Bio-politica, razzismo e disciplinamento sociale durante il
fascismo
Dario Padovan, Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova
1. L’avvento della bio-politica
Con le categorie di bio-potere e di bio-politica Michel Foucault sottolineava una
trasformazione delle politiche sociali degli stati che, esordendo alla fine del diciottesimo secolo, si
protraeva con successo fino, ed oltre, la seconda guerra mondiale. Mutando nel senso della biopolitica, il potere politico iniziava a prendere in carico la vita biologica della totalità sociale,
manifestando un nuovo principio giuridico che non cancellava quello precedente ma lo
trasformava dall’interno. Se nel vecchio diritto “la sovranità faceva morire e lasciava vivere”, con
il nuovo diritto appariva invece “un potere di regolazione, il quale consiste[va] proprio nel far
vivere e nel lasciar morire” (Foucault 1990:160).
La trasformazione del potere politico, che segnò tanto gli stati liberali quanto i regimi
autoritari, comportò una metamorfosi anche delle tecniche disciplinari. A fianco delle tecniche di
controllo esercitate sul corpo individuale apparve una tecnica bio-politica, che non sopprimeva
quella precedente ma la integrava, la incorporava, la modificava. Essa si pose su un altro piano,
ricorse ad altri strumenti e a nuovi saperi, esercitò un’influenza per così dire meta-individuale,
rivolgendosi alla moltitudine massificata dei corpi o all’uomo medio che la rappresentava
statisticamente. Alle tecnologie disciplinari incentrate sul corpo individualizzato, sul corpo come
organismo da addestrare, si associarono delle tecnologie di regolazione dell’organismo sociale
massificato, delle tecniche di sicurezza che assicuravano l’insieme sociale dai suoi pericoli
interni(Foucault 1990:158-159)1.
Questi due meccanismi, l’uno di disciplinamento l’altro di regolazione, non erano in
opposizione ma si situavano su piani operativi e cognitivi differenti, impedendo quindi la loro
vicendevole esclusione. La dislocazione su differenti livelli operativi dei due meccanismi di potere
si rese possibile in virtù dell’egemonia delle scienze organiciste nell’interpretazione della società.
L’idea di una continuità evolutiva tra corpo individuale e corpo sociale, di un’analogia sostanziale
tra organismo individuale e organismo sociale, permise una concreta dialogica ricorsiva tra saperi
anatomo-biologici applicati al corpo individuale e saperi bio-sociologici applicati al corpo sociale.
Non era estranea a questa eziologia combinata del corpo individuale e del corpo sociale lo
sforzo che gli igienisti, i biologi e i medici profusero negli ultimi anni dell’ottocento per
combattere i “microbi”, questo attore invisibile che si insinuava tra i rapporti sociali
1 Per un approccio di tipo sociologico vedi (Stella 1996:152-173).
impedendone il libero progredire. La battaglia contro i microbi comportò l’introduzione di nuove
professioni, laboratori, saperi e “saper fare”, che letteralmente “spostarono” le scienze sociali
verso lo studio del contagio sociale e dei comportamenti sociali che lo favorivano (Latour 1991).
La lotta contro i microbi, i parassiti, gli agenti patogeni portò a una nuova interpretazione della
società, alla ridefinizione dell’attore sociale e dell’attore-scienziato, trasferendo alle scienze sociali
sia la responsabilità di definire i parametri di consonanza dei comportamenti sociali da
ottemperare per la salute pubblica, sia la costituzione di una moltitudine di agenzie di
regolazione.
Le bio-politiche degli stati totalitari tra le due guerre, implicarono un crescente investimento di
sapere scientifico sulla massa dei corpi per renderli docili ed efficienti. Nel mutamento delle
tecnologie politiche, i corpi individuali e collettivi divennero materiale grezzo da manipolare,
mezzi di produzione da adattare alle nuove tecniche e configurazioni produttive (Hewitt 1983:6784).
2. Saperi bio-sociali e igiene della popolazione
Scienze quali la medicina, l’igiene, la psichiatria, la biologia si occuparono del disagio e delle
patologie urbane, del lavoro, familiari, assoggettando i corpi a trattamenti sanitari per assicurare il
loro adattamento ai cambiamenti socio-ambientali. Esse non furono discipline separate da una
visione sociologica e sociocentrica della realtà; anzi, spesso profusero consigli, decaloghi,
informazioni ad uso e consumo delle scienze sociali. Fin dai tempi più antichi, la medicina era
considerata un ramo delle più generali scienze dell’uomo, un’importante disciplina per lo studio
delle patologie individuali. Questa professione liberale, che strettamente cuciva il ruolo del
medico e la difesa della libertà individuale del malato, subì una radicale torsione durante il
positivismo, quando si trattò di migliorare la salute pubblica. Da confidente del paziente, il
medico si convertì in agente delegato della salute pubblica. Non si trattava più di mantenere
l’anonimato del malato contagioso: esso doveva essere denunciato, isolato, disinfettato, messo in
condizione di non nuocere. La malattia non era più una sciagura privata, ma un attentato
all’ordine pubblico (Latour 1991:159-160). Da professione liberale la medicina diveniva una
tecnica di controllo sociale della salute che doveva la sua esistenza a un preciso contratto con lo
stato.
In Italia più che altrove, la figura del medico-sociologo, stereotipata dal positivismo, si
impegnò in analisi e ricerche sulla salute pubblica e l’igiene collettiva o nel mettere in luce le
relazioni tra condizioni sanitarie ed economiche della popolazione. La medicina sociale, quale si
delineava nei primi anni del secolo, era il risultato, come auspicava il giovane Edoardo Agostino
Gemelli, dell’intima unione tra le conquiste delle scienze sperimentali, che stavano alla base della
medicina, e le dottrine sociologiche. Oggetto di questa “benefica ed armonica unione” tra
medicina e sociologia erano le malattie sociali: qui si dovevano “incontrare medici e igienisti e
giuristi ed economisti” (Gemelli 1909:497-530). In effetti, la nuova disciplina seppe coinvolgere
sia i medici clinici, ostetrici e ginecologi, i quali furono convinti a non rinchiudersi nei laboratori
ma di occuparsi con scrupolo e sentimento di questioni sociali, sia i sociologi, gli psicologi, gli
economisti, i demografi, i giuristi, lasciando loro uno spazio in cui operare autonomamente2.
Tuttavia, essa era ancora carente dal lato del riconoscimento politico.
Più che scoraggiarli, l’arrivo al potere del fascismo diede agli scienziati nuove speranze per un
concreto e radicale impegno statale per fronteggiare le morbosità sociali. Essi denunciarono le
insufficienze delle politiche sociali dei governi liberali e chiamarono “il nuovo Governo della
nuova Italia” a varare un programma per diminuire “l’entità dei mali che diminuiscono le energie
della nostra Stirpe” e per avviare una radicale azione di risanamento sociale. Solo affrontando il
problema delle sofferenza e delle malattie del corpo sociale era possibile realizzare l’opera di
ricostruzione economica e di pacificazione sociale che il paese chiedeva a gran voce (Levi 1923:14).
