RTF - Biblioteca Italiana per i Ciechi

Luglio-Settembre 2007 n. 3
Anno XXI
Quaderni di Minimondo
Rivista culturale Braille
Periodico trimestrale
Fascicolo I
Direzione Redazione Amministrazione
Biblioteca Italiana per i Ciechi
20052 Monza - Casella postale 285
c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71
e-mail: [email protected]
Dir. Resp. Pietro Piscitelli
Comitato di redazione:
Massimiliano Cattani,
Antonietta Fiore,
Ilaria De Cristofaro
Pietro Piscitelli (Responsabile)
Copia in omaggio
Stampato in Braille
a cura della
Biblioteca Italiana per i Ciechi
via G. Ferrari, 5/a
20052 Monza
Sommario
Peter Mathias:
Europa: idea e realtà attraverso i secoli
(«Prometeo» n. 98/07)
Giuseppe O. Longo:
Sorella acqua: l'oro azzurro
(«Prometeo» n. 98/07)
Marco Cadioli:
Second Life, per rifarsi una vita (digitale)
(«Vita e Pensiero» n.2/07)
Stefano Cagliano,
Mauro Miselli:
Il danno da farmaci
(«Le Scienze» n. 467/07)
Nicoletta Beschin,
Sergio Della Sala:
Sembra lei ma non è lei
(«Psicologia contemporanea» n. 202/07)
Edoardo Patriarca:
Scoutismo: cent'anni ma non li dimostra
(«Vita e Pensiero» n. 3/07)
Gian Piero Brunetta:
Quando l'auto va al cinema
(«Prometeo» n. 96/06)
Andrea Semplici:
Il Cile di Neruda
(«Tutto Turismo» n. 337/07)
Massimo Romano:
Elsa Morante: l'ultima romantica regina del
romanzo
(«Letture» n. 631/06)
Europa: idea e realtà attraverso i secoli
- La locomotiva di Bruxelles ha subito una
brusca frenata o compiuto un'inversione di
marcia? Non esiste dell'Europa una definizione
concettualmente condivisa quale entità
universale e immutabile, da poter esplorare
attraverso lo studio della sua storia passata
o recente. Tanto meno è possibile ipotizzare
al riguardo una «teleologia», ossia presumere
che la narrazione del progressivo manifestarsi
attraverso il tempo di un'identità unificante,
di una sorta di «europeizzazione», possa di
per sé farsi storia. Le interpretazioni di un
concetto così generico vanno infatti mutando
con il passare del tempo, a seconda delle
circostanze e delle percezioni degli eventi,
nonché di preconcetti, speranze e timori di
coloro che queste interpretazioni hanno
elaborato. La maggior parte delle definizioni
dell'identità europea viene in realtà
formulata avendo in mente particolari
obiettivi. È dunque preferibile limitarsi a
tracciare la realtà storica dell'Europa nella
sua complessità, piuttosto che cercare di
individuarne un'identità concettuale
universale - anche se così facendo non è
possibile evitare problemi di tipo pregiudiziale. L'«idea di Europa» resta, in
definitiva, una costruzione intellettuale.
I problemi che oggi ci troviamo a affrontare
a proposito dell'Europa abbracciano un insieme
di memorie e percezioni del passato, oggi
riesumate per influenzare non solo le nostre
opinioni sul presente ma anche le speranze e
le apprensioni che nutriamo sul futuro del
continente. La storia, è stato detto, non si
limita mai al solo passato: essa riflette
anche la consapevolezza che dei problemi
abbiamo noi contemporanei.
Se dalle prime indagini sull'esistenza di
un'identità europea sino ai giorni nostri si è
ritenuto importante stabilire una definizione
spaziale e territoriale, è altrettanto vero
che il solo determinismo geografico non è mai
stato ritenuto adeguato a rispondere a questa
esigenza. In termini spaziali, Erodoto e
Strabone avevano identificato nell'Antica
Grecia anche l'Asia, l'Africa e l'Europa (la
cosiddetta terra degli ellenici). Come spesso
accade, a questa integrazione si era giunti
anche grazie ad alcune antitesi: greci contro
barbari, la vita civile regolata dalla legge
nelle città, contro il potere esercitato con
l'arbitrio personale. In un'identità culturale
definita con il termine di «grecità», s'erano
andati associando al criterio di spazio altri
significati. Infatti, perché i vari aspetti
della realtà (politico, legislativo,
culturale) potessero esprimersi, occorreva
abbracciare un'area territoriale ampiamente
circoscritta.
Questa tendenza trovò una conferma in
termini ancor più formali nell'Impero Romano,
i cui confini, pur mutevoli nel tempo e
contesi alle frontiere, erano tali da poter
essere tracciati su una carta geografica.
L'autorità militare dei romani, come quella
politica, legislativa e amministrativa, nonché
la stessa cultura, mantennero così nell'Impero
una propria identità territoriale e geografica
ben definita. Il lascito storico di Roma,
ereditato successivamente dall'Europa, si
basava tuttavia, più che sull'estensione
geografica dell'Impero, sui suoi contenuti
reali. I criteri informatori erano infatti la
pace interna (garantita dalle «legioni») e
un'attività di governo conforme a determinati
codici e procedure di legge; un concetto
effettivo della cittadinanza e un potere
politico circoscritto all'ambito dell'autorità
costituzionale; un potere esecutivo esercitato
mediante un sistema giuridico e
amministrativo, e una legge a difesa del
diritto alla proprietà privata (compreso il
possesso di schiavi); una lingua comune e
riferimenti culturali condivisi.
Nonostante la realtà costringesse a
compromessi questo ideale, vennero stabilite
norme tali da contribuire a orientare le
successive aspirazioni europee verso leggi
codificate, nella lingua e nella cultura
latina, mediando i retaggi della Grecia. Su
tutti questi versanti, Roma fu assai più che
un'espressione meramente geografica. E la sua
civiltà si esprimeva anche per antitesi: essa
risiedeva nell'ambito dell'Impero e, al di là
di esso, vi era la barbarie, con le sue tribù
ostili e aliene.
Questa identificazione dell'Europa per
antitesi si protrasse nel millennio successivo
alla caduta dell'Impero romano, ma in base a
criteri diversi. I suoi confini erano ora
quelli del mondo cristiano medievale, ma di
una cristianità segnata da profonde
restrizioni. L'Europa era sulla difensiva,
all'erta contro un risorgente Islam e le
incursioni di tartari e mongoli. Alla
conquista di gran parte della Penisola iberica
era seguita infatti la sconfitta dei Balcani e
dell'Europa sud-orientale, culminata nella
resa di Costantinopoli nel 1453. I mori, i
mamelucchi, gli ottomani e i turchi
incalzavano alle porte dell'Europa cristiana
(nonostante la breve ripresa delle crociate e
la nascita del Regno latino di Gerusalemme).
Nel XVII secolo gli ottomani occuparono
temporaneamente l'Ungheria e avanzarono fino
alle porte di Vienna, estendendo da oriente la
loro sfida, anche se Spagna e Portogallo
furono poi riconquistati alla cristianità
prima del 1500.
L'autoidentificazione che il mondo cristiano
si attribuì, sotto il papato, come
cattolicesimo europeo occidentale, risale
quantomeno alla scomunica formale inflitta da
Roma alla Chiesa orientale nel 1054. Le chiese
greco-ortodosse e quelle russo-ortodosse, come
pure molte altre comunità cristiane,
rimanevano sempre «oltre il confine», e questa
autolimitazione conferiva maggiore coerenza al
diffondersi di un'ortodossia cristiana in
ambito religioso e nell'azione di controllo
amministrativo da parte della Chiesa di Roma,
che raggiungevano gli ordini monastici e
militari esterni alla gerarchia ecclesiastica
mediante un'intensa divulgazione culturale e
artistica. Senza mai arrivare, però, a
esprimersi unitariamente sul piano militare.
