E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
Le Forme Teatrali dei Greci e dei Romani
1.1.
Grecia: tragedia e commedia.
1.1.1. La tragedia.
Come già si è accennato, il teatro tragico greco trae origine da cerimonie rituali in onore del dio Dioniso, all’interno
delle quali avevano grande parte i riti legati alla fecondità. Non si deve dimenticare che l’Atene del V secolo era una città
ancora di modeste proporzioni, la cui economia si fondava ancora in modo essenziale sull’agricoltura preaticata nei demi
rurali dell’Attica. I contadini dell’Attica naturalmente una forte traduzione di miti e di rituali connessi ai ritmi della
vegetazione.
Lo studio delle origini della tragedia, altamente problematico, deve forzatamente partire da un noto passo della
Poetica di Aristotele, (1449 a 9-25), dove si dice che la tragedia prese origine dall’improvvisazione di “coloro che davano
avvio al ditirambo”. Il ditirambo era una forma di canto corale eseguito con una performance che comprendeva anche la
danza. Probabilmente nell’ambito dei cori ditirambici c’era un individuo con funzione di guida, che progressivamente si
distaccò dal Coro creando la figura dell’attore, che non cantava più ma recitava. In un altro punto però Aristotele dice che la
tragedia «procedeva dall’elemento satiresco», e stabilisce dunque anche una connessione della tragedia con l’elemento
giocoso e scurrile che caratterizzava le figure dei Satiri.
Quanto al termine tragedia, esso appare connesso con la parola tragos, cioè «caprone», e sarà da interpretare come
«canto dei capri», cioè «canto di un Coro di seguaci di Dioniso mascherati da capri». Non approfondiremo qui oltre il
complesso problema dele origini, se non per aggiungere che all’elemento dionisiaco dovettero aggiungersene altri, come ad
esempio l’influsso delle manifestazioni di cordoglio funebre, che può giustificare il largo spazio riservato già in Eschilo alla
lamentazione e al cordoglio funebre.
Il dato essenziale è che la tragedia prende origine da performances di carattere corale: un gruppo di persone
attraverso il canto e la danza evocava vicende mitiche relative probabilmente a Dioniso stesso o ad altre divinità. Il
momento essenziale per la trasformazione di queste rappresentazioni corali in ‘dramma’ è costitutito dalla introduzione del
primo attore, cioè di un personaggio (forse in origine il capocoro stesso) che si distacca dal gruppo e inizia a dialogare con
esso. Questo passaggio fondamentale è attribuito dalle fonti antiche a Tespi, e sarebbe avvenuto dunque verso la fine del VI
a. C.
Il termine usato per indicare l’attore era hupokrite—s, attestato già nelle Vespe di Aristofane (rappresentate nel 422 a.
C.); è probabile, anche se non sicuro, che esso fosse usato al tempo di. Sul significato originario del termine («colui che
risponde», secondo alcuni, «interprete» secondo altri) discuteremo più avanti.
In questa fase arcaica, per altro, le possibilità di sviluppo drammatico della tragedia risultavano ancora limitate,
giacché il singolo attore non aveva altri possibili interlocutori al di fuori del Coro stesso. Una vera e propria rivoluzione nello
sviluppo delle forme tragiche si ebbe quando Eschilo introdusse il secondo attore, creando così la possibilità di far dialogare
più personaggi tra di loro. Questo significava ridurre il peso del Coro nella rappresentazione:
Quando cominciamo a intravvedere qualcosa di più sicuro, intorno agli anni ’70 del V secolo a.C., la tragedia ha già
una forma definita. Si tratta di una forma drammatica che vede l’alternarsi di canti corali e di dialoghi fra gli attori e fra gli
attori e il Coro.
Diamo qui uno schema sommario della struttura delle tragedie del V secolo a.C.
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1) La tragedia si apre con un prologo recitato in trimetri giambici (poche tragedie ne sono prive: Persiani e Supplici di
Eschilo), che nelle tragedie più antiche è parte integrante dell’azione, mentre nel tardo Euripide assume valore espositivo
dell’antefatto, anche se viene sempre pronunciato da un personaggio del dramma. Il prologo in numerose trageie è dialogico,
e piò anche contenere parti cantate (ad es. Sofocle Elettra).
2) Si ha poi il canto di ingresso del Coro, detto parodo, che avviene in movimento mentre i coreuti vanno a
posizionarsi nell’orchestra.
3) dopo il canto corale comincia una sequenza di scene recitate dagli attori, dette episodi, divise fra loro dai canti corali
detti stasimi (cioè “canti del Coro che ha assunto la sua posizione”). La recitazione degli episodi poteva prevedere lunghi
discorsi (rheseis), o serrati confronti dialogici, anche molto formalizzati come le sticomitie, in cui ciascun personaggio
pronunciava un verso a turno). Nel dialogo racitato poteva intervenire, sia pure solo brevemente il capocoro, detto Corifeo.
4) tutta la parte recitata che seguiva l’ultimo stasimo (nelle tragedie più antiche il terzo, ma vi sono tragedie con
quattro o cinque stasimi) e si concludeva con l’uscita finale di tutti i personaggi era detta esodo.
Questa struttura risulta molto flessibile, e prevede varianti quali i dialoghi lirici, duetti cantati fra Coro e uno o più
attori che possono sostituire uno stasimo; monodie, cioè parti soliste cantate da un attore; duetti o terzetti cantati dagli
attori; dialoghi misti (lirico-epirrematici), che altrernavano battute cantate a battute recitate, e coinvolgevao attori e Coro.
Le vicende a cui attingono le tragedie sono tratte dal grande patrimonio della mitologia greca, all’interno della quale
vengono individuati alcuni nuclei tematici che presentano elementi di conflittualità profonda. Risultano preferite le vicende
legate alle saghe di alcune grandi famiglie, come gli Atridi (Atreo, Tieste, Agamennone, Menelao, Oreste) o i Labdacidi
(Laio, Edipo, Eteocle, Polinice) e il ciclo legato alla guerra di Troia e ai suoi protagonisti (Achille, Aiace, Odisseo, ecc.). Il
fatto che la tragedia attinga a questo patrimonio contribuisce a rinsaldare i vincoli della collettività che assisteva alle
rappresentazioni. Si trattava infatti di una storia ‘sacra’ collettiv, in cui tutti potevano riconoscersi, e di leggende tramandate
nei secoli. In più, il fatto che tutti conoscessero già prima i lineamenti della vicenda rappresentata apriva grandi spazi
all’ironia tragica e consentiva un gioco di tensioni con le attese degli spettatori.
Salvo rare eccezioni, la tragedia non conosce trame e personaggi 'di fantasia', cioè inventati direttamente dal
drammaturgo. Solo alcuni personaggi minori posono essere creati ad hoc dai poeti. Il primo tragico a realizzare una tragedia
di fantasia sarà Agatone, attivo verso la fine del V secolo, quando ormai il grande ciclo produttivo della tradia classica è al
tramonto.
1.1.2. Il dramma satiresco
Il dramma satiresco è la forma che conosciamo meno bene, in quanto praticamente tutta la produzione di questo
genere è andata perduta. Ne abbiamo solo un esempio integro, il Ciclope di Euripide. Esso veniva rappresentato come ultima
parte della tetralogia, dopo tre tragedie. Aveva carattere di tragedia giocosa, e ripeteva dunque le forme del genere maggiore
con alcune varianti. Innanzitutto l’azione prevedeva sempre la presenza di un Coro di Satiri (cioè figure semiferine con coda
e orecchie di cavallo, fornite di abnormi attributi genitali in forma di fallo) guidati al vecchio Satiro Sileno. Gli argomenti
erano in genere tratti da miti allegri e scherzosi, oppure mettevano in parodia episodi celebri come l’accecamento di
Polifemo da parte di Ulisse nel citato Ciclope. Una parte rilevante era sempre assegnata al vino e all’ebbrezza dionisiaca.
Caratteristica del dramma satiresco era l’ambientazione all’aperto, in ambienti campestri o marini, senza abitazioni umane.
Dal punto di vista formale il dramma satiresco ripeteva su scala minore (era più breve) la struttura della tragedia con
alternanza di prologo, episodi e stasimi, ma c’era più libertà nella lingua e nella metrica.
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1.1.3. La commedia
La commedia si differenzia dalla tragedia sin dalle origini per un forma molto più libera. Nata da originarie baldorie
dionisiache, caratterizzate da una parte dal komos, il corteo festante e da processioni falloforiche; dall’altra dalla presenza di
scambi di battute a contenuto sessuale spesso apertamente osceno, la commedia instaura un rapporto molto libero con il
pubblico, rompe continuamente, o meglio non conosce l’illusione scenica (v. sotto), e utilizza liberamente alcuni elementi
strutturali ricorrenti. Essa inoltre ci presenta una forma in rapida evoluzione, tanto che è impossibile dare una descrizione
univoca per le commedie del V e quelle del IV secolo. La storia della commedia greca è tradizionalmente divisa in
Commedia Antica e Commedia Nuova, con l’interposizione di una fase intermedia che gli studiosi chiamano Commedia di
Mezzo, meno chiaramente definita rispetto alle altre due.
