Consumo critico o critica del consumo? Daniele Tavani Abstract L’obiettivo di questo breve saggio è quello di capire, attraverso strumenti elementari di analisi microeconomica, se e come il consumo critico possa creare problemi alla teoria dominante del consumo. Il consumo critico è un tentativo di far entrare in crisi la teoria del consumatore, anche se a prima vista può sembrare un atto di forte razionalità in senso economico. Esso infatti, pur se attuato da soggetti che conoscono meglio di altri il mercato dei beni e i processi produttivi che stanno dietro ai prodotti sugli scaffali dei supermercati, introduce due distorsioni nell’equilibrio del consumatore: una derivante dal fatto che consumare in modo critico produce esternalità positive sul mondo circostante; l’altra, più profonda, in conseguenza del fatto che al fine di consumare in modo critico è necessaria una quantità di informazione molto elevata, e soprattutto mal distribuita tra i vari soggetti economici. La presenza di esternalità positive comporta un sottodimensionamento del consumo critico rispetto alla quantità ottimale da un punto di vista sociale. L’esistenza di asimmetria informativa ingenera problemi molto seri, che riguardano l’effettiva capacità del singolo individuo di essere davvero un “consumatore critico”. Entrambi questi aspetti aprono uno spazio all’intervento pubblico, al fine di aumentare la quota di consumatori critici fino al punto di ottimo sociale da un lato, e di adottare misure per aumentare la trasparenza e ridurre l’asimmetria informativa e i problemi che essa comporta dall’altro. L’intervento pubblico a sua volta può soffrire di entrambi i limiti appena prospettati. Sommario: 1. Il consumatore critico 2. Asimmetria informativa. 3. Politica economica. 1. Il consumatore critico. Consumare in modo critico è un atto di mobilitazione quotidiana che non si contrappone al modello teorico capitalista, ma cerca di modificarlo dall’interno in un ambito microeconomico, cioè individuale. Consumare in modo critico non vuol dire smettere di consumare: vuol dire innanzitutto farlo secondo le proprie reali esigenze, poi informandosi prendendo coscienza del fatto che dietro ai prodotti che si acquistano quotidianamente c’è tutta la storia delle imprese che li offrono. Una storia che può essere fatta anche di sfruttamento dell’uomo o dell’ambiente, di finanziamento alla produzione o al traffico delle armi, ecc. Per questo motivo, colui che decide di consumare in modo critico non cambia posizione sull’atto del consumo: egli cambia il suo atteggiamento nel consumo. Il consumatore critico ha poco di diverso dal consumatore della teoria economica marginalista: egli formula le sue preferenze ex ante (la teoria quindi non spiega il modo in cui lo fa), e acquista, dato il suo vincolo di bilancio cioè il suo reddito disponibile, quei beni che massimizzano la sua soddisfazione, tecnicamente la sua utilità. L’unica differenza con il consumatore della teoria neoclassica sta nel fatto che la soddisfazione del consumatore critico dipende non solo dalle caratteristiche per così dire “edonistiche” del prodotto che egli intende consumare, ma anche da quelle “sociali”. Ciò porta a riflettere sul fatto che, in termini teorici, il consumo critico induce una distorsione nel consumo. Viene in altri termini introdotta una “economia esterna”, o esternalità, derivante dall’atto di consumare in modo critico: se io consumatore acquisto solamente prodotti che non comportino, ad esempio, lo sfruttamento intensivo del lavoro dell’uomo e delle risorse naturali, produrrò effetti al margine positivi, in termini di salute e qualità della vita, sull’uomo e sull’ambiente. Tali effetti esterni non hanno un prezzo di mercato, non sono cioè monetizzabili. Proprio per questo si chiamano infatti economie “esterne”: esse sono esterne al mercato perché non riflesse nei prezzi che il mercato forma. Questo per la teoria economica marginalista è un classico caso di “fallimento del mercato”. Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire brevemente perché il mercato fallisce, cioè perché non riesce ad allocare le risorse in modo efficiente in presenza di un’economia esterna. Per fare questo abbiamo bisogno di conoscere 2 concetti: quello di equilibrio del consumatore e quello di ottimo paretiano. Partiamo dal primo. Il consumatore neoclassico massimizza la sua utilità sotto il vincolo del reddito di cui dispone. Egli cioè desidera consumare le quantità massime di beni che si può permettere con quanto guadagna, fatte alcune ipotesi sulla sua funzione di utilità. Supponiamo quindi per semplificare che non esista il risparmio, anche perché questa semplificazione non comporta perdita di generalità nell’analisi. Nel nostro mondo semplificato di consumo, immaginiamo di avere solo 2 beni (il pane e la tela); ipotizziamo anche che la moneta non svolga funzioni sue proprie a parte quelle di fungere da mezzo di pagamento, e quindi che si possano rapportare i beni tra loro attraverso i loro prezzi. Questo significa che, facendo il rapporto tra i prezzi dei due beni, si abbia un numero “puro” e non un valore in moneta. Chiamiamo “prezzo relativo” il rapporto tra i prezzi dei beni in questione. Il nostro consumatore tipo misura la sua soddisfazione, per ogni combinazione di beni che può acquistare con il suo reddito, mediante il concetto di “saggio marginale di sostituzione” (sms), che esprime la quantità marginale di pane a cui si deve rinunciare se si vuole ottenere un’unità addizionale di tela e viceversa. Ora il massimo dell’utilità (l’equilibrio) per il nostro consumatore-tipo, dato il reddito complessivo di cui egli dispone, sarà ottenuto quando il prezzo relativo eguaglia il sms: questo vuol dire che il soggetto vede in quel momento perfettamente riflesse nei prezzi le sue preferenze nel consumo. Per chiarire il concetto, pensiamo che il prezzo del pane aumenti rispetto a quello della tela: se il consumatore è in equilibrio, egli modificherà la composizione della sua spesa in una proporzione esattamente uguale al nuovo rapporto tra i due prezzi, mantenendo invariata la sua soddisfazione, che peraltro è quella massima. Come lui, si comporteranno anche gli altri consumatori del nostro semplice mondo in cui si acquistano solo pane e tela. Supponiamo che nel nostro mondo ci siano solo due individui, facciamo l’ipotesi che il pane e la tela “piovano dal cielo”, cioè disinteressiamoci degli aspetti legati alla produzione, e pensiamo di fare incontrare i nostri amici sul mercato per scambiarsi le loro dotazioni di pane e di tela. L’equilibrio nello scambio tra questi due soggetti si avrà quando i saggi marginali di sostituzione tra il pane e la tela dei due si eguagliano, e sono uguali al prezzo relativo dei beni scambiati sul mercato, cioè al rapporto tra i prezzi dei due beni. In questo modo, ognuno scambia i due beni nel modo migliore per sé: una situazione bellissima nella quale i prezzi riflettono esattamente le preferenze degli individui; costoro poi sono soddisfatti pienamente dallo scambio reciproco di beni di consumo. Questa situazione gode pure della proprietà di essere ottima per la collettività (sempre di due persone, ma è estendibile facilmente a n individui), nel senso che non è possibile che uno dei due individui migliori la sua soddisfazione senza peggiorare quella dell’altro (ottimo paretiano). Che vogliamo di più dalla vita? La favola entra in crisi se i prezzi non riflettono più solo le caratteristiche economiche del pane e della tela: se ad esempio la produzione di tela inquina l’ambiente, il prezzo della tela continua ad essere lo stesso; tuttavia la collettività paga un prezzo non economico in termini di peggior qualità dell’aria che respira. Questo è un costo per la collettività, indubbiamente: non essendo esso monetizzabile, tuttavia, non è riflesso nel prezzo di mercato della tela, e quindi si può verificare una situazione in cui, pur se i saggi marginali di sostituzione calcolati senza tener conto dell’inquinamento sono uguali tra i due individui, e sono anche uguali al prezzo relativo, uno dei due si ritrova con un cancro al polmone. In termini economici, si ha una differenza tra il saggio marginale “privato” e il saggio marginale “sociale”. La soddisfazione privata richiederebbe per esempio un certo consumo di tela, l’utilità (benessere) sociale invece ne comporterebbe un consumo minore, a causa dell’impatto ambientale elevato della produzione della tela. La situazione ottima per il singolo individuo non è ottima per la società. L’ottimo privato è soddisfatto dall’eguaglianza tra i saggi marginali di sostituzione “privati”; l’ottimo “sociale” richiederebbe che fossero uguali i saggi marginali sociali. Ciò che vale per le esternalità