Tutto ciò (malgrado eresie, scismi, complotti
antipapisti e conflitti micidiali, protrattisi
fino alla Riforma) dava sostanza a quella
identità concettuale di Europa di cui tuttora
permane l'eco. L'attuale richiesta della
Turchia di entrare nell'Unione europea, per
esempio, ha fatto riaffiorare, fra quanti si
oppongono a questo ingresso, l'idea di
un'Europa concepita come un «club cristiano».
Se nell'Europa occidentale la retorica
cristiana demonizzava l'Islam e «i Turchi» in
termini religiosi, tradotti successivamente in
antitesi politiche e costituzionali (quali
«tirannia alla turca» e simili), nella realtà
esisteva invece da entrambe le parti in queste
relazioni una grande tolleranza. La Sicilia
del XII secolo, Granada, il Levante, città
come Salonicco e Istanbul, mantennero legami
commerciali con l'Occidente e videro lo
sviluppo di fiorenti insediamenti di minoranze
ebree, cristiane e armene. Fu anche possibile
uno scambio reciproco di conoscenze
tecnologiche. È vero che, sull'incerto solco
dei confini razziali e religiosi, fino al XX
secolo non mancarono guerre, vampate di
violenza e sporadici massacri, ma forse non in
misura maggiore di quanto è avvenuto in
occasione dei terribili conflitti scoppiati
all'interno del mondo cristiano.
Il XVI secolo confermò alcuni dei segnali
premonitori che mostravano un'Europa non più
sulla difensiva ma in progressivo slancio
espansivo. Già da tempo le potenze marittime
nord-occidentali avevano accompagnato il
fenomeno delle esplorazioni mondiali con
l'impiego di navi transoceaniche. Le teste di
ponte coloniali, con i loro lucrosi commerci e
saccheggi, si andavano consolidando in America
centrale, in Sud America, nei Caraibi,
nell'America del Nord, in India e nell'Asia
sud-orientale. L'elevato potenziale di navi e
armamenti pesanti, unitamente alle
infrastrutture commerciali e marittime, aprì
all'Europa la strada degli scambi
internazionali.
Il termine «Europa» stava anche cominciando
a essere identificato con le connotazioni
integrate (o quantomeno interrelate) di tipo
intellettuale, culturale, urbanistico,
economico e politico, sottese ai progressi
concreti conseguiti. Si andava sviluppando un
sapere scientifico secolarizzato con una
«cultura della scienza» diffusa in risposta a
una curiosità dell'intelletto, spesso
finalizzata (almeno nelle intenzioni, se non
nei risultati) al conseguimento di vantaggi
economici o di un maggiore potere dello Stato.
L'obiettivo era quello di esplorare la natura
e, alla luce delle nuove conoscenze, portarla
progressivamente sotto il controllo dell'uomo,
mentre le parole chiave di questo processo
erano «un sapere utile» e un crescente
«miglioramento». Benché all'interno
dell'Europa esistessero forti differenziazioni
a livello sia regionale che nazionale, intorno
a tutto quanto veniva definito tipicamente
«europeo» andava emergendo agli inizi dell'era
moderna un certo consenso, e in special modo
agli occhi di osservatori esterni. L'Europa
illuministica divenne, in termini ideali,
l'erede secolarizzata del cristianesimo
medievale. L'Illuminismo produsse infatti una
comunanza di costumi civili, una regolare
salvaguardia delle persone e dei beni sotto
l'egida della legge, un sistema politico
soddisfacente (pur ampiamente diversificato
fra paese e paese), un'elevata percentuale di
aspirazioni culturali e intellettuali comuni
di ampio respiro. Gli studi scientifici e
matematici, per esempio, non limitavano la
ricerca alle frontiere nazionali. Inoltre,
erano stati stabiliti alcuni limiti all'uso
selvaggio della guerra mediante un complesso
di apposite regole riguardanti il trattamento
dei nemici sconfitti, catturati e fatti
prigionieri, benché queste restrizioni
riguardassero unicamente i militari europei e
quelli di altri paesi «civilizzati», com'erano
considerati i territori nordamericani
colonizzati dalle potenze europee. Gli europei
erano profondamente consapevoli di appartenere
a una siffatta comunità culturale e convinti
che, oltre i loro confini occidentali,
prevalesse il «dispotismo orientale», la
barbarie non cristiana e i più disparati
esempi d'inciviltà.
Tutto ciò era comunque ben lontano dal dare
adito a un «concerto europeo» o a
un'unificazione politica, se non con la
conquista territoriale. Gli Stati avevano
rapporti reciproci di competizione, di
antagonismo, di conflittualità dinastica, di
bellicosa aggressività. Pochi furono gli anni,
fra XVII e XVIII secolo, che videro un'Europa
senza guerre, e il fattore di divisione
prevalente non fu la religione. Al centro di
questa dinamica dell'Europa occidentale vi era
l'evoluzione di veri e propri Stati-nazione
grazie a procedure amministrative più
efficienti in grado di mobilitare, in misura
crescente e inedita, maggiori risorse mediante
tassazioni e prestiti finalizzati in
particolare a commesse militari e navali.
Nel XVIII secolo, a una sequela di guerre
fecero seguito in Europa i grandiosi progetti
di conquista di Napoleone miranti a instaurare
regimi dinastici, assoggettati e subordinati
alla Francia post-rivoluzionaria, che
inglobassero nei propri codici giuridici e
amministrativi gran parte delle innovazioni
introdotte in Francia nel periodo successivo
all'Ancien règime. Questo determinò nelle
strutture politiche europee un'alterazione
profonda e di lunga durata in funzione degli
interessi egemonici francesi. Si potrebbe
interpretare tutto ciò come il tentativo di
conseguire, sulla scorta delle vittorie
militari, un'unità europea attraverso l'uso
della forza. Ma sarebbe fantasioso vedere in
questo disegno un'analogia, pur in termini di
maggiore civiltà, con il progetto tedesco,
assai più ferocemente funzionale agli
interessi del regime nazista, di un «nuovo
ordine» nell'Europa continentale conquistata
fra il 1941 e il 1945.
Come reazione al proliferare fra il 1792 e
il 1915 di massacri e distruzioni senza
precedenti (le cui ripercussioni dall'interno
del continente si erano propagate ovunque nel
mondo vi fosse stata una penetrazione delle
potenze europee), presero il via alcune
iniziative di cooperazione. La Quadruplice
Alleanza, stipulata fra i principali Stati
usciti vincitori dal Congresso di Vienna del
1815, fu sostanzialmente una coalizione
antifrancese creata non solo per contrastare
qualsiasi tentativo della Francia di
riproporsi come nazione egemone in Europa, ma
anche per assicurare la stabilità e
ripristinare la legittimazione delle monarchie
tradizionali, se non addirittura per
resuscitare l'Ancien règime. Non si trattò
beninteso del prototipo di una federazione
generale europea, ma sta di fatto che da
allora ogni evento bellico catastrofico
avrebbe richiamato, in varie forme, una
visione unitaria dell'Europa. E ciò,
naturalmente, in particolare dopo il 1945.
Nel 1795 questa idea trovò un'espressione
filosofica significativa nel saggio di
Immanuel Kant dal titolo Per la pace perpetua
- visione illuministica dell'«universalismo».
Kant proponeva una federazione europea di
Stati sovrani accomunati da questo obiettivo,
resa possibile dall'accettazione congiunta dei
precetti culturali dell'Illuminismo, fra i
quali l'esplicito riconoscimento
dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge, alcune forme di governo rappresentativo
e la separazione fra potere legislativo e
potere esecutivo. I cittadini di un paese
avrebbero dovuto essere accettati in un altro
nel rispetto dei costumi locali, con spirito
di «ospitalità universale» e grazie a
reciproci rapporti commerciali. Inoltre,
questa federazione di stati europei avrebbe
dovuto preludere a un generale processo
federativo basato sul perseguimento della
«pace perpetua». Quest'idea di cooperazione
europea ricevette nuovo impulso all'indomani
dei più gravi conflitti del XIX secolo e, in
misura ancora maggiore, in seguito alle due
più grandi catastrofi del XX, la prima e la
seconda guerra mondiale, riuscendo finalmente
a prendere corpo nella creazione di nuove
istituzioni europee, mentre organizzazioni
internazionali più allargate, come l'Onu,
andavano assumendo un ruolo sempre più
centrale sia in tempo di guerra che in tempo
di pace. Tutto ciò ha trovato ampio riscontro
nelle richieste, recentemente avanzate e
ancora in corso di accoglimento, da parte di
alcune nazioni che ambiscono a far parte
dell'Unione europea.