1.1.3.1. La Commedia Antica
Sotto il nome di Commedia Antica si comprendono tutte le opere comiche scritte dalle origini alla fine del V secolo.
Si conoscono i nomi di circa quaranta poeti attivi in questo periodo, ma di fatto le uniche opere leggibili per intero sono le
undici commedie scritte dall’ateniese Aristofane, composte nell’arco di tempo che ca dal 425 al 388 a. C. La descrizione che
daremo della forma comica antica è dunque quella delle commedie di Aristofane, che certamente avevano tratti comuni con
quelle degli autori perduti, anche se non possiamo escludere differenze sensibili per noi non più individuabili. Si tratta
comunque solo di uno schema di fondo, rispetto al quale il poeta opera liberamente variazioni anche consistenti.
a) La commedia si apre con un prologo, che può essere anche assai lungo (fino a 300 e più versi), che comprende
scene introduttive con più attori recitanti, quasi sempre in trimetri giambici, fino all’ingresso del Coro. Nella maggior parte
dei casi esso comprende una piccola azione completa in se stessa, che sta per essere portata a conclusione quando viene
interrotta dall’irruzione del Coro. Esempi: Acarnesi, l’assemblea cui partecipa Diceopoli, e poi l’arrivo di Amfiteo che porta la
pace personale (poi arriva il Coro dei carbonai arrabbiati). Il prologo può aprirsi con un discorso di un personaggio (Acarnesi,
Nuvole, Ecclesiazuse, Pluto), con un dialogo (Lisistrata, Tesmoforiazuse, Rane) o con un dialogo seguito da un discorso (Cavalieri,
Vespe, Pace, Uccelli). La sua funzione è informativa, ma anche preparatoria, nel senso che si crea un’atmosfera di scherzo e di
allegria. Questo procedimento sfuma nelle commedie più tarde (cfr. l'inizio delle Vespe con quello del Pluto).
b) Parodo: è la scena dell'ingresso del Coro. Ventiquattro coreuti entrano, in modo in genre abbastanza vivace. Nella
maggior parte dei casi il Coro entra in situazioni di scontro, o di inseguimento, tali comunque da generare una certa
confusione. Talvolta c’è un canto, altre volte i coretui entrano direttamente partecipando al dialogo.
c) Agone. Questa parte prende prende nome dalla presenza di uno scontro verbale fra due personaggi, le cui forme
più complete si riscontrano nelle Rane e nelle Vespe. Esso, nella sua forma compiuta presenta questo schema: 1) Ode, cioè
canto del coro che commenta lo scontro imminente; 2) katakeleusmos, cioè esortazione (sono due versi del corifeo che si
rivolge al primo antagonista; 3) epirrema, cioè intervento del primo antagonista, che è destinato alla sconfitta (può essere
interrotto dal secondo o dal bomolochos); 4) pnigos, appendice dell'epirrema con ritmo accelerato; 5) antodé; 6)
antikatakeleusmos; 7) antepirrema; 8) antipnigos. In tre commedie (Cav. 457-60; Vesp. 725-27; Ucc. 627-38) c'è infine una
çfragivç, dove il Coro si congratula con il vincitore. L’Agone talora è raddoppiato (Cavalieri, Nuvole, Vespe; Uccelli); talora
invece manca (Acarnesi, Pace, Tesmoforiazuse).
d) Parabasi. È questa certamente la forma più caratteristica della commedia arcaica. Ad un certo punto della
commedia, gli attori lasciano la scena e il Coro si rivolge agli spettatori, cantando e danzando. L’argomento della parabasi
nelle commedie più antiche di Aristofane prescinde completamente dalla vicenda dramatica in corso. Il poeta, per bocca dei
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coreuti, parla di argomenti politici o teatrali, polemizza con i suoi avversari, punzecchia e stimola il pubblico stesso. In
Aristofane la parabasi è collocata di solito al centro del dramma, per lo più dopo l'Agone. Essa presenta sette parti: 1)
kommation, pochi versi con cui il Coro si congeda dagli attori che lasciano la scena 2) anapesti: si tratta di una parte che
prende nome dal verso utilizzato, nella quale il poeta parla di argomenti totalmente estranei alla commedia. Il Corifeo fa
riferimento a fatti della vita politica ateniese, a polemiche e rivalità fra autori comici, ecc. 3) pnigos; 4) ode; 5) epirrema; 6)
antode; 7) antepirrema. L'epirrema e l'antepirrema sono di regola in tetrametri trocaici, e contengono considerazioni di
carattere politico, osservaizioni sull natura e la maschera del Coro ecc. La parabasi è attestata nella sua forma completa di
sette parti in Acarnesi (626-718), Cavalieri (498-610), Vespe (1009-1121), Uccelli (676-800). Nelle Nuvole manca lo pnigos (510626); Nella Pace mancano epirrema e antepirrema. Nelle ultime commedie la forma appare in evidente via di atrofizzazione;
nella Lisistrata manca tutta la parte astrofica; nelle Tesmoforiazuse il kommation, l'ode, l'antepirrema e l'antode. Inoltre il Coro
tende a rimanere nell’ambito della vicenda drammatica, senza parlare di attualità extradrammatica. Nelle Ecclesiazuse e nel
Pluto manca del tutto la parabasi. È evidente l'involuzione della componente corale, che rapidamente va scomparendo e che
nella commedia nuova sarà limitata solo a intermezzi non significativi per la vicenda.
e) Esodo: è la parte finale della commedia, caratterizzata in genere da festeggiamenti, banchetti e altra forme di
baldoria cui i personaggi si avviano nell’uscire, in una atmosfera festosa. La struttura della commedia è qui particolarmente
rilassata, e non c’è una azione che progredisce in modo rettilineo. Arrivano molti personaggi con funzone scherzosa, che si
trattengono brevemente in scena; Le commedie si concludono in genere con una processione festante che lascia l’orchestra.
L'esodo manca nei Cavalieri, probabilmente per un fatto meccanico di tradizione che lo ha fatto andare perduto.
1.1.3.2. La Commedia di mezzo e Nuova
Già le ultime commedie di Aristofane, Ecclesiazuse e Pluto, posteriori alla sconfitta di Atene nella guerra del
Peloponneso (403 a. C.), mostrano chiari i segni di una evoluzione che ne fa qualcosa di molto diverso dalle commedie più
antiche. Il più evidente è lo sfaldarsi e lo scomparire della parabasi, che va di pari passo con la riduzione generale del ruolo
del Coro, elemento che va facendosi sempre più marginale al punto che nei manoscritti di Aristofane cominciamo a trovare,
al posto delle parti corali, la generica sigla “Coro”, che indica un intermezzo musicale e coreografico staccato dall’azione del
dramma. Scompare anche l’agone e regrediscono le forme di attacco personale e di satira contro personaggi politici. Una
tradizione che appare attestata per la prima volta nella prima metà del II secolo d.C. ma che risale a età ellenistica individua,
fra quella «antica» (Archaia) di Aristofane e dei suoi contemporanei e quella «nuova» (Néa) di Menandro, Difilo, Filemone,
Apollodoro di Caristo etc., una fase «mediana» (Mése), rappresentata da poeti come Alessi, Anassandrida, Antifane, Eubulo.
In realtà, non esiste soluzione di continuità fra commedia Antica, di Mezzo e Nuova. C’è piuttosto una continua
evoluzione, con alcune costanti che si mantengono, e altri elementi che scompaiono.
In particolare, il breve trattato tardo-antico di Platonio I diversi tipi di commedie coglie la ragione del passaggio dalla
Commedia Antica alla Commedia di Mezzo nella repressione politica e nella limitazione delle libertà civili intervenute verso
la fine della guerra del Peloponneso, che avrebbero determinato sia la rinuncia ai contenuti politici e all'attacco ad personam a
favore della parodia di miti noti dall'epica o dalla tragedia sia la scomparsa dei canti del coro («... dal momento che i poeti
non avevano a disposizione i coreghi che finanziassero i coreuti») sia infine la trasformazione delle maschere da caricature
«somiglianti ai personaggi presi di mira» in maschere raffiguranti tipi generici.
Senonché, non essendoci pervenuta alcuna commedia intera appartenente a questa fase «mediana», ci riesce difficile
individuare la cesura fra di essa e la Commedia Nuova se non forse per la diffusa presenza, nei frammenti superstiti della
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Commedia di Mezzo, di quella parodia mitologica che per altro era già stata saltuariamente praticata da poeti della
Commedia Antica come Cratino negli Odissei e che non scomparirà del tutto neppure nella Nea.
Inoltre già nella produzione del periodo 380/350 tende ad articolarsi una casistica di tipi fissi (l’etera, il cuoco, il
parassita, il servo intrigante, il vecchio collerico etc.) che ritroviamo nella Nea e poi nella palliata romana. Per altro verso, un
distinto ma complementare antecedente della Commedia Nuova è rappresentato dalla tragedia di Euripide e in particolare da
quei drammi (i cosiddetti «drammi della Tyche») che ruotavano intorno a intrighi avventurosi e a riconoscimenti inattesi.
