potere
d’interpretazione, trincerandosi dietro la scienza. Edonismo più scienza: ecco il
programma. In nome della scienza e del sentirsi bene individuale è stabilito un potere
dell’uomo sull’uomo che non è mai esistito fino ad ora. Ma ha affermato Jürgen
Habermas all’inizio d’ottobre a Francoforte, in occasione della sua orazione per il
Friedenspreis: “lo scientismo è una cattiva filosofia”. Qualcosa in noi per l’appunto non
si sente bene al pensiero che in tutto ciò che nella vita conta sia in gioco solo il sentirsi
bene. Qualcosa in noi non si sente preso sul serio. Certo gli argomenti di coloro che ci
consigliano di avventarci sulla nostra giovane discendenza, come fanno i pesci predatori
con la loro prole, impressionano; tuttavia molti sono colti dal sospetto che si tratti
d’argomenti sofistici, anche se non possono trasformare subito questo sentimento in un
argomento. Laddove è messo in dubbio ciò che è ovvio, subentra dapprima un silenzio
misto ad angoscia e la resistenza, dovuta allo sbalordimento, prende, in un primo
momento, la forma di un’ostinata testardaggine. Aristotele ci spiega che chi afferma che
non si devono onorare i genitori non si merita degli argomenti ma un rimprovero.
D’altra parte, però, Socrate era anche grato nei confronti del provocatore perché lo
costringeva a riflettere sui motivi profondi dell’ovvietà di ciò che è ovvio, cioè di
quanto è umano.
Le osservazioni che ho riferito loro fino ad ora sembrano essere pessimiste. Mi
permettano, però, di aggiungere ancora qualcosa. Finora ho intrapreso qualcosa di
problematico. Ho parlato di tendenze caratteristiche e le ho estrapolate. Ora sarebbe un
errore pericoloso il prendere tali estrapolazioni come una descrizione della realtà. Ogni
tendenza di un’epoca sveglia delle forze che le si oppongono. La realtà consiste sempre
in entrambe le cose. C’è la forza del ricordo, la memoria culturale che rafforza la
resistenza dovuta allo sbalordimento, evitando che la fantasia sia obbligata a stendersi
nel letto di Procuste della tendenza. E c’è la speranza legata al fatto che nasce sempre
una nuova generazione, le cui opzioni non possono essere previste da nessuno. Cartesio
si è lamentato del fatto che gli uomini vengano al mondo sempre come bambini, che si
sviluppino all’inizio lentamente fino alla ragione, impedendo così un progresso che
scorra in modo lineare. Ma in realtà proprio in questo abbiamo una grande chance. Per
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questo motivo gli allevatori d’uomini vogliono eliminare la non pianificabilità del
futuro e modellare tutte le generazioni future secondo la loro immagine. L’arroganza di
questo modo di vedere è superata solamente dall’ingenuità con cui consideriamo
indubitabili i nostri criteri a riguardo di ciò che sia una vita buona, tanto da imporli così
all’umanità futura.
La fede cristiana insegna che l’uomo è creato ad immagine di Dio. Da questo
risulta, per la prassi, che nessun modello finito può rivendicare il diritto di essere il
modello per gli uomini del futuro. Risulta l’esigenza dell’apertura del futuro.
Certamente i cristiani hanno a tale riguardo un modello finito perché Gesù Cristo è per
loro l’immagine adeguata del Padre. “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Ma
l’imitatio Christi non accade tentando di ricostruire i geni di Gesù. Il Logos incarnato
non è il prodotto di questo gene e sarebbe del tutto possibile che un clone di Gesù fosse
l’anticristo. Imitatio Christi può significare solamente imitazione della sua obbedienza
nei confronti della volontà del Padre. In quale molteplicità di modi questo possa
accadere, ce lo fa vedere il calendario dei santi. Il cammino cristiano è diametralmente
contrario al modo di vita dell’“ultimo uomo” di Nietzsche. Nietzsche lo sapeva. Egli
definì una volta la dottrina cristiana dell’amore di Dio come l’idea massima che
l’umanità abbia mai avuto, perché insegna a vivere per qualcosa che supera l’uomo. Il
superuomo era solamente il tentativo disperato di un ateo di escogitare un equivalente
funzionale dell’amore di Dio. Un tentativo assurdo, perché Dio è proprio Colui che non
é definito da nessuna funzione. Egli non è buono per qualcosa, ma l’uomo deve essere
buono per lui. Non si deve credere in Dio perché ci fa bene, ma perché Egli è. Allora - e
solo per questo motivo - ci fa anche bene credere in Lui. Il cristianesimo non contiene
alcun programma d’azione per il futuro. Il rapporto dei cristiani con il futuro Regno di
Dio è paragonato da Cristo con la gravidanza. La mamma non può essere utile allo
sviluppo del bambino nel suo grembo con nessuna strategia, con nessun programma
d’azione. Quanto può fare, anche in questo tempo, è di vivere in modo giusto e bello. Ed
è proprio quello che possiamo fare per l’arrivo del Regno di Dio. Oggi spesso si lodano
i cristiani perché si sono impegnati per l’amore e la giustizia e per un mondo migliore.