Nella nuova temperie, gli studiosi delle patologie sociali si riproposero di superare i
tradizionali concetti di igiene, previdenza, assistenza. Non si trattava solo di lottare contro gli
agenti infettivi, di risanare gli ambienti di vita e di lavoro, di curare le ferite inferte dagli insidiosi
e temibili nemici interni che si annidavano nelle più degradate realtà sociali (Levi 1922:7). La
medicina sociale e le discipline in essa coinvolte dovevano abbandonare l’atteggiamento
repressivo per passare a quello preventivo, occupandosi del capitale umano su più fronti quali la
“selezione umana”, l’orientamento educativo, l’orientamento professionale. Spinta dai nuovi
ambiziosi obiettivi, la medicina sociale iniziò a premere nella direzione di un riconoscimento
ufficiale da parte dello stato, con appelli che erano allo stesso tempo rigorosi e seducenti:
«E’ intuitivo infatti che allo Stato, alle classi dirigenti, ai Rappresentanti del Capitale e del Lavoro compete la
responsabilità:
1) che in base a ricerche scientifiche e ad un meditato e prudente indirizzo legislativo, si limiti la indiscriminata
attuale produzione di elementi disgenici, che sono fatalmente a carico della Nazione, e si favorisca la produzione
degli elementi di buona stirpe.
2-3) che le masse dei fanciulli destinate a divenire i lavoratori di domani, che le falangi dei lavoratori di oggi, siano
edotte dell’importanza di difendere le loro energie fisiche e psichiche dalle malattie e dagli infortuni evitabili; ciò che
si otterrà così:
scegliere l’uomo adatto alla macchina, non esaurire le possibilità giovanili di attività inadeguate, significa
risparmiare malattie e morti inevitabili; significa risparmiare cure domiciliari e ricoveri ospitalieri, indennizzi per
infortuni, fluttuazione operaia e scioperi, vagabondaggio e criminalità; significa cioè valorizzare l’insostituibile
macchina umana, fonte unica e prima di ogni ricchezza» (Anonimo 1925:137).
Curando e migliorando l’efficienza biologica e psichica del capitale umano, si potevano
risolvere contemporaneamente problemi di natura economica, politica, organizzativa, sicuritaria.
2 Vedi le dichiarazioni di Vittorio Ascoli, professore di clinica medica all'Università di Roma, del
19 dicembre 1917 (Patellani 1925:11-12).
Il fascismo non poté fare a meno di subire il fascino della potente politica di profilassi sociale
avanzata dalle scienze medico-sociali, facendone il cardine della sua strategia di controllo totale
della società. Politica sociale che prevedeva più che una rigenerazione morale dell'individuo
normativamente orientata, una peculiare statalizzazione del biologico, investendo di pratiche
disciplinari e regolatrici non tanto l'individuo al dettaglio quanto l'uomo-specie massificato.
La cultura sociologica del fascismo separò i concetti di “popolo” e “popolazione”. Sarebbe
invero interessante analizzare questo spostamento di categorie, che segnava l’abbandono
dell’interpretazione filosofica e politica della società per approdare a una visione bio-sociologica
del “sociale”. La nozione di popolo rimandava a qualcosa di intenzionale, di soggettivo, a
un’entità dotata di volontà politica e di diritti inalienabili, a “un’unità politica costituita per ragioni
di intelligenza e volontà che obbedisce all’ordinamento giuridico” (Bortolotto 1933:43). La
popolazione costituiva invece un oggetto, un corpo senza testa, un organismo regolato da leggi
biologiche e sociali prevedibili,
«uno dei fattori della produzione, ed i suoi consumi [...] lo scopo della produzione stessa. [...] Chi muore prima
dell’inizio del periodo produttivo non lascia alcun risparmio, ma costituisce per la collettività una perdita
rappresentata dal suo costo di allevamento» (Vergottini 1930:171-173)3.
La categoria di popolazione indicava la moltitudine, la massa organica, sociologica e biologica,
la totalità degli individui privi di una particolare qualificazione (Bortolotto 1933:25), la prioritaria
rinnovabile risorsa dello stato e dell’economia. Essa connetteva funzionalmente fenomeni
demografici e sviluppo economico, la cui interdipendenza venne segnalata da demografi,
economisti e sociologi, individuando nella diminuzione della popolazione e nella conseguente
contrazione dei consumi le cause della crisi occupazionale.
La comparsa della popolazione, di questa nuova entità corporata ma biologica, e quindi priva
di intenzionalità, spostò il fondamento dell’ordine sociale dal contratto tra individuo e società alla
regolarità, economica e politica, nel tempo e nello spazio, dell’evoluzione dei fenomeni sociali a
livello della massa. Controllare la densità e le qualità fisiche, psicologiche e morali del corpo
sociale, le cui regolarità di sviluppo e decadenza erano inferite sulla base di stime statistiche e
misure globali, significava rinforzare l'equilibrio omeostatico della società generale. Combinando
utilitarismo e atavismo, la demografia, scienza del demos, poteva quindi assumere un aperto
carattere sociologico, evolvendo in
«scienza dell’ordine sociale dei fatti biologici della popolazione, intendendo per ordine sociale quei nessi che
esistono e che sono stati fatti da forze che si trovano nell’uomo, dallo spirito di tornaconto e dalle forze di
conservazione» (Coletti 1928:156).
3 Cfr. anche (Tagliacarne 1934); (Vinci 1934:257-263).
Il fascismo si propose di ricomporre le forze sociali e produttive in un nuovo ordinamento,
suscitando
«un processo biologico nel quale tutti gli elementi, pur essendo separati, individuati e distinti, concorrono alla
giusta e proporzionata formazione del tutto, che deve presentare, contenere, ed allo stesso tempo superare, le
caratteristiche dei singoli elementi» (Bortolotto 1931:383).
Anticipando molte delle teorie funzionaliste e sistemiche, gli scienziati sociali del fascismo
individuarono nella “massa dei governati” l’oggetto della propria azione, sulla quale intervenire
disciplinandola e gerarchizzandola.
Quattro furono in sostanza i grandi campi di applicazione della bio-politica che richiesero i
saperi delle scienze bio-sociali:
• le politiche eugenetiche, popolazioniste, familiari e sanitarie basate su saperi demografici,
medici, igienici, biologici, sociologici;
• le politiche dell’organizzazione scientifica del lavoro che si avvalsero delle elaborazioni delle
incipienti scienze dell’organizzazione, della psicologia del lavoro, della psicofisiologia;
• le politiche rurali e anti-urbane coadiuvate dai cultori di sociologia ed economia agraria, dagli
urbanisti, dai demografi, dagli esperti di alimentazione, dagli studiosi dei fenomeni migratori;
• le politiche coloniali illuminate dalle discipline economiche, antropologiche, geografiche,
sociologiche.
In questo saggio mi occuperò delle politiche eugenetiche e dei saperi ad esse corrispondenti.
3. Eugenetica: una religione per la stirpe
Sorto tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo nei principali paesi
industrializzati, il movimento eugenetico aveva come fine la messa a punto di una serie di saperi e
di strumenti per il controllo delle nascite e per un generico social improvement. Esso si occupava,
come sottolineò Roberto Michels, del soggetto principale della società umana, il proletariato, per
le “tristi condizioni biologiche” in cui si trovava, per la sua “spiccata inferiorità antropologica”
(Michels 1919:2-3). L’eugenetica si diffuse inizialmente in Inghilterra con il nome di
“stirpicoltura”, per poi espandersi rapidamente negli Stati Uniti, in Germania, in Francia e da
ultimo in Italia4. In Inghilterra, dove Francis Galton aveva fondato la disciplina in seguito alla
pubblicazione del suo saggio Hereditary Genius del 1869, essa prese inizialmente il nome di
“stirpicoltura”.
4 Per alcuni cenni storici sul movimento eugenetico in Inghilterra vedi (Buss 1976); (Macnicol
1992); sugli Stati Uniti vedi (Carey C. A. 1998).