negative vale anche, cambiando quel che c’è da cambiare, per gli effetti esterni positivi. Quindi assumere che il consumo critico produce un miglioramento per la qualità della vita della collettività vuol dire che esso è fonte di un’esternalità positiva che non ha un prezzo, e che comporta una differenza tra il saggio marginale privato e quello sociale. In particolare, come ben dimostrato dalla teoria delle esternalità, in questo caso il saggio marginale privato è minore del saggio marginale sociale: questo comporta che la quantità di consumo critico sia minore di quella ottima per la società. Infatti, il soggetto che consuma in modo critico non può consumare quantità del bene eccessive per alcuni motivi: in primo luogo perché ad un certo punto possiamo pensare che oltre un certo limite il consumo lo sazi; in secondo luogo perché la filosofia del consumo critico sta anche nel cercare di consumare il più possibile secondo i propri bisogni, evitando gli sprechi. Infine si potrebbe pensare che il bene che produce esternalità positive sia un prodotto equo, e quindi abbia un prezzo, anche se di poco, superiore a quello dei suoi sostituti; se come abbiamo supposto all’inizio il reddito è dato, e non esiste il risparmio, né positivo né negativo, ci sarà un ammontare massimo di bene che il consumatore può permettersi, e sarà inferiore a quello che sarebbe ottimo per la collettività. Potremmo allora dire: troppo poche persone sono virtuose, perché i non virtuosi si beccano comunque un certo vantaggio dai comportamenti virtuosi dei “bravi”. Una considerazione di questo tipo, a dire il vero fa straripare l’analisi del consumo critico come esternalità verso un’altra branca dell’analisi economica: quella dei beni pubblici. Per completezza, vorrei spendere due parole nello spiegare perché potremmo considerare l'atto del consumo critico tra il novero dei beni pubblici; il lettore che ritenga la trattazione eccessivamente appesantita da questa breve digressione, può passare al prossimo capoverso. Le caratteristiche fondamentali dei beni pubblici cosiddetti “puri” sono la non-rivalità e la non-escludibilità. La prima caratteristica significa che il consumo di un bene pubblico da parte di un individuo non avviene a scapito del consumo di un altro individuo: la difesa nazionale ad esempio non può essere erogata ad un cittadino piuttosto che ad un altro. La non-escludibilità è qualcosa di simile a questo ma non proprio identico: essa infatti passa attraverso i prezzi. Cioè se un contribuente paga le tasse per avere delle forze dell’ordine che mantengano la sicurezza e un altro no, nel momento in cui sorgesse un bisogno di difesa da un attacco militare, entrambi i cittadini sarebbero comunque difesi dalle forze dell’ordine. Un bene privato invece non gode di queste proprietà: quando vado a comprare un filone di pane al forno, nessun altro può comprare lo stesso identico filone di pane (e quindi c’è rivalità nel consumo); se poi non pago il prezzo del pane, il panettiere il pane non me lo darà di certo (e quindi c’è escludibilità del consumo del bene privato-pane). Il tipico problema che scaturisce dalle caratteristiche dei beni pubblici è la presenza di comportamenti parassitari da free riders. Chi produce un bene pubblico, in soldoni, sapendo che non potrà discriminare in base al prezzo i suoi eventuali acquirenti, non avrà convenienza a farlo, perché se fosse il primo a cominciare la produzione ne sosterrebbe tutti i costi fissi. Se fossero in due, tre, n, dividerebbero il costo fisso per due, tre, n. Ma poiché non ci sono accordi o vincoli a ripartire la produzione, ciascuno "aspetta" che inizi qualcun altro per evitare di sostenere i costi fissi e godere invece dei benefici del consumo del bene pubblico. La mia opinione è quindi che il consumo critico in quanto tale, e non i prodotti consumati, sia un bene pubblico puro (samuelsoniano), in quanto non rivale e non escludibile. I beni che sono consumati in un’ottica di consumo critico sono certamente beni privati: se non si paga il loro prezzo, non si possono consumare. Anzi, nel caso del commercio equo e solidale la caratteristica fondamentale dei beni offerti sta proprio nella loro qualità di avere un prezzo che risponda a certi requisiti. Tuttavia, considerando l’atto del consumare in modo critico, esso sarà da ritenere come non escludibile. Infatti, pensando