Fu nel XIX secolo che il processo di
europeizzazione raggiunse il suo apice,
rasentando l'egemonia globale. Fu allora che
l'identità europea in campo scientifico,
industriale, tecnologico e culturale, già in
fieri nell'Illuminismo, si diffuse oltreoceano
grazie a una supremazia non solo navale,
militare e dei trasporti, ma anche
affaristica, commerciale e finanziaria. Una
massiccia emigrazione raggiunse dall'Europa
gli Stati Uniti e le regioni d'«insediamento
bianco», mentre una colonizzazione formale e
un dominio informale, consolidavano la
presenza europea nel mondo in una misura senza
precedenti. Agli occhi dei non europei e del
mondo non occidentale, «l'europeizzazione»
assunse, grazie a questa egemonia, una
peculiare identità che, come spesso accade, si
tradusse in una questione di immagine e
contro-immagine. Si è trattato, senza dubbio,
sia di apparenza che di realtà, ossia di
materia da cartoni animati e caricature che,
però, continuano ad avere una certa diffusione
solo in quanto portatori di una qualche
credibilità. Le principali potenze europee di
livello internazionale - Gran Bretagna,
Francia, Germania, Olanda, Belgio, Danimarca,
Italia - diffondevano all'estero ciascuna la
propria immagine, ma vi era comunque fra loro
un elemento comune, più alto di quello
dell'identità europea.
Altrettanto si è verificato per quanto
riguarda gli europei e la loro presunzione di
potere e di superiorità, caratterizzata, come
molti stereotipi, da grossolanità e
superficialità: bianchi contro neri, occhi
tondi contro occhi a mandorla, Ovest contro
Est, barbari contro civilizzati (laddove gli
europei erano visti come barbari dai cinesi, e
viceversa); e poi, ancora, l'antitesi fra
razionalità e superstizione, autorità e
sottomissione, oppressori e oppressi, onesta
amministrazione e avidità e corruzione.
L'elenco potrebbe continuare all'infinito. I
simboli di un imperialismo formale e culturale
si manifestavano in occasione di cerimonie
pubbliche, nelle parate militari,
nell'attribuzione delle onorificenze, nelle
uniformi (non solo nelle divise militari, ma
anche nell'abbigliamento di corte, in quello
diplomatico o di altri gruppi), come pure
negli inni nazionali, nelle bandiere e in
tutti gli emblemi dell'autorità sia sul
continente che nelle colonie. A rafforzare il
distacco e l'identità degli europei in
contesti non europei (su richiesta, talvolta,
proprio dei paesi ospitanti) erano gli abiti,
i cibi, gli stili di vita, l'uso di residenze
signorili e la distanza culturale.
Uno dei simboli del fronte antieuropeo
avverso a questa cultura, e motivo di
ricorrenti contrasti, fu la pretesa da parte
della Cina che ogni straniero in visita
facesse il tradizionale inchino all'imperatore
(kow-tow). A questa richiesta si affiancarono,
in altri paesi non coloniali (quali il
Giappone, la Thailandia, il Brunei, gli imperi
mediorientali), analoghe pretese di rituali di
sottomissione altrettanto formali imposti agli
europei, ai quali i veri detentori del potere
facevano finta di assoggettarsi. Solo il
Giappone, dopo la restaurazione del potere
imperiale con il «rinnovamento Meiji» del
1868, utilizzò l'esperienza europea facendo
propri molti aspetti dell'«europeizzazione»
(in particolare quelli tecnologici) per
conseguire una modernizzazione che, soggetta
all'autorità del potere politico, mantenesse
tuttavia ben salda la cultura tradizionale:
una dicotomia avvertita ancora oggi da chi
dall'Europa, o dai paesi occidentali in
genere, si reca in Giappone.
Agli atteggiamenti occidentali di presunta
superiorità vennero ad aggiungersi quelli di
benevola condiscendenza nei riguardi delle
culture non occidentali, originati dalla
convinzione che, debitamente educati e
«illuminati», i cittadini non europei
avrebbero aspirato ai valori, sia culturali
che economici e scientifici, dell'Europa
occidentale. Ma gli europei andavano
instaurando in quei paesi anche gli
ordinamenti politici vigenti nel proprio
continente, che tracciavano per il futuro un
percorso ben diverso. Alla lunga, l'influenza
europea avrebbe avuto come conseguenza non
solo la rivendicazione di decolonizzazione e
indipendenza ma anche l'approdo
all'imperialismo.
Non si può comprendere pienamente la
rigenerazione dell'Europa e l'evoluzione di
una sua nuova, o rediviva, identità dopo il
1945 se non si è consapevoli dei traumi
provocati dai due conflitti mondiali e, nel
periodo fra le due guerre, dal sistematico
logorio subito non solo dall'economia di base
e dalle istituzioni politiche, ma anche dai
processi che fino alla prima guerra mondiale
avevano accompagnato lo sviluppo dei paesi
europei e della comunità internazionale.
Questi eventi traumatici del XX secolo hanno
dominato in Europa la coscienza dei cittadini,
che a milioni ne hanno sofferto le
conseguenze, non meno che dei leader di tutti
gli schieramenti politici.
La democrazia costituzionale rimase salda in
Gran Bretagna e in Scandinavia, ma nel resto
d'Europa la depressione nel periodo fra i due
conflitti, contrassegnata da una
disoccupazione dilagante, e le guerre, con
eccidi di massa, distruzioni, sradicamento e
abbrutimento di intere popolazioni, misero in
grave crisi sia la democrazia che il
capitalismo.
Non vi è in questa sede spazio sufficiente
per illustrare nei dettagli questo scenario,
né per prendere in esame la lunga e faticosa
ripresa dell'Europa che, negli anni successivi
al 1950, riuscì a ridurre la disoccupazione
sino a un quarto della media registrata negli
anni fra le due guerre e a incrementare il
tasso di crescita fino a raggiungere (dal
dopoguerra fino al 1973) un livello quattro
volte superiore rispetto allo stesso periodo.
A salvare l'Europa fu dunque un capitalismo
rigenerato, con iniziative statali efficaci
mirate allo sviluppo economico e provvedimenti
di natura sociale, mentre anche la democrazia,
salva, tornava a nuova vita, come elemento
integrante della prosperità economica e
finanziaria. Questo processo era anche
strettamente connesso alla «guerra fredda» e
alle politiche antisovietiche, nonché alla
presenza americana in Europa. Gli Stati Uniti
facevano infatti pressione perché, a sostegno
dei loro interessi strategici nell'economia
mondiale e del sistema multilaterale, si
giungesse all'unificazione in una Comunità
economica europea dell'Europa occidentale, nei
cui paesi risultava ormai inaccettabile, agli
schieramenti sia di destra che di sinistra,
l'idea di un socialismo di Stato, come pure
quella di un'economia statalista gestita sotto
l'egida di una qualsivoglia ideologia
politica. A determinare i parametri della
politica erano ora, oltre alle libertà vigenti
in tutti i sistemi democratici costituzionali,
la crescita dell'economia, una «piena»
occupazione, salari alti, politiche di welfare
e i vantaggi materiali di un nuovo
«consumismo».
