Luglio-Settembre 2007 n. 3 Anno XXI Quaderni di Minimondo Rivista culturale Braille Periodico trimestrale Fascicolo I Direzione Redazione Amministrazione Biblioteca Italiana per i Ciechi 20052 Monza - Casella postale 285 c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71 e-mail: [email protected] Dir. Resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani, Antonietta Fiore, Ilaria De Cristofaro Pietro Piscitelli (Responsabile) Copia in omaggio Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi via G. Ferrari, 5/a 20052 Monza Sommario Peter Mathias: Europa: idea e realtà attraverso i secoli («Prometeo» n. 98/07) Giuseppe O. Longo: Sorella acqua: l'oro azzurro («Prometeo» n. 98/07) Marco Cadioli: Second Life, per rifarsi una vita (digitale) («Vita e Pensiero» n.2/07) Stefano Cagliano, Mauro Miselli: Il danno da farmaci («Le Scienze» n. 467/07) Nicoletta Beschin, Sergio Della Sala: Sembra lei ma non è lei («Psicologia contemporanea» n. 202/07) Edoardo Patriarca: Scoutismo: cent'anni ma non li dimostra («Vita e Pensiero» n. 3/07) Gian Piero Brunetta: Quando l'auto va al cinema («Prometeo» n. 96/06) Andrea Semplici: Il Cile di Neruda («Tutto Turismo» n. 337/07) Massimo Romano: Elsa Morante: l'ultima romantica regina del romanzo («Letture» n. 631/06) Europa: idea e realtà attraverso i secoli - La locomotiva di Bruxelles ha subito una brusca frenata o compiuto un'inversione di marcia? Non esiste dell'Europa una definizione concettualmente condivisa quale entità universale e immutabile, da poter esplorare attraverso lo studio della sua storia passata o recente. Tanto meno è possibile ipotizzare al riguardo una «teleologia», ossia presumere che la narrazione del progressivo manifestarsi attraverso il tempo di un'identità unificante, di una sorta di «europeizzazione», possa di per sé farsi storia. Le interpretazioni di un concetto così generico vanno infatti mutando con il passare del tempo, a seconda delle circostanze e delle percezioni degli eventi, nonché di preconcetti, speranze e timori di coloro che queste interpretazioni hanno elaborato. La maggior parte delle definizioni dell'identità europea viene in realtà formulata avendo in mente particolari obiettivi. È dunque preferibile limitarsi a tracciare la realtà storica dell'Europa nella sua complessità, piuttosto che cercare di individuarne un'identità concettuale universale - anche se così facendo non è possibile evitare problemi di tipo pregiudiziale. L'«idea di Europa» resta, in definitiva, una costruzione intellettuale. I problemi che oggi ci troviamo a affrontare a proposito dell'Europa abbracciano un insieme di memorie e percezioni del passato, oggi riesumate per influenzare non solo le nostre opinioni sul presente ma anche le speranze e le apprensioni che nutriamo sul futuro del continente. La storia, è stato detto, non si limita mai al solo passato: essa riflette anche la consapevolezza che dei problemi abbiamo noi contemporanei. Se dalle prime indagini sull'esistenza di un'identità europea sino ai giorni nostri si è ritenuto importante stabilire una definizione spaziale e territoriale, è altrettanto vero che il solo determinismo geografico non è mai stato ritenuto adeguato a rispondere a questa esigenza. In termini spaziali, Erodoto e Strabone avevano identificato nell'Antica Grecia anche l'Asia, l'Africa e l'Europa (la cosiddetta terra degli ellenici). Come spesso accade, a questa integrazione si era giunti anche grazie ad alcune antitesi: greci contro barbari, la vita civile regolata dalla legge nelle città, contro il potere esercitato con l'arbitrio personale. In un'identità culturale definita con il termine di «grecità», s'erano andati associando al criterio di spazio altri significati. Infatti, perché i vari aspetti della realtà (politico, legislativo, culturale) potessero esprimersi, occorreva abbracciare un'area territoriale ampiamente circoscritta. Questa tendenza trovò una conferma in termini ancor più formali nell'Impero Romano, i cui confini, pur mutevoli nel tempo e contesi alle frontiere, erano tali da poter essere tracciati su una carta geografica. L'autorità militare dei romani, come quella politica, legislativa e amministrativa, nonché la stessa cultura, mantennero così nell'Impero una propria identità territoriale e geografica ben definita. Il lascito storico di Roma, ereditato successivamente dall'Europa, si basava tuttavia, più che sull'estensione geografica dell'Impero, sui suoi contenuti reali. I criteri informatori erano infatti la pace interna (garantita dalle «legioni») e un'attività di governo conforme a determinati codici e procedure di legge; un concetto effettivo della cittadinanza e un potere politico circoscritto all'ambito dell'autorità costituzionale; un potere esecutivo esercitato mediante un sistema giuridico e amministrativo, e una legge a difesa del diritto alla proprietà privata (compreso il possesso di schiavi); una lingua comune e riferimenti culturali condivisi. Nonostante la realtà costringesse a compromessi questo ideale, vennero stabilite norme tali da contribuire a orientare le successive aspirazioni europee verso leggi codificate, nella lingua e nella cultura latina, mediando i retaggi della Grecia. Su tutti questi versanti, Roma fu assai più che un'espressione meramente geografica. E la sua civiltà si esprimeva anche per antitesi: essa risiedeva nell'ambito dell'Impero e, al di là di esso, vi era la barbarie, con le sue tribù ostili e aliene. Questa identificazione dell'Europa per antitesi si protrasse nel millennio successivo alla caduta dell'Impero romano, ma in base a criteri diversi. I suoi confini erano ora quelli del mondo cristiano medievale, ma di una cristianità segnata da profonde restrizioni. L'Europa era sulla difensiva, all'erta contro un risorgente Islam e le incursioni di tartari e mongoli. Alla conquista di gran parte della Penisola iberica era seguita infatti la sconfitta dei Balcani e dell'Europa sud-orientale, culminata nella resa di Costantinopoli nel 1453. I mori, i mamelucchi, gli ottomani e i turchi incalzavano alle porte dell'Europa cristiana (nonostante la breve ripresa delle crociate e la nascita del Regno latino di Gerusalemme). Nel XVII secolo gli ottomani occuparono temporaneamente l'Ungheria e avanzarono fino alle porte di Vienna, estendendo da oriente la loro sfida, anche se Spagna e Portogallo furono poi riconquistati alla cristianità prima del 1500. L'autoidentificazione che il mondo cristiano si attribuì, sotto il papato, come cattolicesimo europeo occidentale, risale quantomeno alla scomunica formale inflitta da Roma alla Chiesa orientale nel 1054. Le chiese greco-ortodosse e quelle russo-ortodosse, come pure molte altre comunità cristiane, rimanevano sempre «oltre il confine», e questa autolimitazione conferiva maggiore coerenza al diffondersi di un'ortodossia cristiana in ambito religioso e nell'azione di controllo amministrativo da parte della Chiesa di Roma, che raggiungevano gli ordini monastici e militari esterni alla gerarchia ecclesiastica mediante un'intensa divulgazione culturale e artistica. Senza mai arrivare, però, a esprimersi unitariamente sul piano militare. Tutto ciò (malgrado eresie, scismi, complotti antipapisti e conflitti micidiali, protrattisi fino alla Riforma) dava sostanza a quella identità concettuale