I temi del secondo Seminario di Formazione marzo 2004 Eucaristia: popolo che accoglie la Misericordia nel perdono e nella pace APPROFONDIMENTO TEOLOGICO NEL PERDONO LA PACE: EUCARISTIA E MISERICORDIA Partiamo in questa riflessione dal testo dell’Apostolo di Rom 15, 14-17: «Sono fermamente convinto, fratelli miei, che voi avete buone disposizioni, siete pieni di conoscenza, e quindi siete capaci di consigliarvi gli uni gli altri. Tuttavia in alcune parti della mia lettera ho usato parole forti, come per ricordarvi quel che già conoscevate. L'ho fatto a motivo dell'incarico che Dio mi ha dato, quello di essere ministro di Cristo Gesù tra i non Ebrei. Annunziando la parola di Dio, io agisco come un ministro cultuale, perché faccio in modo che i non Ebrei diventino un'offerta gradita a Dio, santificata dallo Spirito Santo. Perciò, unito a Cristo, posso essere fiero dell'opera di Dio. Quel che io ho detto è che Cristo si è servito di me per condurre i non Ebrei a ubbidire a Dio. Lo ha fatto con parole e con opere, con la potenza di segni miracolosi e con la forza dello Spirito». Siamo all’inizio della parte esortativa dell’Epistola ai Romani. L’apertura è chiara: secondo S. Paolo essere Apostolo è come presiedere una liturgia. Si tratta quindi di qualcosa legato essenzialmente alla vita. In questo senso, la liturgia non è appena un rito esteriore. È piuttosto la vita stessa degli uomini che credono in Dio, che diventano obbedienti per la fede e che, quindi, sono costituiti come comunità cristiana. Il servizio che l’apostolo rende ad una tale crescita si configura come una vera e propria liturgia. Che cosa accade allora nel rito propriamente detto? Nel rito, nella celebrazione memoriale appunto, “passa”, “si fa presente” l’oblazione pasquale di Cristo, la sua stessa Pasqua. Il rito si presenta come una mediazione, quale punto di arrivo dell’azione di Dio attraverso gesti e parole propri dell’uomo. Rito, quindi, non come gesto chiuso in sé e per sé, ma come “memoria” di un gesto che non è rituale, perché è la stessa Pasqua del Signore. Questo evento è mediato attraverso la celebrazione, che avviene in un contesto di simboli e di segni: è il punto di concentrazione del costituirsi della comunità e di tutti gli uomini come liturgia vivente, gradita a Dio (cfr. Rom 12, 1). Tra la vita e il rito c’è dunque un rapporto vivo e circolare. Si tratta di un tipo di unità a cui educarci sempre di nuovo, contro la nostra tendenza a separare le due sfere. Possiamo temere, attraverso la ripetizione puntuale di un rito come l’Eucaristia quotidiana, di sacralizzare indebitamente l’esistenza. Saldando vita e rito, comprendiamo che attraverso la memoria costante dell’Eucaristia la nostra esistenza “si restituisce” a Dio e lentamente prende origine e forma dal memoriale della Pasqua del Signore. Essa plasma progressivamente la nostra vita sui “sentimenti che furono in Cristo Gesù”, il Servo obbediente al Padre, completamente dedito alla sua missione in favore di tutti gli uomini. II In questo percorso tutta la vita diventa Eucaristia, cioè azione di grazie che “restituisce” a Dio ogni frammento di vita, perché ogni spazio umano e il creato stesso si apra a Dio; il bene dell’uomo è di essere liturgia vivente, culto a Dio, restituzione a Lui. L’uomo ha consistenza proprio in questa apertura all’altro, per cui si ritrova dentro di sé e oltre di sé. Si riconosce, attraverso l’Eucaristia, chiamato ad aprirsi a Dio, a se stesso, agli altri, al creato, e quindi al diverso, al nuovo. In questa apertura l’Eucaristia ci rende donne e uomini “pasquali”, capaci di passare continuamente attraverso la morte per la vita; lascia fiorire dalle nostre e altrui lacrime e carenze di senso il risus paschalis; ci apre al volto dell’altro, soprattutto del povero, per riconoscervi i tratti del misterioso viandante di Emmaus. Nell’Eucaristia sperimentiamo allora l’unità tra rito e vita nel senso della restituzione a Dio di tutto ciò che siamo, attraverso l’apertura all’altro. Si delinea un vero e proprio itinerario di liberazione dalle forze che isolano il Signore dalla vita e dalla storia e che chiudono la creatura in se stessa. Frutto della Pasqua