In tutti i paesi, l'eugenetica si manifestò come un misto di protezione sociale, di coercizione e
di retorica, caratterizzando dispoticamente le risposte al bisogno di istituzionalizzare la profilassi
sociale. Gli studi pioneristici di Francis Galton, cugino di primo grado di Charles Darwin, nel
campo della genetica e della psicologia differenziale erano inizialmente influenzati
dall'individualismo democratico liberale. Il fine di Galton era lo sviluppo totale ed armonico
dell'individuo, ma questo andò sfocando mentre si affermava un collettivismo totalitario
incorporato dallo stato. L'eugenetica, da strumento scientifico per la liberazione individuale dal
bisogno e dalla sofferenza, si trasformò in un potente fattore di controllo sociale. La stessa sorte
subirono le politiche di controllo delle nascite che erano state permesse negli Stati Uniti sotto la
pressione dei movimenti femministi e socialisti. Negli anni del primo dopoguerra, sotto la
direzione di un'élite bianca maschile, permeata di nativismo, razzismo, darwinismo sociale ed
etnocentrismo, il movimento per il controllo delle nascite statunitense venne ricondotto a
pratiche eugenetiche e alla tradizionale difesa della famiglia e della moralità sociale (Buss 1976,
Gordon 1974).
La distruzione del patrimonio biologico nazionale causata dall’evento bellico favorì la
diffusione di progetti eugenetici per la rigenerazione della stirpe. Queste strategie di bonifica si
giovarono di programmi a tutela delle fonti della vita, di quella maternità e infanzia rientranti nel
dominio sociale che lo stato doveva prendere sotto la sua protezione. Le relazioni intersoggettive,
la sessualità, il matrimonio, la procreazione, l’educazione dei figli, passavano sotto il dominio
dello stato. L’individuo perdeva i suoi diritti naturali e sociali, divenendo un semplice ingranaggio
del grande meccanismo bio-sociale da ripristinare nella sua integrità.
L’eugenetica si affiancava alla medicina sociale e all’igiene nella grande opera di bonifica
sociale. Come le discipline consorelle, essa presentava i caratteri propri di un sapere non ancora
scientifico che tuttavia costruiva il suo proprio oggetto e le sue procedure discorsive e di
intervento chiamando a raccolta le scienze già preesistenti, in primo luogo la biologia e
l’economia politica, per scandagliare il fondo naturale e il fondo tecnico-economico della società.
Alla pari dei loro colleghi occidentali, gli scienziati sociali italiani furono sedotti
dall'eugenetica, ritenendola uno strumento di purificazione razziale e di individuazione dei fattori
di controselezione che minacciavano lo sviluppo della civiltà5. In un saggio del 1912, Corrado
Gini annunciava che uno dei fattori più dannosi per la razza era la “decrescente riproduttività
delle classi elette”, fenomeno preoccupante poiché i caratteri migliori o degenerativi si
trasmettono per via ereditaria, come avevano già messo in luce le ricerche biometriche di
5 A differenza dei paesi anglosassoni, dove si è sviluppato un notevole interesse storiografico e
sociologico per il movimento eugenetico a cavallo dei due secoli, in Italia non esiste una
storiografia e una sociologia delle teorie e politiche eugenetiche, discusse e in parte realizzate
prima e durante il fascismo. Tra i pochi studiosi di queste campo delle scienze sociali va ricordato
per il lavoro pionieristico Claudio Pogliano (Pogliano 1984).
Lombroso sul genio della pazzia (Gini 1912:68-69). L’altro fattore di controselezione dimorava
nella diffusione della “compassione” verso gli esseri deboli e degenerati della società, i quali
erano “sottratti all’azione eliminatrice della selezione naturale e posti in condizione di vivere e di
riprodursi”. In conseguenza dei progressi dell’ostetricia, della medicina e dell’igiene, associati ai
provvedimenti pubblici, gli elementi meno sani e robusti della popolazione (tisici, pazzi, suicidi)
si trovavano a fornire una parte crescente dei geni ereditari delle generazioni future (Gini
1912:56-59).
Dalle prime riflessioni degli eugenisti italiani emergeva una certa diffidenza verso l’azione
statale di protezione sociale verso i perdenti della lotta per l’esistenza e dei costituzionalmente
deboli e degenerati. L’azione dello stato non poteva essere improntata a quel “buonismo”
paternalista verso il quale era spinta dall’umanitarismo socialista. Non si trattava di garantire a
tutti un posto al sole, l’opera di profilassi e di purificazione del corpo sociale doveva rispettare i
bilanci economici e i principi di efficienza amministrativa. L’azione bio-politica dello stato era
ritenuta indispensabile per migliorare la qualità e la coesione sociale in una prospettiva di
accumulo di potenza biologica ed economica, non per mantenere in vita gli individui degerogeni
e patogeni ai quali non si poteva che riservare il minimo del bilancio statale. Per i “perdenti della
lotta per la sopravvivenza” si delineava quindi un destino di segregazione o un lungo percorso di
riadattamento alla vita sociale.
Il timore suscitato dagli inequivocabili segnali di degradazione morale di alcune caste e di
talune collettività spinse tuttavia gli scienziati sociali italiani, così come quelli degli altri paesi
europei, verso la rivalutazione dell’azione statale. Troppe e molteplici erano le cause della
selezione regressiva della razza per non pensare a una “viricultura razionale” che fosse opera
dello stato (Consiglio 1914:444-466). L’eugenica appariva alle classi dirigenti indispensabile per
risanare l’ambiente morale e la struttura organica della società, irrinunciabile «per potersi
difendere e proteggere meglio da ogni sorta di epidemie, infettive o psichiche». Epidemie che più
facilmente dilagavano negli strati più bassi della società, inquinando poi rapidamente le
stratificazioni sociali più elevate, per inevitabile contagio diretto e indiretto.
Per scongiurare il manifestarsi di epidemie psicofisiologiche collettive non era più sufficiente il
meneur de foules, il duce che agglutina la massa e la conduce come un esercito verso le più alte
conquiste morali e sanitarie. A limitare l’assestamento dell’organismo sociale alle nuove
condizioni erano le carenti qualità del complesso energetico-organico, la sua limitata capacità di
svolgere “lavoro socialmente utile”, l’impossibilità psichica di disciplinare il lavoro verso il più
intelligente degli adattamenti. Il processo di lotta, selezione e adattamento nei nuovi contesti della
civiltà, richiedeva tali e complessi sforzi da ingenerare interazioni sociali crescentemente
molteplici e tensive (Consiglio 1914, La Torre1915). Solo lo stato poteva governare tale
complessità.
Verso gli anni venti l’eugenica aveva ampliato il suo raggio d’azione e chiarito i suoi obiettivi
scientifici e pratici. Agli eugenisti non bastava consigliare il normale e saggio accoppiamento degli
elementi migliori. Essi intendevano piuttosto valorizzare
«quelle tali influenze che pongono le razze migliori o i migliori individui in condizione di vivere e svilupparsi con
spiccata superiorità sulle razze inferiori. [...] La società deve sforzarsi, modificando la sua legislazione e la sua
amministrazione, ad ostacolare la moltiplicazione degli elementi inferiori, provvedendo così ad un avvenire in cui si
avrà la prevalenza di una razza superiore» (Anonimo 1925:301).
In quegli anni, il governo fascista non si era ancora impegnato in una precisa politica razzista,
eppure gli scienziati divulgavano prescrizioni e teorie tese ad affermare la superiorità di una razza
sulle altre. La candidatura degli scienziati sociali alla conduzione del piano di bonifica
dell’organismo sociale non poteva essere più chiara e politicamente schierata. La bio-politica del
fascismo aveva in effetti bisogno di sacerdoti, chiese e vangeli. Con il famoso “discorso
dell’Ascensione” del 26 maggio 1927, Mussolini e il fascismo aprirono il periodo delle politiche
igieniste, popolazioniste ed eugenetiche. In quel discorso il duce affermava:
«[...] qualcuno, in altri tempi, ha affermato che lo Stato non doveva preoccuparsi della salute fisica del popolo.
