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MORENTI, SOSPENSIONE DEI TRATTAMENTI,
EUTANASIA, LIVING WILL
di Mauro Sella
1. I diversi profili dell’eutanasia. – 2. Il concetto di stato vegetativo permanente e le
problematiche connesse. – 3. Trattamenti medici e procedure di assistenza alle funzioni vitali.
– 4. Le dichiarazioni anticipate di trattamento. – 5. I casi Welby ed Englaro: ulteriori spunti di
riflessione. – 6. Scenari futuri in materia di danno esistenziale.
1. I diversi profili dell’eutanasia.
Legislazione: Cost. 13, 32 – c.c. 5.
Bibliografia: Stella 1984 – Barni 1985 – Eusebi L. 1985 – Portigliatti Barbos 1990 – Bellotto 1993 –
Guglielmi M. 1999 – Viganò F. 2000 – Cagli 2001 – Magro 2001 – Cattorini 2002 –
Francolini 2002 – Canestrari 2003 – Cassano e Catullo 2003 – Palmaro M. 2007.
La sensazione che è maturata dopo le vicende di Piergiorgio Welby e
di Eluana Englaro (di cui parleremo nel dettaglio poco oltre) è che
nell’ambito del nostro ordinamento il risarcimento del danno esistenziale
(e del danno in generale) legato ad episodi di malati terminali sia
questione che presenti aspetti di problematicità vasti ed articolati:
sussistono ancora accesi dibattiti generati dai dubbi su questioni
terminologiche (il vero significato di eutanasia e trattamento
terapeutico), limiti di validità, efficacia e vincolatività delle direttive
anticipate, protezione giuridica di determinate posizioni soggettive (con
conseguente rilevanza in tema di antigiuridicità delle varie condotte).
Tuttavia, altra sensazione è quella che, una volta risolti (e non
necessariamente, come vedremo, con interventi legislativi) tali dubbi,
l’affermazione di risarcibilità del danno esistenziale possa derivare quasi
quale naturale conseguenza delle soluzioni prospettabili.
Appare pertanto opportuno partire proprio dal tentativo di dipanare i
dubbi sopra prospettati, al fine di dimostrare la possibilità, anche de iure
condito, della possibilità di riconoscere in favore di determinati soggetti
ed in determinate situazione il diritto ad ottenere il risarcimento di tale
categoria di danno.
Come si è detto, uno dei principali problemi da affrontare è il
significato che deve essere oggi attribuito al termine «eutanasia».
Tale termine deriva dal greco «eu thanatos» che può essere tradotto in
«dolce morte»; peraltro, il fenomeno esisteva già nell’antica Grecia e
nell’impero romano e successivamente ha assunto diverse forme e
finalità (criminali, razziali, economiche, sperimentali ecc. …). Di
eutanasia, ad esempio, si è parlato a proposito del programma politico del
nazismo che, tra il 1939 ed il 1941, eliminò settantamila malati psichici,
infermi e handicappati, definiti «esistenze prive di valore vitale».
Nel contesto attuale, l’eutanasia ha assunto forma individualistica e
finalità di pietas ma continua a conservare al suo interno molteplici
fenomeni difficilmente accorpabili fra loro.
In linea generale si individuano tre diverse tipologie di eutanasia.
La c.d. «eutanasia attiva» («mercy killing»), comprende le ipotesi di
soppressione della vita di una persona attraverso una condotta
commissiva e ricorre allorquando il medico od un altro soggetto pongono
fine alla vita del malato o ne accelerano la morte ovvero, nelle ipotesi di
suicidio assistito, realizzano una condotta di ausilio a quella principale
del malato.
Presupposti fattuali sono la condizione dell’infermo (uno stato di
sofferenza insopportabile, di solito incidente sulla fase terminale di una
malattia mortale) e la motivazione della condotta (la pietà nei confronti
della vittima).
Si ha invece la figura della «eutanasia passiva» («letting die»)
allorquando si proceda alla sospensione del trattamento di mantenimento
in vita del paziente. Rispetto all’eutanasia attiva, essa viene attuata
mediante un comportamento di natura omissiva, che rende possibile
qualificare come causa della morte direttamente la malattia, anziché la
condotta umana.
Invero, la distinzione tra condotte commissive ed omissive appare
poco nitida in presenza di situazioni in cui risulta essere necessario un
intervento attivo (si pensi, ad esempio, all’interruzione della respirazione
o dell’alimentazione artificiale). Peraltro, la dottrina ha precisato che è
scorretto affermare che spegnere una macchina di sostengo vitale realizzi
un gesto di eutanasia attiva, in quanto «attivo» è il gesto eutanasico che
pone di per sé la causa della morte (ad esempio l’iniezione letale), mentre
«passivo» è quello che non contrasta con la patologia mortale (Cattorini
P. 2002, 2, 267).
Nella maggior parte dei casi, inoltre, l’eutanasia passiva coinvolge
soggetti in stato di incoscienza e dunque non in grado di esprimere il
proprio consenso all’interruzione del trattamento. In queste ipotesi,
«eutanasia passiva non volontaria», si scontrano due esigenze parimenti
degne di tutela: da un lato, quella di garantire al paziente le residue
speranze di vita, dall’altro, quella di evitare il c.d. «accanimento
terapeutico» su di un paziente in fase terminale.
È in quest’ottica che assumono particolare rilevanza le c.d. «direttive
anticipate» («living will»), tendenti a valorizzare il più possibile il diritto
(e la conseguente responsabilità) di decidere del paziente in merito alla
propria vita.
Del resto, proprio riguardo al diritto del paziente di rifiutare le cure,
anche qualora siano necessarie per la propria sopravvivenza, ed al
corrispondente divieto di «coercizione del vivere, da tempo la dottrina ha
individuato negli artt. 13 (inviolabilità della libertà personale) e 32, 2°
co., Cost. (diritto al rifiuto delle cure sanitarie) il fondamento e la
garanzia a livello costituzionale (Stella F. 1984, 1018; Barni M. 1985, 83
ss.; Viganò F. 2000, 452 ss.).