È certo che il Coro era ancora presente in molte commedie di mezzo, e solo con la commedia nuova esso scompare
del tutto. È altrettanto certo però che il Coro perde la sua connessione con la vicenda drammatica, e diventa una appendice,
cui resta la funzione di dividere con interludi le sezioni della commedia che vanno definendosi, e che nel periodo della
Commedia Nuova (i cui maggiori esponenti sono Menandro, Filemone e Difilo, attivi fra il 320 e il 260 a.C.) sono cinque. Si
delinea qui la sequenza dei cinque atti destinata a grande fortuna nel teatro moderno. La componente lirica della commedia
si contrae, fino a scomparire. Le commedie di Menandro sono ormai pienamente recitative, e la musica ha solo ruolo
marginale.
Lo schema è molto semplice: si ha un prologo, spesso recitato da una divinità o addirittura da un personaggio
apposito, il Prologo, che espone gli antefatti delle trame spesso complesse. Comincia poi la sequenza degli atti, intervallati
fra loro dagli interludi corali.
Teatro Greco
A. Tragedia
1. Eschilo
Le poche notizie che abbiamo sulla vita di Eschilo ci vengono in gran parte dall'anonima Vita tramandata assieme
alle tragedie in alcuni manoscritti (tra cui il prezioso Laurenziano Mediceo. 32, 9, conservato nella Biblioteca Medicea
Laurenziana di Firenze).
Eschilo, figlio di Euforione, nacque nel 525 a. C. a Eleusi, un piccolo centro a pochi chilometri da Atene sede del
culto misterico di Demetra e Core (divinità legate ai cicli della vegetazione e al mondo sotterraneo). L'origine eleusinia e la
familiarità con il culto delle due dèe ebbero certamente influenza sulla sua formazione religiosa, ma la notizia relativa al
processo intentatogli per aver divulgato i segreti del culto in alcune sue tragedie non sembra aver fondamento nella realtà. La
Vita gli attribuisce nobili ascendenti; ebbe tre fratelli, Cinegiro, Euforione e Aminia. La sua giovinezza coincise con il
processo che portò Atene a liberarsi dai residui della tirannia di Pisistrato e dei suoi discendenti, approdando alla
costituzione democratica fondata sulla grande riforma di Clistene. Il giovane poeta combatté più volte in difesa della patria
nel momento in cui la Grecia si trovò minacciata dalla potenza dell'impero Persiano. Eschilo partecipò nel 490 a. C. alla
battaglia di Maratona (assieme al fratello Cinegiro che cadde da valoroso), nel 480 a . C. a quella di Salamina (assieme al
fratello minore Aminia) e nel 479 a quella di Platea.
Al 499 a. C. risale la sua prima partecipazione a un agone drammatico, e al 484 a. C. la sua prima vittoria. Di tutta la
fase giovanile della sua produzione teatrale, tuttavia, conosciamo pochissimo: la più antica tragedia in nostro possesso, i
Persiani, risale infatti al 472 a.C. (Eschilo aveva all'epoca 53 anni). La Vita gli attribuisce 13 vittorie nel concorso tragico,
ricordando che le sue opere risultarono vincitrici più volte anche dopo la sua morte.
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Un elemento di difficile collocazione nella biografia del poeta sono i viaggi in Sicilia, alla corte del tiranno Ierone di
Siracusa, che gli vengono attribuiti dalle fonti antiche. Un primo viaggio dovrebbe coincidere con la fondazione da parte di
Ierone della città di Etna (476/475 a. C.), occasione per la quale Eschilo avrebbe composto una tragedia, intitolata appunto
Le Etnee, nella quale, stando alla Vita, avrebbe augurato prosperità ai fondatori della nuova città. Ed è ancora la Vita a
ricordarci che Ierone, apprezzando moltissimo il teatro di Eschilo, lo invitò ad allestire una replica dei Persiani a Siracusa, che
ebbe grande successo (siamo dunque negli anni immediatamente posteriori al 472 a. C.). Infine, dopo la rappresentazione
dell'Orestea in Atene nel 458, il poeta tornò ancora in Sicilia, dove concluse la propria esistenza a Gela, nel 456/455 a. C. I
motivi di questo definitivo allontanamento da Atene non sono chiari: Aristofane (Rane 807) allude a incomprensioni col
pubblico ateniese, ma si tratta di una notizia da prendere con cautela.
Della produzione teatrale di Eschilo, che il lessico bizantino Suda quantifica in 90 opere, conosciamo un'ottantina di
titoli elencati in un catalogo presente in alcuni manoscritti. Solo sette drammi sono però sopravvissuti:
Persiani (472 a.C.)
Sette contro Tebe (467 a. C.)
Supplici (databili tra gli anni '60 e la morte del poeta)
Prometeo Incatenato (di datazione incerta, ma da collocare probabilmente nell'ultima fase della vita del poeta).
Orestea (458 a. C.), che è una trilogia composta da Agamennone, Coefore, Eumenidi.
Il Prometeo Incatenato, dramma che gli antichi ritennero senz'altro eschileo, da un secolo a questa parte è al centro di un
vivace dibattito sull'autenticità. Nonostante i molti dubbi, non sembra essere emerso finora alcun argomento definitivo
contro l'attribuzione tradizionale, che fino a prova contraria deve essere giudicata attendibile.
Le Supplici sono state al centro di un dibattito molto significativo sulla cronologia, che ci ricorda quale sia il grado di
labilità delle nostre conoscenze. Da tutti ritenute la tragedia più antica per il grande ruolo che vi svolge il coro (con datazioni
che arrivavano agli anni '90 del V secolo a . C.), esse si sono rivelate una tragedia della piena maturità del poeta dopo che un
papiro, pubblicato nel 1956, ci ha dato l'informazione che esse furono presentate in un concorso in cui partecipava Sofocle,
dunque dopo il 470 a.C.
La prima delle tragedie eschilee superstiti rappresenta un caso molto raro di drammatizzazione di eventi storici
recenti. I Persiani hanno infatti come oggetto la reazione della Regina persiana e degli anziani del Consiglio alla notizia della
terribile sconfitta patita dall'esercito guidato da Serse a Salamina. Nel finale lo stesso re Serse viene presentato in scena con
le vesti stracciate, e la tragedia si chiude con il lamento alternato del Coro e del Re. Una fonte antica ci dice che di regola le
tragedie di argomento contemporaneo erano sgradite, e in qualche caso addirittura erano state vietate: questo perché uno dei
primi tragici, Frinico, aveva portato in scena la Presa di Mileto, suscitando una tale commozione nell'uditorio che i magistrati
della città avevano pensato bene di evitare altri casi analoghi.
Nella tragedia di Eschilo è vivo il legame trilogico, che porta l'autore a costruire sequenze di tre tragedie attinenti allo
stesso mito o a momenti successivi della stessa saga. Questo è un fatto rilevante perché l'interpretazione di alcuni drammi è
seriamente ostacolata dalla perdita delle altre parti della trilogia (ad esempio nella Prometheia sarebbe fondamentale sapere se
nelle tragedie che seguivano il Prometeo Incatenato Prometeo e Zeus si riconciliassero, e in che modo). Solo nel caso dell'Orestea
siamo in possesso di una trilogia completa, un'opera di vastissimo respiro che si annovera tra i capolavori assoluti della
letteratura di ogni tempo.
Eschilo fu per certi versi il creatore della forma tragica quale è nota a noi, in quanto a lui si devono innovazioni e
sperimentazioni determinanti per lo sviluppo della tragedia. La tradizione attribuisce a lui:
a) l'introduzione del secondo attore che si affianca al primo, con evidente aumento delle possibilità drammaturgiche
di contrato fra posizioni diverse;
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b) secondo alcune fonti, anche l'introduzione del terzo attore, che altri attribuiscono a Sofocle;
c) la riduzione del ruolo del Coro, preponderante nella tragedia delle origini, a favore del ruolo degli attori;
d) lo sviluppo di un teatro di forte impatto emotivo sia a livello verbale che a livello visuale. Si possono ricordare in
proposito le memorabili scene dell'apparizione del fantasma di Dario nei Persiani e l'ingresso del Coro nelle Eumenidi, la
preparazione del tappeto rosso che conduce Agamennone alla casa dove troverà la morte e le visioni diCassandra
nell'Agamennone, l'arrivo in scena di Iò in preda alla follia nel Prometeo Incatenato.
e) una grande maestria come musicista e soprattutto come coreografo.
2. Sofocle
Anche di Sofocle si è tramandata assieme alle opere una Vita anonima. La vita di Sofocle copre quasi completamente
l'arco del V secolo a. C.: visse infatti per 92 anni, dal 497/496 a. C. al 406/405 a.C. Fu un cittadino in vista, non soltanto per
la sua prestigiosa carriera di drammaturgo, ma anche per la costante partecipazione alla vita politica della città, che lo portò a
ricoprire cariche importanti come quella di amministratore del tesoro della Lega Delio-Attica (443/442 a. C.), e di stratego
assieme al grande Pericle (nel 441/440 a. C.). Questa seconda carica secondo la tradizione gli sarebbe stata assegnata come
riconoscimento per la composizione dell'Antigone, che dovrebbe di conseguenza essere datata al 442 o al 441 a.C. Dopo la
grave disfatta degli Ateniesi in Sicilia (413 a. C.) fu scelto, come cittadino di provata onestà e prestigio, tra i dieci magistrati
(probuli) che dovevano rivedere l'assetto costituzionale ateniese, preparando il governo oligarchico dei Quattrocento:
compito questo che, stando a quanto testimonia Aristotele nella Retorica (1419a 25), Sofocle svolse malvolentieri, con la
consapevolezza però che si trattava di una scelta inevitabile.