L'«idea di Europa», l'«identità concettuale
di Europa», ossia di ciò che l'Europa
significa sia per se stessa che per coloro che
ne sono fuori, è andata ampiamente
manifestandosi nel corso dell'evoluzione che
la CEE, definita successivamente Unione
europea, ha subito a partire dal suo battesimo
siglato con i trattati di Roma del 1957.
Questo processo, nel conferire all'entità
Europa una struttura istituzionale e una sua
specificità politica e legislativa, porta con
sé anche profonde implicazioni di natura
culturale. Tutto ciò risulta particolarmente
evidente nell'insieme di condizioni cui devono
sottostare i paesi che chiedono di farne
parte. Tuttavia, nonostante le notevoli
diversità esistenti fra i membri della UE (non
ultime quelle culturali, sia fra nazioni che
rispetto all'evolversi delle varie realtà
regionali all'interno dei singoli Stati
nazionali), questa nuova identità ha conferito
al concetto di Europa e alle sue
manifestazioni concrete un «minimo comun
denominatore».
Ma all'evoluzione di questa «nuova» Europa
si sovrappone una densa «cortina» storica: nei
dibattiti sull'attuale identità dell'Europa
riaffiorano molti dei temi già trattati in
passato sulla base di vari e reiterati criteri
utilizzati per definire un'identità europea
attraverso i secoli.
Esiste dunque un'identità «spaziale» o
geografica? Un punto limite delle frontiere
oltre il quale non è più credibile l'idea di
un'identità europea specifica? E, in
particolare, dove si situano i confini
orientali dell'Europa? Come sempre avviene,
questo criterio spaziale comporta una serie di
connotazioni non solo economiche e politiche
ma anche strategico-militari e culturali.
C'è inoltre da chiedersi se l'idea di Europa
non implichi, come già nel Medioevo, anche una
dimensione religiosa. Si tratta di un tema,
riemerso in occasione della richiesta di
ammissione alla UE da parte della Turchia,
particolarmente sentito da coloro che a questa
ipotesi si oppongono con motivazioni diverse,
fra le quali quella religiosa è, in molti
casi, solo una «copertura», avvalorata
tuttavia dall'attuale situazione di
reviviscenza del radicalismo islamico. Alla
motivazione religiosa si accompagnano infatti,
nei paesi della UE, sia il timore di
incursioni di manodopera a basso costo (su
scala verosimilmente assai più elevata
rispetto all'attuale tasso d'immigrazione di
lavoratori turchi) che l'avversione verso un
sistema politico e giudiziario antidemocratico
come quello turco, pur avviato a un processo
di riforma. Nei paesi europei alcuni esponenti
conservatori ritengono comunque che l'Europa
sia un «club cristiano» e che tale debba
restare.
Queste definizioni concettuali - vale a dire
i criteri di che cosa sia «europeo» - si
attagliavano, e sono per certi versi ancora
attinenti, al caso della Russia. Nel Medioevo
la Chiesa russo-ortodossa, come pure quella
greco-ortodossa e altre, non fu mai accettata
nell'ambito della cristianità occidentale,
quando a garantire la coerenza necessaria a
un'identità europea era il cattolicesimo
romano sotto l'egida del Papato. Questa
alienazione dal processo di «europeizzazione»
si andò rafforzando con l'isolamento secolare
della Russia in un sistema culturale e
politico che, malgrado gli sforzi di
occidentalizzazione compiuti da Pietro il
Grande e dai suoi successori, era del tutto
estraneo ai valori vigenti nei paesi
dell'Europa occidentale.
Malgrado nel XIX secolo si fossero
intensificate le relazioni fra nobili e fra
borghesi europei, questa esclusione della
Russia dall'identità concettuale di Europa
trovò definitiva conferma nel regime sovietico
instauratosi dopo il 1917 e, dal 1945, nella
creazione di un blocco di Stati satelliti
nell'Europa dell'Est. Questi eventi
determinarono il tracciato di quella linea di
frontiera che fino al 1989 avrebbe
attraversato i confini orientali dell'Europa e
la cui fisionomia fu espressione non solo dei
sistemi politici, amministrativi, economici e
finanziari dei paesi dell'Est, ma soprattutto
dell'assetto strategico e militare di questo
blocco. La particolare contrapposizione
globale venutasi così a creare con l'emergere
di un ruolo egemone degli Stati Uniti, come
bastione ideologico e di potere contro
l'Unione sovietica, fece sì che l'idea di
un'identità europea venisse assorbita
nell'identità stessa di «Occidente».
Le pregiudiziali antirusse attribuite allora
a un'«Europa occidentale» sono state in
seguito prontamente raccolte dai paesi
dell'Europa centrale ex satelliti del regime
sovietico (dalla Cecoslovacchia alla Polonia,
dall'Ungheria ai tre Stati baltici, fino ai
Balcani), la cui pressante esigenza di essere
identificati con l'«Europa» (l'Europa
occidentale) si è tradotta nel tentativo di
spostarne i confini verso Est. L'entrata nel
novero dei membri dell'Unione europea è oggi
sancita dall'appartenenza a essa o, quanto
meno, dalla presentazione di formale richiesta
d'ingresso, fermi restando tutti i requisiti
che questa identità comporta: forma stabile di
governo democratico e costituzionale,
ordinamento giuridico, rispetto della libertà
religiosa, dei diritti umani e delle
minoranze, capacità amministrativa e
giudiziaria tale da garantire non solo
l'osservanza delle leggi della UE, ma anche
un'efficiente economia di mercato e la piena
accettazione delle norme che nell'Unione
europea disciplinano le politiche economiche e
finanziarie (attraverso i limiti stabiliti in
materia di deficit di bilancio e di regime
fiscale degli Stati membri, il cui debito
pubblico non dovrebbe superare il 3 per cento
del prodotto interno lordo), nonché, almeno in
via di principio, l'impegno a entrare dopo un
periodo di transizione nell'area dell'euro. La
UE, pur lasciando irrisolti altri problemi, ha
reso così più specifici i presupposti che, in
termini generici, erano rimasti sullo sfondo
nell'evoluzione attraverso i secoli del
concetto d'identità dell'Europa.
Dopo i referendum che in Francia e in Olanda
hanno sancito nel 2005 il rifiuto del progetto
di una Costituzione europea, e in seguito alla
difficoltà per i paesi membri di rispettare le
norme che regolano l'area dell'euro in materia
finanziaria, e ai dubbi ricorrenti circa un
ulteriore allargamento (in particolare per
quanto riguarda la Turchia), il futuro europeo
appare tuttora piuttosto oscuro.
La progressiva marcia d'avvicinamento
all'integrazione e al federalismo si è
arrestata di fronte alla proposta (dall'esito
al momento incerto) di creare un vero e
proprio mercato comune in materia finanziaria
e dei servizi. Se in passato era largamente
diffusa l'opinione che vi sarebbe stata una
crescente accelerazione nel processo
d'integrazione, che si pensava recasse in sé
un'intrinseca spinta in avanti, oggi sembra
piuttosto che si tratti di un itinerario di
lungo periodo. Per ora ci siamo resi conto che
la locomotiva di Bruxelles alla testa del
processo d'integrazione ha subito una brusca
frenata, ma è ancora da verificare se non
abbia addirittura compiuto un'inversione di
marcia.
Peter Mathias
(«Prometeo» n. 98/07)
Sorella acqua: l'oro azzurro
- La carenza idrica della Terra sta
diventando una sfida da affrontare, che
implica una vera rivoluzione culturale nei
paesi ricchi. Fate in modo che non una sola goccia d'acqua
caduta sulla terra raggiunga il mare senza
essere stata utile all'uomo.
Parakkama-Bahu I, 1180
L'acqua è un elemento psichico,
un elemento che raccoglie le immagini
dei nostri sogni e pensieri:
un elemento che regna nel nostro conscio
come nel nostro inconscio:
un elemento che amiamo in noi e fuori di noi,
una bevanda e un filtro, una realtà e una
potenza.