di Europa di cui tuttora permane l'eco. L'attuale richiesta della Turchia di entrare nell'Unione europea, per esempio, ha fatto riaffiorare, fra quanti si oppongono a questo ingresso, l'idea di un'Europa concepita come un «club cristiano». Se nell'Europa occidentale la retorica cristiana demonizzava l'Islam e «i Turchi» in termini religiosi, tradotti successivamente in antitesi politiche e costituzionali (quali «tirannia alla turca» e simili), nella realtà esisteva invece da entrambe le parti in queste relazioni una grande tolleranza. La Sicilia del XII secolo, Granada, il Levante, città come Salonicco e Istanbul, mantennero legami commerciali con l'Occidente e videro lo sviluppo di fiorenti insediamenti di minoranze ebree, cristiane e armene. Fu anche possibile uno scambio reciproco di conoscenze tecnologiche. È vero che, sull'incerto solco dei confini razziali e religiosi, fino al XX secolo non mancarono guerre, vampate di violenza e sporadici massacri, ma forse non in misura maggiore di quanto è avvenuto in occasione dei terribili conflitti scoppiati all'interno del mondo cristiano. Il XVI secolo confermò alcuni dei segnali premonitori che mostravano un'Europa non più sulla difensiva ma in progressivo slancio espansivo. Già da tempo le potenze marittime nord-occidentali avevano accompagnato il fenomeno delle esplorazioni mondiali con l'impiego di navi transoceaniche. Le teste di ponte coloniali, con i loro lucrosi commerci e saccheggi, si andavano consolidando in America centrale, in Sud America, nei Caraibi, nell'America del Nord, in India e nell'Asia sud-orientale. L'elevato potenziale di navi e armamenti pesanti, unitamente alle infrastrutture commerciali e marittime, aprì all'Europa la strada degli scambi internazionali. Il termine «Europa» stava anche cominciando a essere identificato con le connotazioni integrate (o quantomeno interrelate) di tipo intellettuale, culturale, urbanistico, economico e politico, sottese ai progressi concreti conseguiti. Si andava sviluppando un sapere scientifico secolarizzato con una «cultura della scienza» diffusa in risposta a una curiosità dell'intelletto, spesso finalizzata (almeno nelle intenzioni, se non nei risultati) al conseguimento di vantaggi economici o di un maggiore potere dello Stato. L'obiettivo era quello di esplorare la natura e, alla luce delle nuove conoscenze, portarla progressivamente sotto il controllo dell'uomo, mentre le parole chiave di questo processo erano «un sapere utile» e un crescente «miglioramento». Benché all'interno dell'Europa esistessero forti differenziazioni a livello sia regionale che nazionale, intorno a tutto quanto veniva definito tipicamente «europeo» andava emergendo agli inizi dell'era moderna un certo consenso, e in special modo agli occhi di osservatori esterni. L'Europa illuministica divenne, in termini ideali, l'erede secolarizzata del cristianesimo medievale. L'Illuminismo produsse infatti una comunanza di costumi civili, una regolare salvaguardia delle persone e dei beni sotto l'egida della legge, un sistema politico soddisfacente (pur ampiamente diversificato fra paese e paese), un'elevata percentuale di aspirazioni culturali e intellettuali comuni di ampio respiro. Gli studi scientifici e matematici, per esempio, non limitavano la ricerca alle frontiere nazionali. Inoltre, erano stati stabiliti alcuni limiti all'uso selvaggio della guerra mediante un complesso di apposite regole riguardanti il trattamento dei nemici sconfitti, catturati e fatti prigionieri, benché queste restrizioni riguardassero unicamente i militari europei e quelli di altri paesi «civilizzati», com'erano considerati i territori nordamericani colonizzati dalle potenze europee. Gli europei erano profondamente consapevoli di appartenere a una siffatta comunità culturale e convinti che, oltre i loro confini occidentali, prevalesse il «dispotismo orientale», la barbarie non cristiana e i più disparati esempi d'inciviltà. Tutto ciò era comunque ben lontano dal dare adito a un «concerto europeo» o a un'unificazione politica, se non con la conquista territoriale. Gli Stati avevano rapporti reciproci di competizione, di antagonismo, di conflittualità dinastica, di bellicosa aggressività. Pochi furono gli anni, fra XVII e XVIII secolo, che videro un'Europa senza guerre, e il fattore di divisione prevalente non fu la religione. Al centro di questa dinamica dell'Europa occidentale vi era l'evoluzione di veri e propri Stati-nazione grazie a procedure amministrative più efficienti in grado di mobilitare, in misura crescente e inedita, maggiori risorse mediante tassazioni e prestiti finalizzati in particolare a commesse militari e navali. Nel XVIII secolo, a una sequela di guerre fecero seguito in Europa i grandiosi progetti di conquista di Napoleone miranti a instaurare regimi dinastici, assoggettati e subordinati alla Francia post-rivoluzionaria, che inglobassero nei propri codici giuridici e amministrativi gran parte delle innovazioni introdotte in Francia nel periodo successivo all'Ancien règime. Questo determinò nelle strutture politiche europee un'alterazione profonda e di lunga durata in funzione degli interessi egemonici francesi. Si potrebbe interpretare tutto ciò come il tentativo di conseguire, sulla scorta delle vittorie militari, un'unità europea attraverso l'uso della forza. Ma sarebbe fantasioso vedere in questo disegno un'analogia, pur in termini di maggiore civiltà, con il progetto tedesco, assai più ferocemente funzionale agli interessi del regime nazista, di un «nuovo ordine» nell'Europa continentale conquistata fra il 1941 e il 1945. Come reazione al proliferare fra il 1792 e il 1915 di massacri e distruzioni senza precedenti (le cui ripercussioni dall'interno del continente si erano propagate ovunque nel mondo vi fosse stata una penetrazione delle potenze europee), presero il via alcune iniziative di cooperazione. La Quadruplice Alleanza, stipulata fra i principali Stati usciti vincitori dal Congresso di Vienna del 1815, fu sostanzialmente una coalizione antifrancese creata non solo per contrastare qualsiasi tentativo della Francia di riproporsi come nazione egemone in Europa, ma anche per assicurare la stabilità e ripristinare la legittimazione delle monarchie tradizionali, se non addirittura per resuscitare l'Ancien règime. Non si trattò beninteso del prototipo di una federazione generale europea, ma sta di fatto che da allora ogni evento bellico catastrofico avrebbe richiamato, in varie forme, una visione unitaria dell'Europa. E ciò, naturalmente, in particolare dopo il 1945. Nel 1795 questa idea trovò un'espressione filosofica significativa nel saggio di Immanuel Kant dal titolo Per la pace perpetua - visione illuministica dell'«universalismo». Kant proponeva una federazione europea di Stati sovrani accomunati da questo obiettivo, resa possibile dall'accettazione congiunta dei precetti culturali dell'Illuminismo, fra i quali l'esplicito riconoscimento dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, alcune forme di governo rappresentativo e la separazione fra potere legislativo e potere esecutivo. I cittadini di un paese avrebbero dovuto essere accettati in un altro nel rispetto dei costumi locali, con spirito di «ospitalità universale» e grazie a reciproci rapporti commerciali. Inoltre, questa