Fu uomo impegnato anche nella vita religiosa, e contribuì all'introduzione in Atene del culto di Asclepio, avvenuta
nel 420 a. C.: accolse infatti nella sua casa la statua del dio, che in occasione dei Grandi Misteri fu trasportata da Epidauro ad
Atene.
L'immagine del poeta concordemente trasmessa dalla tradizione è quella di un uomo dal carattere affabile e dalla
personalità affascinante, amante delle gioie della vita e dell'amore, benvoluto dai concittadini e risparmiato persino dalle
frecciate dei commediografi. Si tratta di un quadro un po' troppo perfetto per non suscitare qualche dubbio; è ragionevole
infatti supporre che i biografi siano stati influenzati dal desiderio di ritrovare anche nella vita privata del poeta la presunta
"serenità" che ne caratterizzava le opere (questa serenità è frutto in realtà di un fraintendimento critico che ha a lungo
influenzato gli studi sofoclei). Se è vera una notizia riportata da Plutarco (Cim. 8, 7), che fa coincidere l'esordio di Sofocle nel
concorso tragico con una vittoria, la carriera teatrale del poeta ebbe inizio con la vittoria del 468 a. C. (ottenuta col perduto
Trittolemo su Eschilo); ma la cosa è dubbia, e non si può escludere che egli avesse partecipato all'agone già prima, nel 470.
Il successo giovanile continuò ininterrotto per tutta la carriera di Sofocle: alle Grandi Dionisie egli ebbe la palma
diciotto volte, e in tutto (comprese le Lenee) raggiunse le venti (secondo Suda) o ventiquattro (secondo la Vita) vittorie. Il
pubblico lo prediligeva, ed egli non scese mai al di sotto del secondo posto. Della fase iniziale della sua produzione non
conosciamo quasi nulla: le tragedie conservate non risalgono oltre il 450 a. C., e ben quattro (Edipo Re, Elettra, Filottete, Edipo
a Colono) appartengono all'ultimo venticinquennio della vita del poeta, un periodo straordinariamente fecondo di capolavori
(il Filottete fu scritto a ottantasette anni, l'Edipo a Colono intorno ai novanta). La data della morte è inquadrata con precisione
da due avvenimenti. Alle Dionisie del 406 il poeta era vivo, e impose agli attori delle sue tragedie, a seguito della morte di
Euripide, di vestire a lutto e di non portare corone; ma l'anno dopo, alle Lenee del gennaio-febbraio 405, Aristofane nelle
Rane parla di lui come morto da poco. Sofocle sarà dunque scomparso nel novembre-dicembre del 406.
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Delle 123 tragedie attribuite a Sofocle da un grande studioso di età ellenistica, Aristofane di Bisanzio, solo sette sono
sopravvissute nella tradizione medievale
Aiace
Antigone (prob. 442 a.C.)
Trachinie
Edipo Re
Elettra
Filottete (409 a. C.)
Edipo a Colono (scritta poco prima della morte, rappresentazione postuma nel 401 a. C.)
Inoltre, un ampio frammento di un dramma satiresco, gli Ichneutai ("I cercatori di tracce") è stato restituito da un papiro
nel 1912.
Delle tragedie note solo tre sono databili con precisione: l'Antigone, del 442 o 441, il Filottete, del 409, e l'Edipo a
Colono. Per le altre l'incertezza è grande, e le datazioni proposte comportano oscillazioni notevoli (ad esempio l'Edipo re per
alcuni risale a poco dopo il 430 a. C., per altri è del 411 a.C.).
Sofocle rientra a buon diritto nel novero dei più grandi uomini di teatro di ogni tempo. La sua padronanza dei mezzi
tecnici della tragedia e il suo costante intento di adattarli alle proprie esigenze espressive sono testimoniati da numerose
notizie. A lui venivano attribuiti:
a) l'introduzione del terzo attore
b) l'innalzamento del numero dei coreuti da dodici a quindici
c) lo scioglimento del legame trilogico, con la conseguente presentazione di tre drammi che trattavano argomenti
indipendenti l'uno dall'altro.
Queste notizie non possono essere prese alla lettera, poiché sappiamo che anche Eschilo aveva ampiamente
esplorato le possibilità tecniche del teatro del suo tempo: nell'Orestea del 458 a. C. il terzo attore è utilizzato e la Vita di
Eschilo ne attribuisce a lui l'introduzione; se invece lo si deve a Sofocle, l'innovazione dovrebbe essere collocata tra il 468 e il
458 a. C. Inoltre, certamente già nel 472 a. C. Eschilo aveva presentato tre drammi 'sciolti' dal legame trilogico (Fineo,
Persiani, Glauco Potnieo). Potremo però accogliere dalle fonti antiche l'idea di un Sofocle che dà carattere definitivo e
consapevole a tentativi tecnici precedentemente avanzati in forma non sistematica, sia da lui stesso che dal suo grande
predecessore. Certamente lo scioglimento del legame trilogico consentì a Sofocle di dare pieno sviluppo alla sua tendenza a
concentrare l'attenzione sulla vicenda di un singolo personaggio e sul contrasto con altre figure dominanti, lasciando in
ombra il peso dei legami generazionali che erano stati invece in primo piano nelle trilogie eschilee. Dobbiamo presupporre
dunque uno scambio vitale di stimoli con Eschilo ("imparò la tragedia da Eschilo", afferma senza mezze misure l'autore
della Vita).
L'interesse di Sofocle per il lato tecnico della sua attività è confermato dalla notizia che egli stesso avrebbe recitato in
gioventù nei suoi drammi Tamiri e Nausicaa, abbandonando poi questa pratica a causa della debolezza di voce, e dalla notizia
del lessico Suda secondo la quale egli avrebbe scritto un trattato intitolato Sul Coro, del quale però non sappiamo nulla.
Interessante è anche la notazione contenuta nella Vita che riferisce che Sofocle avrebbe composto le sue tragedie tenendo
presenti le capacità specifiche degli attori a cui intendeva affidarle, probabilmente per perseguire al meglio quella
rappresentazione dei caratteri che costituiva una delle peculiarità del suo stile.
3. Euripide
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
Anche di Euripide I manoscritti hanno conservato una Vita anonima. Alcune fonti antiche, che amano istituire
sincronismi d'effetto fra le biografie dei grandi autori, asseriscono che Euripide sarebbe nato nel 480 a.C., lo stesso giorno
della battaglia di Salamina, cui Eschilo partecipò come combattente e in occasione della quale Sofocle diciassettenne avrebbe
cantato il peana della vittoria. Più probabilmente, Euripide nacque nel 485/484 a. C. nell'isola di Salamina, da una famiglia
ateniese. Ebbe un'educazione raffinata, ed ebbe rapporti con filosofi del calibro di Anassagora, Prodico, Protagora e Socrate.
Importante è anche la sua vicinanza a rappresentanti delle tendenze musicali più innovative del tempo, quali lo scrittore di
ditirambi Timoteo, che certamente influì sulle scelte musicali di alcune delle tragedie più tarde. Secondo la tradizione fu di
carattere melanconico e solitario; si diceva che componesse le sue opere meditando in solitudine in una grotta dell'isola di
Salamina.
Partecipò per la prima volta al concorso tragico nel 455 a. C., ma solo nel 441 a. C. ottenne la prima vittoria, e
nonostante una lunga carriera riuscì ad ottenerne solo cinque in tutto. Amareggiato dalla difficoltà che incontrava ad
ottenere il consenso popolare, nel 407 a. C. lasciò Atene, recandosi in Macedonia presso il re Archelao. Qui egli scrisse la sua
ultima trilogia, comprendente le Baccanti; dopodiché morì, secondo la tradizione sbranato da alcuni cani.
A lui si attribuivano 92 drammi, o secondo altri 75; alcune fonti antiche dicono che partecipò al concorso 22 volte (il
che significherebbe una produzione di almeno 88 drammi).
Della sua produzione sopravvivono 17 tragedie autentiche, una tragedia probabilmente spuria (Reso) e un dramma
satiresco (Il Ciclope). Le tragedie autentiche sono:
Alcesti (438 a. C.),
Medea (431 a. C.)
Eraclidi
Ippolito (428 a. C.)
Andromaca
Ecuba
Supplici
Eracle
Elettra
Troiane (415 a. C.)
Ifigenia Taurica
Elena (412 a. C.)
Ione
Fenicie
Oreste (408 a. C.)
Baccanti (scritta nel 407/406 a. C., rappresentata postuma)
Ifigenia in Aulide (come le Baccanti).