Gaston Bachelard, 1942
Il consumo d'acqua dolce si è sestuplicato
tra il 1900 e il 1995, superando del doppio il
ritmo di crescita della popolazione. Circa un
terzo della popolazione mondiale già vive in
Paesi considerati a emergenza idrica (questo
accade quando il consumo supera del 10% il
totale dell'offerta). Se questa tendenza
dovesse continuare, nel 2025 i 2/3 della
popolazione mondiale vivranno in queste
condizioni.
Kofi Annan, 2000
Introduzione
L'acqua non è solo un composto chimico, è
anche il fondamento della vita. Tale è la sua
importanza, che essa è diventata un concetto
filosofico importantissimo, ma prim'ancora è
stata considerata una divinità ancestrale e
proteiforme e ha costituito il tema di
leggende, di poemi e di miti. Gli antichi
mitografi greci avevano attribuito la nascita
della terra agli amplessi di Oceano e Teti,
due divinità marine. E si pensi poi alle
leggende del diluvio, presenti in moltissime
culture e risalenti con ogni probabilità a
spaventosi episodi preistorici di piogge
torrenziali e alluvioni.
Talete di Mileto, il primo dei filosofi
presocratici, impressionato dalla mutevolezza
e dall'inquieto divenire dell'acqua, la elesse
a metafora del destino umano e la considerò
principio e origine di tutte le cose.
Empedocle considerava l'acqua, il fuoco,
l'etere e la terra gli elementi costitutivi
della realtà e attribuiva la molteplicità
delle forme e la varietà delle sostanze che
vediamo intorno a noi alle diverse proporzioni
in cui erano mescolate quelle radici prime.
Del resto, più in generale, la mitologia e la
filosofia greche, come tutta quella splendida
civiltà, potevano nascere solo in una terra
circondata, lambita e interpenetrata dal mare:
basti pensare all'emblematica figura di
Ulisse, un isolano che peregrina per anni sul
mare, approdando a svariate terre equoree e
perdendosi infine, secondo la leggenda ripresa
da Dante, tra i flutti dell'oceano.
Non è questo il luogo per inseguire ed
elencare le innumerevoli apparizioni
dell'acqua nei territori del simbolismo, della
medicina, della psicologia (Gustav Jung la
considerava il simbolo più corrente
dell'inconscio), della religione (si pensi
solo ai bagni rituali di purificazione e
all'acqua lustrale del battesimo) o dell'arte.
Per i poeti e gli scrittori di tutti i tempi,
da Omero a Coleridge, da Melville a
D'Annunzio, da Poe a Verne, l'acqua è stata
fonte di ispirazione, sfondo di avventure,
destino e morte, follia e benedizione. La lode
più semplice e pura dell'acqua la dobbiamo a
san Francesco: «Laudato sì, mi Signore, per
sor'Acqua, la quale è multo utile et humile et
pretiosa et casta».
Utile certo, anzi indispensabile, perché la
vita - ci dicono gli studiosi - venne
strisciando dal mare sulla terra e i viventi,
piante e animali, sono veri e propri serbatoi
d'acqua: l'uomo è acqua per il 70% del peso.
Senz'acqua si muore e la prima minaccia che
dovettero affrontare gli organismi viventi
usciti dai mari e dalle lagune non fu il
diluvio, bensì il prosciugamento. Tanto utile
è l'acqua che le prime civiltà si svilupparono
sulle rive frastagliate dei mari ricchi di
isole e lungo i fiumi: difficile spostarsi per
via di terra, quanto agevole navigare. Per non
parlare degli usi agricoli e igienici, della
forza motrice regalata dai corsi d'acqua agli
opifici e via enumerando.
Humile, l'acqua, perché la sua presenza è di
solito discreta e silenziosa e, soprattutto,
perché diamo per scontato che sia al nostro
servizio, come l'aria che respiriamo e la
terra che calchiamo. A lungo, nel computo dei
bilanci industriali, l'acqua come l'aria sono
state considerate beni esterni, forniti
gratuitamente dalla natura insieme con la
licenza di inquinarle. Solo oggi si comincia
ad attribuire loro un valore economico di
scambio e non solo d'uso.
Pretiosa, l'acqua, come ci accorgiamo ora
che comincia a scarseggiare anche in Paesi
dov'era abbondante, tanto da obbligarci a
considerare, in un futuro più o meno prossimo,
scenari drammatici come quello del film 2022:
i sopravvissuti. In un mondo surriscaldato,
affollatissimo (New York è un formicaio di 40
milioni di abitanti), super inquinato e
afflitto da una gravissima insufficienza
idrica, la popolazione viene sfamata con
tavolette di Soylent Green, una sostanza
ottenuta riciclando i cadaveri. Mentre però
questa orribile verità cannibalica è ignorata
dalla massa, la mancanza d'acqua esercita su
tutti i suoi perversi effetti quotidiani,
tanto che quando il protagonista,
l'investigatore Robert Thorn (Charlton
Heston), penetrato nella lussuosa abitazione
di un ricco produttore di Soylent, riesce a
farsi una doccia lunga e ruscellante, anche
gli spettatori si sentono rinascere. È un
film, d'accordo, ma che la nostra situazione
idrica si stia deteriorando in fretta è sotto
gli occhi di tutti. Ad aggravare le cose ci si
mettono il clima, via via più arido e caldo, e
l'inquinamento, che sta uccidendo fiumi e
laghi un tempo purissimi: l'acqua è sempre
meno casta.
Alcune cifre
L'acqua non si trova solo sul nostro
pianeta: è stata riscontrata nelle nubi
interstellari della nostra galassia, la Via
Lattea, e, vista l'abbondanza dei suoi
elementi costitutivi, ossigeno e idrogeno, si
presume che sia presente anche in altre
galassie. L'acqua si trova nelle comete e, nel
nostro sistema solare, è stata scoperta sulla
Luna, sui pianeti Mercurio, Marte, Nettuno e
Plutone e sui satelliti Europa, di Giove, e
Tritone, di Nettuno. Recentissima è poi la
notizia che potrebbe trovarsi anche sul
pianeta extrasolare HD 209458b, come indicano
le osservazioni consentite dal telescopio
spaziale Hubble. Ma, su scala cosmica, l'acqua
è in complesso assai più rara dell'oro.
Per quanto ne sappiamo, tuttavia, la vera
cisterna, il vero pozzo, la vera fonte
dell'acqua, è il nostro bellissimo pianeta.
Vista dallo spazio, la terra appare azzurra
per l'effetto combinato dei mari e dell'aria.
Di acqua sulla terra ce n'è tanta, ma è quasi
tutta salata. Ecco alcune cifre: sulla terra
ci sono 1400 milioni di km cubi d'acqua. Per
il 97,5% è acqua di mare, salata.
Le acque dolci sono 35 milioni di km cubi,
cioè il 2,5% del totale. Quasi il 70% delle
acque dolci è imprigionato nei ghiacci polari
e montani e il 30% è contenuto nelle falde
sotterranee. Solo lo 0,3% si trova in
superficie (fiumi e laghi). L'acqua dolce
sfruttabile ammonta a 200.000 km cubi, pari a
circa lo 0,014% di tutta l'acqua della terra.
La disponibilità annua varia intorno ai 1214.000 chilometri cubi.
L'acqua sotterranea rappresenta più del 90%
dell'acqua dolce utilizzabile con facilità e
disseta circa 1,5 miliardi di persone. Si
stima che ogni anno vengano prelevati circa
6700 chilometri cubi di acque sotterranee.
I laghi artificiali, ricavati con la
costruzione di dighe di sbarramento sui fiumi,
raccolgono circa 4300 chilometri cubi d'acqua.
Le terre umide (paludi, lagune, sabbie
mobili, fanghi) sono riserve più difficili da
sfruttare. Le più estese sono in Siberia,
nell'Amazzonia e intorno alla Baia di Hudson
(Canada).