Anche qui doveva valere il manchesteriano “lasciar fare, lasciar correre”. Questa è una teoria suicida. E’ evidente che,
in uno Stato bene ordinato, la cura della salute fisica del popolo, deve essere al primo posto. [...] Bisogna quindi
vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia. [...] Se
si diminuisce, signori, non si fa l'Impero, si diventa una colonia!» (Mussolini 1934:39-42)6.
Qualche anno più tardi, Mussolini investiva i medici della nuova missione razionalizzatrice
delle disfunzioni bio-politiche dell’organismo sociale. Nel Discorso ai medici del 28 gennaio 1932, il
duce celebrava il loro insostituibile compito politico-sociale:
«i medici debbono insistere perché la vita si svolga in forma più razionale. [...] Tutto quello che voi farete nel
vostro campo per abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica ed anche allo sport, sarà ottimo non solo
dal punto di vista fisico, ma dal punto di vista morale, perché gli uomini che sono forti, sono anche saggi e sono
indotti a non mai abusare delle loro forze come lo sono invece i deboli, i vinti, quelli che qualche volta hanno la
crudeltà della loro debolezza».
L’impegno pubblico per il miglioramento della razza del regime fascista era in parte dipeso,
come ho già accennato, dalla pressione politica esercitata da medici, igienisti, sociologi,
antropologici, psicologi. Questi gruppi di pressione promossero, con ritmo crescente, la
fondazione di riviste, istituti di ricerca, istituzioni di prevenzione che funzionarono da potenti
organi di informazione, diffusione e implementazione di politiche sociali di taglio bio-politico.
6 . Vedi anche Orano 1937:31-61. Il discorso venne pronunciato alla Camera il 26 maggio 1927, ed
è interessante notare come, in prossimità di quel discorso, il duce si fosse rivolto per “consigli
tecnici” proprio a Corrado Gini. Cfr. (Lyttleton 1974).
Nel 1913 si costituiva in seno alla Società romana di Antropologia un Comitato italiano per gli studi
di eugenica di cui facevano parte Corrado Gini, Giuseppe Sergi, Sante De Sanctis, Luigi
Mangiagalli, Alfredo Niceforo, Cesare Artom. Nel 1919, l’igienista e malariologo Giuseppe
Tropeano rilanciava la rivista “La Medicina sociale”, omonima di una disciplina scientifica adatta
a bonificare il materiale umano rovinato dalla guerra. Nel 1921, Ettore Levi, libero docente in
neuropatologia, fondava l’Istituto italiano di igiene, previdenza ed assistenza sociale. Nel 1922 l’Istituto si
dotò di un mensile di divulgazione, “Difesa sociale”, iniziando una collaborazione con la Società
italiana di genetica ed eugenica fondata nel 1919, al tempo presieduta da Achille Loria, Cesare Artom,
Corrado Gini. Si arrovellava sul significato economico della vita umana anche Pietro Capasso,
animatore della rivista “Pensiero sanitario”, secondo cui l’Italia, così povera di materie prime,
doveva investire sulla risorsa lavoro per portarla al massimo rendimento. Nel 1924, Giulio Cesare
Ferrari, direttore della “Rivista di psicologia”, lo psichiatra Leonardo Bianchi ed Ettore Levi
fondarono a Bologna la Lega italiana di igiene e profilassi mentale, che si propose l’istituzione di
dispensari gratuiti e l’avvio di interventi di tipo psico-igienico nella scuola e nelle famiglie. Nello
stesso anno, ebbe luogo a Milano dal 20 al 23 settembre il I Congresso italiano di eugenetica sociale,
promosso dalla Società italiana di genetica e di eugenica e dalla Reale società italiana d’igiene. Vi
parteciparono cinquecento convegnisti e vi aderirono quasi tutte le società di eugenica europee,
sudamericane e nordamericane.
Nel 1927 veniva fondata da Umberto Gabbi, Edoardo Maragliano e Rinaldo Pellegrini la
rivista “Archivio fascista di medicina politica”, dedicata allo studio delle cause e dei rimedi della
morbilità della popolazione. La “medicina politica” si accostava alle altre già esistenti analoghe
discipline quali la “medicina sociale” e la “medicina del lavoro”, formando una potente triade
scientifica per la profilassi sociale. Le scienze della società del fascismo, combinando discipline
mediche, psicologiche e sociologiche, acquisivano un fondamentale statuto politico, facendosi
funzione regolatrice di governo e di disciplina sociale, commistione di «imperio di leggi e autorità
dei tecnici» (Gabbi 1927).
Tra il 7 e il 9 settembre 1929 si tenne a Roma il Congresso internazionale per gli studi della
popolazione, organizzato e coordinato sempre da Corrado Gini, al quale parteciparono studiosi di
tutto il mondo. Tra il 30 settembre e il 2 di ottobre sempre del 1929 si tenne il Secondo congresso
italiano di genetica ed eugenica promosso dalla Società italiana di genetica ed eugenica. Due anni dopo, nei
giorni 7-10 settembre 1931, si svolse un secondo Congresso internazionale per gli studi della popolazione,
durante il quale veniva ribadita la revisione del corpo dottrinario delle scienze eugenetiche.
I concetti elementari della genetica ereditaria, dell’eugenetica, della medicina sociale, furono
oggetto di una capillare opera di divulgazione sociale. La rivista “Politica Sociale” diretta da
Renato Trevisani e vicina alle posizioni di Giuseppe Bottai, iniziò pure ad assumere l’arsenale
linguistico biologista che proveniva dalla sociologia popolazionista e dall’eugenetica. Nel 1932
essa dedicò un intero fascicolo ai “molti, sani e belli” che il regime voleva riprodurre e proteggere
con l’aiuto di una medicina sociale a volte estetizzante, in plauso ai caratteri ideali voluti per
l’uomo medio italiano. Qualche anno più tardi, “L'economia italiana. Rassegna fascista mensile di
politica ed economia”, dedicava il numero dell'aprile 1934 al tema “Popolazione e Fascismo”. In
quel numero venivano presentati ventiquattro articoli, divisi in sei sezioni, scritti da studiosi di
differenti discipline7.
Nel 1934 vedevano la luce il Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione e la sua
rivista “Genus”, edita sotto il patrocinio del Consiglio Nazionale delle Ricerche e collegata alla Società
italiana di Genetica ed Eugenetica. Ancora nel 1934, a riprova dell'incitamento che le scienze
eugenetiche avevano ricevuto, venne fondato il Comitato internazionale per l'unificazione dei metodi e
per la sintesi in antropologia, eugenica e biologia, che tenne nello stesso anno, presso l'Istituto antropologico
di Bologna, il suo primo congresso. L'idea del comitato era venuta a Charles Davenport, direttore
del Dipartimento di genetica del Carnegie Institute di Washington, nel corso del III Congresso
internazionale di Eugenica svoltosi a New York nel 1932, invitando l'antropologo Fabio Frassetto a
costituire detto comitato. Il comitato si dotò anche di un bollettino internazionale dal titolo
iperscientifico di “S.A.S.- Standardisation Anthropologique Synthetique”, del cui comitato di redazione
facevano parte, oltre al direttore Frassetto, gli antropologi Eugen Fischer, Georges Montandon,
Josef Weninger, coadiuvati da Charles Davenport, Alfredo Niceforo, Felice Usuelli, Felice Vinci
e Giacinto Viola.