federazione di stati europei avrebbe dovuto preludere a un generale processo federativo basato sul perseguimento della «pace perpetua». Quest'idea di cooperazione europea ricevette nuovo impulso all'indomani dei più gravi conflitti del XIX secolo e, in misura ancora maggiore, in seguito alle due più grandi catastrofi del XX, la prima e la seconda guerra mondiale, riuscendo finalmente a prendere corpo nella creazione di nuove istituzioni europee, mentre organizzazioni internazionali più allargate, come l'Onu, andavano assumendo un ruolo sempre più centrale sia in tempo di guerra che in tempo di pace. Tutto ciò ha trovato ampio riscontro nelle richieste, recentemente avanzate e ancora in corso di accoglimento, da parte di alcune nazioni che ambiscono a far parte dell'Unione europea. Fu nel XIX secolo che il processo di europeizzazione raggiunse il suo apice, rasentando l'egemonia globale. Fu allora che l'identità europea in campo scientifico, industriale, tecnologico e culturale, già in fieri nell'Illuminismo, si diffuse oltreoceano grazie a una supremazia non solo navale, militare e dei trasporti, ma anche affaristica, commerciale e finanziaria. Una massiccia emigrazione raggiunse dall'Europa gli Stati Uniti e le regioni d'«insediamento bianco», mentre una colonizzazione formale e un dominio informale, consolidavano la presenza europea nel mondo in una misura senza precedenti. Agli occhi dei non europei e del mondo non occidentale, «l'europeizzazione» assunse, grazie a questa egemonia, una peculiare identità che, come spesso accade, si tradusse in una questione di immagine e contro-immagine. Si è trattato, senza dubbio, sia di apparenza che di realtà, ossia di materia da cartoni animati e caricature che, però, continuano ad avere una certa diffusione solo in quanto portatori di una qualche credibilità. Le principali potenze europee di livello internazionale - Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Belgio, Danimarca, Italia - diffondevano all'estero ciascuna la propria immagine, ma vi era comunque fra loro un elemento comune, più alto di quello dell'identità europea. Altrettanto si è verificato per quanto riguarda gli europei e la loro presunzione di potere e di superiorità, caratterizzata, come molti stereotipi, da grossolanità e superficialità: bianchi contro neri, occhi tondi contro occhi a mandorla, Ovest contro Est, barbari contro civilizzati (laddove gli europei erano visti come barbari dai cinesi, e viceversa); e poi, ancora, l'antitesi fra razionalità e superstizione, autorità e sottomissione, oppressori e oppressi, onesta amministrazione e avidità e corruzione. L'elenco potrebbe continuare all'infinito. I simboli di un imperialismo formale e culturale si manifestavano in occasione di cerimonie pubbliche, nelle parate militari, nell'attribuzione delle onorificenze, nelle uniformi (non solo nelle divise militari, ma anche nell'abbigliamento di corte, in quello diplomatico o di altri gruppi), come pure negli inni nazionali, nelle bandiere e in tutti gli emblemi dell'autorità sia sul continente che nelle colonie. A rafforzare il distacco e l'identità degli europei in contesti non europei (su richiesta, talvolta, proprio dei paesi ospitanti) erano gli abiti, i cibi, gli stili di vita, l'uso di residenze signorili e la distanza culturale. Uno dei simboli del fronte antieuropeo avverso a questa cultura, e motivo di ricorrenti contrasti, fu la pretesa da parte della Cina che ogni straniero in visita facesse il tradizionale inchino all'imperatore (kow-tow). A questa richiesta si affiancarono, in altri paesi non coloniali (quali il Giappone, la Thailandia, il Brunei, gli imperi mediorientali), analoghe pretese di rituali di sottomissione altrettanto formali imposti agli europei, ai quali i veri detentori del potere facevano finta di assoggettarsi. Solo il Giappone, dopo la restaurazione del potere imperiale con il «rinnovamento Meiji» del 1868, utilizzò l'esperienza europea facendo propri molti aspetti dell'«europeizzazione» (in particolare quelli tecnologici) per conseguire una modernizzazione che, soggetta all'autorità del potere politico, mantenesse tuttavia ben salda la cultura tradizionale: una dicotomia avvertita ancora oggi da chi dall'Europa, o dai paesi occidentali in genere, si reca in Giappone. Agli atteggiamenti occidentali di presunta superiorità vennero ad aggiungersi quelli di benevola condiscendenza nei riguardi delle culture non occidentali, originati dalla convinzione che, debitamente educati e «illuminati», i cittadini non europei avrebbero aspirato ai valori, sia culturali che economici e scientifici, dell'Europa occidentale. Ma gli europei andavano instaurando in quei paesi anche gli ordinamenti politici vigenti nel proprio continente, che tracciavano per il futuro un percorso ben diverso. Alla lunga, l'influenza europea avrebbe avuto come conseguenza non solo la rivendicazione di decolonizzazione e indipendenza ma anche l'approdo all'imperialismo. Non si può comprendere pienamente la rigenerazione dell'Europa e l'evoluzione di una sua nuova, o rediviva, identità dopo il 1945 se non si è consapevoli dei traumi provocati dai due conflitti mondiali e, nel periodo fra le due guerre, dal sistematico logorio subito non solo dall'economia di base e dalle istituzioni politiche, ma anche dai processi che fino alla prima guerra mondiale avevano accompagnato lo sviluppo dei paesi europei e della comunità internazionale. Questi eventi traumatici del XX secolo hanno dominato in Europa la coscienza dei cittadini, che a milioni ne hanno sofferto le conseguenze, non meno che dei leader di tutti gli schieramenti politici. La democrazia costituzionale rimase salda in Gran Bretagna e in Scandinavia, ma nel resto d'Europa la depressione nel periodo fra i due conflitti, contrassegnata da una disoccupazione dilagante, e le guerre, con eccidi di massa, distruzioni, sradicamento e abbrutimento di intere popolazioni, misero in grave crisi sia la democrazia che il capitalismo. Non vi è in questa sede spazio sufficiente per illustrare nei dettagli questo scenario, né per prendere in esame la lunga e faticosa ripresa dell'Europa che, negli anni successivi al 1950, riuscì a ridurre la disoccupazione sino a un quarto della media registrata negli anni fra le due guerre e a incrementare il tasso di crescita fino a raggiungere (dal dopoguerra fino al 1973) un livello quattro volte superiore rispetto allo stesso periodo. A salvare l'Europa fu dunque un capitalismo rigenerato, con iniziative statali efficaci mirate allo sviluppo economico e provvedimenti di natura sociale, mentre anche la democrazia, salva, tornava a nuova vita, come elemento integrante della prosperità economica e finanziaria. Questo processo era anche strettamente connesso alla «guerra fredda» e alle politiche antisovietiche, nonché alla presenza americana in Europa. Gli Stati Uniti facevano infatti pressione perché, a sostegno dei loro interessi strategici nell'economia mondiale e del sistema multilaterale, si giungesse all'unificazione in una Comunità economica europea dell'Europa occidentale, nei cui paesi risultava ormai inaccettabile, agli schieramenti sia di destra che di sinistra, l'idea di un socialismo di Stato, come pure quella di un'economia statalista gestita sotto l'egida di una qualsivoglia