GROTOWSKI, BARBA, BROOK. Premessa Nella prima metà del Novecento, Copeau, Stanislavskij e Vachtangov sostengono un’idea di rinnovamento del teatro a partire dalla valorizzazione dell’attore e del suo essere, prima di tutto, un uomo. L’amore profondo per l’arte a cui consacrare tutto il proprio tempo; l’intimo legame maestroallievo, regolato da stima e fiducia reciproche; l’inclinazione al sacrificio, necessaria per difendere la vocazione teatrale; il prepotente interesse per la formazione dell’attore sostenuta da una rigida disciplina; l’instancabile training fisico e spirituale (cioè la preparazione lenta e progressiva che è alla base dell’arte recitativa e che cambia a seconda delle Scuole e dei registi), ottenuto con gli esercizi quotidiani, costituiscono gli aspetti salienti dei Laboratori, scuole-comunità in cui il maestro provvede a stabilire le condizioni ideali per educare l’uomo e per trasmettergli principi etici, oltre che tecnici, indispensabili alla creazione teatrale. Al pari di Copeau, Stanislavskij e Vachtangov, in Europa e pressoché contemporanei a loro, operano altri uomini di teatro la cui ricerca si muove nella medesima direzione. Sarà a questi “maestri” del primo Novecento che si ispireranno molti registi nella seconda metà del secolo. Tra di essi emergono i nomi di Jerzy Grotowski, Eugenio Barba e Peter Brook. Il Teatro-Laboratorio fondato da Grotowski ad Opole, il Laboratorio dell’Odin Teatret costituito da Eugenio Barba ad Oslo, il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale nato a Parigi su iniziativa di Peter Brook, devono molto, infatti, a Copeau, Stanislavskij, Vachtangov e alla loro pedagogia teatrale. Anche questi Centri, di cui si parlerà più avanti, hanno come obiettivo principale - ognuno con le proprie caratteristiche - l’educazione dell’attore, considerato nella sua interezza di uomo e di artista. In tale binomio i due aspetti non rimangono mai disgiunti l’uno dall’altro e risultano necessariamente complementari ai fini della comunicazione teatrale; all’interno di quest’ultima tra l’attore ed il pubblico tende a stabilirsi una relazione reciproca, fatta di dare e di avere, al di là della forma specifica della rappresentazione, quale ad esempio la commedia o una scena a soggetto, e del suo contesto, quindi un teatro, una piazza, l’aula magna di una scuola. Un attore non può riuscire ad entrare in rapporto con gli altri (i compagni di lavoro prima, gli spettatori dopo) se non lavora a fondo su se stesso e sul proprio corpo. Imparare a conoscersi, rispettarsi, modificarsi, avere fiducia di sé è altrettanto importante dell’agilità fisica, della scioltezza muscolare e della vivacità vocale, traguardi raggiunti grazie al training e alla vita di gruppo. Il Laboratorio, infatti, rappresenta il luogo per eccellenza dove condividere delle esperienze, dove poter sperimentare un confronto con gli altri in una crescita individuale e collettiva. Sugli allievi vigila il maestro che propone e segue, passo dopo passo, tutte le esercitazioni, pensate per stimolare le risorse di ogni componente del gruppo: dall’attenzione alla concentrazione, all’intuito, fino alle potenzialità più nascoste del corpo, strumento e tramite privilegiato per raggiungere il “contatto” con lo spettatore. Jerzy Grotowski. Per un teatro povero è il titolo del libro costituito da trecento pagine di interviste, testimonianze, resoconti di spettacoli nel quale Jerzy Grotowski racconta la sua idea di teatro; da tale libro sono tratte le seguenti affermazioni che esprimono sinteticamente un’intera concezione teatrale: Vi è qualcosa di incomparabilmente intimo e fruttuoso nel lavoro che svolgo con l’attore che mi è affidato. Egli deve essere attento, confidente e libero, poiché il nostro lavoro consiste nell’esplorazione delle sue possibilità estreme. La sua evoluzione è seguita con attenzione, stupore e desiderio di collaborazione: la mia evoluzione è proiettata in lui, o meglio, è scoperta in lui, e la nostra comune evoluzione diventa rivelazione [...]