5. Ortogenesi: l’arte di raddrizzare il corpo e l’anima
La “biotipologia umana” od “ortogenesi” costituì durante il periodo fascista l’alternativa
cattolica dell'eugenetica. Fondata da Nicola Pende nel 1922 a partire dalla tradizione
costituzionalista di Cesare Lombroso, importata nella patologia medica da Achille De Giovanni
(Pende 1922), essa era la “scienza dell’architettura e dell’ingegneria del corpo umano individuale”,
una sorta di teoria bio-psico-sociologica dell’attore sociale. Per spiegare quella definizione, Pende
ricorreva alla metafora del motore degli autoveicoli: «come ogni autoveicolo è caratterizzato dal
tipo strutturale-dinamico del motore e degli accessori dell'apparato meccanico, così ogni umana
individualità ha il suo tipo di motore umano, da cui dipende il dinamismo speciale della persona»
(Pende 1939a:1). L'individuo era in questo modo equiparato a una “fabbrica corporea”,
concepito come un
«fenotipo umano individuale che nasconde però in sè quella parte del genotipo che non è ancora per così dire
germogliata sul terreno misterioso dell'eredità biologica, nelle sue oscure interazioni colle influenze cosmiche e
7 Tra gli autori possiamo ricordare: Luigi Amoroso, Filippo Virgilii, Giorgio Mortara, Luigi
Galvani, Filippo Carli, Vincenzo Consiglio, Roberto Michels, Marcello Boldrini, Arrigo Solmi,
Nicola Pende, Agostino Gemelli, Sergio Panunzio, Paolo Medolaghi
sociali, che agiscono sull'organismo vivente come stimoli rivelatori dei caratteri e delle attitudini dinamiche e
psichiche» (Pende 1939a:48).
La sintesi del biotipo individuale era rappresentata da una piramide quadrangolare la cui base
racchiudeva la genetica del biotipo, ovvero il patrimonio ereditario individuale, familiare e
razziale, e i quattro lati gli aspetti fenomenici dell'individualità vivente: morfologici, fisiologici,
etici ed affettivo-volitivi, intellettivi (Pende 1939:52). In quella piramide era racchiuso il
“modello” della teoria, che mediava tra aspetti teorici e aspetti operazionali.
La biotipologia intendeva donare una spiegazione totale dell'agire dell'individuo, ossia
dell’attore sociale. Essa era ovviamente molto lontana dalle attuali teorie dell’attore sociale.
Tuttavia, negando il collettivismo e il sistemismo sociologico a favore di un individualismo biopsico-sociologico, la biotipologia si presentava come una teoria in grado di spiegare e prevedere,
e se necessario di riorientare, i modi in cui un individuo agiva o avrebbe agito in certe situazioni.
Combinando osservazioni di tipo genetico, morfologico, fisiologico, etico, affettivo, intellettivo,
socio-ambientale, i biotipologi affrontavano i problemi dei valori individuali, delle disposizioni
morbose e della loro profilassi, dei devianti e dei criminali, della valutazione vitale degli individui
per le assicurazioni statali contro le malattie. Analogamente alla medicina sociale e all’eugenetica,
la biotipologia si occupava delle patologie in un ottica transdisciplinare, chiamando alla
cooperazione i saperi medici, psicologici e psicopatologici, educativi, sociologici, criminologici,
per creare “Istituti di biologia e psicologia dell’individualità” nei quali insegnamento, ricerca
scientifica, attività di bonifica trovassero una sintesi equilibrata (Pende 1923:53).
Il modello biotipologico unificava nello studio dell’attore fattori genetici ereditari e fattori
ambientali, sviluppando un approccio di tipo genealogico. I caratteri razziali dei genitori del
soggetto, uniti alle influenze geografiche e sociali e alle abitudini di vita dei genitori e del singolo,
fornivano i primi dati per l'accertamento delle patologie, delle disfunzioni, delle degenerazioni del
soggetto. Ereditarietà e ambiente, come nella più classica delle teorie positiviste dell'azione
sociale, assurgevano a sistema di influenze plasmatrici dell'architettura fisico-psichica individuale.
Solo la conoscenza dei modi e degli effetti con cui questi fattori esercitano un'influenza esterna
sul comportamento individuale, permetteva allo scienziato di avviare procedure di controllo e di
trasformazione delle degenerazioni soggettive. Per applicare gli studi biotipologici e la scienza
ortogenetica Pende aveva fondato presso la Clinica medica dell'Università di Genova l'Istituto
biotipologico ortogenetico, nel quale venivano testati ed esplorati gli aspetti psichici della personalità e
del carattere, gli istinti e le reazioni, il grado di intelligenza e il subcosciente di fanciulli e soggetti
adulti (Banissoni, Nardi 1939:625-665).
L’applicazione scientifica della dottrina biotipologica si concretizzò nella “scienza
dell’ortogenesi” ovvero nella scienza per la “formazione regolare, sana ed armonica degli
uomini”. Essa si preoccupava di correggere e normalizzare tutte le “possibili deviazioni del corpo
e dello spirito sotto l’influsso di fattori ereditari ed ambientali”. Fin dalla nascita, il futuro
cittadino doveva venire tutelato dallo stato. Dalla qualità e dal numero dei figli del popolo
dipendeva, secondo Pende, «il benessere economico, la potenza militare, la potenza spirituale, la
potenza riproduttiva della razza» (Pende 1939b:7). Nella prospettiva bio-politica dell’ortogenesi il
rafforzamento della razza era visto come un processo di miglioramento delle condizioni igienicosanitarie della popolazione e degli individui. Si trattava quindi di organizzare e perfezionare
un’assistenza preventiva e curativa per i figli tarati. Profilassi preventiva e curativa che aveva
portato, alla fine degli anni trenta, a mettere sotto assistenza medico-pedagogica quasi tremila
soggetti ritenuti portatori, in latenza, del gene di un’eredità patologica8.
La prospettiva ortogenetica negava radicalmente la “famigerata eugenica”, perché tesa
quest’ultima a migliorare o purificare la razza, operando incroci razziali, o peggio ancora
sterilizzando gli individui geneticamente inferiori. Alla selezione dei migliori e dei più adatti e
all’esclusione dei meno adatti, l’ortogenesi opponeva “la pratica di prendere l’essere umano sotto
il controllo scientifico sin dal momento del concepimento”, mettendo a punto politiche di
gestione dell’utero femminile e considerando le donne semplici portatrici della stirpe futura. La
bonifica non riguardava solamente i fattori fisici e le proporzioni del corpo, ma comprendeva
anche gli aspetti intellettivi, morali e di coscienza della personalità. Per questo, secondo il Pende,
l’ortogenesi «non solo è individualizzata ma è unitaria, totalitaria, rivolta nel tempo stesso al
corpo, nella sua struttura e nella sua composizione umorale, soprattutto glandolare ed ormonica,
e poi al carattere e all’intelligenza» (Pende 1939b:8-9).
La scienza dell’ortogenesi si proponeva, in sostanza, di guidare, fin dalla nascita, la formazione
pedagogica dell’individuo fascista, di rappresentare l’arte di fare gli uomini totali ed armonici. Nelle
intenzioni del suo creatore, l’ortogenesi diventava
«l’arte di migliorare continuamente il bilancio biologico della nazione, liberandolo più che è possibile dalla massa
dei mediocri e degli improduttivi e degli invalidi precoci, dei mediocri della salute fisica, dei mediocri morali, dei
mediocri intellettuali, mediocri che sottraggono ogni anno miliardi alla ricchezza nazionale; l’arte di preparare
lavoratori del braccio e dell’intelletto bene orientati e selezionati per i vari posti di lavoro, di preparare soldati
fisicamente e moralmente forti, di preparare madri feconde sorvegliando accuratamente il loro sviluppo sessuale e il
loro sviluppo morale» (Pende 1939b:10).