ideologia politica. A determinare i parametri della politica erano ora, oltre alle libertà vigenti in tutti i sistemi democratici costituzionali, la crescita dell'economia, una «piena» occupazione, salari alti, politiche di welfare e i vantaggi materiali di un nuovo «consumismo». L'«idea di Europa», l'«identità concettuale di Europa», ossia di ciò che l'Europa significa sia per se stessa che per coloro che ne sono fuori, è andata ampiamente manifestandosi nel corso dell'evoluzione che la CEE, definita successivamente Unione europea, ha subito a partire dal suo battesimo siglato con i trattati di Roma del 1957. Questo processo, nel conferire all'entità Europa una struttura istituzionale e una sua specificità politica e legislativa, porta con sé anche profonde implicazioni di natura culturale. Tutto ciò risulta particolarmente evidente nell'insieme di condizioni cui devono sottostare i paesi che chiedono di farne parte. Tuttavia, nonostante le notevoli diversità esistenti fra i membri della UE (non ultime quelle culturali, sia fra nazioni che rispetto all'evolversi delle varie realtà regionali all'interno dei singoli Stati nazionali), questa nuova identità ha conferito al concetto di Europa e alle sue manifestazioni concrete un «minimo comun denominatore». Ma all'evoluzione di questa «nuova» Europa si sovrappone una densa «cortina» storica: nei dibattiti sull'attuale identità dell'Europa riaffiorano molti dei temi già trattati in passato sulla base di vari e reiterati criteri utilizzati per definire un'identità europea attraverso i secoli. Esiste dunque un'identità «spaziale» o geografica? Un punto limite delle frontiere oltre il quale non è più credibile l'idea di un'identità europea specifica? E, in particolare, dove si situano i confini orientali dell'Europa? Come sempre avviene, questo criterio spaziale comporta una serie di connotazioni non solo economiche e politiche ma anche strategico-militari e culturali. C'è inoltre da chiedersi se l'idea di Europa non implichi, come già nel Medioevo, anche una dimensione religiosa. Si tratta di un tema, riemerso in occasione della richiesta di ammissione alla UE da parte della Turchia, particolarmente sentito da coloro che a questa ipotesi si oppongono con motivazioni diverse, fra le quali quella religiosa è, in molti casi, solo una «copertura», avvalorata tuttavia dall'attuale situazione di reviviscenza del radicalismo islamico. Alla motivazione religiosa si accompagnano infatti, nei paesi della UE, sia il timore di incursioni di manodopera a basso costo (su scala verosimilmente assai più elevata rispetto all'attuale tasso d'immigrazione di lavoratori turchi) che l'avversione verso un sistema politico e giudiziario antidemocratico come quello turco, pur avviato a un processo di riforma. Nei paesi europei alcuni esponenti conservatori ritengono comunque che l'Europa sia un «club cristiano» e che tale debba restare. Queste definizioni concettuali - vale a dire i criteri di che cosa sia «europeo» - si attagliavano, e sono per certi versi ancora attinenti, al caso della Russia. Nel Medioevo la Chiesa russo-ortodossa, come pure quella greco-ortodossa e altre, non fu mai accettata nell'ambito della cristianità occidentale, quando a garantire la coerenza necessaria a un'identità europea era il cattolicesimo romano sotto l'egida del Papato. Questa alienazione dal processo di «europeizzazione» si andò rafforzando con l'isolamento secolare della Russia in un sistema culturale e politico che, malgrado gli sforzi di occidentalizzazione compiuti da Pietro il Grande e dai suoi successori, era del tutto estraneo ai valori vigenti nei paesi dell'Europa occidentale. Malgrado nel XIX secolo si fossero intensificate le relazioni fra nobili e fra borghesi europei, questa esclusione della Russia dall'identità concettuale di Europa trovò definitiva conferma nel regime sovietico instauratosi dopo il 1917 e, dal 1945, nella creazione di un blocco di Stati satelliti nell'Europa dell'Est. Questi eventi determinarono il tracciato di quella linea di frontiera che fino al 1989 avrebbe attraversato i confini orientali dell'Europa e la cui fisionomia fu espressione non solo dei sistemi politici, amministrativi, economici e finanziari dei paesi dell'Est, ma soprattutto dell'assetto strategico e militare di questo blocco. La particolare contrapposizione globale venutasi così a creare con l'emergere di un ruolo egemone degli Stati Uniti, come bastione ideologico e di potere contro l'Unione sovietica, fece sì che l'idea di un'identità europea venisse assorbita nell'identità stessa di «Occidente». Le pregiudiziali antirusse attribuite allora a un'«Europa occidentale» sono state in seguito prontamente raccolte dai paesi dell'Europa centrale ex satelliti del regime sovietico (dalla Cecoslovacchia alla Polonia, dall'Ungheria ai tre Stati baltici, fino ai Balcani), la cui pressante esigenza di essere identificati con l'«Europa» (l'Europa occidentale) si è tradotta nel tentativo di spostarne i confini verso Est. L'entrata nel novero dei membri dell'Unione europea è oggi sancita dall'appartenenza a essa o, quanto meno, dalla presentazione di formale richiesta d'ingresso, fermi restando tutti i requisiti che questa identità comporta: forma stabile di governo democratico e costituzionale, ordinamento giuridico, rispetto della libertà religiosa, dei diritti umani e delle minoranze, capacità amministrativa e giudiziaria tale da garantire non solo l'osservanza delle leggi della UE, ma anche un'efficiente economia di mercato e la piena accettazione delle norme che nell'Unione europea disciplinano le politiche economiche e finanziarie (attraverso i limiti stabiliti in materia di deficit di bilancio e di regime fiscale degli Stati membri, il cui debito pubblico non dovrebbe superare il 3 per cento del prodotto interno lordo), nonché, almeno in via di principio, l'impegno a entrare dopo un periodo di transizione nell'area dell'euro. La UE, pur lasciando irrisolti altri problemi, ha reso così più specifici i presupposti che, in termini generici, erano rimasti sullo sfondo nell'evoluzione attraverso i secoli del concetto d'identità dell'Europa. Dopo i referendum che in Francia e in Olanda hanno sancito nel 2005 il rifiuto del progetto di una Costituzione europea, e in seguito alla difficoltà per i paesi membri di rispettare le norme che regolano l'area dell'euro in materia finanziaria, e ai dubbi ricorrenti circa un ulteriore allargamento (in particolare per quanto riguarda la Turchia), il futuro europeo appare tuttora piuttosto oscuro. La progressiva marcia d'avvicinamento all'integrazione e al federalismo si è arrestata di fronte alla proposta (dall'esito al momento incerto) di creare un vero e proprio mercato comune in materia finanziaria e dei servizi. Se in passato era largamente diffusa l'opinione che vi sarebbe stata una crescente accelerazione nel processo d'integrazione, che si pensava recasse in sé un'intrinseca spinta in avanti, oggi sembra piuttosto che si tratti di un itinerario di lungo periodo. Per ora ci siamo resi conto che la locomotiva di Bruxelles alla testa del processo d'integrazione ha subito una brusca frenata, ma è ancora da verificare se non abbia addirittura compiuto un'inversione di marcia. Peter Mathias («Prometeo» n. 98/07) Sorella acqua: l'oro azzurro - La carenza idrica della Terra sta diventando una sfida da affrontare, che implica una vera rivoluzione culturale nei paesi ricchi. Fate in modo che non una sola goccia d'acqua caduta sulla terra raggiunga il mare senza essere stata utile all'uomo. Parakkama-Bahu I, 1180 L'acqua è un elemento psichico, un elemento che raccoglie le immagini dei nostri sogni e pensieri: un elemento che regna nel nostro conscio come nel nostro inconscio: un elemento che amiamo in noi e fuori di noi, una bevanda e un filtro, una realtà e una potenza. Gaston Bachelard, 1942 Il consumo d'acqua dolce si è sestuplicato tra il 1900 e il 1995, superando del doppio il ritmo di crescita della popolazione. Circa un terzo della popolazione mondiale già vive in Paesi considerati a emergenza idrica (questo accade quando il consumo supera del 10% il totale dell'offerta). Se questa tendenza dovesse continuare, nel 2025 i 2/3 della popolazione mondiale vivranno in queste condizioni. Kofi Annan, 2000 Introduzione L'acqua non è solo un composto chimico, è anche il fondamento della vita. Tale è la sua importanza, che essa è diventata un concetto filosofico importantissimo, ma prim'ancora è stata considerata una divinità ancestrale e proteiforme e ha costituito il tema di leggende, di poemi e di miti. Gli antichi mitografi greci avevano attribuito la nascita della terra agli amplessi di Oceano e Teti, due divinità marine. E si pensi poi alle leggende del diluvio, presenti in moltissime culture e risalenti con ogni probabilità a spaventosi episodi preistorici di piogge torrenziali e alluvioni. Talete di Mileto, il primo dei filosofi presocratici, impressionato dalla mutevolezza e dall'inquieto divenire dell'acqua, la elesse a metafora del destino umano e la considerò principio e origine di tutte le cose. Empedocle considerava l'acqua, il fuoco, l'etere e la terra gli elementi costitutivi della realtà e attribuiva la molteplicità delle forme e la varietà delle sostanze che vediamo intorno a noi alle diverse proporzioni in cui erano mescolate quelle radici prime. Del resto, più in generale, la mitologia e la filosofia greche, come tutta quella splendida civiltà, potevano nascere solo in una terra circondata, lambita e interpenetrata dal mare: basti pensare all'emblematica figura di Ulisse, un isolano che peregrina per anni sul mare, approdando a svariate terre equoree e perdendosi infine, secondo la leggenda ripresa da Dante, tra i flutti dell'oceano. Non è questo il luogo per inseguire ed elencare le innumerevoli apparizioni dell'acqua nei territori del simbolismo, della medicina, della psicologia (Gustav Jung la considerava il simbolo più corrente dell'inconscio), della religione (si pensi solo ai bagni rituali di purificazione e all'acqua lustrale del battesimo) o dell'arte. Per i poeti e gli scrittori di tutti i tempi, da Omero a Coleridge, da Melville a D'Annunzio, da Poe a Verne, l'acqua è stata fonte di ispirazione, sfondo di avventure, destino e morte, follia e benedizione. La lode più semplice e pura dell'acqua la dobbiamo a san Francesco: «Laudato sì, mi Signore, per sor'Acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta». Utile certo, anzi indispensabile, perché la vita - ci dicono gli studiosi - venne strisciando dal mare sulla terra e i viventi, piante e animali, sono veri e propri serbatoi d'acqua: l'uomo è acqua per il 70% del peso. Senz'acqua si muore e la prima minaccia che dovettero affrontare gli organismi viventi usciti dai mari e dalle lagune non fu il diluvio, bensì il prosciugamento. Tanto utile è l'acqua che le prime civiltà si svilupparono sulle rive frastagliate dei mari ricchi di isole e lungo i fiumi: difficile spostarsi per via di terra, quanto agevole navigare. Per non parlare degli usi agricoli e igienici, della forza motrice regalata dai corsi d'acqua agli opifici e via enumerando. Humile, l'acqua, perché la sua presenza è di solito discreta e silenziosa e, soprattutto, perché diamo per scontato che sia al nostro servizio, come l'aria che respiriamo e la terra che calchiamo. A lungo, nel computo dei bilanci industriali, l'acqua come l'aria sono state considerate beni esterni, forniti gratuitamente dalla natura insieme con la licenza di inquinarle. Solo oggi si comincia ad attribuire loro un valore economico di scambio e non solo d'uso. Pretiosa, l'acqua, come ci accorgiamo ora che comincia a scarseggiare anche in Paesi dov'era abbondante, tanto da obbligarci a considerare, in un futuro più o meno prossimo, scenari drammatici come quello del film 2022: i sopravvissuti. In un mondo surriscaldato, affollatissimo (New York è un formicaio di 40 milioni di abitanti), super inquinato e afflitto da una gravissima insufficienza idrica, la popolazione viene sfamata con tavolette di Soylent Green, una sostanza ottenuta riciclando i cadaveri. Mentre però questa orribile verità cannibalica è ignorata dalla massa, la mancanza d'acqua esercita su tutti i suoi perversi effetti quotidiani, tanto che quando il protagonista, l'investigatore Robert Thorn (Charlton Heston), penetrato nella lussuosa abitazione di un ricco produttore di Soylent, riesce a farsi una doccia lunga e ruscellante, anche gli spettatori si sentono rinascere. È un film, d'accordo, ma che la nostra situazione idrica si stia deteriorando in fretta è sotto gli occhi di tutti. Ad aggravare le cose ci si mettono il clima, via via più arido e caldo, e l'inquinamento, che sta uccidendo fiumi e laghi un tempo purissimi: l'acqua è sempre meno casta. Alcune cifre L'acqua non si trova solo sul nostro pianeta: è stata riscontrata nelle nubi interstellari della nostra galassia, la Via Lattea, e, vista l'abbondanza dei suoi elementi costitutivi, ossigeno e idrogeno, si presume che sia presente anche in altre galassie. L'acqua si trova nelle comete e, nel nostro sistema solare, è stata scoperta sulla Luna, sui pianeti Mercurio, Marte, Nettuno e Plutone e sui satelliti Europa, di Giove, e Tritone, di Nettuno. Recentissima è poi la notizia che potrebbe trovarsi anche sul pianeta extrasolare HD 209458b, come indicano le osservazioni consentite dal telescopio spaziale Hubble. Ma, su scala cosmica, l'acqua è in complesso assai più rara dell'oro. Per quanto ne sappiamo, tuttavia, la vera cisterna, il vero pozzo, la vera fonte dell'acqua, è il nostro bellissimo pianeta. Vista dallo spazio, la terra appare azzurra per l'effetto combinato dei mari e dell'aria. Di acqua sulla terra ce n'è tanta, ma è quasi tutta salata. Ecco alcune cifre: sulla terra ci sono 1400 milioni di km cubi d'acqua. Per il 97,5% è acqua di mare, salata. Le acque dolci sono 35 milioni di km cubi, cioè il 2,5% del totale. Quasi il 70% delle acque dolci è imprigionato nei ghiacci polari e montani e il 30% è contenuto nelle falde sotterranee. Solo lo 0,3% si trova in superficie (fiumi e laghi). L'acqua dolce sfruttabile ammonta a 200.000 km cubi, pari a circa lo 0,014% di tutta l'acqua della terra. La disponibilità annua varia intorno ai 1214.000 chilometri cubi. L'acqua sotterranea rappresenta più del 90% dell'acqua dolce utilizzabile con facilità e disseta circa 1,5 miliardi di persone. Si stima che ogni anno vengano prelevati circa 6700 chilometri cubi di acque sotterranee. I laghi artificiali, ricavati con la costruzione di dighe di sbarramento sui fiumi, raccolgono circa 