Euripide è stato piuttosto fortunato per quanto riguarda i ritrovamenti di papiri: alcuni manoscritti antichi ritrovati
fra le sabbie egiziane hanno restituito ampie parti di tragedie perdute, delle quali oggi possiamo farci un'idea un po' più
precisa: tra queste l'Alessandro, l'Antiope, il Cresfonte, l'Eretteo, l'Ipsipile ecc. Solo per pochi drammi è nota la cronologia; gli
studiosi della metrica euripidea, per altro, hanno elaborato un metodo che sulla base della struttura ritmica dei versi rende
possibile una datazione approssimativa delle tragedie .
Euripide fu un inquieto sperimentatore, sia sul piano intellettuale che sul piano teatrale. Le sue riletture dei miti
tradizionali, alimentate dalla sua formazione di carattere filosofico/razionalistico sono spesso corrosive, ed esasperano i
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
contrasti insiti nelle storie tramandate, mettendo i crisi i fondamenti dell'ottimistica fiducia umana nel potere della propria
conoscenza razionale. Spesso egli ricorre alla tecnica di alterare qualche piccolo particolare o introdurre qualche personaggio
minore per ottenere effetti rilevanti sul piano della lettura della storia. Ma soprattutto, con lui si incrina la fede negli dèi
tradizionali, e le storie portate in scena, con le loro crudeltà e violenze, pongono apertamente l'interrogativo sulla giustizia e
sulla stessa esistenza degli dèi, che sfuggono a qualsiasi indagine umana fondata su criteri di moralità e giustizia.
Anche il tema della guerra, e dei terribili dolori che ne derivano, è particolarmente vivo in Euripide. Spicca in questo
senso un dramma come le Troiane, pressoché privo di azione in senso stretto, che mette in scena la dolorosa sorte delle
prigioniere cadute nelle mani dei Greci dopo la caduta di Troia, a partir dalla regina, che, oltre ad altri gravi lutti, deve
assistere alla dolorosissima fine del prediletto nipotino Astianatte, figlio di Ettore, che i Greci gettano dalle mura della città
distrutta. Si tratta di esperienze che corrispondevano ad una realtà storica dolorosa, quella della Guerra del Peloponneso che
per trent'anni (431-404 a. C.) oppose Sparta a Atene.
Una evoluzione specifica che caratterizza il suo teatro e che avrà una importanza fondamentale per lo sviluppo della
commedia del IV secolo a. C. è costituita dalla elaborazione di tragedie che si concludono senza lutti, con quello che noi
chiameremmo oggi un 'lieto fine'. Questi drammi appartengono tutti all'ultima fase della sua vita, e si concentrano in
particolare negli anni tra il 415 a. C. e la morte. Si tratta di tragedie in cui ha grande importanza la costruzione di un 'intrigo'
in genere fondato sul non ancora avvenuto riconoscimento fra due personaggi (ad esempio Ione e la madre nell'Ione, Oreste
e la sorella Ifigenia nell'Ifigenia Taurica), e sulla sua realizzazione per mezzo di un piano. In più d'un caso la vicenda assume
tratti che sono incompatibili con il mito, al punto che la tragedia si conclude con un intervento divino che ristabilisce il corso
normale della storia bloccando le contese e i fraintendimenti fra i personaggi. Questo intervento è noto con il nome di 'deus
ex machina' per il fatto che il dio compariva spesso sulla macchina del volo. Non risponde per altro a verità la diffusa
opinione che il dio intervenisse quando la vicenda era diventata insolubile sul piano umano, per 'sciogliere il nodo'.
Dal punto di vista teatrale, Euripide porta all'estremo le possibilità di tutti i mezzi di cui dispone. Moltiplica il
numero dei personaggi, fino ad arrivare agli 11 delle Fenicie; complica le forme del dialogo e del canto; aumenta le parti
cantate a solo dagli attori, creando lunghe e complesse monodie; relega progressivamente il Coro ad un ruolo sempre più
marginale nella vicenda drammatica. In particolare, Euripide ama sfruttare l'effetto di scene movimentate, come
inseguimenti e aggressioni, sia sulla scena che fuori scena; ed è in grado di pilotare le emozioni degli spettatori attraverso veri
e propri 'colpi di teatro' di assoluta genialità. Molto criticata dai contemporanei fu la sua scelta di infrangere la dignità del
personaggio tragico con la creazione di personaggi vestiti da straccioni (il più celebre è il re Telefo, che si traveste da
mendicante per non essere riconosciuto); e tuttavia essa si rivela un mezzo efficace per portare in primo piano componenti
importanti come la sofferenza fisica e psicologica dei personaggi stessi.
4. Altri tragici
Conosciamo più di 100 nomi di autori tragici attivi nel corso del V e del IV secolo. Di nessuno è sopravvissuto un
dramma intero, o almeno una parte significativa. Gli scarni frammenti delle loro opere sono raccolti nel primo volume della
raccolta Tragicorum Graecorum Fragmenta edito a Göttingen nel 1977, a cura di Bruno Snell. Ricordiamo solo qualche nome:
Tespi, semileggendaria figura delle origini cui si attribuivano l'introduzione del primo attore e l'invenzione del prologo e
della rhesis; Frinico, vincitore di un concorso nel 511/508 a. C., che per primo introdusse maschere (o personaggi?)
femminili; Ione di Chio, apprezzato tragediografo e poeta lirico, attivo a partire dal 455 a. C. circa; Agatone, vincitore del
concorso del 416 a.C., che compare come personaggio del Simposio di Platone, certamente uno dei migliori poeti dopo la
triade maggiore (fu il primo a comporre una tragedia di successo, l'Anteo, con personaggi di pura invenzione); Crizia,
aristocratico zio di Platone, che fu uno dei Trenta Tiranni; Teodette, attivo nel IV secolo, le cui opere furono prese a
modello da più di un drammaturgo romano.
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
B. Commedia
1. Aristofane
Aristofane nasce ad Atene, nel demo di Cidatene, attorno alla metà del V secolo a. C., forse nel 450 a. C., o secondo
altri nel 444 a.C. L’esordio teatrale risale al 427 a. C., con la commedia perduta I Banchettanti. La sua carriera coincide per
larga parte con il duro trentennio della guerra fra Atene e Sparta (431-404 a. C.), e personaggi e temi della politica del tempo
sono presenti dappertutto nelle commedie. In particolare, molte commedie esprimono il desiderio di pace e la polemica
contro i demagoghi della parte democratica fautori della politica bellicista. In particolare uno di essi, Cleone, fu al centro di
forti attacchi da parte del giovane Aristofane, e cercò di rivalersi intentando un processo al commediografo dopo la
rappresentazione, nel 426, della commedia I Babilonesi, per noi perduta. Non di meno, anche nelle commedie successive, in
particolare nei Cavalieri , la polemica contro Cleone è sempre vivace. I dati biografici sul poeta sono incerti, fatta eccezione
per le date di rappresentazione delle commedie. Che fosse calvo si ricava da una serie di autoironie presenti nelle commedie;
meno sicuro è che avesse rapporti con l’isola di Egina. La data della morte non è nota; si può solo dire che è posteriore
all’ultima commedia nota, il Pluto, messa in scena dal poeta nel 388 a.C., alla quale ne seguirono altre due. Il poeta sarà
dunque scomparso intorno al 385 a. C.
Importanti sono i suoi rapporti con due celebri poeti comici del tempo, il coetaneo Eupoli e l’anziano Cratino, con i
quali Aristofane polemizza in alcune commedie. In particolare una diceria sosteneva che nei Cavalieri di Aristofane ci fosse la
mano di Eupoli; Aristofane reagì accusando a sua volta Eupoli di plagio (sarebbe stato il perduto Maricante di Eupoli ad
essere stato copiato dai suoi Cavalieri). Da una serie di accenni che Aristofane fa nelle commedie più antiche risulta che agli
esordi della sua carriera egli ebbe un periodo ‘coperto’ nel quale faceva portare in scena le sue commedie da altri (in
particolare dal regista Callistrato). È discusso se questo periodo sia da identificare con gli anni 427-424 (e cioè con le
commedie dai Banchettanti ai Cavalieri, la prima portata in scena da Aristofane col proprio nome), oppure, come ha sotenuto
con buoni argomenti G. Mastromarco, con gli anni anteriori al 427, nei quali il poeta avrebbe collaborato con altri poeti
senza rivelarsi apertamente.
Alla Biblioteca di Alessandria in Egitto arrivarono i manoscritti di 44 commedie, di cui solo undici sono
sopravvissute fino a noi; delle altre restano circa 900 brevi frammenti. Per una circostanza fortunata, le commedie sono
dotate di introduzioni e di un enorme corpus di annotazioni antiche che ci danno molte informazioni sulla cronologia e sui
personaggi in esse menzionate. Le opere sopravvissute sono:
Acarnesi (425 a.C.)
Cavalieri (424)
Nuvole (423: la commedia che leggiamo è però un rimaneggiamento di quella che andò in scena, che non ebbe il
successo sperato)
Vespe (422)
Pace (421)
Uccelli (414)
Lisistrata (411)
Le donne alla festa delle Tesmoforie (411)
Rane (405)
Le donne in assemblea (391),
Pluto (= la Ricchezza 389).