. Un attore nasce di nuovo - non solo come attore ma come uomo - e con lui io rinasco. E’ un modo goffo di esprimerlo ma quello che si ottiene è l’accettazione totale di un essere umano da parte di un altro. L’insegnamento del regista polacco è basilare per comprendere gran parte del teatro del secondo Novecento. Innanzitutto, nel suo pensiero, un attore che sta compiendo un percorso di formazione è fondamentalmente un uomo in crescita. Durante tale percorso il regista stesso si assume la responsabilità di seguire l’evoluzione dei suo allievi, di condurli ad un’esplorazione totale delle proprie capacità fisiche e psichiche e di accompagnarli lungo il percorso creativo. Grotowski persegue la sua idea in un luogo da lui stesso fondato nel 1959, nella cittadina di Opole, situata nella Polonia occidentale, che definisce un Teatro-Laboratorio. All’epoca in cui inizia le sue sperimentazioni egli ha solo ventisei anni ed è ancora sconosciuto, ma la fama delle sue ricerche si diffonde in breve tempo tanto che nel 1965 il Laboratorio si trasferisce nella città universitaria di Wroelaw, capitale culturale polacca dei territori orientali, e consegue lo status di “Istituto di ricerche sulla recitazione”. Ciò che rende grande il nome di Grotowski sta nel fatto che egli ha proseguito nella ricerca iniziata all’inizio del secolo da Stanislawskij riguardante non solo le caratteristiche ed il significato della recitazione ma anche i processi fisici ed emotivi ad essa connessi. Secondo il regista polacco il solo modo per recuperare l’essenza del teatro consiste nel far emergere i due elementi che rendono possibile la comunicazione teatrale e cioè l’attore ed il pubblico e rinunciare a tutte le altre componenti. Egli definisce il suo teatro “un teatro povero”, in cui l’attore e lo spettatore si possono confrontare attraverso un percorso interiore indirizzato alla ricerca individuale di se stessi e di significati universali mediante il recupero di una dimensione rituale. Il laboratorio di Grotowski. Il laboratorio di Grotowski è caratterizzato da un silenzio assoluto e da un’atmosfera serena e calma. Al suo interno si svolge il training quotidiano, durante il quale gli allievi provano i duri esercizi fisici ideati espressamente dal maestro con il fine di aiutare gli attori a liberare le capacità espressive; grazie ad essi gli allievi scoprono le possibilità del corpo, la sola cosa di cui, secondo il regista, il teatro non può fare a meno. Camminare ritmicamente facendo ruotare le mani e le braccia, correre sulle punte dei piedi, camminare con le ginocchia piegate afferrandosi le caviglie o con le gambe tese e rigide come se fossero tirate da fili immaginari, sono solo alcune delle esercitazioni con cui gli allievi “si riscaldano”. Ne seguono altre per sciogliere i muscoli e snodare la colonna vertebrale. In questa direzione l’esercizio più comune è “il gatto”. Esso si basa sull’osservazione di un felino che si sveglia e si stira. L’attore è disteso bocconi in stato di rilassamento completo: le gambe sono aperte, le braccia ad angolo retto rispetto al corpo, le palme rivolte verso terra. Piano piano “il gatto” si desta. Avvicina le mani al petto, tenendo i gomiti in alto, e mentre accosta le gambe alle mani alza le anche. Si solleva e distende la gamba sinistra lateralmente. Ripete lo stesso movimento con la gamba destra. A questo punto allunga la schiena spostando il centro di gravità prima sulla colonna vertebrale e via via sempre più in alto fino alla nuca. Infine si volta e ricade sulle spalle rilassandosi completamente. L’allenamento procede con salti e capriole e tiro alla fune. Gli attori immaginano di avere una corda tesa davanti ai loro occhi. Avanzano. Non sono le braccia o le mani a tirare il corpo ma il tronco che si sposta verso le mani fino a quando la gamba che è indietro tocca il pavimento con il ginocchio. E’ questo uno dei tanti “esercizi di plastica” basato sul principio fondamentale dei cosiddetti “vettori contrari”. Mediante tali esercizi, l’attore, vincendo gli ostacoli fisici, impara ad isolare le diverse parti del corpo e a dare loro vita propria, in modo che queste non reagiscano automaticamente ma siano in grado di produrre, ciascuno nello stesso tempo, movimenti autonomi e perfino contrari e comunicare immagini opposte ad esempio le mani raccolgono, le gambe espellono. Durante tali esercitazioni nella stanza nuda e silenziosa la concentrazione è al massimo. Ad un tratto quasi per miracolo uno degli allievi “si trasforma” in un fiore: << l’intero corpo vive, trema, vibra dell’imperioso processo di fioritura [...] i piedi sono le radici, il corpo è lo stelo e le mani formano la corolla >>. Il maestro li chiama “esercizi di composizione”, sorta di ideogrammi gestuali che scaturiscono da un gioco associativo tra un’immagine mentale, ad esempio quella del fiore, e il movimento fisico che la esprime. Diventare un fiore significa, dunque, riportare alla memoria l’immagine di un fiore, “colorarla” con la fantasia, costruire con il corpo i dettagli che la compongono (radici, stelo, corolla, petali, ecc.) fino a quando l’attore “si trasforma” egli stesso in un fiore. Dopo questi esercizi il Laboratorio si anima di cinguettii di uccelli, rombi di motori, scroscii di acqua, prodotti dagli