4300 chilometri cubi d'acqua. Le terre umide (paludi, lagune, sabbie mobili, fanghi) sono riserve più difficili da sfruttare. Le più estese sono in Siberia, nell'Amazzonia e intorno alla Baia di Hudson (Canada). A causa della rapida crescita della popolazione, la quantità d'acqua a disposizione di ciascuno, che era in media di 17.000 metri cubi nel 1950 e di 12.900 metri cubi nel 1970, è scesa a 9.000 nel 1990 e a meno di 7.000 nel 2000. Si prevede che arrivi a poco più di 5.000 metri cubi all'anno nel 2025. Se fosse distribuita uniformemente, questa quantità sarebbe sufficiente a soddisfare i bisogni di tutti, ma molti Paesi (in Africa, Medio Oriente, Asia orientale e anche in certe zone dell'Europa orientale) hanno a disposizione molto meno della media. Si prevede che nel 2025 circa 3,5 miliardi di persone saranno a rischio idrico, possedendo una media di 1.700 metri cubi annui pro capite. L'acqua dolce è distribuita in modo assai ineguale. Tra tutti i Paesi del mondo solo 11 dispongono di 50.000 o più metri cubi d'acqua dolce all'anno per abitante: il più ricco è il Canada, cui appartiene circa la metà di tutti i laghi del mondo. Anche l'Islanda e la Nuova Zelanda sono ricchissime (sono poco popolose), ma per esempio la Germania lo è molto meno. L'Europa è divisa tra la straripante ricchezza dei Paesi scandinavi, dell'Islanda e dell'Irlanda (oltre 10.000 metri cubi all'anno), l'abbondanza dei Paesi alpini e balcanici (510.000, come negli Stati Uniti) e le condizioni piuttosto povere degli altri: Gran Bretagna, Francia, Italia meridionale, Spagna, Portogallo e Grecia (2-5.000 metri cubi); da ultimo vengono Germania, Romania, Polonia e altri Paesi, che hanno meno di 2.000 metri cubi per abitante, come gli Stati del Sahara, dell'Africa orientale e del Medio Oriente. La catena delle Alpi, coi suoi laghi e fiumi, costituisce, insieme con lo scudo scandinavo, la grande fonte di approvvigionamento per l'Europa. Tra i laghi alpini ricordiamo: il lago di Ginevra, il lago di Costanza, il lago di Garda e il lago di Neuchâtel. Tra i fiumi che nascono dalle Alpi: il Reno, la Sava, il Rodano, la Drava, il Po, il Mur, l'Adige e il Ticino. La presenza delle Alpi e dei loro corpi idrici rende l'Italia il Paese più ricco d'acqua dell'Europa meridionale. Ben metà delle risorse idriche italiane si trova in Lombardia e oltre il sessanta per cento è al Nord. Il Sud ha riserve piuttosto modeste. Secondo le stime dell'Onu, per sopravvivere una persona ha bisogno di 5 litri d'acqua al giorno. Inoltre 40 litri al giorno per persona sono la quantità minima per una vita accettabile. Oggi 1,2 miliardi di persone non arrivano a questo minimo (in Madagascar la media è di 10 litri, in Italia di 237, negli Stati Uniti di 425). La carenza d'acqua e l'uso di acqua inquinata causano in tutto il mondo circa 30.000 decessi al giorno. A livello mondiale, il 70% dell'acqua dolce è assorbito dall'agricoltura, il 20% dall'industria e solo il restante 10 dagli usi domestici. Le pratiche agricole intensive devono ricorrere in misura sempre maggiore all'irrigazione perché non possono più affidarsi alla variabilità e aleatorietà delle precipitazioni. Inoltre l'abbondanza delle piogge è compromessa dalla deforestazione, che spesso precede la destinazione dei terreni all'uso agricolo. In effetti i boschi sono formidabili catalizzatori di pioggia, tanto che secondo alcuni climatologi se nel Sahara ci fossero alberi le precipitazioni sarebbero abbondanti quanto nelle zone temperate. Per converso, si teme che regioni dove le piogge sono oggi abbondantissime, come l'Amazzonia o altre zone ricoperte da foreste pluviali, alla lunga potranno restare a secco per via del taglio indiscriminato degli alberi. Insomma lo scostamento dagli equilibri naturali comporta un seguito di conseguenze negative che oggi siamo in grado di stimare, almeno a grandi linee. Purtroppo i rimedi escogitati passano per una contrazione delle attività economiche che molti Paesi non vogliono accettare, e ciò comporta formidabili problemi politici e di pianificazione. Gli usi industriali dell'acqua dolce riguardano moltissimi settori: le macchine a vapore, il raffreddamento dei generatori di potenza, le centrali idroelettriche, gli scambiatori di calore e i radiatori, molti processi dell'industria chimica e via dicendo. Se non sono trattate e depurate, le acque industriali reflue possono produrre gravi inquinamenti chimici, e in molti casi lo scarico in mare o nei bacini interni delle acque di raffreddamento provoca un aumento della temperatura, causando un inquinamento termico le cui conseguenze sul microclima, sulla fauna e sulla flora sono spesso deleterie. In generale la crisi idrica si traduce in una vera e propria corsa contro il tempo, dove l'aumento della popolazione e delle attività umane si confronta con il reperimento e la distribuzione di nuove fonti. Ma non si può sperare di vincere la sfida senza una vera e propria rivoluzione culturale che parta dai Paesi ricchi e riconduca almeno in parte le attività dell'uomo nell'alveo del sistema ecologico complessivo. La desertificazione Il problema dell'acqua non è isolato, anzi è legato da vincoli deterministici, di causa ed effetto, e da vincoli statistici ad altri aspetti importanti dell'ambiente, del clima e dell'interazione tra uomo e natura. Per usare un termine oggi corrente, che tuttavia in questo caso è del tutto appropriato, si può dire che l'emergenza idrica è un fenomeno complesso, che si manifesta in un sistema assai ampio, l'ambiente terrestre, sede di molti altri fenomeni complessi che con quello s'intrecciano e interagiscono. Le caratteristiche tipiche di questo fenomeno, come di tutti i fenomeni complessi, sono almeno due: 1) l'effetto farfalla, cioè la grande sensibilità alle variazioni, anche minime, di certi parametri, dovuta alla non linearità delle interazioni tra le diverse variabili: a volte basta una piccola crescita o decrescita del valore di una variabile per scatenare, dopo qualche tempo, effetti grandiosi (è il cosiddetto «effetto farfalla», locuzione coniata dal meteorologo Edward Lorenz negli anni Sessanta: basta il battito d'ali di una farfalla nel Mar dei Caraibi per scatenare un tifone nel Mar della Sonda); 2) l'effetto soglia, cioè una brusca variazione di regime quando certe variabili (temperatura, umidità, popolazione, ecc.) superano determinati valori-soglia (allora si passa dal moto laminare a quello turbolento, dal comportamento lineare a quello non lineare e così via). Date queste peculiarità dei fenomeni complessi che si svolgono al suo interno, è impossibile prevedere l'evoluzione a lungo termine del sistema globale: quindi anche l'evoluzione del problema idrico è per sua natura imprevedibile nel lungo periodo. Tuttavia, come nel caso della meteorologia, sono possibili previsioni a breve, dalle quali si possono estrapolare alcune indicazioni di massima, certo non incoraggianti, sull'evoluzione remota e si possono fornire prescrizioni generali, come il risparmio, una miglior distribuzione dell'acqua, il disinquinamento e così via: insomma un cambiamento di mentalità nei confronti di questa risorsa. Uno dei fenomeni strettamente legati all'emergenza idrica è la desertificazione, che consiste in un'espansione dei deserti esistenti a occupare terreni semiaridi e