Ma per questo si impegnano anche, secondo la loro convinzione, i terroristi. Per il
cristiano, la domanda decisiva non è se si sia impegnato per l’amore, ma se abbia amato.
Non se si sia adoperato per la giustizia, ma se sia stato giusto. Ed a questo essere giusto,
se si dà il caso, può appartenere anche l’impegno politico per la giustizia. Ma anche in
questa lotta si può essere giusti o ingiusti. Si può, come dice san Paolo, essere rigettati,
dopo aver predicato ad altri. L’incarnazione del Logos divino non era la discesa dello
Spirito divino in una macchina, che può essere messa in moto per il miglioramento del
mondo. Era l’assunzione della natura umana di un embrione da parte (durch) della
persona del Logos divino. L’uomo Gesù è per questo motivo già il regno di Dio,
l’“autobasileia”, come diceva Origene. Ed ogni periodo della sua vita è una parte della
nostra redenzione. La Chiesa nelle litanie dei santi prega: “Per sanctum jejunium tuum
liberas nos Domine”.
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Come ci sono due interessi umani fondamentali - penso a quanto all’inizio ho
provato a far vedere - così ci sono due tipi fondamentali d’azione. Vorrei chiamarli così:
il tipo tecnico razional-utilitaristico e quello liturgico.
Il primo è definito dall’intenzione di raggiungere qualcosa che si trova al di fuori
dell’azione compiuta. Nel secondo è in gioco la giustezza e la bellezza dell’azione
stessa. L’azione morale serve a scopi che sono al di fuori di essa stessa, ma ciò che la
rende morale è la sua giustezza e bellezza, cioè il suo aspetto liturgico. Per così dire essa
è indirettamente un “ufficio divino” (Gottesdienst). La liturgia consiste in azioni che, ciò
che operano, lo operano rappresentandolo. Essa non persegue altri scopi. È una pura
rappresentazione di un contenuto spirituale attraverso azioni fisiche. In questo esprime
nel modo più puro l’unità corporal-spirituale della persona. Questa espressione è stata
purtroppo adombrata, creando per la Chiesa latina d’Occidente una nuova liturgia, che si
distingue sotto aspetti essenziali da tutte le liturgie cristiane, d’Occidente ed d’Oriente,
fino ad ora esistenti, avendo abolito la direzione comune di preghiera del sacerdote e del
popolo e molte altre cose ancora. Si sono voluti perseguire con la liturgia scopi didattici
e superare, in questo modo, l’estraneità di questo accadimento nella nostra civiltà. Ma
solamente come corpo estraneo all’interno della nostra vita tecnico-scientifica, essa è il
rendere presente quell’unità corporale e spirituale che intendiamo quando parliamo di
persone umane. Adattata ai modi della nostra vita quotidiana perde d’interesse e così la
gente non viene in Chiesa. Dicendo il sacerdote le sue preghiere attraverso il microfono,
non si può proprio credere che queste siano rivolte realmente a Dio. La sposa non parla
con il suo sposo celeste con il microfono. In questo luogo tutto deve essere autentico. Le
leggi della liturgia sono precise come quelle dell’arte. E questo luogo ha oggi assunto un
significato imparagonabile. Qui - altrimenti da nessun’altra parte - è contrapposto
all’“ultimo uomo” il nuovo uomo, l’uomo della gratitudine e del desiderio (Sehnsucht).
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