allievi che, così facendo potenziano le proprie risorse vocali. La modulazione di rumori meccanici e di suoni naturali eseguiti con incredibile varietà di ritmi e toni - alti, bassi, rapidi, lenti, semiscanditi, urlati - li aiuta, infatti, a dilatare la gamma sonora e a percepire gli impulsi profondi che provocano i suoni evocati. Oltre agli esercizi vocali, Grotowski impegna il suo gruppo a studiare l’articolazione della dizione differenziandola, di volta in volta, a seconda del tipo umano preso in esame; alcuni allievi fanno una parodia della dizione dei propri conoscenti; alcuni ritraggono, con la sola pronuncia, un avaro, un ghiottone; altri ancora, parlano accentuando delle particolarità psicosomatiche - mancanza di denti, malattie di cuore, nevrastenia. La frase viene “somatizzata”, messa in rapporto col ritmo del polso, del cuore, della circolazione e della respirazione. Quest’ultima, in particolare, è molto importante per ottenere la liberazione della voce e l’aumento della portata sonora. Secondo Grotowski la respirazione più completa e più funzionale ad accumulare una quantità d’aria sufficiente per recitare con ritmo e senza spreco di energia è quella pettorale- addominale. Gli spettacoli. Le messe in scena di Grotowski sono molto note; tra esse si possono ricordare “La tragica storia del dottor Faust” di Christpher Marlowe, “ Il principe Costante” di Pedro Calderon de La Barca, “Apocalypsis cum figuris” di Stanislaw Wyspianski. E fondamentale notare però che per il regista polacco il testo è semplicemente un pretesto per andare oltre: esso assume la funzione di un bisturi che << permette di aprirci, di trascendere il nostro io [... ] di scoprire ciò che è celato in noi e di andare verso gli altri >>; diventa una partitura che l’attore, mentre crea, ricompone con suoni, gesti e variazioni personali. Proprio l’atto di recitare si trasforma in un’esperienza spirituale, una ricerca che consente e richiede un itinerario dell’attore alla scoperta di se stesso attraverso il training. Il ruolo del maestro consiste nell’osservare con pazienza i sui allievi, proporre loro gli esercizi, ma, soprattutto, aspettare che ciascuno sia pronto per eseguirli. Il teatro allora diventa per coloro che seguono Grotowski e per il regista stesso un incontro tra attori e spettatori e cioè tra uomini che cercano e si aprono con fiducia ad altri uomini. Grotowski regista: Akropolis e il Principe Costante. Akropolis, pubblicato nel 1904, è un testo di Stanislaw Wyspianski, drammaturgo, poeta e pittore simbolista. Di tutti gli spettacoli diretti da Grotowski, Akropolis è senz’altro quello che si distacca maggiormente dal suo prototipo letterario: l’unica cosa che rimane del testo dell’autore è lo stile poetico. Il dramma è stato trasferito in condizioni sceniche completamente diverse da quelle ideate dal poeta. Secondo il metodo del contrappunto, esso è stato arricchito di associazioni di idee da cui scaturisce, effetto collaterale, una specifica nozione del mestiere: si è dovuto trapiantare il tessuto verbale dell’opera nell’organismo di una messa in scena che gli risulta estranea sotto molti aspetti. Si è dovuto effettuare il trapianto in modo che il linguaggio sembrasse scaturire in modo naturale dalle circostanze imposte dal teatro. L’azione del dramma si svolge nella Cattedrale di Cracovia. Durante la notte della Resurrezione, i personaggi degli arazzi e delle sculture rivivono episodi dell’Antico Testamento e dell’antichità, radici primordiali della tradizione europea. L’autore ha pensato la sua opera come visione panoramica della cultura mediterranea la cui trama caratteristica è simboleggiata dall’Acropoli polacca. In questa visione del “cimitero delle tribù”, come è stato definito dallo stesso Wyspianski, le concezioni del regista e quella del poeta si trovano a coincidere: entrambi intendono raffigurare la somma di una civiltà e verificarne i valori prendendo come termine di paragone il contenuto dell’esperienza contemporanea. “Contemporaneo” per Grotowski, indica la seconda metà del secolo Ventesimo. La sua esperienza è quindi di gran lunga più crudele di quella di Wyspianski, e perciò egli sottopone i valori secolari della cultura europea ad una verifica severa. Il loro punto in cui confluiscono non è la serena e riposante atmosfera della cattedrale, dove il poeta fantasticava e meditava in solitudine sulla storia del mondo, ma il frastuono di un mondo di estremi, la confusione poliglotta in cui il nostro secolo ha proiettato quegli stessi valori: in un campo di sterminio.I personaggi fanno rivivere i momenti culminanti della nostra storia culturale; solo non tornano in