al fatto che per essere consumatori critici bisogna informarsi, si vede chiaramente che il consumatore critico sonstiene un costo d’informazione in termini di tempo per reperire studi sulle aziende produttrici, o in termini di denaro per acquistare “guide al consumo critico”. Pur tuttavia, il consumo critico produce effetti (in termini di miglior qualità dell'ambiente, dei lavoratori impiegati nella produzione di beni che rispondono a determinate caratteristiche, ecc.), in particolare se diviene un fenomeno diffuso, che sono non escludibili. Riassumendo, dal lato della teoria del consumatore, il consumo critico è un atto del tutto spiegabile all’interno della teoria marginalista del consumo: esso è un modo di inserire valutazioni sociali nell’atto del consumo, attraverso ad esempio il boicottaggio di tutti quei prodotti che non rispondono alle preferenze del consumatore critico. Come nelle ipotesi della teoria marginalista, tali preferenze sono formulate precedentemente all’atto del consumo, e quindi non è necessario che la teoria le spieghi. Allo stesso modo, abbiamo visto come sia possibile dar conto del processo di scelta sempre restando all’interno di questo mondo teorico di riferimento: il consumatore sceglie il mix di beni che massimizza la sua utilità, dato il reddito di cui dispone. Abbiamo poi mostrato il punto centrale, e cioè che consumando in modo critico si introducono delle economie esterne (esternalità) nel sistema. Tali esternalità sono spiegate anch’esse all’interno dello schema neoclassico: esse non hanno un prezzo in moneta e quindi non trovano spazio in una logica che sia meramente di mercato. Esse comportano inoltre che la quantità di consumo critico di un’economia sarà minore di quella socialmente ottima. La conclusione, anche questa in linea con la teoria dominante, è che, dove il mercato fallisce, c’è spazio per l’intervento pubblico: il settore pubblico può migliorare i risultati del mercato conducendo quest’ultimo verso un obiettivo desiderabile da un punto di vista sociale. Di questo mi occuperò nella terza parte del lavoro. 2. Asimmetria informativa. Il secondo aspetto di cui vorrei occuparmi riguarda i problemi informativi connessi con il consumo critico. Come è evidente, al fine di valutare se il prodotto di una certa azienda rispetta dei parametri di desiderabilità sociale, oltre che meramente individuale, sono necessarie informazioni aggiuntive rispetto a quelle derivanti dal prezzo e a quelle presenti sull’etichetta del prodotto stesso. Queste sono infatti le due informazioni principali sulla cui base la scelta del consumatore ha luogo: prezzo e etichetta. Soffermandoci un attimo sulla seconda, è evidente che essa non contiene tutte le informazioni di cui il consumatore “critico” ha bisogno. Si potrebbe dire che le etichette sono povere di informazione anche per il consumatore qualunque, ma ci sono già le associazioni di tutela che si occupano di questo aspetto: non è questo il punto centrale della nostra analisi. Ciò che interessa noi in questo ambito, piuttosto, è il fatto che nessuno obbliga infatti le aziende a dichiarare espressamente le tecniche produttive utilizzate. Ciò ha lo scopo di mantenere la differenziazione tra i prodotti. La differenziazione ha lo scopo di assicurare ai produttori una fetta del mercato, ed eventualmente di ampliarla: se tutti sapessero cosa sono i famosi “aromi naturali” della coca-cola, tutti potrebbero produrla e la Coca-Cola Company non avrebbe motivo di esistere (certamente questa sarebbe una situazione desiderabile per alcuni, però i giudizi di valore preferirei lasciarli fuori dalla porta). Il consumatore critico è una persona che vuole sapere tutto o quasi del prodotto che acquista, e perciò ha necessità di acquisire informazioni aggiuntive rispetto al prezzo e all’etichetta. Il verbo acquisire non è utilizzato casualmente: la raccolta di informazioni non immediatamente reperibili presenta dei costi per il consumatore. Basti pensare al tempo necessario per reperire notizie, al costo della connessione internet per fare ricerche online sul prodotto in questione, al costo che ha l’acquisto di una guida ai prodotti, ecc. Questo significa che l’informazione sul mercato è ben lontana dall’essere perfetta. L’esistenza di perfetta informazione richiederebbe infatti che tutte le notizie utili alla scelta dei beni da