Anche nella «eutanasia passiva volontaria, peraltro, si affrontano, da
un lato, il diritto alla libertà di valutazione dell’individuo capace di
intendere e di volere e la privatezza delle scelte che riguardano solo la
sua persona, dall’altro, l’intangibilità della persona umana e la rilevanza
giuridica di una lesione della vita in cui vi è l’intervento di un altro
soggetto (Cassano G. e Catullo F.G. 2003, 4, 1369).
Peraltro, la distinzione tra eutanasia attiva e passiva è stata aspramente
criticata da una parte della dottrina la quale l’ha definita null’altro che un
sofisma, che sembra ignorare come l’uomo possa compiere il male anche
semplicemente astenendosi dal compiere un proprio dovere: un medico
che si astenesse dal fornire la necessaria nutrizione ad un paziente
ricoverato per un intervento routinario sarebbe perseguito penalmente
per omicidio volontario; ne deriva che può configurare un atto eutanasico
di pari rilevanza tanto un comportamento attivo, quanto una condotta
passiva. La discussione semmai, secondo tale dottrina, deve vertere
intorno alla sostenibilità giuridica e morale della scelta eutanasica nel suo
complesso, senza comode scorciatoie che facciano leva sulla distinzione
tra attivo e passivo (Palmaro M. 2007).
Si parla invece di «eutanasia indiretta» quando l’abbreviazione della
vita è un effetto di ulteriori terapie praticate con il consenso del paziente
e destinate ad alleviare le sue sofferenze in prossimità della morte.
L’anticipazione della morte, dunque, viene visto in queste ipotesi come
un effetto secondario prodotta da cure palliative finalizzate
all’attenuazione del dolore nel malato terminale.
Solitamente viene associata al tema della c.d. «terapia del dolore» e
viene tenuta distinta dall’eutanasia attiva diretta, in cui la finalità
principale è quella di ridurre la vita del paziente.
2. Il concetto di stato vegetativo permanente e le problematiche
connesse.
Legislazione: Cost. 2, 32.
Bibliografia: Jennet e Plum 1972 – Barni 2001 – Cattorini 2002.
Da un punto di vista scientifico, lo stato vegetativo permanente è uno
stato clinico di gravissimo e irreversibile danno dell’encefalo che
colpisce in modo prevalente gli emisferi cerebrali, risparmiando almeno
in parte il tronco encefalico. Esso si verifica tipicamente in due
situazioni: nell’encefalopatia post-anossica, per esempio per arresto
cardiaco non tempestivamente corretto, cioè conseguente alle lesioni
dell’encefalo dovute alla mancanza d’ossigeno e nelle encefalopatie
traumatiche (anche in questo caso una componente anossico-ischemica
contribuisce per lo più alla condizione morbosa). Quando il danno
emisferico sia completo e definitivo, il paziente mantiene una vita
vegetativa (respiro, circolo, termoregolazione) e continua a presentare i
riflessi del tronco encefalico (deglutizione, tosse, risposta mimica al
dolore, ecc.) (Cattorini P. 2002).
Uno dei punti nodali riguarda la capacità di consapevolezza del
soggetto in stato vegetativo permanente. Alcuni neurologi, infatti,
sostengono l’esistenza di un dolore extracorticale e ritengono
indimostrabile empiricamente l’inconsapevolezza dei malati che versino
in tale stato. In linea di principio, inoltre, non è possibile affermare né
negare la possibilità che esista una forma rudimentale di capacità
senziente anche in presenza di un danno corticale, anche se ad oggi non
esistono dati scientifici in suo favore.
Il concetto di stato vegetativo permanente è stato descritto, in due
importanti documenti elaborati dalla American Academy of Neurology e
dall’American Medical Association, come «uno stato di incoscienza
permanente ad occhi aperti» nel quale il paziente ha periodi di veglia e
cicli sonno/veglia fisiologici, ma non è mai consapevole di sé, né
dell’ambiente circostante posto che tale stato presuppone un tronco
cerebrale funzionante in presenza di perdita totale delle altre funzioni
cerebrali.
In Italia il Comitato Nazionale per la Bioetica si è occupato del tema
nel 1995 emanando un documento intitolato «Questioni bioetiche
relative alla fine della vita umana». Dopo aver illustrato la situazione
clinica nella quale le funzioni vegetative sono conservate e la
sopravvivenza è possibile con l’ausilio di mezzi ordinari, il CNB si è
domandato se in casi del genere debba ritenersi possibile un recupero
della coscienza ed ha analizzato i criteri clinico-scientifici sin qui
all’uopo proposti, giungendo alla conclusione che una diagnosi di
irreversibilità possa essere posta con sufficiente certezza solo in casi
particolarmente gravi e con l’ausilio di affidabili indagini strumentali.
Da un punto di vista giuridico, dunque, il soggetto in stato vegetativo
permanente deve essere considerato ancora in vita. Anche da un punto di
vista etico, peraltro, non è possibile giungere ad una soluzione differente.
Il valore e la qualità di persona umana, infatti, non possono essere
subordinate o rapportate alla capacità di esercitare funzioni o facoltà
superiori, proprie per l’appunto della persona umana. Gli esseri umani
limitati in tale capacità di esercizio non possono per ciò esserlo nei propri
diritti alla tutela ed alla dignità della vita. Ragionando in caso contrario,
si giungerebbe ad aberrazioni quali il sacrificio di soggetti con limitate
capacità funzionali in nome di supposti interessi superindividuali.
La prolungata sopravvivenza di questi pazienti e la incertezza
prognostica, peraltro, hanno sollevato notevoli problemi di natura etica,
scientifica e giuridica, circa la durata dei trattamenti terapeutici.