vita dalle effigi immortalate nei monumenti del passato, ma dal fumo e dalle esalazioni di Auschwitz. Nella presentazione scenica, tutti i punti luminosi sono stati spenti ad arte: la visione finale della speranza è annientata dall’ironia blasfema. L’opera come viene rappresentata può essere intesa come un appello alla memoria etica dello spettatore, al suo subconscio morale. La produzione di Il Principe Costante, basata su un adattamento di Juliusz Slowacki del testo di Calderòn de la Barca, ebbe un importanza notevole nell’evoluzione del teatro-laboratorio. Il regista non intende attenersi al testo originale di “Il Principe Costante”, ma dare una sua personale versione dell’opera; il rapporto fra la sua sceneggiatura ed il testo originale è perciò lo stesso che quello fra una variazione musicale ed il tema originale. Nella scena d’apertura, il Primo Prigioniero collabora con i suoi persecutori. Dapprima, mentre giace su di un letto rituale, egli viene simbolicamente castrato e poi, dopo aver indossato un’uniforme, entra a far parte della compagnia. Questa rappresentazione costituisce uno studio sul fenomeno dell’inflessibilità che non consiste in una manifestazione di forza, di dignità e di coraggio. Alla gente che lo circonda e che lo guarda come se fosse una bestia rara, il Secondo Prigioniero, il Principe, oppone solo resistenza passiva e gentilezza, tutto volto verso un più elevato ordine spirituale. Egli sembra non reagire alle azioni malvagie e brutali delle persone che lo circondano: non discute con loro; li ignora: rifiuta di diventare uno di loro. Sembra in tal modo che i suoi nemici lo tengano in pugno, in realtà non esercitano alcun potere su di lui: sebbene vittima delle loro male azioni, egli conserva intatta la sua indipendenza e purezza fino all’estasi. La sistemazione del palcoscenico e del pubblico sta a metà fra l’arena e la sala operatoria: per questo si può avere l’impressione di assistere, osservando l’azione che si svolge in basso, a qualche sport crudele in un’antica arena romana, oppure ad un’operazione chirurgica. All’inizio della rappresentazione il principe è vestito di un camice bianco e di un mantello rosso che a tratti può essere trasformato in un sudario. Alla fine della rappresentazione egli è nudo, privo di qualsiasi difesa tranne la sua identità umana. I sentimenti della società verso il Principe non sono uniformemente ostili; sono piuttosto l’espressione di un sentimento di diversità ed alienazione unito ad una specie di attrazione, e questa combinazione contiene in sè la possibilità di reazioni estreme quali la violenza e l’adorazione. Tutti si contendono il martire ed alla fine della rappresentazione lottano gli uni contro gli altri per possederlo come se si trattasse di un oggetto prezioso. Nel frattempo, l’eroe assiste a infinite dispute e viene sottomesso alla volontà dei suoi nemici. Non appena l’azione è compiuta, la gente che ha tormentato a morte il Principe rimpiange il proprio operato e compiange il suo destino. Gli uccelli predatori si trasformano in tortore. Alla fine, nonostante le persecuzioni e le stupide umiliazioni cui era stato sottoposto, egli diventa un inno vivente in omaggio all’esistenza umana. L’estasi del Principe consiste nella sua sofferenza, cui egli può resistere solo offrendo se stesso alla verità, in un atto d’amore. Così, nonostante il paradosso, la rappresentazione vuole essere un tentativo di trascendere l’atteggiamento tragico, il che consiste nel rigettare tutte quelle componenti che possono indurre ad accettare l’aspetto tragico. Grotowski ritiene che, sebbene non si sia attenuto fedelmente al testo di Calderòn, egli abbia conservato il significato profondo dell’opera. La rappresentazione è la trasposizione delle intime contrapposizioni e dei tratti più caratteristici dell’epoca barocca come il suo aspetto visionario, la sua musicalità, il suo apprezzamento degli aspetti concreti ed il suo spiritualismo. Questo spettacolo è anche una specie di esercizio che permette di verificare il metodo di recitazione di Grotowski. Tutto è fuso nell’attore: nel suo corpo, nella sua voce e nella sua anima. Il lavoro di ricerca. Durante il lavoro nel laboratorio, il regista si accorge che, nonostante il training, i suoi attori non riescono a realizzare l’apertura verso il pubblico, da lui auspicata; per questo motivo egli decide di non creare più nessun altro spettacolo ed orienta la ricerca in una direzione diversa. Nel 1970 riorganizza la sua compagnia che risulta composta da giovani senza nessuna esperienza teatrale e finalizza la sua attività alla realizzazione di conferenze, seminari, stages, al di fuori