è questa liberazione. Nella sua carne Cristo ci ha resi liberi, Egli è la nostra “pace”. Proprio attraverso il rito è mediata questa potenza di liberazione e di grazia, questa realtà nuova di perdono e di pace. È la vita stessa di Gesù, resa presente attraverso il rito nell’Eucaristia, questa liberazione. Anzitutto perché nella Eucaristia la ritroviamo come “esistenza per” tutti, nella donazione totale di sé, senza riserve. Un’esistenza quindi in cui ciò che è stolto per il mondo diventa sapiente per Dio e viceversa. È la sapienza nuova di un’esistenza che si consegna, il verbo proprio della Pasqua del Signore, nel senso che si affida completamente al Padre attraverso gli uomini. III Questo tipo di esistenza, frutto della libertà assoluta di Gesù nel dono di sé, costituisce un vero e proprio «anticipo» di risurrezione. Attende e spera, infatti, la liberazione definitiva e la vive già attraverso un’esistenza progressivamente sempre più umana e umanizzante. È proprio su questo versante della crescita della nostra umanità che non possiamo non chiederci se la nostra vita prende la forma dell’Eucaristia e della Pasqua, la forma cioè di una vita sempre più interamente spesa perché tutti abbiano la vita. L’Eucaristia celebrando un mistero di liberazione e di perdono ricostruisce le nostre vite e le nostre comunità, fa nuove misteriosamente le mille lacerazioni della storia e del mondo. Scopre e sana il male che troviamo in noi e intorno a noi, e dal quale chiediamo sempre di essere liberati. «Liberaci dal male»: resta la preghiera che può riassumere questo percorso di perdono e di pace nella Eucaristia: da quale male chiediamo oggi di essere liberati/e? Provo ad elencare alcuni mali da cui mi sembra urgente chiedere liberazione e che possono trovare nell’Eucaristia, che dà forma alla vita secondo la logica della Pasqua, una forza efficace di guarigione. Certo ad alcune condizioni, che vedo come altrettanti punti di verifica della vita della comunità ISM oggi: 1. Sfiducia e paura del futuro, di fronte a tanta incertezza diffusa. Curare la sfiducia e la paura del futuro nella comunità: riconoscere e combattere la lamentazione, la nostalgia del passato, le letture catastrofiste e rassegnate. Come? Coltivando la virtù teologale della speranza, segno di una vita resa nuova dall’immersione nella Pasqua. IV 2. Passività rassegnata e spirito acritico, uniti all’indifferenza abituale: “Che posso farci?”. Vivere la formazione come l’acquisizione vitale di un sapere critico e creativo, che non si accontenti di ripetere il già saputo ma desideri andare sempre oltre, “anticipare” il futuro in un presente capace di novità, superando la tentazione della passività, del non essere protagonisti. Combattere allora realmente l’apatia dell’indifferenza, diventando curiosi, attenti e interessati a quanto ci circonda, provoca, interpella. 3. Non leggere la storia come esercizio abituale di umanità e di fede. Coltivare la lettura della storia come verifica del nostro vissuto e della nostra adesione di fede a Gesù Cristo, Signore del tempo e della storia, superando la deriva sempre incombente dell’intimismo. Non possiamo non chiederci se il Dio in cui crediamo è un Dio che “si perde” per il mondo, come rivela Gesù con la sua “esistenza per”. La nostra “attesa di Dio” (S. Weil) sgorga dall’interno di questa condizione umana che abbiamo sposato e di cui condividiamo fino in fondo la sorte? Crediamo in un “Dio diverso” perché infinitamente più grande di tutte le nostre umane misure e prudenze in cui lo vorremmo rinchiudere quando lo consideriamo Salvatore? Il nome della mistica oggi è proprio la solidarietà con la sorte umana, con la condizione di tutti. Tanti ‘santi’ recenti parlano questo linguaggio secolare. L’ “attesa di un Dio diverso” di molti contemporanei interpella la Chiesa e la nostra vita consacrata in modi radicalmente nuovo: le risposte usurate dall’uso sono inservibili. Lo Spirito ha in riserva certamente parole nuove, intessute delle attese e delle contraddizioni, della passione e dell’anelito dell’uomo e della donna di oggi. Ci è chiesto di credere all’opera dello V Spirito nei nostri interlocutori, nel nostro tempo, senza giudicare e condannare, diventando testimonianza di una misericordia che raggiunge l’uomo, lo incontra là dove egli si trova. 