In Italia, un gruppo di studio della Società Italiana di Neurologia ha a
suo tempo proposto di considerare lecita la sospensione di ogni terapia di
sostegno vitale, incluse la nutrizione e la idratazione artificiali, dando per
scontata l’identificazione della condizione di stato vegetativo
permanente con la morte della persona. Tale criterio, tuttavia, è stato
ritenuto inaccettabile dal CNB stante un ordinamento giuridico che non
prevede alcun «criterio corticale» per l’accertamento della morte,
identificandola invece con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo.
In tale quadro si inserisce il concetto di eutanasia quale gesto teso non
«a dare la morte» bensì «ad accompagnare verso la morte». Il confine è
sottile e per certi versi labile ma segna la linea di demarcazione tra lecito
ed illecito, almeno allo stato attuale. Invero, l’atto eutanasico deve essere
valutato nel suo complesso e non già solo nelle sue forme di attuazione o
nelle sue conseguenze. In altre parole, il vero punto di riferimento deve
essere il fine del gesto, che allorquando sarà quello di difendere e
rispettare la vita in senso lato, non potrà mai dirsi illecito.
Il dovere (ed il corrispondente diritto) sia per il medico che per il
paziente, infatti, non è quello di vivere ad ogni costo bensì quello di
vivere con dignità.
La scelta terapeutica che persegua tale fine, ancorché non la più
adeguata da un punto di vista di prolungamento dell’esistenza, è
senz’altro da considerarsi la migliore, sia da un punto di vista etico che
giuridico. Il riferimento al best interest è proprio quello alla qualità di
vita del paziente, al suo svolgimento dignitoso, rispetto ad un inutile ed
umiliante prolungamento.
3. Trattamenti medici e procedure di assistenza alle funzioni vitali.
Legislazione: Cost. 2, 32.
Bibliografia: Barni 2001 – Aquino e Tallarita 2002 – Cattorini 2002.
Nell’anno di sua istituzione (il 1993) la House of Lords Select
Commitee on Medical Ethics ha dato il via ai propri lavori con una
sentenza – per certi versi rivoluzionaria – sul caso Anthony Bland,
autorizzando i medici ad interrompere la ventilazione, l’idratazione e la
nutrizione artificiale in un paziente in stato di coma vegetativo
permanente da tre anni. La sentenza prendeva le mosse da due premesse
fondamentali: la prima per la quale l’individuo capace di intendere e di
volere può legittimamente opporre il suo rifiuto ad ogni trattamento
medico, anche qualora questo fosse necessario per mantenerlo in vita; la
seconda per cui la «sacralità della vita» è da intendersi in senso relativo,
consentendo l’ordinamento in più occasioni il suo sacrificio (ad esempio
in caso di legittima difesa).
Il punto attorno al quale ruota la decisione è quello della
qualificazione giuridica dell’alimentazione artificiale del paziente come
medical treatment.
Il percorso argomentativo seguito dai Lords non è peraltro privo di
ambiguità: dapprima l’alimentazione mediante sonda naso gastrica viene
considerata quale trattamento medico a tutti gli effetti, quindi la scelta
della sua interruzione è qualificata come omissione e non azione, infine
viene invocata l’insensibilità al dolore del paziente in stato vegetativo
permanente per legittimare una morte che, in caso contrario, risulterebbe
atroce e crudele.
Tali argomentazioni hanno incontrato dissensi all’interno della stessa
House of Lords; voci contrarie a considerare l’alimentazione artificiale
quale semplice trattamento medico (al pari, ad esempio, della
somministrazione di antibiotici) si sono levate per sottolineare invece
l’esistenza di un diritto assoluto ed intangibile al nutrimento dell’essere
umano a cui corrisponde un preciso dovere in tal senso del medico, tanto
che diviene irrilevante considerare la sua interruzione quale condotta
omissiva o commissiva.
In realtà, almeno da un punto di vista medico-legale, non paiono
esservi dubbi sulla qualificazione dell’idratazione e della nutrizione
artificiali quali trattamenti medici. Il vero problema, dunque, è quello di
verificarne, di volta in volta, la proporzionalità rispetto alle condizioni
del malato.
Non può infatti essere condivisa l’opinione di chi considera
l’alimentazione artificiale sempre doverosa; invero, scopo del
trattamento (perché di trattamento si tratta, come si è detto) non è né la
guarigione né il miglioramento della qualità di vita, bensì il mero
prolungamento della stessa in un soggetto in stato di incoscienza.
D’altro canto, non si può neppure aderire all’indirizzo che ha preso
piede nei paesi nordeuropei di considerare tale trattamento sempre inutile
in pazienti in stato vegetativo permanente, in quanto il sostentamento e la
difesa della vita è pur sempre l’obbiettivo primario della medicina.
La domanda vera, allora, è forse quella del «quando» sospendere il
trattamento, intesa sia in senso temporale che in relazione allo stato del
malato.
Vi è infatti chi considera lo stato vegetativo permanente una prigione
senza chiavi, in cui l’applicazione delle terapie di sostegno vitale
equivale a mantenere il paziente in una condizione di esilio e
proscrizione (come nel caso di Eluana Englaro).
Altri vedono in tale stato il crollo del mito dell’autodominio e la
vittoria dell’abbandono e della dipendenza dagli altri soggetti che ci
circondano.
Appare allora più giusto concedere una presunzione di favore
all’alimentazione artificiale, in ragione sia del riconoscimento del valore
uomo, sia del fine primario della medicina, la difesa della vita, sia dello
scarso carattere invasivo del trattamento.
Il limite temporale, tuttavia, rimane pur sempre di difficile
individuazione. Posto infatti che si debba tendere ad un generale
riconoscimento dell’offerta di cure elementari di sostegno vitale, resta il
fatto che soggetti in stato vegetativo permanente (o comunque in stato di
incoscienza) posso restare in tale condizione per un prolungato periodo
di tempo.
È evidente allora che primaria sarà la volontà del soggetto, qualora
questa sia stata manifestata prima del sopraggiungere della condizione di
incoscienza. Primaria, si è detto, ma non vincolante in assoluto;
l’attualità del consenso e la corrispondenza dello stato ipotizzato al
momento di sua manifestazione con quello di sua applicazione restano
pur sempre elementi soggetti alla valutazione del medico e
dell’eventuale rappresentate legale del malato.