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
Sappiamo con sicurezza che le Nuvole, gli Uccelli e la Pace furono rappresentati nel concorso delle Grandi Dionisie; gli
Acarnesi, i Cavalieri, le Vespe e le Rane alle Lenee; le altre quattro (Lisistrata, Le donne alla festa delle Tesmoforie, Le donne a
parlamento, la Ricchezza) non sappiamo.
La commedia di Aristofane è il regno della fantasia più sbrigliata, dove tutto può succedere. È difficile ridurre le
singole opere ad una trama narrativa continua, poiché dopo la situazione di partenza (in genere consistente in una iniziativa
individuale del protagonista che si propone di risolvere un problema con un piano assolutamente fantasioso) e l’agone, la
seconda parte delle commedie sfuma in una serie di situazioni sganciate le une dalle altre, in un clima di baldoria e di lazzi.
Molte commedie presentano trame a carattere utopico, come la fondazione della nuova città a mezz’aria negli Uccelli, il
viaggio in cielo di Trigeo per liberare la Pace, lo sciopero del sesso con cui le donne nella Lisistrata cercano di far cessare la
Guerra, e via dicendo.
Benché chiunque si accosti al teatro di Aristofane riconosca immediatamente in lui un genio assoluto del teatro, le
sue commedie sono fra le opere antiche più difficili da riportare sulla scena oggi. Il loro legame con la realtà ateniese
contemporanea è infatti così stretto che molti degli effetti comici non sono agevolmente trasportabili in un contesto
culturale diverso. Solo la sfrenata libertà sessuale trova in certa misura corrispondenza nel senso del comico di un pubblico
moderno, e questa è la ragione per cui una commedia come la Lisistrata è certamente la più rappresentata oggi.
Le radici del comico aristofaneo affondano da una parte nel linguaggio della vita quotidiana, dall’altro in quello
elevato tipico del teatro tragico, che viene continuamente ripreso con intento parodico. La parodia può essere in molti casi ai
limiti della ripresa letterale, con variazioni sottilissime, anche sul piano metrico. Questo invita a riflettere su un problema
specifico quale quello della riconoscibilità per lo spettatore medio dei passi parodiati. In effetti Aristofane talora riecheggia
tragedie messe in scena anche alcuni anni prima, e ci si domanda come potessero essere colte le parodie da un pubblico
presso in quale la circolazione libraria e la lettura erano ancora piuttosto limitate. Anche lo stretto legame con la tragedia
contribuisce a rendere difficile la fruizione della comicità aristofanesca da parte del pubblico moderno.
2. Menandro
Menandro nacque nel 341/340 a. C. in Atene. La sua carriera teatrale cominciò assai presto, a vent'anni, nel 322/21
a. C., e già nel 317/16 egli colse la prima vittoria, con la commedia Dyskolos ("Lo scorbutico"). Della sua vita sappiamo
pochissimo: è possibile che sia stato allievo di Teofrasto, discepolo e continuatore della scuola di Aristotele; dell'opera
principale di Teofrasto, i Caratteri, si colgono in effetti molte influenze nei personaggi del teatro menandreo. Di certo c'è
solo la data della morte, avvenuta a soli 50 anni, nel 291/90, sembra per annegamento.
Fu di una produttività incredibile: a lui erano attribuite 108 commedie. In vita non ebbe grande fortuna: ottenne
infatti solo 5 vittorie. Divenne però, a partire da subito dopo la sua morte, uno degli autori più celebri del mondo antico, al
punto che il grande critico Aristofane di Bisanzio (attivo fra III e II secolo a.C.) lo giudicò secondo solo ad Omero. Anche il
mondo romano lo apprezzò enormemente: Quintiliano lo include, dandogli grande rilievo, fra le letture essenziali per la
formazione dell'oratore. Già nell'antichità furono estratte dalle sue commedie raccolte di sentenze particolarmente belle o
edificanti, che assunsero poi vita propria e sono giunte a noi come un'antologia a sé stante, nella quale sono confluiti anche
materiali spuri (Sentenze di Menandro). Nel primo Medioevo la lettura delle sue opere andò contraendosi, anche per l'ostilità
degli ambienti ecclesiastici, che vedevano nelle commedie il prevalere della lussuria e di altri gravi vizi, fino a che intorno
all'VIII-IX secolo più nulla era noto delle sue opere. Fino alla fine dell'Ottocento, dunque, di Menandro si leggevano solo
brevi frammenti poco significativi e si cercava di farsi un'idea del suo teatro attraverso la lettura dei drammi romani di Plauto
e Terenzio che lo avevano imitato.
A partire dal 1898, fortunatamente, cominciarono i ritrovamenti di papiri che ci hanno permesso di tornare a
conoscere una serie di opere di Menandro. Memorabili in particolare quello del 1905, che fece tornare alla luce il cosiddetto
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
Codice Cairense, un manoscritto di commedie menandree usato da un notaio del V secolo d. C. per tappare un orcio
riempito di documenti, e quello del 1959, quando M. Bodmer acquistò in Egitto un codice che restituiva l'unica commedia
intera di Menandro che possediamo, il Dyskolos, e altri frammenti importanti.In sostanza, di Menandro possiamo leggere
oggi: l'intero Dyskolos, ampie parti degli Epitrepontes (L'Arbitrato), della Samia ("La donna di Samo") e della Perikeiromene ("La
ragazza tosata"), e parti significative dello Scudo, dell'Odiato e del Sicionio, oltre a numerosi frammenti minori.
Il mondo teatrale di Menandro è molto distante da quello di Aristofane. A fronte della libera, talora poco coerente
struttura della commedia antica, il dramma di Menandro si articola in una regolare sequenza di atti che presentano una
situazione iniziale di difficoltà ed equivoco, destinata ad arrivare ad un massimo di tensione nel III atto e ad avviarsi a
sciglimento ed inevitabile lieto fine nel IV e V atto. I personaggi si accentrano attorno a dei tipi ripetitivi: il vecchio padre
avaro e severo, il giovane innamorato e infelice, la giovinetta spesso creduta schiava e invece figlia di genitori liberi che
l'avevano abbandonata da piccola, l'etera maliziosa ma anche generosa nel favorire gli amori degli innamorati, la vecchia
ubriacona, lo schiavo astuto che si mette al servizio del padroncino, il soldato vanaglorioso e violento, il cuoco, il parassita
ecc.
La componente amorosa, marginale nella commedia antica, che del rapporto fra i sessi evidenzia soprattutto in modo
giocoso i gagliardi appetiti sessuali dei personaggi, diviene centrale nella costruzione delle vicende della commedia nuova. Le
storie ruotano attorno a meccanismi di intrigo, radicati nell'antefatto del dramma, la cui esposizione è spesso affidata a un
dio, che dà agli spettatori informazioni importanti nel prologo (questa parte della commedia viene così a completare il suo
distacco dall'azione drammatica vera e propria, già abbozzato nelle ultime tragedie di Euripide). L'influsso euripideo appare
evidente nella costruzione di vicende in cui compaiono bambini esposti e riconosciuti solo in età adulta, scene di
riconoscimento tra fratelli, o tra padri e figli, matrimoni incestuosi evitati all'ultimo momento e via dicendo.
In Menandro si fissano anche alcune convenzioni destinate a perdurare a lungo nel teatro occidentale: la scena
diventa definitivamente urbana, i dialoghi si svolgono di fronte alle case dei protagonisti, di regola in un contesto urbano o
antropizzato, destinato a passare pressoché immutato nel teatro romano.
3. Altri comici
Il numero degli autori comici di cui conosciamo i nomi è molto elevato. Solo di pochi tuttavia ci sono rimasti
frammenti abbastanza numerosi e significativi da permettere di farsi un’idea almeno vaga della loro opera. I frammenti e le
notizie relativi ai comici greci sono raccolti nella monumentale edizione di R. Kassel e C. Austin, Poetae Comici Graeci, in 8
volumi, iniziata nel 1983 e giunta ormai quasi a termine) Si possono ricordare per la Commedia Antica Cratino, Ferecrate
ed Eupoli, per la Commedia di Mezzo Alessi, Antifane, Anassandrida, Eubulo; per la Commedia nuova Difilo e
Filemone, le cui opere furono spesso prese a modello dai drammaturghi romani.
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
Teatro romano
A differenza degli autori teatrali greci, che si divisero rigorosamente fra tragici e comici, quasi tutti i drammaturghi
latini coltivarono contemporaneamente entrambi i generi.
1. Livio Andronico
Livio Andronico è concordemente ritenuto dalla tradizione il fondatore del dramma 'alla greca', oltre che l'iniziatore
della letteratura latina con la sua traduzione dell'Odissea. Era un greco di Taranto, venuto a Roma dopo la conquista della
città da parte di Roma. Non conosciamo né l'anno della nascita né quello della morte; l'unica data certa è il 240 a.C., anno
della prima raprpresentazione di un dramma di modello greco. Di lui si conoscono i titoli di 9 tragedie (per lo più connesse
con le leggende del ciclo troiano) e di 3 commedie; sopravvivono una cinquantina di versi in tutto.