A causa della rapida crescita della
popolazione, la quantità d'acqua a
disposizione di ciascuno, che era in media di
17.000 metri cubi nel 1950 e di 12.900 metri
cubi nel 1970, è scesa a 9.000 nel 1990 e a
meno di 7.000 nel 2000. Si prevede che arrivi
a poco più di 5.000 metri cubi all'anno nel
2025.
Se fosse distribuita uniformemente, questa
quantità sarebbe sufficiente a soddisfare i
bisogni di tutti, ma molti Paesi (in Africa,
Medio Oriente, Asia orientale e anche in certe
zone dell'Europa orientale) hanno a
disposizione molto meno della media.
Si prevede che nel 2025 circa 3,5 miliardi
di persone saranno a rischio idrico,
possedendo una media di 1.700 metri cubi annui
pro capite.
L'acqua dolce è distribuita in modo assai
ineguale. Tra tutti i Paesi del mondo solo 11
dispongono di 50.000 o più metri cubi d'acqua
dolce all'anno per abitante: il più ricco è il
Canada, cui appartiene circa la metà di tutti
i laghi del mondo. Anche l'Islanda e la Nuova
Zelanda sono ricchissime (sono poco popolose),
ma per esempio la Germania lo è molto meno.
L'Europa è divisa tra la straripante
ricchezza dei Paesi scandinavi, dell'Islanda e
dell'Irlanda (oltre 10.000 metri cubi
all'anno), l'abbondanza dei Paesi alpini e
balcanici (510.000, come negli Stati Uniti) e
le condizioni piuttosto povere degli altri:
Gran Bretagna, Francia, Italia meridionale,
Spagna, Portogallo e Grecia (2-5.000 metri
cubi); da ultimo vengono Germania, Romania,
Polonia e altri Paesi, che hanno meno di 2.000
metri cubi per abitante, come gli Stati del
Sahara, dell'Africa orientale e del Medio
Oriente.
La catena delle Alpi, coi suoi laghi e
fiumi, costituisce, insieme con lo scudo
scandinavo, la grande fonte di
approvvigionamento per l'Europa. Tra i laghi
alpini ricordiamo: il lago di Ginevra, il lago
di Costanza, il lago di Garda e il lago di
Neuchâtel. Tra i fiumi che nascono dalle Alpi:
il Reno, la Sava, il Rodano, la Drava, il Po,
il Mur, l'Adige e il Ticino. La presenza delle
Alpi e dei loro corpi idrici rende l'Italia il
Paese più ricco d'acqua dell'Europa
meridionale.
Ben metà delle risorse idriche italiane si
trova in Lombardia e oltre il sessanta per
cento è al Nord. Il Sud ha riserve piuttosto
modeste.
Secondo le stime dell'Onu, per sopravvivere
una persona ha bisogno di 5 litri d'acqua al
giorno. Inoltre 40 litri al giorno per persona
sono la quantità minima per una vita
accettabile. Oggi 1,2 miliardi di persone non
arrivano a questo minimo (in Madagascar la
media è di 10 litri, in Italia di 237, negli
Stati Uniti di 425).
La carenza d'acqua e l'uso di acqua
inquinata causano in tutto il mondo circa
30.000 decessi al giorno.
A livello mondiale, il 70% dell'acqua dolce
è assorbito dall'agricoltura, il 20%
dall'industria e solo il restante 10 dagli usi
domestici.
Le pratiche agricole intensive devono
ricorrere in misura sempre maggiore
all'irrigazione perché non possono più
affidarsi alla variabilità e aleatorietà delle
precipitazioni. Inoltre l'abbondanza delle
piogge è compromessa dalla deforestazione, che
spesso precede la destinazione dei terreni
all'uso agricolo. In effetti i boschi sono
formidabili catalizzatori di pioggia, tanto
che secondo alcuni climatologi se nel Sahara
ci fossero alberi le precipitazioni sarebbero
abbondanti quanto nelle zone temperate. Per
converso, si teme che regioni dove le piogge
sono oggi abbondantissime, come l'Amazzonia o
altre zone ricoperte da foreste pluviali, alla
lunga potranno restare a secco per via del
taglio indiscriminato degli alberi. Insomma lo
scostamento dagli equilibri naturali comporta
un seguito di conseguenze negative che oggi
siamo in grado di stimare, almeno a grandi
linee. Purtroppo i rimedi escogitati passano
per una contrazione delle attività economiche
che molti Paesi non vogliono accettare, e ciò
comporta formidabili problemi politici e di
pianificazione.
Gli usi industriali dell'acqua dolce
riguardano moltissimi settori: le macchine a
vapore, il raffreddamento dei generatori di
potenza, le centrali idroelettriche, gli
scambiatori di calore e i radiatori, molti
processi dell'industria chimica e via dicendo.
Se non sono trattate e depurate, le acque
industriali reflue possono produrre gravi
inquinamenti chimici, e in molti casi lo
scarico in mare o nei bacini interni delle
acque di raffreddamento provoca un aumento
della temperatura, causando un inquinamento
termico le cui conseguenze sul microclima,
sulla fauna e sulla flora sono spesso
deleterie.
In generale la crisi idrica si traduce in
una vera e propria corsa contro il tempo, dove
l'aumento della popolazione e delle attività
umane si confronta con il reperimento e la
distribuzione di nuove fonti. Ma non si può
sperare di vincere la sfida senza una vera e
propria rivoluzione culturale che parta dai
Paesi ricchi e riconduca almeno in parte le
attività dell'uomo nell'alveo del sistema
ecologico complessivo.
La desertificazione
Il problema dell'acqua non è isolato, anzi è
legato da vincoli deterministici, di causa ed
effetto, e da vincoli statistici ad altri
aspetti importanti dell'ambiente, del clima e
dell'interazione tra uomo e natura. Per usare
un termine oggi corrente, che tuttavia in
questo caso è del tutto appropriato, si può
dire che l'emergenza idrica è un fenomeno
complesso, che si manifesta in un sistema
assai ampio, l'ambiente terrestre, sede di
molti altri fenomeni complessi che con quello
s'intrecciano e interagiscono.
Le caratteristiche tipiche di questo
fenomeno, come di tutti i fenomeni complessi,
sono almeno due:
1) l'effetto farfalla, cioè la grande
sensibilità alle variazioni, anche minime, di
certi parametri, dovuta alla non linearità
delle interazioni tra le diverse variabili: a
volte basta una piccola crescita o decrescita
del valore di una variabile per scatenare,
dopo qualche tempo, effetti grandiosi (è il
cosiddetto «effetto farfalla», locuzione
coniata dal meteorologo Edward Lorenz negli
anni Sessanta: basta il battito d'ali di una
farfalla nel Mar dei Caraibi per scatenare un
tifone nel Mar della Sonda);
2) l'effetto soglia, cioè una brusca
variazione di regime quando certe variabili
(temperatura, umidità, popolazione, ecc.)
superano determinati valori-soglia (allora si
passa dal moto laminare a quello turbolento,
dal comportamento lineare a quello non lineare
e così via).
Date queste peculiarità dei fenomeni
complessi che si svolgono al suo interno, è
impossibile prevedere l'evoluzione a lungo
termine del sistema globale: quindi anche
l'evoluzione del problema idrico è per sua
natura imprevedibile nel lungo periodo.
Tuttavia, come nel caso della meteorologia,
sono possibili previsioni a breve, dalle quali
si possono estrapolare alcune indicazioni di
massima, certo non incoraggianti,
sull'evoluzione remota e si possono fornire
prescrizioni generali, come il risparmio, una
miglior distribuzione dell'acqua, il
disinquinamento e così via: insomma un
cambiamento di mentalità nei confronti di
questa risorsa.
Uno dei fenomeni strettamente legati
all'emergenza idrica è la desertificazione,
che consiste in un'espansione dei deserti
esistenti a occupare terreni semiaridi e
degradati. Il degrado è quasi sempre dovuto a
variazioni climatiche o ad attività umane, o a
un'azione combinata delle due cause, e spesso
costituisce il primo passo verso la formazione
del deserto vero e proprio.
