Gli intellettuali e il marxismo

gfp.143 - Marxismo oggi, Milano 1994
GLI INTELLETTUALI E IL MARXISMO
questionario “Marxismo oggi” [Gianfranco Pala: chi era costui?]
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0. Anchéio, come il prof. Balibar, ritengo che le vostre sei domande (o gran parte di esse, o altre ancora
possibili ma inespresse) facciano capo implicitamente a una questione “zero”, che tutte le connette, e che
rende perciò arduo scioglierle singolarmente in questa o altra peculiare sequenza. Mi proverò quindi a darne
ragione in una sorta di pre-risposta complessivamente qualificante. Epperò, proprio a cagione di ciò, di
codesta connessione totale, di quell’assolutismo di cui saggiamente parla Macchioro - un assolutismo che
può dirsi “metodologico” solo se il metodo marxista, lungi dall’essere ritenuto come “forma esterna” sia
hegelianamente posto come “l’anima e il concetto del contenuto” - considero il marxismo [al singolare, con
la “o” finale, non al plurale con la “i”] come unico. Mi si consenta un esempio aritmetico: quanti più sono i
“marxismi” in cui viene suddiviso il marxismo, tanto più il loro valore tende a zero, come per qualsiasi
frazione dell’unità al crescere del denominatore - e questo è precisamente ciò che desidera l’ideologia del
capitale, sia essa borghese laica o religiosa. In ciò, quindi, esprimo la mia totale contrarietà all’opinione
dello studioso d’oltralpe, perché codesto punto di vista rappresenta quella perniciosa e distruttiva versione di
“uno” dei supposti “marxismi” parziali, sotto l’egida esistenzial-strutturalista, allignati in Francia e diffusisi
altrove, e anche in Italia.
Certo che molte possono essere - e di fatti lo sono state - le “letture” di quell’unicum, molte le lacune,
moltissime le incomprensioni, innumerevoli i travisamenti, affatto insufficienti e insoddisfacenti gli sviluppi
di quel processo teorico politico. Ma ciò ha cause e motivazioni profondamente diverse da quelle che
vorrebbero essere addebitabili al mancato pluralismo e all’incompiutezza del marxismo. Ciò è unicamente
attribuibile alla pluralità e alla limitatezza degli studiosi, o degli “applicatori”, o supponenti tali, di tal
marxismo. I limiti e le manchevolezze di tali “soggetti” non possono impunemente essere rovesciati in
presunti limiti e manchevolezze del marxismo stesso - soprattutto quando tali difetti soggettivi siano guidati
dalla vanagloria intellettualistica di chi vuole caninamente “segnare il territorio” con una “sua” pretesa
scoperta o innovazione [”questa cosina l’ho fatta io!” - recitava l’indimenticabile Gastone petroliniano,
mostrando un nonnulla], o peggio dall’assetata brama di affermare la propria guida nel potere politico.
Considero, in questa ottica, il marxismo un processo conoscitivo - e per ciò stesso critico, dacché non si dà
conoscenza senza critica - della realtà storica sociale: e dunque economica, politica, filosofica, scientifica, e
in qual altro modo essa si voglia aggettivare. E allora non può esservi propriamente una economia, politica,
ecc. “marxista”, ma di più, essendo il marxismo il percorso attraverso cui si spiega scientificamente
l’economia, la politica, ecc.
Nel suo “assolutismo metodologico”, inteso nel senso suddetto, il marxismo non può essere mutilato,
scomposto, frammentato [ricordate l’ironia di Lenin contro coloro che pretendevano di “approfondire” il
marxismo, per distruggerlo?] come vorrebbero (e come, purtroppo, sono anche riusciti a fare) certi sedicenti
neo-post-marxisti, affascinati e soggiogati dalla debolezza del pensiero borghese postmoderno (quello che
dice “decostruire” per non dire distruggere, ma anche quello, apparentemente “forte”, di tipo scientista, da
Popper a Parsons), ritenendo per loro solo quei reperti ridotti al nulla, miseri cocci, che eventualmente
potrebbero loro far comodo per le proprie misere “carriere”.