2. Gneo Nevio
Nevio è il primo drammaturgo di origine italica. Nacque in Campania intorno al 270 a. C. e fu cittadino romano. Nel
235 a. C. fu messa in scena una sua opera. Fu ostile alla nobiltà, ed attaccò in particolare la potente famiglia dei Metelli, che
lo fecero imprigionare. Morì probabilmente nel 201 a. C., in esilio a Ustica. Nevio partecipò alla Prima Guerra Punica, e
scrisse il Bellum Poenicum, prima opera epica di Roma. Delle opere teatrali si conoscono i titoli di 6 tragedie. Nevio è
concordemente ritenuto l'inventore del genere della fabula praetexta; sono noti due suoi titoli di praetextae: Romulus (sulla
leggenda del fondatore di Roma) e Clastidium. Fu fecondo autore di commedie: sono noti 32 titoli di palliate, e a lui è
attribuita anche la pratica della fabula togata. Dal prologo dell'Andria di Terenzio veniamo a sapere che Nevio praticò la
cosiddetta contaminazione, unendo assieme elementi tratti da modelli diversi. Non siamo in grado di dire se ne fu
l'inventore.
3. Ennio
Quinto Ennio è una delle figure maggiori della letteratura latina arcaica, ammirato al punto che fu chiamato alter
Homerus (“secondo Omero”). La sua produzione, vasta e articolata, spaziava dall'epica al dramma, ad opere filosofiche ecc.
Qui si dà solo un cenno della produzione drammatica. Ennio era un osco, nato a Rudiae, non lontano da Taranto, nel 239
a.C. Egli assorbì dunque, oltre la nativa cultura italica, anche l'influsso del mondo delle colonie magnogreche. Combatté
durante la Seconda Guerra Punica in Sardegna, e da lì fu portato a Roma da Catone il Vecchio. A Roma Ennio entrò in
contatto con le famiglie più nobili, ed accompagnò M. Fulvio Nobiliore nella spedizione militare contro Ambracia, che
divenne argomento di una fabula praetexta da lui scritta. Morì nel 169 a. C.
Il teatro comico fu poco coltivato da Ennio: si conoscono solo due titoli. Egli fu invece un grande poeta tragico, e
godette di vasta fama. Si conoscono venti titoli di fabulae cothurnatae, delle quali restano circa 400 versi. Prevalgono anche per
lui i miti relativi al ciclo troiano, sentito a Roma come un antecedente mitico della nascita della città (fondata secondo la
leggenda dai discendenti di Enea fuggito da Troia). Fra i modelli greci, Euripide appare di gran lunga il preferito; ma Ennio
riprese anche le Eumenidi di Eschilo. Il suo rapporto con i modelli dovette essere piuttosto libero: la sua resa dei primi versi
della Medea di Euripide, che è sopravvissuta, si discosta ampiamente dal modello. Sappiamo anche che potevano cambiare
alcuni elementi strutturali importanti: ad esempio il Coro dell'Iphigenia era di uomini, mentre nell'Ifigenia in Aulide di Euripide
era di donne. Ennio fu anche autore di praetextae, delle quali non sopravvive quasi nulla. Benché la nostra conoscenza di
questo drammaturgo sia assai ridotta, è importante tener presente che ebbe un'influenza notevole su molti scrittori latini
successivi, non solo di teatro. Inoltre, alcuni frammenti ci forniscono informazioni preziose per ricostruire gli originali greci
perduti.
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
4. Pacuvio e Accio
Nel II sec. a. C. due figure si distinsero come autori di tragedie latine: Marco Pacuvio e Lucio Accio.
Pacuvio, brindisino, era nipote di Ennio. Nacque nel 220 e morì novantenne intorno al 130 a. C. Fu in rapporto con
la famiglia degli Scipioni, e forse fu parte del famoso circolo di intellettuali che si raccolse intorno a Scipione Emiliano e
Lelio (tra questi c'era anche Terenzio). Cominciò probabilmente a poetare tardi, visto che S. Girolamo ne pone l'acme
intorno al 154, dopo la morte di Terenzio, e che nel 140 egli si ritirò dalle scene. Di lui sono noti solo 13 titoli di tragedie, e
un titolo di una fabula praetexta, il Paulus (forse commemorativa della vittoria di Pidna). Di esse sopravvivono frammenti per
un totale di circa 400 versi. Almeno otto delle sue tragedie trattano argomenti derivanti dal ciclo troiano. Quel che possiamo
vedere dai frammenti conferma il giudizio degli antichi, che era di ammirazione per uno stile magniloquente, che cercava
attraverso termini altisonanti e addirittura nuovi conii linguistici di dare anche alla tragedia latina la dignità di quella greca.
Sappiamo anche che il suo teatro puntava molto sulle emozioni forti, sulla ricerca della commozione del pubblico (erano
celebri la rappresentazione del dolore fisico di Ulisse nei Niptra e la scena del Dulorestes nella quale Oreste e Pilade,
nell'intento di salvarsi a vicenda, dicevano entrambi di essere Oreste). Un'altra caratteristica del teatro di Pacuvio era la
sentenziosità, e la sensibilità agli aspetti del paesaggio. Certamente ebbe grande successo di pubblico, anche se il giudizio dei
moderni è piuttosto limitativo.
Accio nacque nel 170 a. C., forse nella colonia romana di Pesaro, fondata pochi anni prima. Cominciò a produre
drammi nel 140, causando la rapida eclissi del vecchio Pacuvio. Era certamente ancora vivo nell'86 a. C., quando lo conobbe
Cicerone. La tradizione ne tramanda un ritratto di persona altera e sdegnosa, caratterizzata da orgoglio esasperato.
Politicamente egli assunse posizioni vicine alla nobiltà conservatrice più intransigente, quella che reagì in modo molto duro
alle innovazione sociali portate dai Gracchi.
Fu autore assai fecondo: di lui sono noti 45 titoli di fabulae cothurnatae e 2 di fabulae praetextae; sopravvivono
frammenti per un totale di circa 700 versi. Accio si comportava con libertà rispetto ai suoi modelli greci, tra i quali Euripide
appare il preferito. Egli manifesta una predilezione per le situazioni orride, che si ritroverà più tardi in Seneca. Anch'egli
ricerca una dizione molto elevata, ai limiti della turgidezza, con forti effetti retorici, ma invece del sentimentalismo enniano,
egli punta a creare personaggi che incarnano passioni assolute, quella per il potere, la crudeltà ecc. Ebbe notevole successo di
pubblico, ed ancora nel 55 a. C. la sua Clutemestra fu rappresentata il giorno dell'inaugurazione del teatro di Pompeo.
5. Plauto
Della vita di Tito Maccio Plauto si sa molto poco, nonostante l'esistenza di numerose tradizioni biografiche antiche.
Il suo stesso nome è oggetto di incertezza. I tre nomi sono tipici dei cittadini romani, ma Plauto era umbro di Sarsina, e non
abbiamo motivo di credere che sia diventato cittadino di Roma; inoltre, il significato del cognomen Plautus non è sicuro: forse
trae origine dalla parola umbra plotus, "dai piedi piatti", oppure secondo altre fonti allude ai cani che hanno le orecchie
larghe e basse. Lo stesso dicasi del nomen Maccius o Maccus, che coincide con un tipico personaggio della farsa di origine
osca che chiamiamo atellana. È possibile che il poeta si chiamasse Titus Plotus (poi romanizzato in Plautus) e che il nome di
Macco si sia aggiunto quando, giunto a Roma per esercitare il mestiere di attore, aveva acquisito fama recitando quella parte
(non è probabile però che Plauto abbia recitato come attore nelle sue commedie).
Della sua vita sono certe soltanto le date di rappresentazione dello Stichus, a Roma nel 200 a.C. e dello Pseudolus, 191
a. C. Cicerone ci dice che Plauto morì nel 184 a. c., data che appare plausibile, e che all'epoca dello Pseudolo era un senex
("vecchio"). Dunque, poiché la senectus per i romani cominciava a 60 anni, Plauto dovrebbe essere nato non dopo il 251,
probabilmente intorno al 255 a. C.
.
Plauto godette di enorme fortuna presso il pubblico, sia in vita sia dopo la morte, al punto che gli vennero attribuite
molte commedie non sue, fino al cospicuo numero di 130. Fu l’erudito Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.) che dopo
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
molti studi stabilì una divisione in tre gruppi: ventuno commedie autentiche (le "varroniane"); diciannove dubbie (le
"pseudovarroniane") ma con possibile presenza di parti plautine, e le altre novanta spurie.Le commedie sopravvissute sono
le ventuno varroniane (i titoli non tradotti coincidono con il nome di uno dei personaggi):
Amphitruo (Amfitrione),
Asinaria (La commedia dell'asino),
Aulularia (La commedia della pentola),
Captivi (I prigionieri),
Curculio,
Casina,
Cistellaria (La commedia della cesta)
Epidicus
Bacchides (Le due Bacchidi),
Mostellaria (La commedia del fantasma),
Menaechmi (I Menecmi),
Miles gloriosus (Il soldato fanfarone),
Mercator (Il mercante),
Pseudolus,
Poenulus (Il Cartaginese),
Persa (Il Persiano),
Rudens (La gomena),
Stichus,
Trinummus (La commedia delle tre monete),
Truculentus,
Vidularia (La commedia del baule, della quale sopravvivono solo pochi frammenti).