consumare fossero immediatamente reperibili senza costi. Proviamo allora a vedere il problema del rapporto tra produttore e consumatore sotto un profilo diverso rispetto a quello dello scambio di beni contro denaro. Le imperfezioni nella possibilità di informarsi completamente, infatti, rendono molto difficoltoso parlare dei rapporti tra produzione e consumo in questi termini. Una via più proficua, anche se a prima vista non proprio facile, è quella di considerare il rapporto tra produttore e consumatore come un rapporto di agenzia. Questo trova la sua giustificazione nel considerare che l’esistenza di asimmetria informativa, tradizionalmente, origina due ordini di problemi: la selezione avversa e il rischio morale.La prima riguarda caratteristiche della prestazione o di uno dei contraenti che preesistono alla stipula del contratto; il secondo afferisce a comportamenti opportunistici post-contrattuali. Il consumatore esplicita i suoi bisogni di consumo e trova nell’imprenditore il soggetto che, attraverso la produzione di beni, può soddisfare i suoi desiderata. In termini di rapporto di agenzia, si può allora dire che il consumatore è il principale dell’imprenditore, perché delega a lui il compito di soddisfare le sue necessità di consumo. L’imprenditore sarà invece il suo agente. Il consumatore-principale però non è in grado di controllare perfettamente l’operato dell’imprenditore-agente: il primo manifesta le sue esigenze, il secondo è libero di produrre come meglio crede. Per l’imprenditore il prezzo sicuramente rifletterà le tecniche produttive (infatti il prezzo del bene deriva dalla condizione di massimizzazione del profitto sotto il vincolo della tecnica produttiva utilizzata), ma il consumatore, quando andrà al mercato, si troverà davanti solo il prezzo, e non le tecniche utilizzate per produrre il bene in questione. Anche considerando l’etichetta del bene di consumo, il consumatore ci troverà scritti gli ingredienti, lo stabilimento, ma non il processo produttivo. C’è pertanto un “buco” fondamentale nell’informazione accessibile al consumatore: egli, dagli elementi che ha a disposizione, non è in grado di sapere come avviene materialmente la produzione del bene che desidera acquistare. Tutto ciò non ha particolari implicazioni per un consumatore qualsiasi, che al momento dell’acquisto si accontenti degli elementi immediatamente visibili come parametri della sua scelta. Per il consumatore critico, invece, le informazioni circa il processo produttivo sono essenziali al fine di acquistare un prodotto piuttosto che un altro. Chiaramente, il consumatore critico non vorrà sapere proprio tutto sui prodotti, ma si farà alcune domande che certamente ingeriscono nel merito del modo in cui l’imprenditore impiega le risorse necessarie alla produzione. Esempi di questa ingerenza possono essere la necessità di conoscere il trattamento dei lavoratori impiegati, l’utilizzo di fertilizzanti chimici, il testing su animali, ecc. Tutti questi elementi sono informazioni la cui diffusione, nella maggior parte dei casi, non è obbligatoria per il produttore. Quindi il produttore ha in mano elementi informativi che non è interessato a diffondere, per una serie di motivi: uno di questi è sicuramente il fatto che il processo produttivo utilizzato può essere un forte fattore di differenziazione rispetto agli altri produttori; ma anche il fatto che ad esempio il reperimento di manodopera a basso costo e non sindacalizzata nei paesi in via di sviluppo può permettere di realizzare margini di profitto più elevati. Il nodo della questione è tutto qui: l’informazione necessaria per consumare in modo critico è mal distribuita, è asimmetrica. Essa “pende” fortemente dal lato dell’imprenditore. Qui comincia la ricerca di informazioni da parte del consumatore: ricerca che, come abbiamo appena detto, presenta dei costi. Sono proprio questi costi che “scremano” i consumatori: i più pigri penseranno che sia inutile mettersi a fare le pulci agli imprenditori, i più critici invece spenderanno una parte del loro tempo a farlo. È chiaro che in questa fase, di scelta della controparte, il consumatore è soggetto al rischio di effettuare una selezione avversa, nel senso di non riuscire a scegliere il produttore che davvero lo “meriterebbe” secondo certi parametri di eticità, ecc. Nel momento in cui il numero di consumatori critici