In una parola, era all’ortogenesi che spettava la soluzione dei quattro grandi problemi, quello
della scuola, quello del lavoratore, quello della donna, quello della razza.
6. Politiche di bonifica sociale
8 Il numero di tremila assistiti è difficilmente verificabile. Noi l’abbiamo ripreso da (Cesari
1940:75-82).
Il controllo eugenetico della riproduzione biologica della popolazione trovò concretezza in
provvedimenti legislativi e in un drastico aumento dei ricoverati negli ospedali psichiatrici. Il
nuovo Codice penale, varato il 1 luglio 1931, unificando provvedimenti eugenetici e di difesa
della prolificità, prevedeva dure sanzioni per i reati contro la stirpe, ovvero per le pratiche
abortive e l’istigazione all’aborto, la procurata impotenza, l’incitamento alla contraccezione e il
contagio venereo.
Le politiche di controllo si esercitarono in modo più sistematico con l’internamento e la cura
dei degenerati. Sulla base dei dati forniti dall’Ufficio statistico per le malattie mentali, fondato nel 1926
dalla Società italiana di psichiatria presso il manicomio di Ancona, si viene a sapere che gli istituti di
assistenza preposti all’accoglimento degli infermi di mente erano, al 31 dicembre 1927, 144, tra i
quali 61 ospedali psichiatrici pubblici, 5 manicomi giudiziari, 36 ricoveri per cronici, 6 istituti per
deficienti, 36 case di salute mentale per abbienti. Tra il 1926 e il 1928 entrarono per la prima
volta negli istituti di assistenza 50.183 individui malati, così suddivisi:
tab 1. Ricoverati per la prima volta in ospedale psichiatrico
1926
1927
1928
maschi
9.565
9.340
9.588
femmine
7.210
7.104
7.376
totale
16.775
16.444
16.964
Sommando i riammessi, il totale saliva a 70.697. Aggiungendo infine i ricoverati presenti
all’inizio dell’anno, la cifra totale dei ricoverati nel triennio saliva a 257.398, circa 85.000 per
anno. Sottraendo i dimessi e i morti, alla fine del triennio risultavano ricoverati 192.687 malati
mentali. L’aumento dei malati, commentava il Modena, non era dovuto a una maggiore
morbosità, cioè a maggiori entrate, ma alla maggior durata della degenza. La diminuzione dei
congedi era a sua volta inerente alla crisi e alla disoccupazione, più che alla diminuzione della
mortalità, che si aggirava sempre attorno al 7% dei ricoveri, circa 6.000 all’anno. Il movimento
dei ricoverati negli ospedali psichiatrici tra il 1926 e il 1946 è riassunto nella seguente tabella:
Tab. 2. Movimento dei ricoverati negli ospedali psichiatrici
presenti al
entrati
dimessi
1 gen.
trasf. altri
morti
istit
presenti al
totale
31 dic.
assistiti
1926
60.306
26.057
15.399
2.575
6.282
62.127
1927
62.127
27.467
15.013
4.334
5.979
64.268
1928
64.268
27.785
15.585
3.703
6.473
66.292
1929
66.439
28.607
16.468
3.441
6.466
68.671
1930
68.777
30.424
16.899
4.641
5.643
72.018
1931
72.269
29.460
17.065
4.047
5.837
74.780
1932
74.780
30.866
17.294
4.439
6.189
77.724
101.207
1933
77.724
32.481
17.505
5.490
6.201
81.009
104.715
1934
81.009
31.447
18.786
4.359
5.917
83.394
108.097
1935
83.541
31.413
19.321
3.981
6.243
85.409
110.973
1936
86.449
33.680
19.687
4.368
6.683
89.391
115.761
1937
89.393
34.715
20.707
4.628
7.093
91.760
119.560
1938
93.019
35.209
20.968
5.152
7.292
94.816
123.076
1939
94.946
37.813
22.251
7.352
7.177
95.979
125.407
1940
95.984
37.440
21.675
7.690
7.636
96.423
125.735
1944
73.222
26.900
16.883
4.708
13.517
65.014
95.414
1945
65.014
29.760
20.598
3.799
8.680
61.697
90.975
1946
61.886
33.262
21.266
5.861
4.489
63.352
93.407
Fonte: Istat, Annali statistici italiani.
Come si nota, durante il ventennio il numero dei ricoverati e degli assistiti continuò a crescere
con una certa frequenza, aumentando del cinquanta per cento in circa quindici anni. La maggior
parte degli ammessi era costituita da individui compresi fra i 20 e 40 anni, con prevalenza dei
maschi sulle femmine. Per quanto riguardava lo stato civile vi era una prevalenza dei celibi e delle
nubili rispetto ai vedovi e ai coniugati, confermando una convinzione da tempo espressa dagli
statistici secondo la quale i non sposati erano più soggetti a malattie e mortalità 9. Prevalevano tra
i ricoverati i letterati con istruzione elementare inferiore e, per quanto riguardava le professioni,
di gran lunga le più rappresentate erano le casalinghe e i lavoratori rurali, seguiti dagli operai, dai
meccanici elettricisti e dai manovali.
La durata della degenza è utile per inquadrare il tipo di profilassi psichiatrica. In alcuni casi, la
durata della degenza era particolarmente breve: il 20 per cento delle psicosi tossiche endogene
erano curate in meno di un mese, così per il 30 per cento delle psicosi tossiche esogene e per le
psicosi affettive (queste ultime erano le più diffuse tra la popolazione, soprattutto femminile, con
9 malati ogni 100.000 abitanti presenti, comprendendo stati depressivi, stati maniacali, psicosi
9 Quanta propaganda fosse cristallizzata in questa asserzione è superfluo dire, sufficiente
peraltro a varare la legge che stabiliva l’imposta progressiva personale sui celibi, istituita con
R.D.L. 19 dicembre 1926, n. 2132 e resa effettiva con R.D.L. del 13 febbraio 1927, n. 124.
maniaco-depressive). Per la maggioranza dei malati, la degenza era invece molto più lunga: il 72.5
per cento delle frenastenie venivano tenute sotto osservazione per un periodo compreso tra un
anno e oltre due anni; così per il 50 per cento delle psicodegenerazioni, il 62.6 per cento delle
epilessie, il 40.4 per cento delle psicosi affettive, il 63.5 per cento delle schizofrenie, il 27 per
cento delle psicosi tossiche endogene, il 36 per cento delle psicosi alcooliche. Infine, su 100
dimessi, solo il 17.6 per cento era considerato guarito, mentre il 44.3 per cento era ritenuto in
esperimento e il 21.4 per cento affidato alle famiglie (Modena 1933:14-47).
Una statistica compilata da Franco Savorgnan nel 1934 comparava il numero dei letti
d’ospedale nei diversi settori sanitari del 1932 con gli stessi dati del 1907, anno dell’ultima
rilevazione sullo stesso argomento. Scontata la rilevazione di significativi incrementi nel campo
generale dell’assistenza sanitaria ospedaliera, dovuta all’opera svolta dal governo fascista,
interessanti sono i dati per il settore psichiatrico. Nel 1932 gli ospedali psichiatrici erano saliti a
154, affiancati da tre cliniche specializzate nella cura delle malattie veneree; gli assistiti globali
furono 105.O65, il 9.6 del totale degli assistiti in tutti gli ospedali, più dei tubercolotici e dei
ricoverati nei reparti di chirurgia. Nel 1907 c’erano negli ospedali psichiatrici 48.026 letti, che
diventavano 78.043 nel 1932, con un 62.5 per cento di aumento; gli infermi assistiti furono
64.029 nel 1907, numero che salì nel 1932 a 105.O65, 64.1 per cento di aumento; le giornate di
presenza consumate furono 16.289.616 nel 1907, 27.198.924 nel 1932, 66.9 per cento in più.