Sul punto ha preso posizione già nel 1989 l’American Academy of
Neurology affermando che
«quando si è diagnosticato con accuratezza che un paziente è in stato
vegetativo permanente e quando è chiaro che lo stesso non avrebbe voluto
ulteriori trattamenti medici e la famiglia è concorde, ogni ulteriore trattamento,
inclusa la somministrazione artificiale e idratazione, può essere sospeso».
Nella sua position l’accademia conferma dunque la qualificazione di
trattamento medico dell’alimentazione artificiale e pone l’accento,
oltreché sulla volontà del pregressa del malato e di quella attuale della
famiglia, altresì sulla verifica da parte dei sanitari dello stato e delle
prospettive del paziente.
Proprio l’incertezza prognostica può, in taluni casi, frenare la scelta di
interruzione del trattamento. Tuttavia, anche in questo caso occorre
riferirsi al criterio di proporzionalità sopra visto: non è solo la condizione
irreversibile di incoscienza a legittimare (unitamente agli altri fattori
esaminati) la decisione di non prolungare l’alimentazione artificiale. La
presenza di un lieve grado di coscienza, infatti, se da un lato induce a
ritenere presente nel paziente una consapevolezza della propria esistenza
dall’altro fa pensare anche ad una cognizione della propria condizione,
dalla quale può derivargli sofferenza e umiliazione.
Inoltre, la prosecuzione dell’alimentazione artificiale in soggetti in
stato vegetativo permanente, che quindi in realtà non percepiscono né la
sete né la fame, non soddisfa un loro bisogno quanto piuttosto
un’esigenza di attenzione e di cura nei loro confronti da parte dei parenti
(e a volte dei medici).
È da ritenere che una corretta applicazione del criterio di
proporzionalità, seppur con tutte le difficoltà sopra evidenziate, potrebbe
addirittura condurre ad un aggiramento dell’ostacolo, vale a dire al
superamento dell’esigenza di trovare una causa di legittimazione
dell’eutanasia. Infatti, in tali casi, non di pratica eutanasica si dovrebbe
parlare, quanto piuttosto di corretta scelta terapeutica.
4. Le dichiarazioni anticipate di trattamento.
Legislazione: Cost. 2, 32 – l. 28.3.2001, n. 145 (ratifica della Convenzione sui diritti umani e la
biomedicina).
Bibliografia: Barni 2001.
Il tema centrale della questione è senz’altro rappresentato dalle c.d.
«dichiarazioni anticipate di trattamento», spesso indicate con
l’espressione inglese «living will».
Si tratta in sostanza di un documento con il quale una persona, dotata
di piena capacità di intendere e di volere, esprime la propria volontà in
merito ai trattamenti medici e terapeutici ai quali desidererebbe o meno
essere sottoposta nel caso in cui, nel corso della malattia o a causa di un
evento improvviso, non fosse più in grado di esprimere il proprio
consenso o dissenso informato.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica si è occupato delle dichiarazioni
anticipate in uno specifico documento approvato il 18 dicembre 2003;
prima di questo, peraltro, il tema era già stato sfiorato dallo stesso
comitato nel documento intitolato «Questioni bioetiche sulla fine della
vita umana» del 14 luglio 1995.
Lo stesso comitato, inoltre, nel documento del 2003, evidenzia i più
importanti atti di riferimento dal punto di vista giuridico.
Tra questi deve innanzitutto essere segnalata la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, al cui art. 3, intitolato «Diritto
all’integrità personale» riconosce il consenso informato del paziente
all’atto medico quale suo vero e proprio diritto fondamentale e non più
solo quale requisito di liceità della condotta del sanitario. Il testo della
disposizione, peraltro, è ripreso nella nuova Costituzione europea, in
corso di ratifica da parte degli stati membri dell’unione, al cui art. II-63
ribadisce il diritto fondamentale di ogni individuo di esprimere il proprio
consenso informato, secondo le modalità definite dalla legge (con
evidente invito, dunque, agli stati di appartenenza di provvedere a
legiferare in tal senso).
A livello internazionale merita menzione particolare la Convenzione
sui diritti umani e la biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997 e
ratificata in Italia con la l. 22.3.2001, n. 145, nella quale si conferma la
centralità della tutela della dignità e della identità della persona e si
attribuisce particolare rilievo alla volontà anticipata del paziente,
stabilendo che essa debba essere presa in considerazione.
Prima della ratifica della convenzione da parte dell’ordinamento
italiano, il Codice di deontologia medica aveva già fatto proprie le
indicazioni in esso contenute, richiamandole in particolare negli artt. 34,
35 e 36. Il Nuovo Codice di deontologia medica, approvato il 16
dicembre 2006 ha mantenuto intatti i principi base, articolandoli ed
integrandoli.
L’art. 35, nell’ambito dei principi di acquisizione del consenso
informato, dispone che, in presenza di documentato rifiuto di persona
capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o
curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la
volontà della persona. Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza,
nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della
persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico,
tenendo conto delle precedenti volontà del paziente. Il successivo art. 36
prevede che, allorché sussistano condizioni di urgenza, tenendo conto
delle volontà della persona se espresse, il medico deve attivarsi per
assicurare l’assistenza indispensabile.
Particolarmente significativo, riguardo alla problematica legata alle
direttive anticipate, il contenuto dell’art. 38.
« Il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che
caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di
curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della
stessa.
Il medico, compatibilmente con l’età, con la capacità di comprensione e con la
maturità del soggetto, ha l’obbligo di dare adeguate informazioni al minore e
di tenere conto della sua volontà.
In caso di divergenze insanabili rispetto alle richieste del legale rappresentante
deve segnalare il caso all’autorità giudiziaria; analogamente deve comportarsi
di fronte a un maggiorenne infermo di mente.
Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve
tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo
stesso in modo certo e documentato »
(art. 36, Nuovo Codice di deontologia medica).
È importante sottolineare come il Comitato Nazionale per la Bioetica
abbia precisato nel documento del 2003 che le dichiarazioni anticipate
non debbano essere considerate una semplice estensione di un consenso
informato ormai troppo standardizzato e formalizzato nella prassi
medica. Aldilà di ogni considerazione sulla partecipazione attiva e
consapevole del paziente nelle scelte terapeutiche che lo riguardano e sul
rigetto della logica del mero formalismo del consenso (troppo spesso
concretizzatasi nell’imposizione al paziente della sottoscrizione di
generici «moduletti» da parte dei sanitari), il vero significato delle
dichiarazioni anticipate viene correttamente individuato dal comitato
nella ideale prosecuzione di quel dialogo costruttivo tra medico e malato
(che nel frattempo non possa più attivamente prenderne parte) che è al
contempo il punto di partenza e di arrivo del consenso informato.
Il comitato, inoltre, si è preoccupato di analizzare e, possibilmente,
risolvere, i dubbi relativi alla struttura ed alle modalità di attuazione delle
dichiarazioni anticipate, soffermandosi in particolare su alcuni temi
particolarmente dibattuti.
5. I casi Welby e Englaro: ulteriori spunti di riflessione.
Legislazione: Cost. 2, 13, 32 – c.c. 5 – c.p.c. 700 – c.p. 575, 576, 577, 579, 580 – l. 23.12.1978, n. 833,
istituzione del servizio sanitario nazionale, art. 1 – l. 28.3.2001, n. 145, ratifica ed esecuzione della
Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere
umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina.
Bibliografia: Sella 2006 – Welby 2006 – Alpa 2007.
Due recenti casi di cronaca offrono ulteriori spunti di riflessione. Il
primo riguarda quello di Piergiorgio Welby, al quale nel 1963, all’età di
18 anni, veniva diagnosticata una distrofia fascio-scapolo-omerale, una
patologia che secondo la letteratura medica attuale viene univocamente
definita come malattia degenerativa dei muscoli scheletrici, progressiva
ed ereditaria; lentamente progressiva che interessa, in particolare, i
muscoli della faccia e delle spalle. Le funzioni intellettive sono normali.
L’insufficienza respiratoria è presente nella maggior parte delle forme
distrofiche. Non vi sono dunque terapie specifiche: il medico è costretto
ad assistere impotente alla progressione inesorabile della perdita di forze
e della atrofia.
A distanza di oltre 40 anni dalla prima diagnosi, Welby decideva di
chiedere al Tribunale di Roma il distacco dal ventilatore polmonare che
lo manteneva in vita. Il giudice tuttavia dichiarava il ricorso ex art. 700
c.p.c. integralmente inammissibile (non pronunciandosi, pertanto, sulla
richiesta di distacco dal ventilatore polmonare formulata da Piergiorgio
Welby) affermando che: i) pur riconoscendo la sussistenza nel nostro
ordinamento giuridico del principio di rango costituzionale
all’autodeterminazione individuale e consapevole in materia di
trattamento sanitario, la sua attuazione pratica, in caso di rifiuto o di
interruzione di terapie di mantenimento in vita del paziente, non era
possibile in assenza di una normativa specifica, atteso che la legislazione
positiva si orienta, anzi, in senso contrario, rispondendo essa al principio
della indisponibilità della vita umana, alla luce di quanto disposto «dagli
artt. 5, c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da
determinare un danno permanente, 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580, c.p.,.,
che puniscono, in particolare, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al
suicidio»; ii) anche se si doveva dare atto che «il divieto di accanimento
terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali
di tutela della persona, esso tuttavia sul piano dell’attuazione pratica
lascia il posto all’interpretazione soggettiva ed alla discrezionalità nella
definizione di concetti, sì, di altissimo contenuto morale e di civiltà, ma
che sono indeterminati ed appartengono ad un campo non ancora
regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall’intervento
del Giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono
il ricorso all’analogia o ai principi generali dell’ordinamento»; iii)
conseguentemente «il diritto del ricorrente di richiedere l’interruzione
della respirazione assistita deve ritenersi sussistente, ma trattasi di un
diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento giuridico, in altri
termini in assenza di una previsione normativa degli elementi concreti,
di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che
va considerato “accanimento terapeutico”, va esclusa la sussistenza di
una forma di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito
con inammissibilità dell’azione cautelare» (Trib. Roma, ord.,
16.12.2006, in www.personaedanno.it).
Avevamo a suo tempo criticato (Sella 2006) – poi avallati da
autorevole dottrina (Alpa 2007, 1, 78) – la scelta del tribunale romano di
cercare (quasi disperatamente invocare) una norma specifica che
autorizzasse l’accoglimento della richiesta formulata da Welby anziché
considerare i principi costituzionali a tutela del diritto a guarire, se
possibile, altrimenti a vedere le proprie sofferenze alleviate ed
essere aiutato a morire in maniera dignitosa e bilanciarli con le
disposizioni in materia penale affermandone la prevalenza.
A ben vedere, sono le stesse critiche mosse dal Tribunale di Roma,
questa volta in sede penale, nella sentenza di assoluzione del medico che
assistette Welby negli ultimi istanti di vita.