diventasse rilevante, tanto da suscitare l’interesse degli imprenditori da un punto di vista del marketing, si avrà un mutamento parziale della situazione descritta in precedenza. L’imprenditore comincerà, al fine di catturare il target dei consumatori critici, a scrivere un numero maggiore di informazioni relative al processo produttivo sull’etichetta, lancerà campagne pubblicitarie in cui appaia che il prodotto è un prodotto “etico”, o rispettoso dell’uomo e dell’ambiente, ecc. Eppure, l’incentivo per l’imprenditore a “dire di più” derivante dalla possibilità di catturare un nuovo target di mercato non è di per sé sufficiente a far sì che l’imprenditore diffonda informazioni del tutto veritiere. Infatti, più cha la veridicità delle informazioni che si danno, conta per l’imprenditore la capacità di persuasione degli strumenti comunicativi che si utilizzano. Si potrebbe dire sinteticamente: non è importante che ciò che si comunica sia vero, l’importante è che sia convincente. Molti individui, infatti, non avranno motivo (o non avranno voglia) di dubitare della buona fede di una campagna pubblicitaria, e il fatto che in essa si affermi che il prodotto reclamizzato risponde a certi requisiti di carattere etico sarà per loro un elemento sufficiente al fine di orientare le loro scelte verso il prodotto reclamizzato. Analogamente a quanto detto prima sulla selezione avversa, situazioni di questo tipo possono essere annoverate tra i problemi di rischio morale (moral hazard), in quanto originati da considerazioni opportunistiche che avvengono dopo la conclusione del contratto. Su questo punto, centrale per la nostra discussione, si concentra il nodo principale della trattazione in termini di rapporto principale-agente. A causa della carenza di informazioni totalmente attendibili sulle caratteristiche dell’impresa e del suo processo produttivo, è perfettamente verosimile che il consumatore, anche quando si attivi per effettuare una scelta “critica”, non riesca a farlo fino in fondo. Egli, in altri termini, potrebbe trovarsi spesso a compiere quella che si chiama selezione avversa: limitandosi a compiere un’indagine per così dire superficiale sui prodotti, scremerà le imprese che meglio lo convincono dei loro presupposti morali, e non invece quelle che realmente attuano delle scelte condivisibili su come svolgere il processo produttivo. La selezione avversa, che trova origine nell’esistenza di asimmetria informativa, afferisce quindi alle caratteristiche dell’oggetto in questione, che in questo caso riguardano il processo produttivo e che preesistono alla conclusione del contratto d’acquisto. Ma proviamo ad immaginare che il consumatore sia riuscito a superare il problema della selezione avversa, ed abbia compiuto una scelta che ex post si rilevi quella realmente “giusta”: l’impresa il cui prodotto sia stato prescelto, che per il momento si è comportata “bene”, potrebbe comunque sfruttare questa situazione a suo vantaggio, in un secondo momento. La sua reputazione sarebbe sufficiente a spingere il consumatore a servirsi nuovamente presso di lei, e magari a spingere altri consumatori a farlo. Siccome la reputazione è difficile da cancellare, a meno di vicende eclatanti, l’impresa in questione potrebbe adottare comportamenti meno vincolanti da un punto di vista etico il cui accertamento non fosse così immediato da parte dei consumatori, in modo ad esempio da trarre maggiori profitti rispetto alla situazione iniziale in cui faceva la “brava”. Facciamo un esempio: l’impresa tal dei tali che produce in Bangla Desh si vanta in un primo momento (ed è vero) di produrre senza l’impiego di minori sotto i 13 anni. I consumatori sono contenti e scelgono i suoi prodotti. In un secondo momento, data la buona reputazione acquisita, l’impresa, sapendo che l’accertamento sull’effettivo modo di produzione non è semplice, comincia ad impiegare minori sotto i 13 anni perché chiedono un salario inferiore, vende il prodotto allo stesso prezzo e quindi lucra un ricarico maggiore. Questo problema, legato all’asimmetria informativa, riguarda il comportamento della controparte dopo la conclusione del contratto, e si denota con l’espressione moral hazard (rischio morale). Potremmo pensare che prima o poi i consumatori subodoreranno qualcosa, ma anche se questo fosse il caso l’impresa, che utilizza spesso metodologie di accertamento