C'è da osservare che non tutti sono
d'accordo nel considerare la desertificazione
un'emergenza: alcuni la ritengono un fenomeno
ciclico naturale, come dimostrerebbe la
contrazione di molte aree desertiche nel
Sahara e in Australia. In ogni caso le cifre
parlano: il 25% delle terre emerse è
minacciato dalla desertificazione. In America
Settentrionale e in Africa il 75% delle terre
aride sono ad alto rischio. In Africa 900
milioni di persone sono minacciate dal
fenomeno.
I suoli agricoli degradati sono 3,3 miliardi
di ettari in tutto il mondo.
Il 20% dei suoli agricoli irrigui (su 250
milioni di ettari a livello globale) è colpito
dalla salinizzazione (dovuta a un eccesso di
evaporazione e a un uso smodato di
fertilizzanti e antiparassitari chimici).
Nel 1999 la salinizzazione interessava il
30% delle terre irrigue degli Stati Uniti, il
23 per cento della Cina e l'11 per cento
dell'India. Nel frattempo la situazione è
peggiorata.
Alla desertificazione contribuisce in modo
decisivo la distruzione delle foreste, che
procede a un ritmo di 10 milioni di ettari
all'anno, a causa degli incendi o della
conversione dei suoli all'agricoltura.
Non soltanto le aree esotiche dell'Africa e
dell'America, ma anche vaste zone affacciate
sul Mediterraneo, compresa la nostra penisola,
sono soggette alla desertificazione.
Il 6% della superficie europea è costituito
da terre aride e il 2% si è già trasformato in
deserto.
In Italia ogni anno 30.000 ettari di suolo
passano dall'uso agricolo all'occupazione
urbana. Nell'Italia meridionale 3,7 milioni di
ettari sono in uno stato di degrado
predesertico. Sono 50.000 gli ettari di bosco
distrutti ogni anno dagli incendi nel nostro
Paese.
È evidente che la crescente pressione
demografica sulle rive del Mediterraneo
contribuisce all'aggravarsi del fenomeno della
desertificazione. All'inizio del Novecento si
affacciavano sul Mare Nostrum 90 milioni di
abitanti, oggi sono 300 e si prevede che nel
2050 siano 850 milioni. Le attività inquinanti
e distruttive (nel senso più ampio del
termine) di questa imponente massa di persone
contribuiscono ad accelerare un fenomeno che a
sua volta innescherà migrazioni verso altre
aree, non sempre in grado di resistere alla
pressione antropica.
Una consapevolezza diffusa
È interessante notare che, anche grazie alle
campagne di sensibilizzazione degli ecologisti
e agli allarmi di molti esperti, oltre che per
esperienza diretta, si è venuta acuendo negli
ultimi tempi la consapevolezza che l'acqua è
una risorsa preziosa e limitata, tanto più
che, a differenza di risorse come il petrolio
o altre materie prime, non può essere
sostituita da nessun'altra sostanza (se non...
a tavola, e in misura molto limitata). Una
conseguenza importante di questa presa di
coscienza sono le campagne e i convegni per
studiare e fronteggiare l'emergenza idrica,
che si sono venuti moltiplicando e che ormai
si organizzano un po' dovunque e a livelli
diversi. Nel 2003, a Kyoto, nel corso del
terzo Forum mondiale sull'acqua, è stata
istituita la Giornata mondiale dell'acqua (il
22 marzo), mentre il tema dell'Expo 2008 di
Saragozza sarà «L'acqua e lo sviluppo
sostenibile».
Ma se il moltiplicarsi degli incontri e
delle discussioni denota un lodevole aumento
della consapevolezza diffusa, resta da vedere
quanti e quali provvedimenti di salvaguardia
si riuscirà a mettere in pratica. Senza di
ciò, la consapevolezza non farà che accrescere
da una parte la preoccupazione e l'angoscia e
dall'altra le tensioni internazionali che
potrebbero sfociare in conflitti. Tra i
problemi più difficili da affrontare vi è
quello della traduzione a livello locale delle
raccomandazioni e delle indicazioni emanate a
livello internazionale: traduzione non
semplice, visti gli interessi locali
costituiti, le tradizioni, le pastoie
burocratiche, le interferenze della malavita,
i veti incrociati e così via.
La tragedia del lago d'Aral
«All'inizio bevi l'acqua, alla fine il
veleno»: questo proverbio uzbeko esprime in
modo succinto e drammatico il collasso
ambientale e la catastrofe umana del lago
d'Aral, dovuti all'ambizione pianificatrice
dell'Unione Sovietica. Nel giro di 45 anni, il
lago, situato tra l'Uzbekistan e il
Kazakistan, ha perduto il 75% del suo volume e
il 60% della sua superficie. I pianificatori
sovietici sacrificarono deliberatamente questo
enorme bacino, la cui superficie era fino al
1960 di circa 70.000 chilometri quadrati, più
o meno come il lago Vittoria, in Africa, al
quarto posto nella graduatoria mondiale: le
acque dei due immissari principali, il SirDarja e l'Amu-Darja, furono deviate per
irrigare immense piantagioni di cotone.
A partire dal 1985, grazie ai satelliti,
l'estensione del lago è stata controllata
costantemente. Già in quell'anno la superficie
era scesa a meno di 46.000 chilometri
quadrati, per arrivare a 28.000 nel 1998.
Estrapolando questa impressionante tendenza
alla contrazione, si prevede che nel 2010 la
superficie sarà di appena 21.000 chilometri
quadrati, meno di un terzo della superficie
iniziale (fatta salva un'inversione di
tendenza di cui diremo). Nello stesso periodo
il livello delle acque è sceso di 16 metri.
Tutto ciò si accompagna a gravissimi problemi
ambientali: l'aumento di salinità dovuto al
mancato apporto degli immissari non consente
più di pescare, con gravi problemi di
alimentazione per gli abitanti della regione
(le specie ittiche si sono ridotte da 24 a 4 e
la fiorente industria conserviera del pesce è
scomparsa); la terra un tempo occupata dalle
acque è ricoperta da uno strato estremamente
tossico di sale mescolato ai fertilizzanti e
ai defolianti usati per molti anni nelle
piantagioni di cotone.
La cosa più grave, tuttavia, è che per
decenni, fino al 1989, un'isola della parte
meridionale del lago (il cosiddetto Grande
Aral) ha ospitato i laboratori sovietici per
lo sviluppo delle armi chimiche e
batteriologiche. L'isola (che per ironia della
sorte si chiama Rinascita) è oggi congiunta
alla terraferma e i residui tossici e patogeni
mai eliminati costituiscono una minaccia di
portata incalcolabile per la salute della
popolazione, già oggi molto compromessa dalla
diffusione dei veleni nell'acqua e nell'aria.
Inoltre la riduzione della massa idrica ha
modificato il microclima, accentuando
l'escursione termica annua (si va dai 50 gradi
centigradi dell'estate ai -35 dell'inverno).
Ciò ha comportato un aumento dell'evaporazione
e della desertificazione. Mentre le piogge
sono diminuite di dieci volte, si sono
rinforzati i venti che disperdono i sali
velenosi sulle zone agricole circostanti e
anche molto più lontano (si stima che il 10%
delle polveri in sospensione nell'atmosfera
terrestre provenga dalle rive dell'Aral).
Unica buona notizia è che dal 1996 la porzione
settentrionale del lago, il cosiddetto Piccolo
Aral, ha stabilizzato la propria superficie
grazie al ripristino dell'afflusso del SirDarja, e sulle sue rive sono ricomparsi i
cormorani e i pellicani. Forse c'è una
speranza di arrestare o almeno rallentare una
delle più gravi catastrofi ambientali di tutti
i tempi.