del sistema produttivo spettacolare: Siamo arrivati alla conclusione [...] che dobbiamo abolire il biglietto di ingresso e che coloro che vengono da noi dovrebbero pensare di recarsi in un luogo speciale dove è possibile lasciarsi alle spalle la propria vita quotidiana [...], dove possiamo essere completamente noi stessi. Due anni dopo cinquecento persone provenienti da ogni parte del mondo arrivano a Wroclaw per partecipare ad un incontro organizzato dal regista. Intanto la sua fama continua a crescere e, mentre numerosi gruppi teatrali si ispirano al suo insegnamento, nel 1984 per ordine del governo polacco il Laboratorio di Wroclaw viene sciolto. Il maestro si stabilisce a Pontedera e nella cittadina toscana prosegue tuttora la sua ricerca. Eugenio Barba e l’Odin Teatret. Il maggior promotore e divulgatore dell’opera di Grotowski in Europa è, senza dubbio, l’italiano Eugenio Barba; emigrato giovanissimo, egli si forma nel Laboratorio di Opole, dove ha modo di condurre una verifica costante delle teorie del maestro polacco e di assimilarne l’insegnamento attraverso la pratica teatrale. Dopo quattro anni di tirocinio Barba si trasferisce a Oslo, nel 1964, dove fonda il Laboratorio Interscandinavo per l’attore, meglio conosciuto come Odin Teatret che si caratterizza come un Centro di preparazione dell’attore, distante dal teatro istituzionale e accademico. Il gruppo, infatti, è selezionato tra i giovani che non hanno superato la prova di ammissione alla Scuola Nazionale di Teatro. Lontani dagli ambienti artistici ufficiali, questi “dilettanti” condividono con Barba l’idea di darsi compiti sempre più impervi, mai soddisfatti dei risultati, accanendosi per superare gli ostacoli della professione. L’Odin Teatret è propriamente un Teatro- Scuola in cui, diversamente dalle tradizionali scuole di teatro, si antepone al talento la volontà di sacrificare se stessi per l’Arte, proprio come accade nei Teatri classici orientali dove dei bambini di sei, otto, dieci anni sono immessi nella professione e dopo dieci anni di intenso apprendistato e disciplina severa emergono come artisti la cui espressività suggestiva diventa il sogno più grande di ogni grande attore europeo. Gli allievi devono essere consapevoli della missione che vanno ad intraprendere e considerare un onore l’esperienza di partecipare a questa avventura teatrale, tanto da rendersi disponibili a finanziarla per proprio conto se necessario. Calmi e pazienti essi si preparano ad affrontare lunghi anni di training, investendo completamente le proprie forze ed energie. Ad Oslo e ad Hostelbro (in Danimarca) - dal 1966 nuova patria dell’Odin - gli attori si allenano circa undici ore al giorno, dalle nove del mattino alle otto di sera, con una sola pausa dalle quattro alle cinque del pomeriggio. Esercizi di acrobazia, ginnastica, sport, balletto classico, plastica, improvvisazione, igiene vocale e concentrazione si susseguono a ritmo frenetico scandendo il tempo all’intemo del Laboratorio. Il training. Anche per Barba, come per gli altri maestri del Novecento, il training rappresenta l’elemento cardine intorno al quale ruota la sua concezione teatrale. Secondo il regista esso non è una tecnica che insegna a recitare, che rende gli attori dei bravi attori, non è neppure un insieme di movimenti ginnici stereotipati che preparano in modo meccanico alla creazione; il training è piuttosto un laborioso processo di autodefinizione personale che si manifesta attraverso delle reazioni fisiche. Egli afferma che: Non è l’esercizio in se stesso che conta - per esempio fare delle flessioni o dei salti mortali - ma la giustificazione data da ciascuno al proprio lavoro, una giustificazione che, anche se banale o difficile da spiegare [...], è fisiologicamente percettibile, evidente per l’osservatore. E’ l’attore in quanto uomo con i suoi bisogni interiori a dare significato al training e a superare la pura e semplice fisicità del movimento. Spiega il maestro: Questa necessità interiore determina la qualità dell’energia che permette di lavorare senza soste, senza curarsi della stanchezza, e quando si è esausti, allora continuare, proprio in quel momento andare avanti, senza arrendersi. Ciò non significa che si diventa creativi sottoponendo il corpo ad uno stress fisico continuo; semplicemente il training è un test, una prova in grado di verificare, giorno dopo giorno, se l’allievo è pronto ad impegnare se stesso come individuo, membro del gruppo e attore. Dichiara Barba: Questa impercettibile trasformazione quotidiana del proprio modo di vedere, di avvicinare e giudicare i problemi della propria esistenza e dell’esistenza degli altri, questo