degradati. Il degrado è quasi sempre dovuto a variazioni climatiche o ad attività umane, o a un'azione combinata delle due cause, e spesso costituisce il primo passo verso la formazione del deserto vero e proprio. C'è da osservare che non tutti sono d'accordo nel considerare la desertificazione un'emergenza: alcuni la ritengono un fenomeno ciclico naturale, come dimostrerebbe la contrazione di molte aree desertiche nel Sahara e in Australia. In ogni caso le cifre parlano: il 25% delle terre emerse è minacciato dalla desertificazione. In America Settentrionale e in Africa il 75% delle terre aride sono ad alto rischio. In Africa 900 milioni di persone sono minacciate dal fenomeno. I suoli agricoli degradati sono 3,3 miliardi di ettari in tutto il mondo. Il 20% dei suoli agricoli irrigui (su 250 milioni di ettari a livello globale) è colpito dalla salinizzazione (dovuta a un eccesso di evaporazione e a un uso smodato di fertilizzanti e antiparassitari chimici). Nel 1999 la salinizzazione interessava il 30% delle terre irrigue degli Stati Uniti, il 23 per cento della Cina e l'11 per cento dell'India. Nel frattempo la situazione è peggiorata. Alla desertificazione contribuisce in modo decisivo la distruzione delle foreste, che procede a un ritmo di 10 milioni di ettari all'anno, a causa degli incendi o della conversione dei suoli all'agricoltura. Non soltanto le aree esotiche dell'Africa e dell'America, ma anche vaste zone affacciate sul Mediterraneo, compresa la nostra penisola, sono soggette alla desertificazione. Il 6% della superficie europea è costituito da terre aride e il 2% si è già trasformato in deserto. In Italia ogni anno 30.000 ettari di suolo passano dall'uso agricolo all'occupazione urbana. Nell'Italia meridionale 3,7 milioni di ettari sono in uno stato di degrado predesertico. Sono 50.000 gli ettari di bosco distrutti ogni anno dagli incendi nel nostro Paese. È evidente che la crescente pressione demografica sulle rive del Mediterraneo contribuisce all'aggravarsi del fenomeno della desertificazione. All'inizio del Novecento si affacciavano sul Mare Nostrum 90 milioni di abitanti, oggi sono 300 e si prevede che nel 2050 siano 850 milioni. Le attività inquinanti e distruttive (nel senso più ampio del termine) di questa imponente massa di persone contribuiscono ad accelerare un fenomeno che a sua volta innescherà migrazioni verso altre aree, non sempre in grado di resistere alla pressione antropica. Una consapevolezza diffusa È interessante notare che, anche grazie alle campagne di sensibilizzazione degli ecologisti e agli allarmi di molti esperti, oltre che per esperienza diretta, si è venuta acuendo negli ultimi tempi la consapevolezza che l'acqua è una risorsa preziosa e limitata, tanto più che, a differenza di risorse come il petrolio o altre materie prime, non può essere sostituita da nessun'altra sostanza (se non... a tavola, e in misura molto limitata). Una conseguenza importante di questa presa di coscienza sono le campagne e i convegni per studiare e fronteggiare l'emergenza idrica, che si sono venuti moltiplicando e che ormai si organizzano un po' dovunque e a livelli diversi. Nel 2003, a Kyoto, nel corso del terzo Forum mondiale sull'acqua, è stata istituita la Giornata mondiale dell'acqua (il 22 marzo), mentre il tema dell'Expo 2008 di Saragozza sarà «L'acqua e lo sviluppo sostenibile». Ma se il moltiplicarsi degli incontri e delle discussioni denota un lodevole aumento della consapevolezza diffusa, resta da vedere quanti e quali provvedimenti di salvaguardia si riuscirà a mettere in pratica. Senza di ciò, la consapevolezza non farà che accrescere da una parte la preoccupazione e l'angoscia e dall'altra le tensioni internazionali che potrebbero sfociare in conflitti. Tra i problemi più difficili da affrontare vi è quello della traduzione a livello locale delle raccomandazioni e delle indicazioni emanate a livello internazionale: traduzione non semplice, visti gli interessi locali costituiti, le tradizioni, le pastoie burocratiche, le interferenze della malavita, i veti incrociati e così via. La tragedia del lago d'Aral «All'inizio bevi l'acqua, alla fine il veleno»: questo proverbio uzbeko esprime in modo succinto e drammatico il collasso ambientale e la catastrofe umana del lago d'Aral, dovuti all'ambizione pianificatrice dell'Unione Sovietica. Nel giro di 45 anni, il lago, situato tra l'Uzbekistan e il Kazakistan, ha perduto il 75% del suo volume e il 60% della sua superficie. I pianificatori sovietici sacrificarono deliberatamente questo enorme bacino, la cui superficie era fino al 1960 di circa 70.000 chilometri quadrati, più o meno come il lago Vittoria, in Africa, al quarto posto nella graduatoria mondiale: le acque dei due immissari principali, il SirDarja e l'Amu-Darja, furono deviate per irrigare immense piantagioni di cotone. A partire dal 1985, grazie ai satelliti, l'estensione del lago è stata controllata costantemente. Già in quell'anno la superficie era scesa a meno di 46.000 chilometri quadrati, per arrivare a 28.000 nel 1998. Estrapolando questa impressionante tendenza alla contrazione, si prevede che nel 2010 la superficie sarà di appena 21.000 chilometri quadrati, meno di un terzo della superficie iniziale (fatta salva un'inversione di tendenza di cui diremo). Nello stesso periodo il livello delle acque è sceso di 16 metri. Tutto ciò si accompagna a gravissimi problemi ambientali: l'aumento di salinità dovuto al mancato apporto degli immissari non consente più di pescare, con gravi problemi di alimentazione per gli abitanti della regione (le specie ittiche si sono ridotte da 24 a 4 e la fiorente industria conserviera del pesce è scomparsa); la terra un tempo occupata dalle acque è ricoperta da uno strato estremamente tossico di sale mescolato ai fertilizzanti e ai defolianti usati per molti anni nelle piantagioni di cotone. La cosa più grave, tuttavia, è che per decenni, fino al 1989, un'isola della parte meridionale del lago (il cosiddetto Grande Aral) ha ospitato i laboratori sovietici per lo sviluppo delle armi chimiche e batteriologiche. L'isola (che per ironia della sorte si chiama Rinascita) è oggi congiunta alla terraferma e i residui tossici e patogeni mai eliminati costituiscono una minaccia di portata incalcolabile per la salute della popolazione, già oggi molto compromessa dalla diffusione dei veleni nell'acqua e nell'aria. Inoltre la riduzione della massa idrica ha modificato il microclima, accentuando l'escursione termica annua (si va dai 50 gradi centigradi dell'estate ai -35 dell'inverno). Ciò ha comportato un aumento dell'evaporazione e della desertificazione. Mentre le piogge sono diminuite di dieci volte, si sono rinforzati i venti che disperdono i sali velenosi sulle zone agricole circostanti e anche molto più lontano (si stima che il 10% delle polveri in sospensione nell'atmosfera terrestre provenga dalle rive dell'Aral). Unica buona notizia è che dal 1996 la porzione settentrionale del lago, il cosiddetto Piccolo Aral, ha stabilizzato la propria superficie grazie al ripristino dell'afflusso del SirDarja, e sulle sue rive sono ricomparsi i cormorani e i pellicani. Forse c'è una speranza di arrestare o almeno rallentare una delle più gravi catastrofi ambientali di tutti i tempi. Un'emergenza mondiale La tragedia