Ora, non si dà marxismo senza teoria del valore, o magari con il valore “desostanzializzato” (come
alcuni amano dire); senza teoria del plusvalore e dello sfruttamento scientificamente dimostrato in
condizioni di equità dello scambio, ossia riducendolo a mera dichiarazione di principio morale; senza
proprietà e magari senza classi; senza concezione dialettica del materialismo storico, ossia senza la base
della inconfutabile logica hegeliana, rabbassata a futili teorie della “separazione” e della “differenza”; senza
l’intera processualità delle “trasformazioni” (mutamenti di forma, cioè) che i fenomeni sociali attraversano,
dai prezzi alle crisi ricorrenti fino alla caduta tendenziale del tasso di profitto e all’imperialismo; e si
potrebbe continuare. Senza una sola di queste componenti il marxismo non è più tale: è un’altra cosa. E si
tratta precisamente di quelle altre “cose” che fanno molto comodo alla classe borghese, sia per diffonderne
la confusione tra i proletari, sia per ritenerne per se stessa la scientificità “a contrario” [in questo senso, sono
paradossalmente molto più “marxisti” gli analisti della confindustria e “leninisti” i consiglieri vaticani, di
tanti sedicenti “comunisti”: è il materialismo dialettico della realtà, essendo costoro, al contrario di tanti
“intellettuali”, immersi fino al collo nella realtà medesima, che li afferra con la forza delle cose]. Nessuno è
“obbligato” a essere “marxista”, e non lo era neppure in tempi andati quando ciò sembrava di moda. Anzi la
maggioranza degli intellettuali e della popolazione non lo è affatto. Dunque, chi vuole prenderlo pezzo a
pezzo è solo per negarlo, e farebbe meglio, anziché fingere il contrario, a riconoscere la sua netta avversione
al marxismo, come ormai è consuetudine tra i cosoddetti “pentiti”.
Trattandosi di un processo conoscitivo, è per definizione che il marxismo non possa rimanere fermo,
sclerotizzato e ridotto a dogmi e atti di fede. Ma il dogmatismo e il fideismo da esecrare - e da combattere
nelle deleterie forme storiche drammaticamente assunte nel corso del novecento (settarismo, partito e stato
guida, dispotismo della personalità, capziosità della delega, ecc.) - non sono l’ortodossia, se ortodossia è
mantenimento fermo di quei rammentati caratteri scientifici e principi teorici senza i quali il marxismo in
quanto tale sarebbe vanificato. Un “processo” conoscitivo è tale, appunto, se si procede nelle conoscenze
medesime, adeguando la lettura della realtà ai mutamenti storici, anche “distruggendo” le convinzioni
precedenti, se tale distruzione è un superamento dialettico capace di ”conservare e sviluppare” la base data
per porne a fondamento una nuova - ma non è più tale se si retrocede a luoghi comuni, santificati
dall’ideologia delle classi dominanti, già attaccati e dissolti dalla critica marxista, e oggi riproposti
volgarmente come presunte “novità”, vecchie come il cucco. Sotto questa luce del marxismo come totalità
teoretica e pratica capace di intendere e trasformare la totalità della società di classe fondata sul modo di
produzione capitalistico, le sei risposte particolari possono essere relativamente rapide.
1. Sono un comunista - e per un comunista dirsi marxista significa affidare la definizione della propria
coscienza critica emancipata alla conoscenza scientifica che il marxismo consente, per il superamento di
quella coscienza immediata che farebbe restare la scelta comunista nel campo puramente materiale e allo
stesso tempo puramente morale (materialismo volgare più giudizi di valore), al di qua della conoscenza
stessa. Per me, comunista, l’essere ”intellettuale” viene dopo - e ciò a differenza della concezione
liberalborghese, dove invece questa seconda connotazione prevale, essendo radicata nella notte dei tempi,
nella divisione sociale tra lavoro manuale e intellettuale, quindi nella separazione tra produttori nonproprietari e proprietari non-produttori, e infine nella divisione della società in classi. Il lavoro intellettuale è
di grande importanza, ovviamente, per i comunisti - e a maggior ragione per i ”marxisti”, se ha senso questa
specificazione ulteriore - ma che esso rimanga una delle diverse possibili e significative aggettivazioni del
termine comunista inteso come sostantivo. Allora, assume grande significato anche qualificarsi, secondo la
propria specifica collocazione militante, come comunista-donna o comunista-studente, o perfino comunistaoperaio, ecc.: giacché, se si invertisse l’ordine, com’è consueto fare, l’essere donna, studente, e perfino
operaio, farebbe prevalere, come di fatto avviene, il dato “empirico sociologico” sulla coscienza di classe,
ossia sulla consapevolezza storica sociale che comporta, in questa organizzazione sociale di classe, essere
lavoratore salariato, donna, giovane, ecc.