della soddisfazione dei sui clienti, quando sentisse puzza dell’arrivo di un controllo (o di qualcosa di analogo), potrebbe ripristinare le condizioni di partenza in modo da risultare ancora “pulita”. Essa, in un futuro ancora ulteriore, potrebbe ciclicamente “barare” in modo da mantenere intatta la sua reputazione pur se il suo comportamento non vi corrisponde. I problemi legati all’asimmetria informativa presente nel consumo critico sono allora molto grossi, e minano alla base l’effettiva possibilità di consumare secondo criteri non meramente edonistici ma piuttosto sociali. Da un lato la reale possibilità di effettuare selezioni avverse, dall’altro fenomeni di rischio morale sembrano essere ostacoli troppo forti per compiere una scelta corretta. La rimozione delle asimmetrie informative attraverso l’introduzione di incentivi a “non barare”, siano essi premi per l’adozione di un comportamento cooperativo con i consumatori o meccanismi repressivi per le imprese che lo fanno, è sicuramente un compito difficile di cui potrebbe farsi carico l’azione pubblica. Questo aspetto, insieme a quello relativo all’internalizzazione delle esternalità del consumo (vedi articolo precedente), sarà oggetto della terza parte del saggio. 3. Politica Economica La trattazione svolta finora ci consente di dire che il consumo critico fa “fallire” il mercato almeno sotto due punti di vista: da un lato quello delle esternalità (o beni pubblici), dall’altro quello dell’asimmetria informativa. Considerando entrambe queste situazioni abbiamo visto che la presenza di consumatori critici è un “fallimento” del mercato perché implica una situazione in cui esiste la possibilità che migliori il benessere sociale di alcune persone senza che peggiori quello di altre: questo vuol dire che il mercato, lasciato a se stesso, non riesce a raggiungere l’ottimo paretiano. Abbiamo poi accennato al fatto che la presenza di fallimenti del mercato, in un ambito teorico neoclassico, qual è quello all’interno del quale ci stiamo movendo, costituisce una giustificazione per l’intervento pubblico. Esso deve consistere da un lato nell’internalizzazione delle esternalità, dall’altro nella rimozione delle asimmetrie informative: andiamo per ordine. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’internalizzazione delle esternalità può avvenire classicamente in 4 modi: a) l’introduzione di tasse/sussidi a seconda che l’esternalità sia rispettivamente negativa o positiva (tassazione pigouviana); b) la fissazione di incentivi; c) l’introduzione di diritti negoziabili; d) la regolamentazione. Mi occuperò in questa sede delle prime due possibilità. Considerando la tassazione/sussidiazione, si potrebbero in prima approssimazione sussidiare i consumatori critici che dimostrano di esserlo, in modo da arrivare all’ottimo paretiano. Andando più in profondità, però, si potrebbe obiettare che già le imprese inquinanti vengono in qualche modo tassate per i danni prodotti sull’ambiente, e quindi vi sarebbe uno spreco di risorse perché per lo stesso problema vengono adottati due provvedimenti, sopportando due volte i costi amministrativi: bisogna allora valutare se la somma dei costi amministrativi più il costo del sussidio per i consumatori critici supera il valore economico del beneficio di avere un numero socialmente desiderabile di consumatori critici. Quando anche ciò fosse verificato, come si potrebbe venire a conoscenza di quali sono realmente i consumatori critici? Il modo più semplice sarebbe con gli scontrini della spesa, ma questo potrebbe configgere con il rispetto della libertà personale e della privacy. In generale, anche ad un livello “basso” di analisi come quello che si sta affrontando qui, strumenti come la tassazione non sembrano facilmente realizzabili. Dal punto di vista degli incentivi, la questione diviene più interessante, soprattutto perché getta un ponte con l’altro problema di cui ci siamo occupati precedentemente: quello dell’asimmetria informativa. Con riferimento alla tutela del consumatore, soprattutto riguardo alla selezione avversa delle imprese, possiamo allora immaginare due vie, una “diretta” e una “indiretta”. Su questo punto mi servirò degli strumenti forniti dalla teoria del signalling di Spence. La via indiretta consiste nell’istituire una certificazione pubblica, o semipubblica, o privata, per le imprese che