« Quando si riconosce l’esistenza di un diritto di rango costituzionale, quale
quello all’«autodeterminazione individuale e consapevole» in materia di
trattamento sanitario, non è, poi, consentito lasciarlo senza tutela, rilevandone,
in assenza di una normativa secondaria di specifico riconoscimento, la sua
concreta inattuabilità sulla scorta dell’esistenza di disposizioni normative di
fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario, quali «gli artt. 5 c.c., che vieta
gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno
permanente, e 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580, c.p., che puniscono, in
particolare, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio», nonché quali gli
artt. 35 e 37 del codice di deontologia medica. In realtà, se si accogliesse una
tale conclusione, potremmo incorrere in una palese violazione dei principi che
presiedono alla disciplina della gerarchia delle fonti, in quanto non è
consentito disattendere l’applicazione di una norma costituzionale sulla scorta
dell’esistenza di norme contrastanti di valore formale inferiore, perché delle
due è l’una: o si privilegia l’interpretazione che faccia salvo il principio
costituzionale con immediata applicazione di quest’ultimo, disattendendo
l’interpretazione contraria della norma, (sul punto la Corte costituzionale si è
più volte pronunciata negando la fondatezza della questione di costituzionalità
eventualmente sollevata nel caso specifico, perché il Giudice tra
interpretazioni diverse avrebbe dovuto privilegiare quella conforme alla norma
costituzionale immediatamente applicabile, potendo autonomamente
disattendere interpretazioni di segno diverso a quest’ultima; vedi al riguardo
ad esempio: sent. 6.7.01, n. 224; ord. 4.7.02, n. 315) oppure, in caso di
insuperabile conflitto, si deve sollevare questione di legittimità costituzionale,
ma certamente non si può lasciare inattuato un principio costituzionale e senza
tutela giuridica il diritto soggettivo che da esso discende. D’altra parte neppure
il Giudice civile nella sua motivazione ha mai ritenuto di poter invocare
esplicitamente a sostegno della propria decisione quella teoria, ormai desueta e
superata da univoca giurisprudenza costituzionale e di legittimità, per la quale
le disposizioni costituzionali si suddividono in norme programmatiche, ovvero
non immediatamente applicabili senza normazione attuativa di tipo secondario
e sostanzialmente non cogenti, ed in norme precettive, ovvero
immediatamente applicabili. D’altra parte è impossibile sostenere una
ineffettività del principio costituzionale di cui all’art. 32, co. 2, Cost., alla cui
immediata precettività, anzi, lo stesso legislatore ordinario si vincolava,
quando per costringere taluno, anche se incapace di intendere e di volere, a
sottoporsi ad un trattamento sanitario riteneva di emanare una apposita legge
(1. n. 180/78), Se da un punto di vista formale appare del tutto arduo operare
una comparazione tra una previsione costituzionale ed una legge ordinaria, ciò
appare ancora più difficile se il confronto viene fatto con una norma contenuta
in un codice di deontologia professionale, soprattutto quando si arrivi ad
affermare, poi, la prevalenza di quest’ultima. Oltre al fatto che ciò non è
sostenibile neppure da un punto di vista sostanziale, poiché nelle stesso codice
di deontologia medica si dice una cosa ben diversa all’art. 37, che appare
direttamente applicabile alla fattispecie in esame: «in caso di malattia a
prognosi sicuramente infausta o pervenuta alla fase terminale, il medico deve
limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiane
inutili sofferenze», mentre quanto riferito all’art. 35- «anche su richiesta del
malato il medico non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a
provocarne la morte» - appare essere una affermazione di principio del tutto
generica, contemperata poi da previsioni riferite a casi particolari, come è
appunto il caso previsto dall’art. 37 dello stesso codice deontologico, codice
che altrimenti conterebbe al suo intimo elementi di insuperabile
contraddittorietà. In ogni caso l’azione di interruzione di una terapia non può
essere concettualmente assimilata all’espletamento di «un trattamento diretto a
provocare la morte» del paziente, poiché la prima costituisce mera cessazione
di una terapia precedentemente somministrata mentre il secondo è
l’attivazione ex novo di un intervento terapeutico finalizzato al decesso del
paziente. Quanto poi all’ulteriore previsione contenuta nell’art. 37 e
riguardante anche l’obbligo per il medico di «proseguire nella terapia di
sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile», essa è esplicitamente
riferita al «caso di compromissione dello stato di coscienza» del paziente, che
è ipotesi del tutto diversa rispetto al caso in esame, nel quale Piergiorgio
Welby è stato fino all’ultimo cosciente »
(Trib. Roma 17.10.2007, in www.personaedanno.it).
Parimenti significative le critiche all’ordinanza del G.I.P. che aveva
imposto al P.M. la formulazione dell’imputazione coatta.
« Appare evidente come il Gip, che era andato oltre la posizione sostenuta dal
Giudice civile (affermando che, anche in assenza di normativa specifica, al
principio costituzionale della libertà di cura doveva essere data immediata
attuazione) abbia poi impresso al suo pensiero un’inversione di direzione,
concludendo, invece, che per poter dare concreta attuazione all’art. 32, co. 2,
Cost., sia, comunque, “necessaria una disciplina normativa che preveda delle
regole alle quali attenersi in casi simili”, in tal modo non distinguendo la
propria posizione, nell’approdo finale, da quella assunta dal Giudice civile, del
quale, anzi, arrivava a condividerne i timori in ordine al fatto che, in assenza di
una normativa, l’attuazione del diritto in questione “sia poi rimessa alla totale
discrezionalità
di
un
qualsiasi
medico”.
Oltre a rilevare una certa discontinuità motivazionale che, date alcune
premesse, deve essere superata attraverso i conseguenti passi all’interno di un
coerente percorso logico, in realtà non è neppure condivisibile l’opinione
secondo la quale il timore del Giudice civile nel caso in esame si sia rivelato
fondato. Infatti, al medico spetta solamente dare attuazione alla richiesta del
malato, oppure disattenderla ove riscontrasse l’assenza delle condizioni di cui
si parlerà in seguito. Relativamente invece alla “discrezionalità, cioè la scelta
di rifiutare o di interrompere o meno la terapia, essa spetta e deve essere
esercitata (come è avvenuto nel caso in esame secondo l’approfondita
ricostruzione dei fatti sopra effettuata) unicamente dal titolare del diritto e
segnatamente dal paziente. È innegabile che in questo caso il medico si è
limitato a controllare la sussistenza di una richiesta consapevole ed informata
in Piergiorgio Welby e, soltanto dopo, ha proceduto ad interrompere la terapia,
così come gli era stato richiesto. In tutto ciò non risulta essere stata esercitata
alcuna discrezionalità da parte dell’imputato Riccio, essendosi egli limitato ad
eseguire con scrupolo e precisione la volontà del paziente, nonché tutte le sue
indicazioni, anche sotto il profilo delle modalità e dei tempi di attuazione.
