Lettera all’onorevole Silvio Berlusconi
Onorevole Berlusconi,
pare ormai che le speranze riposte nel cambio di governo, affidandoci alla tecnicità e alla
credibilità di Monti, per un’immediata inversione di tendenza dell’economia saranno viepiù
disattese: la Borsa continua a precipitare, bruciando miliardi di ricchezza, e i nostri titoli di Stato
valgono sempre meno. Per quante misure si approvino, qualcuno, qualcosa sposta la linea d’arrivo
sempre più in là, costringendoci a una corsa senza fine.
I motivi per i quali ci hanno ammannito questa emergenza pasticciata – le Sue dimissioni, un
tecnico eletto in quattro e quattr’otto senatore a vita e nominato premier con altrettanta celerità,
il rinvio delle naturali elezioni in nome di una catastrofe che si doveva e poteva evitare
urgentemente – non solo sono ancora tutti lì (lo spread è schizzato a livelli mai visti, piazza Affari è
alla deriva e forse si vedrà costretta a sospendere certi titoli), ma si sono aggravati. Il rimedio è
stato peggiore del male, o uguale. Ci si potrebbe obiettare che continuando con il Suo governo ci
ritroveremmo esattamente allo stesso punto, ma non si fa economia e politica con le palle di
vetro, e poi allora a che sarebbe valso cambiare? Tanto valeva tenersi Lei. Oppure votare: questo
andava fatto, chiamare gli italiani a esprimere il loro voto. Dopo un voto, qualsiasi cosa, qualsiasi
decisione sarebbe stato il risultato di schieramenti, di scelte, sarebbe passato cioè attraverso la
conta di una maggioranza reale, popolare, sociale e non solo della politica, dei partiti.
Benché non abbia mai avuto un briciolo di condiscendenza nei confronti del Suo governo e del Suo
partito, mi rivolgo a Lei perché non saprei a quale altro santo della maggioranza che sostiene il
professor Monti possa io votarmi: non a Bersani, che mi pare si sia costretto da sé nella parte di un
convinto sostenitore del nuovo governo; non a Casini o a Fini che su questo governo, e soprattutto
sulla Sua uscita di scena, hanno riposto tutti i calcoli politici per un ciclo vincente. E poi Lei detiene
ancora la golden share di questa insolita maggioranza: è, insomma, l’unico determinante, quello
che può davvero staccare la spina.
In molti – tra i giornali-partito che hanno fatto re Monti – scrivono che però è cambiato lo stile e
non ci dobbiamo più vergognare internazionalmente. Come se i mercati finanziari se ne
impipassero qualcosa degli stili dei premier, e come se Bill Clinton non fosse stato rieletto
nonostante una discutibile performance sessuale e una altrettanto incerta giustificazione pubblica:
ma l’occupazione saliva, l’economia tirava di nuovo e questo contava per gli elettori e i mercati. E
per la “faccia” internazionale dell’America.
Al Suo governo veniva rimproverato di non fare nulla per la crescita e Lei stesso rimproverava al
Suo ministro dell’Economia di stare più attento ai conti che alla crescita. Tra i critici puntuali c’era
proprio il professor Monti, con salaci editoriali dal «Corriere della Sera».
Ma dovrebbe essere ormai chiaro che le parole “crescita” e “Europa” non possono essere
combinate in alcun modo in una qualsiasi singola lingua, da una qualsiasi nazione. Sembra adesso
che anche il professor Monti se ne sia convinto, perbacco. Dovrebbe, per ciò stesso, rassegnare le
dimissioni, per onestà intellettuale, viste le premesse del suo mandato. O la “crescita” diventa un
progetto europeo o è meglio affrontare questa tempesta finanziaria andando direttamente
nell’occhio del ciclone – è così che fanno i marinai, perché è così che c’è una speranza di salvezza,
ai margini o cercando di allontanarsi c’è di sicuro la fine.
E l’occhio del ciclone è proprio l’Europa, questa Europa.