4. La non cura dell’interiorità e la fiera delle banalità. Ri-centrare sull’essenziale la scelta di vita cristiana, per una terapia completa della persona, oltre la fiera della banalità. Questo “essenziale” sta alla base della possibilità stessa di una vita consacrata: in fondo siamo semplicemente cristiani, sicuri che da qui viene anche il resto. Questa conversione è possibile centrando appunto l’essenziale, che oggi significa coltivare l’attitudine all’ascolto, attraverso la presenza viva, critica e interrogante alla storia, attraverso i volti concreti dei nostri contemporanei. In questo ascolto dell’uomo concreto prende luce l’ascolto quotidiano alla duplice Mensa della Parola e del Pane spezzato. Facendo un passo oltre, prestiamo ascolto al fatto che un modello di vita consacrata è giunto ad esaurimento, anche per la secolarità consacrata, e che quindi è fatica sprecata lavorare per ri-vitalizzarlo. Bisogna risalire più in alto e più in profondità, con un percorso più lungo, che parta da più lontano. Questa profondità ulteriore l’aveva intuita già D. Bonhoeffer di fronte alla situazione che si andava profilando di abbandono della pratica religiosa e di rimessa in discussione dei fondamenti stessi dell’umano. Il punto decisivo, diceva, è uno solo ed è «la ricerca di colui che solo ha importanza: la ricerca di Gesù Cristo… Per noi ciò che conta oggi è sapere che cosa vuole da noi Gesù… » (Sequela, 13). Oppure S. Francesco, che in un’epoca di straordinaria pratica religiosa capì che l’essenziale era il ritorno al Vangelo e basta, al Vangelo sine glossa. Una chiesa, quindi, e una comunità vocazionale che non sia “da canale 5” ma che faccia perno unicamente sul Vangelo e sulla forza disarmante della Parola, senza cedere alla VI tentazione di essere riconosciuti e applauditi, persino ricompensati da Cesare per il bene che si fa… una chiesa che non si identifichi con l’occidente potente e ricco, impaurito dal diverso e dallo straniero, una chiesa che non dimentichi che “anche voi siete stati forestieri in Egitto”! 5. Cedere alla mentalità “mondana” dominante: tra incomunicabilità e litigiosità. Possiamo contestare la mentalità dominante attraverso le opere della riconciliazione e della pace. Una via pedagogica da proporre alla comunità oggi mi sembra quella che porta a coltivare l’attenzione da prestare alle persone, prima che a qualsiasi struttura e istituzione, anche ecclesiale e comunitaria. Questa attenzione chiede educazione feriale ad una comunicazione sana e sanante, all’incontro fatto di paziente ascolto reciproco, alla certezza sempre più matura che il vero problema del rapporto con gli altri non è la loro inimicizia, ma la mia conversione: quando io sono uomo e donna di pace, inevitabilmente, anche l’altro cambia; e anche se non cambiasse, avrà incontrato un segno nella vita di una persona che ha vissuto comunque la pace. 6. Non alimentare pensieri e sentimenti di pace. Dall’Eucaristia nella comunità dei credenti è generato sempre di nuovo uno stile non violento di pace e di dialogo, contro la tendenza odierna alla litigiosità diffusa, alla rivendicazione di sé e dei propri diritti, alla cultura dell’immagine e del lifting, della prevaricazione delle regole, della cultura diabolica del ‘capo’ ecc. Quanta guarigione chiedono al riguardo anche le nostre comunità, le Missionarie: un servizio prezioso nel contesto concreto e quotidiano dei Gruppi. VII Ecco solo alcuni appunti per un cammino che dalla vita porti alla Eucaristia e dal memoriale della Pasqua riporti sempre di nuovo alla vita e alla storia. In tal modo, lo Spirito non cessa di “anticipare” nella storia la novità della Pasqua, attraverso vite rese real-mente nuove in una “esistenza per”, senza sconti, ritardi e paure, liberi dalla preoccupazione eccessiva di trattenerci per noi, di non essere veramente capaci di dedizione in letizia. Questo nostro tempo non tollera certo parole ripetute stancamente, vite senza slancio, una fede che non ama la terra: ci lasceremo rendere nuovi? Fr. Massimo Fusarelli, ofm VIII