Infatti se il medico avesse effettivamente riservato a sé un autonomo spazio
decisionale in assenza o addirittura in contrasto con la volontà del paziente,
trattandosi di un caso di interruzione di terapia salvavita, il GIP avrebbe
dovuto chiedere coerentemente l’imputazione coatta per omicidio volontario e
non per omicidio del consenziente, come in realtà faceva. In tal modo il GIP ha
riconosciuto che, in ogni caso, la condotta del medico non era stata mossa da
una scelta “discrezionale”, bensì essa si era strettamente attenuta alla volontà
del paziente »
(Trib. Roma 17.10.2007, in www.personaedanno.it).
Il discorso, allora, si sposta sull’acquisizione del consenso da parte del
medico, aspetto particolarmente significativo nell’altro caso sottoposto
all’attenzione dell’opinione pubblica, quello di Eluana Englaro (ragazza
rimasta in coma vegetativo per oltre 15 anni a seguito di un incidente
stradale). In verità, lo stesso caso Welby aveva elementi tali da indurre ad
una certa riflessione sul tema. Infatti, se dal punto di vista strettamente
giuridico lo stato di piena coscienza e capacità di intendere e volere
escludevano la necessità di un’indagine per così dire esterna alla volontà
del paziente, le vicissitudini negli anni imponevano un’analisi attenta per
un ragionamento più ad ampio raggio. Nel suo libro, infatti, Welby
racconta che già nei primi anni ‘80 aveva manifestato la sua volontà di
rifiutare terapie che lo mantenessero in vita artificialmente (in particolare
la tracheotomia in caso di crisi respiratorie acute); la moglie, tuttavia,
dinanzi al G.U.P. di Roma, aveva ricordato che durante un ricovero
avvenuto nel 1997 proprio a causa di una crisi respiratoria, Welby aveva
espresso il suo consenso all’intervento di tracheotomia che gli salvò la
vita. Parrebbe allora che la volontà manifestata anni prima in riferimento
ad una mera (seppur tragicamente concreta) ipotesi futura, sarebbe poi
stata revocata al momento in cui questa si era effettivamente verificata.
Tale episodio pone seri interrogativi circa l’effettivo metodo di
interpretazione/applicazione di eventuali direttive anticipate, in
particolare quando queste sono manifestate a notevole distanza dalla
concretizzazione dell’evento ipotizzato. Tali dubbi trovano conferma nel
fatto che solamente nel 2006, secondo quanto riferito dalla moglie,
Welby avrebbe assunto una decisione definitiva ed irrevocabile, poi
confermata pochi istanti prima della sua morte.
Si comprendono allora appieno le difficoltà incontrate dal Tribunale
di Lecco prima e dalla Corte d’appello di Milano poi nel decidere sul
ricorso presentato dal padre della ragazza, in qualità di suo tutore, teso ad
ottenere l’autorizzazione ad interrompere le terapie di mantenimento in
vita della figlia. In particolare, nella sua decisione, la corte milanese, pur
riconoscendo che lo scopo della medicina non è soltanto quello di guarire
o di procrastinare il più possibile la morte, bensì quello di alleviare le
sofferenze del malato e di «aiutarlo nel “morire” non già “a morire”»,
si era fermata dinanzi al «dibattito ancora aperto in ambito medico e
giudico in ordine alla qualificazione del trattamento somministrato a
E.E.» (App. Milano 31.12.1999, FI, 2000, I, 2022).
Solo la Corte di cassazione – probabilmente anche in ragione della
maturazione dei tempi rispetto al decreto milanese – ha avuto la forza di
prendere una posizione precisa (Cass. 16.10.2007, n. 21748, in
www.personaedanno.it).
Queste, in estrema sintesi, le argomentazioni: i) il principio del
consenso informato ha un sicuro fondamento nelle norme della
Costituzione (anzitutto artt. 2, 13 nonché 32), nelle norme ordinarie (art.
1, l. 23.12.1978, n. 833), nella normativa sovranazionale (in particolare,
art. 5, Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’Uomo e sulla
biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1977, non ancora ratificata
nonostante l’autorizzazione del nostro Parlamento: legge di
autorizzazione alla ratifica il 28.3.2001, n. 145, nonché art. 3 Carta dei
Diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione Europea), e nelle disciplina
deontologica (art. 34, Codice di deontologia medica) ed ha trovato
esplicito riconoscimento in più di una decisione della stessa Corte
Suprema; ii) correlato vi è il principio dell’autodeterminazione il quale
contempla la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di
trattamento medico, ma anche di rifiutare la terapia e di decidere
consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella
terminale: vale di dire che – afferma la Suprema Corte – «deve
escludersi che il diritto alla autodeterminazione incontri un limite
allorché esso consegua il sacrificio del bene della vita»; iii) «il rifiuto
delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte del
soggetto, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia»: esso
invece esprime la scelta del malato che la malattia segua il suo corso
naturale; iv) pure chi versa in uno stato vegetativo permanente è, a tutti
gli effetti una persona in senso pieno, che deve essere tutelata e rispettata
nei suoi diritti fondamentali, prima fra tutti il diritto alla vita e alla salute
(inteso, nel caso specifico, nel diritto alle cure mediche); v) nello
specifico, l’idratazione e l’alimentazione artificiali (con sondino
nasogastrico) costituiscono, senza dubbio, un trattamento sanitario (così
da escludere qualsiasi discussione intesa a ricondurre questi interventi tra
gli «atti di cura» sempre moralmente dovuti); vi) nelle ipotesi in cui il
soggetto non è in grado di manifestare compiutamente la sua volontà, la
doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi
costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono od impongono
l’effettuazione di questi interventi urgenti che figurino nel migliore
interesse
terapeutico del paziente (pertanto, superata l’urgenza
dell’intervento derivante dallo stato di necessità, l’istanza personalistica
dell’intervento alla base del consenso informato ed il principio di parità
di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità,
impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di
elaborazione della decisione medica: in altri termini il medico deve
informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e il
paziente, attraverso il rappresentante legale, può accettare o rifiutare i
trattamenti prospettati); vii) sul piano operativo il giudice non può
ordinare il distacco del sondino nasogastrico bensì è chiamato ad
esprimere una forma di controllo della legittimità della scelta effettuata
dal rappresentante legale nell’interesse di chi non ha la capacità.
