Edoardo Grendi, In altri termini Prefazione di Osvaldo Raggio e Angelo Torre To Generalize is to be an Idiot To Particularize is the Alone Distinction of Merit. – General Knowledges are those Knowledges that Idiots possess. - William Blake 1. Edoardo Grendi è stato una figura molto anomala nella storiografia italiana. Il suo percorso di ricerca è stato segnato da un’esperienza molto larga, in rapporto costante con le scienze sociali e con la storiografia internazionale. Ma questa esperienza si è nutrita anche di una acuta sensibilità politica e di una molteplicità di interessi culturali non convenzionali, e in qualche caso contraddittori. La combinazione di questi elementi era alla base di un’incessante curiosità intellettuale che si manifestava in un’esigentissima volontà di comunicare con individui, gruppi e ambiti culturali disparati, in Italia e all’estero, secondo logiche e punti di vista profondamente sentiti e assolutamente personali. Il suo magistero scientifico e le sue ricerche hanno avuto un significato molto grande in Italia, e noi crediamo che siano importanti oggi anche per la storiografia internazionale. È con questa convinzione che proponiamo agli storici una raccolta di cinque saggi, uno dei quali inedito, scritti (e riscritti) da Grendi tra il 1965 e il 1998. Il titolo di questa raccolta è letterale: Grendi ha tentato di ricostruire la società e le culture del passato con occhiali inusuali che provocano un forte effetto di spaesamento. Il sottotitolo vuole invece suggerire l’intreccio tra teoria sociale e ricerca empirica, il “lavoro concreto” come terreno più fertile d’incontro tra le scienze sociali (specialmente l’antropologia) e la storia. Lo scopo di queste pagine è di agevolare la lettura dei saggi qui pubblicati: cercheremo perciò di illustrarne le tematiche interne, la genesi e lo sviluppo. A questo scopo introdurremo quegli elementi biografici che ci sono parsi necessari per la comprensione degli scritti qui raccolti. 2. Grendi aveva maturato l’interesse per le scienze sociali in quello che alla fine degli anni ottanta ha definito “bagno di scienze sociali” alla London School of Economics, dove era stato come research student tra il 1958 e il 1960. A Londra era andato dietro consiglio di Franco Venturi, allora docente dell’ateneo genovese, per una ricerca sul movimento operaio inglese fra Ottocento e Novecento: si tratta di un interesse di ricerca importante e allo stesso tempo circoscritto nel tempo, che gli rivela una storiografia (quella urbana) ancora poco praticata in Italia, e lo fa accostare alla storiografia sociale ed economico-sociale. In questo campo di studi, come ha documentato Giuseppe Berta, Grendi pubblica quattro libri (di cui due antologie). Ma si tratta di un interesse che sembra esaurirsi con la metà degli anni settanta. La scelta londinese non sembra derivare dalla volontà di sviluppare temi toccati nel corso degli studi universitari: Grendi si era infatti laureato in Letteratura italiana sull’estetica di Croce con Walter Binni nel 1956 all’Università di Genova. La critica letteraria di Benedetto Croce è un tentativo – probabilmente influenzato dall’esistenzialismo “positivo” italiano di Abbagnano e dall’“ideologia mobile” di Paci – di leggere l’opera di Croce rilevandone le contraddizioni interne: in particolare, l’insopprimibile passione di Croce per la ricerca concreta e l’erudizione storico-letteraria sembrava a Grendi in contrasto con i suoi tentativi di sistematizzazione teorica e la sua tensione etica e politica. Ne usciva un curioso Croce empirista, che considerava il documento come “qualcosa di vivo” in aperto e non risolto contrasto con il suo elitismo culturale. La sua figura giustificava la polemica con le letture classiste della storia, proposte dalla cultura comunista del dopoguerra, e mostrava secondo Grendi la possibilità di una “nuova consapevolezza obiettiva del reale” da raggiungere attraverso il nesso tra critica letteraria, impegno storiografico e impegno politico. Il lavoro offre oggi una chiave per comprendere le passioni e la sensibilità politiche di Grendi: una scelta di impegno nella sinistra non comunista. La stessa ricerca sulle origini del movimento operaio nasconde probabilmente un progetto di ricostruzione delle diverse e contraddittorie anime del socialismo ottocentesco, che possiamo rilevare anche dalle rassegne e dalle recensioni che egli dedica a questo tema sulle pagine di “Movimento operaio e socialista” e di “Studi Storici”, fino alla metà degli anni sessanta. Progetto che implicò, o si accompagnò, a una “breve stagione” di impegno politico a fianco per l’appunto della sinistra non comunista. La London School rappresenta un “mondo assolutamente nuovo” che arricchisce il “quadro limitato e omologato” degli interessi di Grendi: “per le discipline praticate ancora ignote in Italia e per la sensazione delle visite frequenti agli studenti di una serie di personaggi celebri della cultura e della politica mondiali”. Ma forse è il più generale senso di sperimentazione culturale trasmesso dalla metropoli britannica a colpirlo, e soprattutto quella irripetibile osmosi tra avanguardie letterarie, politiche e storiografiche: “la cultura inglese veniva scoprendo allora le working classes e il loro tradizionale comunitarismo, il significato della famiglia estesa come difesa sociale nell’epoca amara fra le due guerre”, dirà Grendi molto