dell'Aral non è isolata: molti dei grandi fiumi cinesi (e non solo) sono inquinati dalle industrie chimiche che scaricano i loro rifiuti senza depurarli, mettendo a rischio l'approvvigionamento di acqua potabile in intere regioni della Cina. È un tema che con poche variazioni si ripete in tutto il mondo, soprattutto a scapito dei fiumi più grandi, condannati a raccogliere liquami, scorie nocive e residui tossici. Quindi la crisi idrica assume un aspetto sia quantitativo (diminuzione del volume d'acqua a disposizione di ciascuno) sia qualitativo (degrado della bontà: spesso l'acqua non è più inodore, incolore e insapore com'era l'acqua potabile di un tempo; ma anche quando obbedisca a queste norme della tradizione non è detto che sia buona, perché molti inquinanti sono subdoli e difficili o impossibili da rilevare con i nostri sensi). Questa situazione spinge a sfruttare da una parte fonti via via meno pure e dall'altra riserve di accesso via via più difficile, come le falde sotterranee profonde. Inoltre la penuria crescente minaccia di provocare conflitti tra gli Stati per il controllo delle risorse. Le guerre per l'acqua potrebbero presto sostituire le guerre per il petrolio che serpeggiano e talora divampano da decenni in tutto il globo. Le nazioni confinanti si contendono le risorse idriche di superficie o sotterranee. Le mafie locali o i potentati multinazionali cercano senza posa di impadronirsi dell'acqua potabile privatizzandola e di questi tentativi è sintomo allarmante, almeno in certi Paesi, l'assurda e crescente diffusione delle costosissime acque minerali (un litro di acqua minerale costa circa quanto mille litri di acqua del rubinetto, dove c'è il rubinetto, s'intende). E, per soprammercato, lo sfruttamento delle falde profonde, ormai sistematico in molte zone, potrebbe avere effetti imprevedibili sull'assetto idrogeologico e climatico di vaste aree. Ma tralasciamo le guerre, e occupiamoci brevemente di due grandiosi progetti di approvvigionamento, uno mediorientale e l'altro libico. Il «Canale della Pace» Se e quando si farà, sarà il primo collegamento tra due mari, il Mar Rosso e il Mar Morto (che in realtà è un lago, per quanto salatissimo): un canale di circa 200 chilometri, in gran parte coperto, che dal Golfo di Aqaba, all'estremità nord-orientale del Mar Rosso, scenderebbe di 400 metri fino al Mar Morto, alleviando i problemi idrici di Giordania, Palestina e Israele e ponendo fine all'agonia del Mar Morto. Il lago più salato del mondo si avvia infatti a tener fede al suo nome: negli ultimi trent'anni il suo livello si è abbassato di 25 metri e in un secolo la superficie si è ridotta di un terzo. L'esiguo apporto del Giordano, unico immissario, prosciugato a monte da dighe e prelievi agricoli, non può compensare i due miliardi di metri cubi d'acqua persi ogni anno dal lago per evaporazione, tanto che, se le cose continuano così, nel 2050 il Mar sarà definitivamente Morto (già ora le strutture del più vecchio stabilimento balneare, a Ein Gedi, risalenti ai primi del Novecento, distano un chilometro dall'acqua). Il previsto canale dei due mari - che per le sue auspicabili conseguenze benefiche sul piano politico in quell'area tormentata è stato battezzato «Canale della Pace» fornirebbe acqua potabile per dissalazione dell'acqua marina (850 milioni di metri cubi all'anno, che dovrebbero far fronte alle esigenze civili e agricole per una cinquantina d'anni), ed energia elettrica grazie al salto di 400 metri tra ingresso e uscita. Inoltre il livello del Mar Morto dovrebbe risalire di una decina di metri. Il rovescio della medaglia (non si ha mai niente per niente) sarebbe il calo della salinità dal 26 al 3 per cento, con gravi conseguenze per il turismo legato alle straordinarie proprietà curative delle acque e dei fanghi. Anche l'attività estrattiva subirebbe un contraccolpo. Dal Mar Morto si ricavano infatti cloruro di potassio e parecchi altri minerali, che alimentano una fiorente industria cosmetica. Per valutare i paventati scompensi ambientali e idrogeologici e le ripercussioni economiche e sociali, è stato avviato uno studio di fattibilità che dovrebbe concludersi nel 2008, se la Banca Mondiale riuscirà a raccogliere i fondi necessari, 11,3 milioni di euro. Finora Giappone, Francia, Stati Uniti e Olanda hanno stanziato 6,6 milioni di euro. Il costo previsto dell'opera si aggira sui 3,5 miliardi di euro e i lavori dovrebbero durare un quinquennio. Il «Grande Fiume di Gheddafi» Se il «Canale della Pace» è ancora un sogno, il «Grande Fiume» di Gheddafi è in via di completamento. Alcuni inneggiano al capolavoro dell'ingegneria civile e idraulica, altri lo definiscono il delirio faraonico di un leader spinto dal desiderio incoercibile di dare alla Libia un'identità nazionale forte e svincolata dalla tradizione occidentale e di fare del suo Paese il punto di riferimento per tutta l'Africa. L'idea è semplice e grandiosa: scavare nelle zone desertiche del sud centinaia di pozzi profondi fino a mille metri, captare le abbondanti acque fossili del sottosuolo e trasportarle fino alle città costiere di Tripoli, Sirte, Bengasi, Tobruk, dove vive il 70 per cento della popolazione, attraverso 4000 chilometri di condutture in calcestruzzo precompresso. Nella Libia occidentale il Grande Fiume parte dalla zona di Jebel al-Hasawinah e dal Fezzan e si divide in due direttrici, una verso Tripoli e l'altra verso Sirte; nella Libia orientale l'acquedotto parte da Al Kufrah, dal Serir e dal deserto libico in direzione di Bengasi. Il costo, ben 30 miliardi di dollari, è sopportato per intero dalla Libia, grazie ai proventi del petrolio (che il petrolio serva a finanziare l'acqua è proprio un segno dei tempi!). Sarebbe stato più economico costruire una serie di impianti di dissalazione sulla costa del Mediterraneo, ma l'acquisto e la manutenzione di questi impianti avrebbe perpetuato la dipendenza dall'estero, da cui Gheddafi si vuole svincolare al più presto. In Libia i proventi del petrolio sono stati investiti con lungimiranza: strade, collegamenti televisivi, reti elettriche. Ma il fiore all'occhiello di questo fervore costruttivo indirizzato alle opere pubbliche è senza dubbio il Grande Fiume, il cui tracciato a forma di pi greco compare anche sulla banconota da 20 dinari. Non è solo all'approvvigionamento idrico delle città che serve l'acquedotto, ma anche all'irrigazione: l'agricoltura specializzata delle oasi e delle piane costiere ha subito un incremento impressionante. In prospettiva Gheddafi mira anche a rendere fertile il deserto, ma è un'operazione sulla quale molti esprimono forti dubbi. Come nel caso del Canale della Pace, non mancano i rischi ambientali: prima o poi (forse tra una cinquantina d'anni) l'acqua sotterranea, che come tutte le risorse fossili non è rinnovabile, si esaurirà, con conseguenze imprevedibili, forse molto negative, sul microclima libico. Inoltre Sudan ed Egitto sono preoccupati che il pompaggio non intacchi le loro riserve freatiche. Per il momento i frutti benefici del progetto sono lì a dimostrare che l'acquedotto più lungo della terra non è solo il sogno di un megalomane. Ma, visto che non si ha niente per niente, resta da valutare il prezzo che l'ambiente, la politica e le popolazioni dovranno pagare. Giuseppe O. Longo («Prometeo» n.98/07)