L’incremento del grado di medicalizzazione psichiatrica della società risalta più precisamente
se si raffrontano i dati degli assistiti nelle istituzioni psichiatriche con gli altri settori ospedalieri:
per gli ospedali pediatrici l’aumento era stato del 70.9 per il numero dei letti, del 40.7 per gli
infermi assistiti e del 35.2 per le giornate di presenza consumate; per gli ospedali ortopedici e per
rachitici l’aumento era stato rispettivamente del 113.8, del 148, ma solo del 22.9 per le
presenze/giornata consumate (Savorgnan 1934:13), indicatore quest’ultimo significativo per
valutare l’effettiva portata delle politiche di segregazione dei malati mentali e l’impatto
dell’istituzione psichiatrica sulla società. Nella seguente tabella quel dato viene ampiamente
verificato:
tab. 3. Confronto tra ospedali comuni e psichiatrici nel 1932
numero istituti
numero letti
numero assistiti
giorni presenza
ospedali psichiatrici 154
78.043
105.065
27.198.924
ospedali comuni
106.960
822.983
24.843.476
1.319
Fonte: Istat, Annali statistici italiani, 1932
Era inoltre diffusa tra i medici psichiatri la convinzione che la massa dei degenerati
debordasse abbondantemente il numero rilevato statisticamente, che il numero oscuro fosse più
ampio di quello conosciuto. Alla popolazione degli alienati ricoverati andava infatti aggiunta la
parte forse preponderante di “deficienti mentali, anormali psichici, nevropatici, ecc., che non
sono ricoverati nè ricoverabili”(Cesari 1940:79). La preoccupazione per la presunta diffusione
delle degenerazioni e delle infermità mentali ossessionava medici, psichiatri, statistici, sociologi: di
qui l’auto-responsabilizzazione degli scienziati per il controllo della capacità generativa degli
individui, individui definitivamente senza diritti, soggetti incapaci di agire. Le leggi razziali
avevano ormai sollevato qualsiasi dubbio in merito al duplice movimento di differenziazione e
purificazione razziale. I disgenetici e i malati mentali, aumentando la loro frequenza,
minacciavano la biologia della collettività e deterioravano progressivamente la razza bianca. Era
cognizione comune che
«la percentuale di malati mentali, quali i deficienti, gli epilettici con manifestazioni psichiche, gli schizofrenici, i
maniaci e i malinconici rispetto alla popolazione di una Nazione, salgono a cifre impressionanti e preoccupanti per il
presente e per l’avvenire [...]. Damaye, trova che il gran numero degli anormali mentali e dei deliranti, è, in libertà, nel
mondo, ed essi non sono che un campionario di quelli internati in manicomio. La vita libera abbonda di gente che
presenta vaghe, piccole anomalie mentali o sessuali che, sopra certi aspetti dell’esistenza fanno di essi un pericolo
ancora sconosciuto ed insospettato» (Cesari 1940:79)10.
7. Politiche popolazioniste
Se le politiche eugenetiche intendevano migliorare la qualità della razza, le politiche
demografiche si diressero a sostenerne la proliferazione. Qualità e quantità dei fenomeni sociali
trovarono nelle politiche popolazioniste una sintesi di tipo funzionale. La crescita demografica
aveva un senso solo se la qualità della popolazione fosse stata mediamente buona. Tra il 1927 e il
1928 il regime aveva arguito di trovarsi di fronte a una diminuzione delle nascite, soprattutto
nelle regioni più industrializzate e urbanizzate, generando una diffusa inquietudine politica. La
scelta di combattere la natalità decrescente avvicinò il regime alle posizioni della chiesa cattolica.
Dopo lo storico discorso dell’Ascensione, il 19 settembre 1928 compariva su “Il Popolo d’Italia”,
sulla rivista “Gerarchia” e come prefazione alla traduzione italiana del libro Regresso delle nascite,
morte dei popoli di Richard Korherr un articolo del capo del fascismo dal titolo Il numero come forza.
In quello scritto il duce, chiosando la sociologia giniana, sosteneva che «le leggi demografiche e le
negative e le positive possono annullare o comunque ritardare il fenomeno se l'organismo sociale al quale si
applicano è ancora capace di reazione. In questo caso più che le leggi formali, vale il costume morale e soprattutto la
coscienza religiosa».
10 Vedi anche (De Lisi 1938).
Per compensare la caduta della natalità, il fascismo avviò un’intensa azione demografica solo
nelle campagne. Il rafforzamento della potenza riproduttiva delle masse rurali rispondeva a
diverse esigenze. Tra quelle economiche, una maggiore pressione demografica sulle campagne
favoriva soprattutto i grandi proprietari agrari del sud sia dal lato della vendita delle terre sia dal
lato dei salari agricoli. Inizialmente il fascismo imboccò la strada delle elargizioni benefiche,
lontana da una programmazione effettiva, per far fronte agli effetti della crisi economica che dal
1928 iniziava a colpire i salariati dell'industria e dell'agricoltura.
Nelle menti del regime, la difesa della razza occupava un’ampia congerie di problemi e
provvedimenti. Sullo sfondo della sua limitata razionalità, la politica della razza connetteva
mutualmente direttive logiche di tipo negativo e positivo: negativo nel senso che mirava a
eliminare cause e fattori di “deterioramento” della razza; positivo nel senso che intendeva creare
provvidenze per un suo “miglioramento”. Sempre Mussolini aveva reso, in un suo scritto, la
complessità degli interventi pubblici nel campo razziale:
«la potenza militare dello Stato, l’avvenire e la sicurezza della nazione sono legati al problema demografico,
assillante in tutti i paesi di razza bianca e anche nel nostro. Bisogna riaffermare ancora una volta e nella maniera più
perentoria e non sarà l’ultima, che condizione insostituibile del primato è il numero. Senza di questo tutto decade e
crolla e muore. La giornata della Madre e del Fanciullo, la tassa sul celibato e la sua condanna morale, salvo i casi nei
quali è giustificato, lo sfollamento delle città, la bonifica rurale, l’Opera della Maternità e Infanzia, le colonie marine e
montane, l’educazione fisica, le organizzazioni giovanili, le leggi sull’igiene, tutto concorre alla difesa della razza»
(Mussolini 1935:40).
L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, istituita nel 1925 e regolamentata nel successivo,
aveva indubbiamente un posto preminente nella politica della razza, dovendo proteggerne i
germogli nel “loro sorgere e nel loro sbocciare”. L’Onmi. prevedeva l’istituzione in tutto il paese
di consultori ostetrici e pediatrici, atti alla sorveglianza igienica delle donne gestanti e puerpere
specie per le malattie sociali, alla cura delle anomalie della gravidanza, all’accertamento delle
predisposizioni o alterazioni dello stato fisiologico dei genitori, alla sorveglianza igienica e
dietetica del bambino (Bergamaschi 1940:91-97). L’obiettivo ultimo era la bonifica attiva della
razza e la messa sotto monitoraggio dei comportamenti sociali dei genitori, giudicati sulla base di
criteri medici e morali.