vaglio dei propri pregiudizi, dei propri dubbi - non attraverso gesti e frasi magniloquenti, ma attraverso la silenziosa attività quotidiana - si riflette nel lavoro, che ritrova nuove giustificazioni, nuove reazioni. All’inizio il training è collettivo: tutti eseguono i medesimi esercizi contemporaneamente e allo stesso modo. Poi, man mano che il lavoro procede, il regista si rende conto che ciascuno ha un ritmo particolare (mentale e fisico) diverso nei vari componenti del gruppo. Così il training diventa individuale e gli esercizi, pur rimanendo identici, cambiano di valore e di significato. L’attore si autodisciplina, cerca cioè di eseguire le esercitazioni nella maniera più consona alla propria persona e al proprio corpo. L’allenamento si basa su azioni elementari che stimolano la reazione del corpo degli attori e impegnano tutto il gruppo ad “aprirsi” reciprocamente con stima e spirito di collaborazione. Una particolarità dell’Odin consiste nel fatto che non ci siano maestri e pedagoghi, ma che gli allievi stessi elaborino il loro training, da eseguire con assiduità e costanza, pur seguendo le indicazioni di Barba, il quale funge da guida per tutti: i più anziani mettono la loro esperienza a disposizione dei giovani, e li aiutano, dando loro consigli, a superare le difficoltà: Se non faccio training per un giorno, solo la mia coscienza lo sa; se non lo faccio per tre giorni, solo i miei compagni lo notano; se non lo faccio per una settimana, tutti gli spettatori lo vedono. In tale affermazione è espresso il principio del credo artistico degli allievi dell’Odin. Gli esercizi. Alcuni esempi di esercizi possono essere significativi per capire quale tipo di training svolgono gli allievi di Barba. Uno di essi ha la finalità di obbligare alla precisione; si tratta infatti di toccare con il piede il petto del compagno cercando di non fargli male: chi esegue l’azione si sforza di compierla con delicatezza e meticolosità, chi la “subisce” cerca di superare il riflesso di difesa e si dispone senza paura a “ricevere” il gesto. Questo genere di situazioni prepara gli allievi ad agire con intelligenza fisica, a lavorare, cioè, con intuito, scrupolosità e rispetto per gli altri. Il secondo esempio è costituito da una catena di esercizi acrobatici. Gli attori eseguono balzi, capriole, fanno salti mortali, imparano a cadere sul pavimento senza peso. Il valore psicologico di tali esercitazioni è molto forte: esse sembrano difficilissime da eseguire e spesso si ha la sensazione di non poterle compiere nella maniera giusta. In fondo si tratta solo di un delicato gioco di energia. Ancor prima di recitare, l’attore, cioè, è chiamato alla mobilitazione di tutte le sue forze fisiche, psichiche e intellettuali. Questo impegno energetico avviene in modo invisibile a livello pre- espressivo - prima cioè dell’espressione compiuta - e diventa poi visibile nella fase espressiva - che per l’attore è il momento della “rappresentazione”; e fondamentale l’aiuto di tutti i membri del gruppo. L’ISTA (Intemational School of Theatre Anthropology). Dopo aver raggiunto una certo grado di completezza nella preparazione dell’attore ed aver concretizzato delle relazioni umane all’interno del gruppo, consistenti nell’avere acquisito sia il coraggio di avvicinarsi l’uno all’altro da parte degli allievi sia un forte legame consolidato nel tempo anche grazie alla vita in comune, Barba porta la sua attività all’estemo, fuori dal Teatro di Hostelbro.Un’attività feconda ed eclettica che spazia dagli spettacoli alle tournées “di strada” in paesi stranieri e in piccoli centri dell’Italia meridionale, all’organizzazione di corsi, seminari, pubblicazione di una rivista e di libri, produzione di film didattici sul teatro, fino alla costituzione dell’ISTA (Intemational School of Theatre Anthropology).Essa si fonda sull’idea del massimo scambio di esperienze quali ad esempio quelle esistenti tra orientali e occidentali, tra generazioni più anziane e generazioni più giovani, tra il teatro tradizionale e teatro di gruppo. Ogni anno, in luoghi diversi, antropologi, studiosi, maestri e allievi di tutto il mondo si riuniscono per mettere a confronto tecniche ed esperienze teatrali differenti. Barba ed il suo gruppo perseguono il loro cammino sganciati dalle strutture pubbliche e distanti da qualsiasi legge di mercato; essi cercano di superare i limiti sia fisici sia psichici individuali, di costruire un nucleo di valori, cioè un’identìtà personale, in relazione alle proprie radici culturali, ad una tradizione in cui si riconoscono, e per questi motivi si confrontano con realtà diverse per lingua, ideologia, religione, modo