Con l'eccezione dell'Amfitrione, commedia di argomento mitologico che forse rispecchia un modello vicino alla
Commedia di Mezzo e risente anche del genere della cosiddetta hilarotragoedia (una forma di tragedia messa in burla, diffusa
in età ellenistica nell'Italia Meridionale), tutte le commedie di Plauto si accentrano attorno a trame schematiche ispirate dai
modelli della Commedia Nuova greca: per lo più si tratta dell'inganno tramato da un servo astuto che intende aiutare il
proprio padroncino innamorato a danno di un vecchio padre avaro e conservatore, oppure di un rivale in amore o di un
lenone avido che tiene presso di sé la ragazza amata, la quale spesso, come di regola nella commedia nuova, si rivela poi
essere di condizione non servile, ma libera. Rispetto ai modelli greci, il teatro di Plauto mostra un considerevole
spostamento di accenti, al punto che si può dire che i veri protagonisti della maggior parte dei drammi sono gli schiavi,
astuti, privi di scrupoli, ingegnosi e spudorati. Inoltre Plauto innesta sulla morbida comicità e sulla lingua piana della
commedia nuova una vigorosa vena italica di linguaggio e scherzi osceni, La lingua di Plauto ha caratteri di versatilità e di
comicità assolutamente impressionanti: lo stesso vale per la sua metrica, che si plasma in forme estremamente varie.
6. Cecilio Stazio
Cecilio Stazio (c. 219 -168 a.C.) era un Gallo Insubro, portato a Roma come schiavo e poi liberato. La sua opera
sembra ispirata da vicino ai modelli greci, e in particolare a Menandro. Si sa che in origine ebbe poco successo, ma poi trovò
la misura giusta per incontrare i favori del pubblico. Delle sue commedie sopravvivono circa 300 versi sparsi. È importante
ricordare che un erudito del II sec d. C., Aulo Gellio, fece un dettagliato confronto fra un frammento della sua commedia
Plocium e i corrispondenti verso dell'originale di Menandro (Plokion, "La collana"). Era questo l'unico testo di palliata per la
quale potessimo confrontare l'originale greco prima della scoperta del papiro menandreo del Dis Exapaton ("Colui che
inganna due volte", òodello delle Bacchides di Plauto). Il frammento del Plocium ci offre un esempio di trasformazione di un
dialogo recitato dell'originale in un canticum. Inoltre, si può vedere come Cecilio inserisca molti scherzi pesanti, con
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linguaggio e immagini decisamente più scabrosi, rispetto alla relativa leggerezza dell'originale. Cecilio comunque è citato
dagli antichi come un autore di una certa gravità, quindi dobbiamo pensare che non esagerasse nell'inserire elementi di
comicità immediata e popolaresca. Certamente fu un autore importante per lo sviluppo della palliata, anche se non possiamo
esattamente definire il suo contributo.
7. Publio Terenzio Afro
Terenzio è l'unico dei drammaturghi antichi di cui posssiamo leggere integralmente l'opera. Di lui inoltre sappiamo
qualcosa di più che di Plauto, grazie ad una biografia scritta dallo storico Svetonio ed inglobata nel commento alle commedie
di Terenzio scritto nel IV secolo d. C. dal grammatico Elio Donato. Terenzio era un Cartaginese, nato secondo la biografia
nel 185 o 184 a.C. e venuto a Roma al seguito del senatore Terenzio Lucano, del quale come d'uso prese il nome. Ora,
sappiamo per certo che la sua prima commedia, l'Andria, fu messa in scena nel 166 a. C., dunque quando Terenzio aveva
diciannove anni. Una simile precocità appare problematica, e si è sospettato che la nascita sia stata artificiosamente
postdatata per dare più corpo alle maligne voci che volevano le commedie di Terenzio scritte in realtà da due nobili romani
che non volevano rivelare il loro coinvolgimento nella pratica teatrale: Scipione e Lelio. L'attività teatrale di Terenzio si
concentra tutta negli anni dal 166 al 160 a. C., che lo vedono rappresentare nell'ordine
Andria (La donna di Andro) ai Ludi Megalenses del 166
Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso) ai Ludi Megalenses del 163;
Eunuchus (L'eunuco) ai Ludi Megalenses del 161;
Phormio (Formione) ai Ludi Romani del 161;
Adelphoe (I fratelli) ai funerali di Emilio Paolo nel 160;
Hecyra (La suocera) ai Ludi Romani del 160
(in realtà né la prima rappresentazione della Suocera, nel 165, né la seconda, ai funerali di Emilio Paolo nel 160, erano
andate a buon fine). Va detto che la cronologia tradizionale trasmessa dalle didascalie annesse ai testi è stata posta in
discussione da numerosi interpreti moderni. Essa viene comunque accolta qui come sostanzialmente valida.
Nel 160, forse perché amareggiato dalle polemiche che accompagnarono le sue opere, Terenzio partì per la Grecia,
dove intendeva venire a contatto più diretto con le opere dei suoi modelli e con la civiltà greca. Da questo viaggio non tornò
più: morì infatti nel 159, forse in un naufragio o secondo una più poetica versione per il dolore di aver perduto nel naufragio
i manoscritti delle nuove commedie che aveva scritto.
Terenzio ebbe una spiccata preferenza per la commedia di Menandro, dal quale sono tratti quattro dei sei drammi da
lui scritti: Andria, Heautontimorumenos, Eunuchus e Adelphoe. Gli altri due, Phormio ed Hecyra sono derivati da commedie di
Apollodoro, un altro esponente della commedia nuova. Il dramma di Terenzio, per esplicita ammissione dell'autore in alcuni
prologhi, praticò però liberamente la contaminatio, la pratica cioè di inserire nell'impianto del dramma modello scene o
personaggi tratti da altre commedie dello stesso autore e di altri. In particolare Terenzio ci dice che nell'Andria oltre al
materiale del modello (l'Andria di Menandro) sono confluiti elementi provenienti dalla Perinthia dello stesso Menandro e che
nell'Eunuchus (modello: l'Eunuco di Menandro) ci sono due personaggi che derivano dal Kolax dello stesso autore, negli
Adelphoe (modello: I fratelli n. 2 di Menandro) scene dai Synapothneskontes ("Coloro che muoiono assieme").
Un tratto peculiare di Terenzio è la trasformazione dei prologhi, che si isolano rispetto alla vicenda e diventano spazi
liberi per la comunicazione fra l'autore e il pubblico, con discussione di questioni letterarie e teatrali. Alcuni dei prologhi, per
altro, non sono stati scritti da Terenzio, ma dal capocomico che porta in scena la commedia (ad es. La Suocera).
8. Seneca
E. Medda, Corso di Teatro e drammaturgia dell’antichità 2011-12 – Nozioni di base
Nel I secolo a. C. e nella prima età imperiale il teatro latino andò incontro a una forte decadenza. Il grande pubblico
si distaccò da questa forma d’arte, pur continuando ad apprezzare le opere di Plauto e di altri autori dei secoli precedenti. Gli
autori di tragedie componevano ormai per una elite di intellettuali e le loro opere vanno trasformandosi in testi letterari, non
più legati alla scena. Di questa fase del teatro antico a noi sono arrivate solo le tragedie scritte dal grande filosofo Seneca (I
secolo d. C.), che coltivò anche l’arte drammatica.
Di lui sono tramandate nove fabulae cothurnatae, che sono tra l’altro le uniche opre di questo genere che possiamo
leggere integralmente. Esse riprendono per la maggior parte opere dei tre grandi tragici greci, rispetto alle quail tuttavia
operano modificazioni consistenti. I titoli delle opre sono:
Hercules furens “Ercole folle”
Le Troiane
Le Fenicie
Medea
Fedra
Edipo
Agamennone
Tieste
Ercole sul Monte Eta.
A queste si aggiunge una fabula praetexta, l’Octavia, che tuttavia non è di Seneca: essa tratta la storia di Ottavia, prima
moglie di Nerone, da lui fatta uccidere per poter sposare Poppea.
La natura del teatro di Seneca è tale che esso non incontra facilmente il gusto dei moderni: l’abbondanza di scene
macabre, la predilezione per I toni calcati al Massimo, e l’abbondanza di tirate retoriche e sentenze, lo sfoggio di erudizione
che lo caratterizzano sono lontani dalla cocnezione moderna del teatro. Inoltre, una serie di difficoltà si oppongono all’idea
che esso fosse effettivamente rappresentato sulla scena, e sono molti gli studiosi che pensano ad esso come a un teatro da
declamazione e da lettura (non mancano tuttavia voci in contrario.
Un dato di grande rilievo culturale è tuttavia il fatto che Seneca ebbe grande fortuna a partire dall’età rinascimentale.
Dal suo teatro trassero spesso ispirazione grandi drammaturghi come Kyd, Marlowe e Shakespeare in Inghilterra; Corneille,
Racine e Voltaire in Francia; Alfieri in Italia.