Il prezzo della sfida Il Secolo - 2 Febbraio 2003 C'è una tristezza infinita oggi nel mondo dell'esplorazione dello spazio, nei centri degli astronauti a bordo della stazione spaziale internazionale, nella comunità di tutti coloro che sfidano le frontiere del cielo. Tante domande si accavallano dopo la perdita dello Shuttle Columbia e dei suoi astronauti, quale anomalia, quale criticità, quale errore - delle macchine o dell'uomo - ed è troppo difficile rispondere avendo a disposizione solo quella terribile striscia luminosa che si sdoppia nel cielo azzurro del Texas. Columbia volava a 20,000 chilometri all'ora e cominciava a penetrare nell'atmosfera; se mettessimo una mano fuori dal finestrino mentre andiamo a cento all'ora in autostrada sappiamo quale forza si manifesta sulla nostra mano; si intuisce che non appena lo Shuttle perde il suo allineamento con la traiettoria, forze immense gli strappano le ali, lo disintegrano. Mi tornano in mente in momenti del rientro dopo la mia missione con l'Atlantis, lasciata l'orbita a trecento chilometri di quota, inviluppati nella tuta arancione, visiera abbassata, scendevamo velocissimi verso la Terra. Lo stress non era al massimo. Ricordo per contrasto l'ansia della partenza quando la missione è tutta da fare, come una grande parete da scalare, aspra e verticale come il nostro veicolo puntato al cielo: si pensa allora al governo delle macchine e dei computer cui ci dobbiamo affidare, ai misteri dell'assenza di peso che ci aspetta, all'alea della missione scientifica, alla prova vera del fuoco, dopo tante pazienti simulazioni a terra. Ma al ritorno c'era allegrezza ed euforia, perché si torna a casa. Durante la discesa lo Shuttle passa, con il mutare dell'ambiente circostante, da un controllo di assetto governato da piccoli razzi al controllo aerodinamico tipico di un aereo; per questo lo Shuttle è dotato di un timone orizzontale, esattamente al centro della grande ala a delta per il controllo della picchiata e di due alettoni sulle parti esterne delle ali per il controllo della virata.; tutto sommato è un velivolo molto maneggevole nonostante la sua mole. Il sentiero di discesa è ripidissimo, nell'ordine dei 20 gradi (il sentiero di discesa di un normale aereo da trasporto passeggeri è di 2 gradi), e lungo questo percorso l'astronave rallenta progressivamente dai 25000 chilometri orari iniziali alla velocità di poco superiore ai 300 chilometri orari al momento in cui tocca il suolo. Appena incontriamo i primi strati rarefatti dell'atmosfera le superfici esterne dello Shuttle cominciano a scaldarsi; alcune aree, come i bordi di attacco delle ali superano i 1000 gradi. Anche a bordo, nonostante la climatizzazione, comincia a fare un gran caldo mentre l'impatto del timone verticale con gli strati alti dell'atmosfera provoca fenomeni luminosi che si riverberano nella cabina; sono onde d'urto che "accendono" le molecole dell'atmosfera producendo una luminescenza lampeggiante rossastra ben visibile anche a bordo. Penso ai nostri amici laggiù vicino alla pista con il naso rivolto al cielo per scorgere il nostro arrivo; al nostro sorvolo della pista avvertiranno il nostro bang supersonico e poi ci vedranno apparire sul corridoio di discesa. Tra pochissimo saremo a terra con loro. In un angolo del Kennedy Space Center della NASA in Florida c'è un monumento ai caduti dell'esplorazione dello spazio. E' una grande lastra nera, simile al monolito di "2001 odissea nello spazio", fatta in realtà di tanti segmenti geometrici, come il rivestimento esterno dello Shuttle; inclinata a 45 gradi, la lastra gira, trascinata da invisibili meccanismi, sempre cercando il Sole. Su alcune formelle sono incisi i nomi degli astronauti missing in action e un buchetto nel metallo, accanto a ciascun nome, lascia passare la luce per chi guarda, come una piccola stella. A noi che restiamo sulla Terra, dei sette del Columbia ci resta ora la voglia di piangerli assieme ad altri sette buchi luminosi nel metallo scuro del monolito che cerca sempre il Sole. Franco Malerba