2. Come processo conoscitivo critico della realtà storica sociale il marxismo è tutte quelle teorie insieme
e ognuna di esse in particolare [cfr. 0].
3. Come processo conoscitivo critico della realtà storica sociale il marxismo è il “metodo” che informa di
sé quei diversi campi del sapere dando loro “l’anima e il concetto del contenuto” [cfr. 0].
4. Se sono un comunista - ma ad altri, e non a me stesso, sta giudicarne coerenza e risultati - non capisco
che cosa possa voler significare l’influsso del marxismo “indipendentemente” dalle proprie idee e posizioni
teoriche. Il mio ”lavoro” è integralmente determinato dalle mie idee e posizioni teoriche marxiste: altrimenti
non sarebbero marxiste, ma altre “cose”, magari “marxologhe” o genericamente “progressiste”. Per me,
risponde con grande stile Brecht [dai Dialoghi di profughi]: “La mia conoscenza del marxismo non è
completa, quindi è meglio che lei stia sul chivalà. Una conoscenza più o meno completa del marxismo costa
oggi, mi ha assicurato un collega, dai venti ai venticinquemila marchi-oro, e senza tutte le finezze e i
dettagli. Per meno non si ottiene niente di veramente buono, al massimo un marxismo di mezza tacca, senza
Hegel o senza Ricardo, ecc. E per di più il mio collega calcola soltanto le spese per libri, tasse universitarie e
ore di lavoro, e non quello che uno ci rimette per via delle difficoltà che incontra nella carriera, o per
eventuali detenzioni, e tralascia anche il fatto che nelle professioni liberali l’efficienza diminuisce
notevolmente, dopo una lettura approfondita di Marx; in determinati campi, come la storia e la filosofia, non
si ridiventa mai più veramente bravi dopo esser passati attraverso Marx”. Alla luce dell’apologo brechtiano,
si considerino i casi di molti “intellettuali marxisti” nostrani (da Colletti a Cacciari, per non far altri nomi),
soppesando se veramente costoro siano “passati attraverso Marx”.
5. In quanto fenomeno della realtà sociale contemporanea, inserito nelle contraddizioni del mercato
mondiale, la dissoluzione del cosiddetto “realsocialismo” non solo è spiegabile compiutamente unicamente
con l’analisi marxista, ma, di più, essa era stata già chiaramente delineata da quanti quell’analisi l’avevano
tempestivamente applicata a codesta peculiare situazione storica. La teoria marxista ne esce sicuramente
rafforzata, la “fede” nel “dogma” no.
6. A mo’ di sintesi finale: la misura dello sbandamento è direttamente proporzionale a quanto uno è più
“intellettuale” che “marxista” - fino al pentimento per coloro che mai sono veramente “passati attraverso
Marx”. Un marxista non “sbanda”: semmai può constatare l’estrema difficoltà del momento, fino anche a
trarne razionalmente tragiche conclusioni. Ma una simile consapevolezza può essere definita sconforto
della ragione, non sbandamento intellettuale. Si può pure ammettere che il “marxismo” stia attraversando
una crisi di una certa gravità: ma non nel senso che vorrebbe la borghesia, fin dall’anatema di Masaryk del
1899, stancamente e - a quei fini vanamente - ripetuto innumerevoli volte da allora a oggi. Non è quindi
neppure crisi nel senso, da quello passivamente mutuato, che ricorrentemente pervade i Tui sconvolti, di
brechtiana memoria. Come dico da trent’anni ormai, con la segreta speranza di sbagliare e di essere
smentito dalla realtà, è crisi - se di crisi si può parlare in tal caso - dovuta ancora a una profonda, diffusa
ed endemica insufficienza di marxismo: un’insufficienza di conoscenze scientifiche, capaci di abbattere
fideismo e luoghi comuni, che si manifesta soprattutto a livello di massa ma che, purtroppo, ancora
domina in maniera sempre più preoccupante anche tra i cosiddetti intellettuali, e ancor più tra il personale
politico e i dirigenti del movimento operaio.