Le campagne demografiche e le politiche di proliferazione fecero leva sugli stereotipi
femminili di madre e di genitrice per trovare il soggetto adatto al progetto fascista di
miglioramento della razza (Krause 1994). Tuttavia, il processo di industrializzazione favorì il
lavoro fuori casa delle donne, soprattutto nel settore tessile, consentendo alla forza-lavoro
femminile di assumere, forse per la prima volta, un ruolo sociale, sottraendosi in parte alle
politiche patriarcali perseguite dal regime e dai demografi (Corner 1993). Ciò nonostante la lotta
contro ogni comportamento trasgressivo di parte femminile fu continua e feroce. La difesa della
ruralità fu una delle principali politiche per tenere sotto controllo una crescente ostilità delle
donne verso il regime, che si manifestava con una certa frequenza soprattutto nelle zone rurali
nel corso delle manifestazioni popolari contro il carovita e la disoccupazione (Tranfaglia
1996:470-480).
8. Bio-politica e razzismo
Per Mussolini e il fascismo, il “discorso dell'Ascensione” non comportava solo un impegno
per l’incremento quantitativo della popolazione. Quel pronunciamento lasciava trasparire un
sostanziale accordo con le strategie scientifiche e politiche che chiedevano il miglioramento
qualitativo della popolazione, della stirpe, della razza. La radicalizzazione bio-politica dei regimi
totalitari, consentì l'iscrizione del discorso sulla razza e del razzismo, che già esisteva, all'interno
dei meccanismi dello stato, proprio perché il razzismo è, secondo Foucault, “il modo in cui,
nell'ambito di quella vita che il potere ha preso in gestione, viene introdotta una separazione,
quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire”. A partire dal continuum biologico della
specie umana, l'apparizione delle razze, la distinzione delle razze, la gerarchia delle razze, la
qualificazione di alcune razze come buone e di altre come inferiori costituirono “un modo per
frammentare il campo del biologico che il potere ha preso a carico, diventerà una maniera per
introdurre uno squilibrio tra i gruppi costituenti la popolazione” (Foucault 1990:166).
Il razzismo fascista portò alle estreme conseguenze il potenziale regolativo della bio-politica
applicandolo al disciplinamento del corpo sociale nazionale. Il processo in base al quale si
individuavano le razze e la loro gerarchia, venne mutuato in parte dalle tecniche con le quali si
isolavano i gruppi degenerati e pericolosi della popolazione. Con il razzismo fascista, le razze
inferiori, le classi pericolose, i gruppi devianti divennero i soggetti da sacrificare per la purezza
della razza superiore. Solo la segregazione dell'altro “degenerato”, “impuro”, “indisciplinato”
comportava il miglioramento e l'irrobustimento biologico e genetico dell'individuo-specie: meno
degenerati popolavano questo spazio biosociale, più vigorosa e prolifica diventava la razza.
A partire dalla conquista dell'Etiopia e con leggi razziali del 1938, la politica razziale si volse in
attività persecutoria, mentre l'interesse verso la categoria socio-biologica di razza italiana cresceva
rapidamente. Si opinava, sotto l’influenza del mendelismo, che la razza italiana avesse
discendenze genetiche rimaste immutate fin dai tempi dell’Impero romano. Il mendelismo e il
galtonismo vennero ritenuti una sicura conquista scientifica, poiché stabilivano l'immutabilità dei
caratteri genetici ereditati dai discendenti di un ceppo familiare, di una stirpe o di un cespite
razziale. La razza non poteva punto mutare, nemmeno nel contesto della lotta per l'esistenza:
essa doveva perdurare così come era stata creata, essa permaneva al di là del tempo.
L'eugenetica diveniva una potentissima arma di elevazione civile e di tirocinio imperialista. Nel
clima creato dal fascismo, con il rinnovato orgoglio di razza e con i doveri che quello
comportava, l’eugenetica era una “scienza feconda” che «può andare oggi tra il popolo e dare
anche essa il suo alto contributo per le nuove e sempre più valide vite attese dall'Italia imperiale»
(Businco 1938:37-39)11. L'associazione di eugenetica razziale e scienze della trasmissione
ereditaria dei caratteri risultava fondamentale proprio per dare un senso a questa grande
costruzione metafisica che stava diventando la razza. La conoscenza delle leggi che regolano la
trasmissione ereditaria dei caratteri diventava necessaria per poter comprendere l'origine e la
finalità del razzismo. Di conseguenza le caratteristiche psicologiche e somatiche di una razza
diventavano
«il retaggio di più o meno lontani progenitori, pervenuto ai discendenti attraverso l'eredità biologica. Il
raggiungimento delle finalità del razzismo, il potenziamento cioè e il miglioramento della razza è condizionato dalla
pratica applicazione delle leggi delle eredità» (Ricci 1938b: 16-17)12.
Il concetto di razza tese a spiegare ogni evento e fenomeno bio-sociale: si iniziò a mettere in
relazione, come da tempo affermavano i biotipologi costituzionalisti, l’attitudine verso
determinate malattie e la costituzione biologica della razza. Si sosteneva, per esempio, che se per
molte malattie infettive il fattore razza non era invocabile e per altre aveva solo un valore
relativo, tuttavia, per un gruppo non indifferente di infezioni la razza era con certezza da ritenersi
fattore di assoluta predisposizione o di immunità organica (Imbasciati 1939:16).
L'eugenetica razziale elaborata dagli eugenisti del regime prese in altri casi una interessante
connotazione geopolitica e imperiale. Plaudendo alla regolamentazione giuridica dei matrimoni
misti varata dal regime, Edmondo Vercellesi notava che «se i matrimoni tra italiani e stranieri non
venissero regolati da un sano criterio discriminante, si verificherebbero ben presto incroci
mostruosi, con conseguente imbastardimento ed impoverimento dell'elemento etnico indigeno».
Per tale motivo l'eugenetica familiare doveva garantire incroci appropriati e l’eugenetica razziale
l'eliminazione dei “genidi” estranei alla razza, precisando che andavano messi la bando gli incroci
con le “razze di colore” e con alcune razze ariane che “hanno subito una snaturalizzazione”
(Vercellesi 1939:12-13).
Conclusioni
Con questa rassegna sulle scienze sociali e sulle bio-politiche degli stati totalitari ho posto in
rilievo alcuni dei percorsi che condussero alla genesi del razzismo di stato durante il fascismo.
Esso fu l’esito dell’azione combinata di alcuni attori sociali: dei medici, degli igienisti, dei
sociologi, che si proposero come convinti e laboriosi artefici delle pratiche di profilassi sociale;
delle politiche statali decise da policy makers che reagivano alle pressioni e suggestioni delle
11 Allo stesso modo si esprimeva (Ricci 1939b:22-23).
12 Vedi anche (Franzì 1938: 29, Ricci 1939a: 29-31, Ricci 1938a:19, Franzì 1942).
corporazioni scientifiche, trovando in quei saperi gli strumenti e le tecniche per pianificare il
“sociale”; delle teorie, che al modo paretiano assumiano come agenti di ordine sociale, che
fornirono le argomentazioni per egemonizzare in senso razziale lo spazio pubblico dell’epoca.
Il fascismo riuscì, più dei governi che l’avevano preceduto, a cooperare con le scienze sociali
dell’epoca per costruire un modello di governo della scoietà. Il discorso scientifico sulla razza,
che condizionò fin dall’inizio le politiche sociali del fascismo, fino a trasformarle in politiche
razziali, venne costruendosi a partire dalle discipline che avevano trovato legittimità durante il
controverso periodo del dopoguerra, quando l’appello all’ordine sociale proveniente dalla
borghesia intellettuale si fece più forte e limpido. Non furono estranei a questa febbre igienista e
purificatrice nemmeno quegli intellettuali che si ritenevano socialmente schierati. Il tempo in cui
le scienze sociali trovarono ascolto alle loro porpensioni normative fu senz’altro quello del
fascismo. Si realizzò allora una convergenza unica tra politiche statali, scienze della soceità,
ideologie politiche, una convergenza che non trovò più un’unità di tal fatta.
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