Un'emergenza mondiale
La tragedia dell'Aral non è isolata: molti
dei grandi fiumi cinesi (e non solo) sono
inquinati dalle industrie chimiche che
scaricano i loro rifiuti senza depurarli,
mettendo a rischio l'approvvigionamento di
acqua potabile in intere regioni della Cina. È
un tema che con poche variazioni si ripete in
tutto il mondo, soprattutto a scapito dei
fiumi più grandi, condannati a raccogliere
liquami, scorie nocive e residui tossici.
Quindi la crisi idrica assume un aspetto sia
quantitativo (diminuzione del volume d'acqua a
disposizione di ciascuno) sia qualitativo
(degrado della bontà: spesso l'acqua non è più
inodore, incolore e insapore com'era l'acqua
potabile di un tempo; ma anche quando
obbedisca a queste norme della tradizione non
è detto che sia buona, perché molti inquinanti
sono subdoli e difficili o impossibili da
rilevare con i nostri sensi).
Questa situazione spinge a sfruttare da una
parte fonti via via meno pure e dall'altra
riserve di accesso via via più difficile, come
le falde sotterranee profonde. Inoltre la
penuria crescente minaccia di provocare
conflitti tra gli Stati per il controllo delle
risorse. Le guerre per l'acqua potrebbero
presto sostituire le guerre per il petrolio
che serpeggiano e talora divampano da decenni
in tutto il globo. Le nazioni confinanti si
contendono le risorse idriche di superficie o
sotterranee. Le mafie locali o i potentati
multinazionali cercano senza posa di
impadronirsi dell'acqua potabile
privatizzandola e di questi tentativi è
sintomo allarmante, almeno in certi Paesi,
l'assurda e crescente diffusione delle
costosissime acque minerali (un litro di acqua
minerale costa circa quanto mille litri di
acqua del rubinetto, dove c'è il rubinetto,
s'intende). E, per soprammercato, lo
sfruttamento delle falde profonde, ormai
sistematico in molte zone, potrebbe avere
effetti imprevedibili sull'assetto
idrogeologico e climatico di vaste aree. Ma
tralasciamo le guerre, e occupiamoci
brevemente di due grandiosi progetti di
approvvigionamento, uno mediorientale e
l'altro libico.
Il «Canale della Pace»
Se e quando si farà, sarà il primo
collegamento tra due mari, il Mar Rosso e il
Mar Morto (che in realtà è un lago, per quanto
salatissimo): un canale di circa 200
chilometri, in gran parte coperto, che dal
Golfo di Aqaba, all'estremità nord-orientale
del Mar Rosso, scenderebbe di 400 metri fino
al Mar Morto, alleviando i problemi idrici di
Giordania, Palestina e Israele e ponendo fine
all'agonia del Mar Morto.
Il lago più salato del mondo si avvia
infatti a tener fede al suo nome: negli ultimi
trent'anni il suo livello si è abbassato di 25
metri e in un secolo la superficie si è
ridotta di un terzo. L'esiguo apporto del
Giordano, unico immissario, prosciugato a
monte da dighe e prelievi agricoli, non può
compensare i due miliardi di metri cubi
d'acqua persi ogni anno dal lago per
evaporazione, tanto che, se le cose continuano
così, nel 2050 il Mar sarà definitivamente
Morto (già ora le strutture del più vecchio
stabilimento balneare, a Ein Gedi, risalenti
ai primi del Novecento, distano un chilometro
dall'acqua).
Il previsto canale dei due mari - che per le
sue auspicabili conseguenze benefiche sul
piano politico in quell'area tormentata è
stato battezzato «Canale della Pace» fornirebbe acqua potabile per dissalazione
dell'acqua marina (850 milioni di metri cubi
all'anno, che dovrebbero far fronte alle
esigenze civili e agricole per una cinquantina
d'anni), ed energia elettrica grazie al salto
di 400 metri tra ingresso e uscita.
Inoltre il livello del Mar Morto dovrebbe
risalire di una decina di metri. Il rovescio
della medaglia (non si ha mai niente per
niente) sarebbe il calo della salinità dal 26
al 3 per cento, con gravi conseguenze per il
turismo legato alle straordinarie proprietà
curative delle acque e dei fanghi. Anche
l'attività estrattiva subirebbe un
contraccolpo. Dal Mar Morto si ricavano
infatti cloruro di potassio e parecchi altri
minerali, che alimentano una fiorente
industria cosmetica.
Per valutare i paventati scompensi
ambientali e idrogeologici e le ripercussioni
economiche e sociali, è stato avviato uno
studio di fattibilità che dovrebbe concludersi
nel 2008, se la Banca Mondiale riuscirà a
raccogliere i fondi necessari, 11,3 milioni di
euro. Finora Giappone, Francia, Stati Uniti e
Olanda hanno stanziato 6,6 milioni di euro. Il
costo previsto dell'opera si aggira sui 3,5
miliardi di euro e i lavori dovrebbero durare
un quinquennio.
Il «Grande Fiume di Gheddafi»
Se il «Canale della Pace» è ancora un sogno,
il «Grande Fiume» di Gheddafi è in via di
completamento. Alcuni inneggiano al capolavoro
dell'ingegneria civile e idraulica, altri lo
definiscono il delirio faraonico di un leader
spinto dal desiderio incoercibile di dare alla
Libia un'identità nazionale forte e svincolata
dalla tradizione occidentale e di fare del suo
Paese il punto di riferimento per tutta
l'Africa. L'idea è semplice e grandiosa:
scavare nelle zone desertiche del sud
centinaia di pozzi profondi fino a mille
metri, captare le abbondanti acque fossili del
sottosuolo e trasportarle fino alle città
costiere di Tripoli, Sirte, Bengasi, Tobruk,
dove vive il 70 per cento della popolazione,
attraverso 4000 chilometri di condutture in
calcestruzzo precompresso.
Nella Libia occidentale il Grande Fiume
parte dalla zona di Jebel al-Hasawinah e dal
Fezzan e si divide in due direttrici, una
verso Tripoli e l'altra verso Sirte; nella
Libia orientale l'acquedotto parte da Al
Kufrah, dal Serir e dal deserto libico in
direzione di Bengasi.
Il costo, ben 30 miliardi di dollari, è
sopportato per intero dalla Libia, grazie ai
proventi del petrolio (che il petrolio serva a
finanziare l'acqua è proprio un segno dei
tempi!). Sarebbe stato più economico costruire
una serie di impianti di dissalazione sulla
costa del Mediterraneo, ma l'acquisto e la
manutenzione di questi impianti avrebbe
perpetuato la dipendenza dall'estero, da cui
Gheddafi si vuole svincolare al più presto.
In Libia i proventi del petrolio sono stati
investiti con lungimiranza: strade,
collegamenti televisivi, reti elettriche. Ma
il fiore all'occhiello di questo fervore
costruttivo indirizzato alle opere pubbliche è
senza dubbio il Grande Fiume, il cui tracciato
a forma di pi greco compare anche sulla
banconota da 20 dinari. Non è solo
all'approvvigionamento idrico delle città che
serve l'acquedotto, ma anche all'irrigazione:
l'agricoltura specializzata delle oasi e delle
piane costiere ha subito un incremento
impressionante. In prospettiva Gheddafi mira
anche a rendere fertile il deserto, ma è
un'operazione sulla quale molti esprimono
forti dubbi.
Come nel caso del Canale della Pace, non
mancano i rischi ambientali: prima o poi
(forse tra una cinquantina d'anni) l'acqua
sotterranea, che come tutte le risorse fossili
non è rinnovabile, si esaurirà, con
conseguenze imprevedibili, forse molto
negative, sul microclima libico. Inoltre Sudan
ed Egitto sono preoccupati che il pompaggio
non intacchi le loro riserve freatiche. Per il
momento i frutti benefici del progetto sono lì
a dimostrare che l'acquedotto più lungo della
terra non è solo il sogno di un megalomane.
Ma, visto che non si ha niente per niente,
resta da valutare il prezzo che l'ambiente, la
politica e le popolazioni dovranno pagare.
Giuseppe O. Longo
(«Prometeo» n.98/07)