di vita nel tentativo di ritrovare se stessi e la possibilità dello scambio proprio nella diversità. Peter Brook e il CIRT (Centro Internazionale di Ricerca Teatrale). Dal 1942, quando diciassettenne dirige il Doctor Faust di Christopher Marlowe, fino al più recente Oh les beaux jours (Giorni felici) di Samuel Beckett, il regista londinese Peter Brook ha messo in scena più di settanta rappresentazioni. Trasferitosi da Londra a Parigi, crea il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale, dove convergono attori provenienti da ogni parte del mondo - inglesi, americani, spagnoli, portoghesi, giapponesi, arabi, africani - i quali, nella babele delle loro lingue, verificano il valore comunicativo del teatro al di là delle distanze etniche, ideologiche e linguistiche. Questo “organismo nomade” attraversa il mondo spingendosi oltre i limiti delle ordinarie tournées ed entra in contatto con persone che non avevano mai assistito a spettacoli teatrali prima di allora. Memorabile resta il viaggio in Africa, una traversata di cento giorni tra Niger, Nigeria, Mali, Togo e Dahomey, in cui la compagnia senza un copione e senza aver fissato niente a priori, recita nei villaggi, nel deserto, nella foresta tropicale. La sfida è globale e li riguarda come attori, come individui e come gruppo. Non solo occorre sfruttare al massimo tutti i mezzi espressivi per coinvolgere gli abitanti del luogo ma è necessario sviluppare un grande spirito di adattabilità. Le precarie condizioni igieniche, la carenza di acqua, la mancanza di comodità, unite agli inevitabili problemi di convivenza, sono per loro ostacoli quotidiani. Il teatro di Brook. In Brook è radicata la convinzione che il teatro sia essenzialmente uno scambio vivo tra chi agisce e chi guarda; entrambe le parti partecipano ad un “coro telepatico” all’interno del quale si trasmette una forte energia creativa che circola e viene condivisa. Affínché tale congiunzione comunicativa possa verificarsi ogni volta ci sia un incontro tra un pubblico ed un attore, quest’ultimo impara attraverso un training quotidiano ad interagire con se stesso, con i partners del gruppo e con il pubblico. Questi tre livelli di interazione sono definiti dal maestro “ le tre fedeltà”: la fedeltà della concentrazione, sorgente profonda dell’ispirazione; la fedeltà al compagno in scena a cui bisogna adattarsi costantemente; la fedeltà allo spettatore, in rapporto al quale l’interprete deve essere aperto e disponibile. Tali affermazioni si avvicinano fortemente al concetto in cui può essere sintetizzata la concezione del teatro di Brook: l’arte come relazione, anzi come una rete di relazioni in movimento, viva, che si costituisce ogni volta che interagiscono tra loro le parti descritte in precedenza. L’arte come relazione: l’attore narratore. L’attore che si forma con Brook è fondamentalmente un attore-narratore. Questo genere di recitazione ha cominciato ad ispirare il regista fin dal suo viaggio in Africa, durante il quale ha potuto costatare come le culture africane e quelle orientali hanno da sempre praticato l’arte del narrare, piuttosto che possedere un vero e proprio teatro. Egli pensa pertanto ad un attore che, mettendosi in relazione con il pubblico mentre si accinge a recitare un testo qualsiasi, sia in grado di mantenersi a metà tra l’immedesimazione nella storia, nel personaggio ed una totale estraneità ad essi, in una sorta di alternanza reciproca caratterizzata da un’identificazione solo incompleta e da una distanza momentanea; l’arte del narratore infatti consiste nel tenere gli spettatori con il fiato sospeso mediante la sua abilità interpretativa. Per questi motivi indica un training in cui si alternano esercizi vocali e gestuali. Gli esercizi vocali, ad esempio, tendono a preparare la voce mediante un allenamento costante sulla respirazione, sui ritmi delle sillabe e delle vocali, in modo che la “parola” risulti più incisiva. Gli esercizi gestuali spaziando dal “comune riscaldamento” a tecniche più specifiche - yoga, tai-chi, kathakali (particolare danza indiana) - educano l’attore a percepire le intenzioni dei compagni. Esemplare, in questo senso, l’esercizio con le canne di bambù. In cerchio (per eccellenza modello di comunione e comunicazione) il gruppo si scambia delle canne di bambù velocemente. Ognuno, in pochi secondi, deve intuire i proponimenti di colui che gli sta accanto ed essere pronto ad accogliere qualsiasi variante introdotta; per raggiungere tale obiettivo sono indispensabili attenzione e massima concentrazione. A sviluppare queste doti collaborano anche gli esercizi di improvvisazione, che preparano gli attori