Io credo che questa Europa non farà ora quello che sarebbe necessario, quello che sta lentamente
portando gli Stati uniti a tirare la testa fuori dal sacco in cui l’aveva infilata. Non può farlo perché è
ancora – io mi auguro che un giorno possa diventarlo – priva della capacità di assumere decisioni
politiche di lungo respiro. Non era la testa di Augusto su una moneta a far sì che la sovranità
politica e le leggi di Roma fossero riconosciute dal Tago a Pergamo, da Cartagine a Aquitania.
Avremmo perciò dovuto, e lo possiamo ancora, prendere atto di una situazione nazionale ormai al
collasso e pilotare una transizione che pur tenendoci dentro l’Europa ci restituisse libertà di
manovra sulla moneta. Quello che, insomma, ha fatto la Gran Bretagna di Camerun. Loro per
difendere quanto hanno, noi per porre le basi reali di una ripresa. Tra sacrifici, certo, ma con un
percorso tutto nelle nostre mani. Andiamo ora con il cappello in mano questuando tra le principali
cancellerie europee e non è un bel vedersi: non lo dico per spirito patriottico, perché sia umiliante,
ma perché è inutile. Sia Sarkozy che la Merkel hanno prossime elezioni incombenti e “salvare il
soldato Italia” non è tra le priorità delle loro strategie elettorali. Per adesso, ogni nazione europea
è affidata a se stessa. Ma il nostro “per adesso” deprimerà ulteriormente la nostra economia in
una spirale recessiva. Il 2012 potrebbe essere un anno cupissimo.
Le elezioni, invece, oltre a darci un governo legittimamente eletto dovrebbero assumere il
carattere di un referendum, come quello che il premier Papandreou avrebbe voluto tenere in
Grecia. Ci sarebbe uno scontro di posizioni, un ventaglio di idee e proposte, un netto schierarsi per
questa cosa o quella. Abbiamo la maturità politica per affrontare questo scontro, aspro, duro,
senza paura che possa sfuggire di mano e senza la tutela di chicchessia. Se la politica non torna a
essere il fattore di coesione nazionale, direi anzi: la lingua nazionale, questa assurda idea del
“tecnicismo” come salvezza prenderà piede e si darà forma. La nostra democrazia, che è stata
robusta finché poggiava sui movimenti politici, si infragilirà. L’antipolitica prenderà la forma
dell’extraparlamentarismo. Credo che in questo – che ora Le è ritornato contro – Lei abbia avuto
un peso determinante.
Io non so se Lei vorrà di nuovo presentarsi come leader di uno schieramento. Capisco il Suo
desiderio di rivincita ma ci precipiterebbe di nuovo in un gioco “berlusconismoantiberlusconismo”. Questo giornale da cui Le scrivo ha sempre considerato questo schema una
iattura (oltre che una rendita per tanti, troppi, e forse ci tireremo addosso critiche anche per
questa mia lettera che Le rivolgo). Comunque, sono affari Suoi, anche se io penso che sarebbe
meglio non dover affrontare ancora questa questione che finirebbe, irresponsabilmente, con
l’oscurare le altre. Quello che è certo è che Lei è l’unico, in questo momento, che può consentirci
di tornare a ragionare popolarmente, elettoralmente di crisi, crescita, Europa. Di restituire, cioè,
l’economia alla politica e non alla tecnica, all’accademia. È paradossale, per me, ma è così.
Perciò, Glielo chiedo con convinzione: mandi a casa Monti. Andiamo al voto. Con questo sistema,
un altro, non importa adesso: il mondo è pieno di Scilipoti, pronti a andare in qualsiasi lista. Se la
Consulta accetterà il referendum si approvi presto una qualche modifica e si voti. Se no, si voti lo
stesso. Piuttosto che sfiancarci in discussioni su modelli elettorali, parliamo di programmi per lo
sviluppo. Pochi provvedimenti e chiari fin da subito per ciascun schieramento: euro, patrimoniale,
fisco, pensioni, occupazione, debito pubblico, investimenti.
Non avrà certo il mio voto – e non per “ideologia” ma perché non sono mai stato d’accordo
neppure con una delle politiche del Suo governo – ma di sicuro la mia considerazione da “nemico”.
Distinti saluti
Nicotera, 6 gennaio 2012