utilizzano processi produttivi etici, sul modello del marchio Trans Fair o AltroMercato, in modo tale che i consumatori sappiano che quando vanno a fare la spesa si possono orientare in base ai prodotti che presentano il segnale di eticità. Il segnale deve essere il più possibile dissipativo, cioè tale da eliminare la verifica da parte del consumatore della rispondenza dell’impresa ai requisiti richiesti dal segnale stesso. Il consumatore dovrebbe dunque “fidarsi” del segnale, in modo da scegliere solamente in base al fatto che il segnale sia presente o meno. Il segnale poi dovrebbe essere architettato in modo tale che il costo dell’ottenimento sia basso per le imprese che adottano effettivamente un processo produttivo etico e alto per coloro che non lo fanno, in modo da evitare pericolosi “green washing” da parte di imprese che non rispondano ai requisiti richiesti dal segnale ma che potrebbero ugualmente procurarselo a causa dei suoi bassi costi. Un segnale che discrimini perfettamente le imprese e costituisca un titolo sulla base del quale compiere una scelta, tuttavia, pur essendo auspicabile, potrebbe non essere sufficiente ad aumentare la quota di consumatori critici: l’ottenimento di esso da parte delle imprese virtuose presenterà certamente dei costi, anche se bassi (qualora il segnale fosse costruito bene), che con tutta probabilità andranno a scaricarsi sul prezzo di mercato portandolo in alto. In questo modo si toglierebbe la possibilità a fasce di consumatori con redditi medi o medio-bassi di partecipare a questo mercato di prodotti di consumo critico, e li si costringerebbe a servirsi sul mercato normale. Si potrebbe pertanto ipotizzare una tutela diretta, cioè riferita direttamente al consumatore, come ad esempio l’istituzione di un segnale per il consumatore critico, come una certificazione o altro, che attesti che la persona ha certi stili di consumo e come tale va in qualche modo tutelato, beneficiando magari di uno sconto sui prodotti critici che compra presso determinati negozi convenzionati. Immaginiamo che questo segnale sia acquistabile sul mercato, ad un certo costo, non necessariamente economico (come ad esempio la partecipazione ad un corso specifico di consumo critico e l’ottenimento di un diploma). Il segnale, come ho detto poco sopra, dovrebbe essere il più possibile dissipativo, cioè perfettamente discriminante, in modo che lo Stato non debba andare a verificare la sua credibilità, ma semplicemente il possesso o meno del segnale stesso da parte dei cittadini. Questo segnale, inoltre, deve essere costruito in modo che la sua acquisizione risulti conveniente solo per i cittadini che siano veramente consumatori critici, perché se ottenerlo fosse troppo facile anche per gli altri tutti se ne doterebbero in modo da avere gli sconti ai “supermercati etici” che abbiamo immaginato prima. Cioè, il segnale deve costare poco ai consumatori realmente critici e molto ai consumatori “all’americana”, per intenderci. In conclusione, allora, ho provato a spiegare il consumo critico con gli strumenti propri della teoria del consumo più utilizzata, ed ho mostrato i suoi caratteri di fallimento del mercato. Nel pensare a soluzioni per questo tipo di problemi, come quelle che ho prospettato in questa terza parte del saggio, bisogna sempre tenere presente che dove il mercato fallisce non è detto che lo Stato possa automaticamente far meglio: anche al suo interno i problemi di agenzia sono molto rilevanti. In particolare i rapporti di agenzia non intercorrono solo tra il principale-cittadino e l’agente-politico, ma anche tra il principale-politico e l’agente-burocrate. Poiché né politici né burocrati, quando sono considerati nella loro veste di agenti, si comportano da agenti “fedeli” rispettando interamente il loro mandato, ma anzi hanno sempre una funzione propria di utilità rispetto a certi bisogni che non condividono con i cittadini, bisogna sempre stare attenti nel momento in cui si attribuisce all’azione pubblica il compito di risolvere i problemi creati dall’operare del mercato. Questo non toglie la fiducia nell’operato del settore pubblico: significa però utilizzare strumenti che limitino la possibilità per gli operatori pubblici di perseguire obiettivi loro propri, o almeno li incentivino a rispettare gli impegni presi con i loro “principali”, siano essi i cittadini o il governo.