ad essere pronti all’imprevisto, a saper creare, cioè, in qualsiasi momento e luogo un evento teatrale. Tuttavia, un evento teatrale oltrepassa sempre il Teatro. La Conferenza degli uccelli per la compagnia di Brook come sessant’anni prima le feste dei Copiaus nei villaggi della Borgogna evoca in simboli e nel suo concreto realizzarsi l’avventura individuale dell’attore in scena e fuori scena. Laddove, nell’incontro con lo Spettatore - al confine dello spazio contrassegnato dalla “finzione”, quell’avventura assomiglia emblematicamente al viaggio di ogni Uomo: incessante ricerca di sé e del proprio personale Simorg sulla scena della vita. La Conferenza degli uccelli. Tra tutte le opere di Brook, La Conferenza degli uccelli - ispirata dall’antico poema persiano di Farid Ad-Din Attar - è quella che meglio riassume l’attività del grande maestro e del suo gruppo di attori. Il debutto dello spettacolo avviene ad Avignone nel 1979. Per Brook e la sua compagnia, il testo costituisce un punto di riferimento importante e consente di suscitare una serie di riflessioni sul lavoro che i componenti del Centro hanno intrapreso ormai da anni. “Un oceano” è l’immagine usata dal regista per definire il poema persiano; uno “sconfinato insieme”, profondo e misterioso, liberamente percorribile in ogni senso e direzione. Per capire più a fondo il significato di tali affermazioni è opportuno soffermarsi, a questo punto, sul racconto di Attar. In quattromilacinquecento versi il poeta, di professione profumiere e uomo assai dotto, narra un viaggio intrapreso da uno stormo di uccelli guidati da un’Upupa. Un viaggio molto particolare che prende spunto da una situazione di crisi: i volatili hanno bisogno di un re. Riuniti in conferenza lo individuano nel favoloso uccello Simorg (uccello mitico e dai magici poteri che vive su un albero presso il lago Varksk) e si mettono in cammino per raggiungere la sua corte. Mille dubbi assalgono gli uccelli prima della partenza e numerosi sono i tentativi dell’Upupa di impartire regole e disciplina ai volatili restii a rinunciare alle abitudini della vita giornaliera: sordi al richiamo del viaggio, l’anitra preferisce il suo stagno, la pernice le sue pietre, l’usignolo la sua rosa, il gufo il suo ramo, la cocorita la sua gabbia. Soltanto quando l’Upupa, l’unica capace di non accontentarsi del quotidiano, ammonisce la loro superbia e il loro orgoglio, il viaggio ha inizio davvero. Gli insegnamenti morali dell’uccello-guida saranno fondamentali per lo stormo e li aiuteranno a varcare le sette Valli che conducono al regno del Simorg. Il “Grande uccello”, infatti, si rivelerà a coloro che sapranno vincere le difficoltà della valle della Ricerca, dell’Amore, della Comprensione, dell’Indipendenza, dell’Unità, dello Stupore e della Povertà. Molti non riusciranno a sopportare le fatiche di un tale percorso e si ritireranno; altri, incoraggiati a resistere alla passioni, perverranno alla meta. Nella fiaba di Attar la gioia della scoperta del Simorg è riservata infatti a pochi eletti. Trenta uccelli su centomila riescono ad arrivare a destinazione e una sorpresa incredibile colpirà i loro occhi. Arrivati alla soglia della settima valle si accorgono che il Simorg è uno specchio in cui si riflette la loro immagine (non è un caso che in persiano la parola si morg significhi trenta) e soltanto in quel momento capiscono che il fine del viaggio è la ricerca di se stessi. La metafora è esplicita. Coerentemente con i mistici di ogni razza e credo, Attar descrive la vita spirituale dell’uomo come un pellegrinaggio alla ricerca della Divinità. Il viaggio, l’avanzarnento lento per gradi, il sentiero formato da sette valli sono le tappe simboliche che conducono alla “fusione” tra l’uomo e l’Essere Superiore. Gli attori si allenano, ognuno sceglie un uccello-personaggio, ne mette a punto una prima caratterizzazione e, infine, si confronta con gli altri dando vita a scene collettive. Brook suggerisce l’uso di maschere balinesi, costruite appositamente per l’occasione, come espediente per “costringere” gli interpreti ad entrare in contatto con le proprie capacità motorie ed espressive liberandosi da canoni e cliché. Ricorda uno degli attori: La maschera mi ha aiutato perché al primo colpo mi ha dato l’essenza del personaggio da rappresentare, la sua stessa presenza [...], credo, mi abbia dato il senso di una forma precisa che mi è servita come base per la recitazione. Oltre alle maschere, il regista si serve di marionette costituite di elementi mobili - scialli e sciarpe che rappresentano una sorta di “estensione del corpo” dell’attore suggerendogli spunti per il lavoro di creazione.