Quanto alle condizioni che debbano ricorrere affinché
l’autorizzazione possa essere rilasciata, la Corte di cassazione ritiene che
occorra in particolare: i) che sia accertato che la condizione di stato
vegetativo sia irreversibile e che, secondo gli standard scientifici
riconosciuti a livello internazionale, non sussista alcun fondamento che
lasci supporre la benché minima possibilità di un recupero della
coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; ii) che
contestualmente sia provato che l’istanza corrisponde alla volontà
dell’interessato, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e
convincenti, tratta da indicazioni circa la personalità dell’interessato, dal
suo stile di vita, dai suoi convincimenti, dal modo di concepire l’idea
stessa di dignità della persona, prima di cadere in un stato di incoscienza.
6. Scenari futuri in materia di danno esistenziale.
Legislazione: Cost. 2, 13, 32 – c.c. 5 – c.p.c. 700 – c.p. 575, 576, 577, 579, 580 – l. 23.12.1978, n. 833,
istituzione del servizio sanitario nazionale, art. 1 – l. 28.3.2001, n. 145, ratifica ed esecuzione della
Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere
umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina.
Bibliografia: Sella 2006 – Welby 2006 – Alpa 2007.
Dalla disamina che precede è dunque possibile concludere
affermando, innanzitutto, che non solo esiste una posizione soggettiva
tutelata dall’ordinamento al livello più alto ma, altresì, che ad essa è data
concreta attuazione dall’attuale assetto normativo.
In particolare, esiste il diritto del malato ad una scelta consapevole
circa la terapia da seguire, intendendosi con ciò anche la decisione di
lasciare che la malattia segua il suo corso naturale con l’assistenza
medica finalizzata esclusivamente ad alleviare le sofferenze e non al
mantenimento in vita (o al prolungamento di questa) in maniera
artificiale.
Adottando questa impostazione, si risolvono anche i dubbi
interpretativi riguardanti il giudizio di bilanciamento tra diritto a vedere
le proprie sofferenze alleviate ed essere aiutato a morire in maniera
dignitosa, da un lato, e disposizioni in materia penale, dall’altro.
Sembra dunque possibile giungere ad un primo punto fermo,
rappresentato dall’esistenza del carattere dell’antigiuridicità in quelle
condotte (attive od omissive) poste in essere contro la volontà del
paziente in violazione del suo diritto (costituzionalmente tutelato)
all’autodeterminazione nella scelta delle cure da intraprendere.
Peraltro, se – come afferma la Suprema Corte – tale diritto discende
quale corollario da quello al consenso informato, l’indagine
sull’antigiuridicità della condotta dovrà concentrarsi in maniera
particolarmente attenta sull’effettiva volontà del paziente; e tale indagine
non sarà sempre agevole non solo in presenza di soggetti non in grado di
esprimere direttamente il proprio consenso (o dissenso), ma altresì (come
ci insegna il caso Welby) in situazioni in cui la volontà venga
originariamente espressa di fronte a situazioni ipotetiche e distanti nel
tempo e poi revocata (o anche solo modificata) allorquando queste si
siano effettivamente concretizzate.
Ad ogni buon conto, accertata – pur con tutte le difficoltà evidenziate
– l’antigiuridicità della condotta, da questa potrà assumersi l’esistenza di
un pregiudizio alla sfera esistenziale del paziente, rappresentato dal
peggioramento della sua qualità di vita (inteso in questo caso quale
situazione differente rispetto a quella scelta come la migliore possibile
dal paziente medesimo).
Ed invero, pare potersi affermare che non sia neppure necessario –
almeno nella generalità dei casi – fornire un particolare impianto
probatorio a sostegno della richiesta di risarcimento di tale voce di
danno; infatti, se come insegna l’orientamento più illuminato della
giurisprudenza (Cass. 12.6.2006, n. 13546, GCM, 2006, 7-8) la prova del
danno esistenziale può essere data anche con presunzioni semplici, il
pregiudizio subito dal malato in fase terminale al quale sia negato il
diritto a vedere le proprie sofferenze alleviate e ad essere aiutato a morire
in maniera dignitosa ben potrà essere considerato come normalmente
derivante dalla violazione di tale diritto.
I casi Welby ed Englaro (ma non solo) ci insegnano altresì come ad
essere sconvolte da determinate situazioni siano non solo le esistente dei
malati terminali ma, altresì, quelle dei loro congiunti o, comunque, delle
persone ad esse legate da particolari vincoli affettivi. Anche in queste
ipotesi, pare potersi far pendere il maggiore carico probatorio in capo
all’autore dell’illecito anziché al danneggiato, sempre sulla base dei
principi affermati dalla giurisprudenza sopra ricordata.
In definitiva, al termine di questa indagine, sembra potersi confermare
la sensazione che la risposta alla domanda «quando il danno esistenziale
è risarcibile?» in ipotesi di morenti, sospensione dei trattamenti,
eutanasia e living will sia da ricercare soprattutto nella posizione tutelata
dall’ordinamento e nella conseguente individuazione della condotta
antigiuridica, piuttosto che nei singoli pregiudizi da questa derivanti,
essendo questi, nella generalità dei casi normali conseguenze della
violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente in fase
terminale.
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