più tardi. Al ritorno in Italia, perciò, l’esperienza inglese non si traduce soltanto nella pubblicazione del lavoro sul laburismo o nell’impegno politico, ma dà vita a un’intensissima ricerca d’archivio: l’obiettivo è “un contributo alla storia sociale della città nell’epoca moderna”. Il percorso della ricerca è à rebours: inizia con l’Ottocento, e corrisponde ai saggi pubblicati nel 1964, si sviluppa solo in un secondo tempo in direzione della città preindustriale. Per l’Ottocento la ricerca sulla vita associativa si concentra sul mondo del lavoro e dell’associazionismo mutualista, mentre per il periodo moderno essa si appunta essenzialmente sulla sfera cerimoniale. Questo allargamento dell’oggetto di studio è il sintomo di un rinnovamento degli interessi di Grendi e della sua acquisizione di nuovi assi di riferimento metodologico. Egli tenta di avviare una discussione con gli storici francesi, e in particolare con gli studiosi di stratificazione sociale urbana. In questo senso, le ricerche dei primi anni sessanta chiudono una breve stagione politica, ma rappresentano anche l’individuazione di una “linea di intervento” nello specifico della ricerca storica, una strategia di discussione storiografica: Grendi si preoccupa di indicare alla cultura storica italiana le nuove vie – lontane dalla gerarchia crociana delle rilevanze – battute dalle concrete (“empiriche”) ricerche della storiografia internazionale. Non è senza significato che egli scelga di farlo sulle pagine della “Rivista storica italiana” ormai diretta da Franco Venturi, una sede che non abbandonerà neppure dopo l’ingresso in “Quaderni storici” nel 1970 e il suo progressivo impegno nel nuovo periodico. La ricerca dei primi anni sessanta, in ogni caso, produce una serie di saggi di grande rilievo – e di notevole unità – dedicati alle confraternite genovesi, che vengono esaminate in una prospettiva di “morfologia non descrittiva”: Grendi sembra scusarsi per il taglio espositivo adottato, ma lo stato delle fonti, e in particolare l’inaccessibilità degli archivi delle associazioni, rende impossibile uno “studio minuto di tipo etnografico [...] più moderno e stimolante”. Egli ha tuttavia individuato, attraverso lo studio degli statuti associativi, una “serie di problemi” sui quali fondare “prospettive di studio capaci di rivelare una dimensione diacronica del fenomeno dell’associazionismo laico nella città preindustriale”: si tratta di individuare la loro funzione nella vita urbana, il loro rapporto con il culto eucaristico, con il mondo delle arti e con la struttura politica della città rinascimentale. I saggi adottano una prospettiva di analisi morfologica ispirata a Maurice Halbwachs e si prefiggono l’obiettivo di spiegare la lunga gestazione della città industriale: Grendi adotta un punto di osservazione “esterno” alla realtà osservata per ricostruire il modo in cui le confraternite si distribuivano nella città. L’obiettivo è ambizioso: una storia “dal basso” che si contrapponga alla storia della spiritualità, “intesa quasi sempre come storia di ‘élites’”. Il saggio tocca una molteplicità di piani: dalla distribuzione delle confraternite nell’area urbana passa alla storia del culto e dei conflitti giurisdizionali. Questi due aspetti fondano una periodizzazione della vita associativa segnata dalla fortuna e dal declino delle casacce. La redazione che qui si pubblica prevede un punto ulteriore, quello delle associazioni di mestiere, che nella versione originaria erano oggetto di un lavoro autonomo. Confraternite e mestieri era tuttavia dedicato al secolo XVIII, mentre nella versione preparata da Grendi per questo progetto di libro, i mestieri e i loro culti sono collocati nel “Seicento”. La scelta espositiva può sembrare, oggi, eccessivamente allusiva: nessuna confraternita viene studiata in modo specifico, e Grendi si limita a evocarne il movimento d’insieme nello spazio urbano. Si tratta di una scelta di metodo che nasconde prese di posizione polemiche che vale la pena di rendere esplicite. Intanto, Grendi vuole sfatare i miti della storiografia locale, che insiste sul carattere originario della casaccia, cioè del luogo di culto in cui si raduna una pluralità di associazioni devozionali e cerimoniali dei laici. Inoltre, egli si oppone a una facile distinzione (di matrice cattolica, ma fatta propria dalla storiografia regionale, in particolare da quella provenzale di Venard, Vovelle e Agulhon) fra confraternite di matrice laica (“popolari”), e confraternite di matrice ecclesiastica (“di chiesa”). Gli sembrano più adeguate le classificazioni dei contemporanei, che distinguono tra disciplinanti, confraternite con oratorio e confraternite di chiesa, e attribuiscono decisiva importanza al fattore geografico. Infine, e soprattutto, lo sguardo morfologico è pensato, e praticato, come un approccio non “ideologico”, che non fissa cioè a priori le rilevanze del discorso storiografico: la considerazione di tutte le associazioni nello spazio urbano genovese intende mettere in risalto il carattere unilaterale e fuorviante di qualsiasi interpretazione evolutiva (“nessuna legge di sviluppo” è ravvisabile a Genova, sostiene Grendi; ma, potremmo aggiungere, nessun tipo di associazione, da solo, può essere considerato rilevante a priori). L’approccio morfologico alle fonti indica una dimensione di analisi nuova e concreta: si tratta di studiare i modi in cui si è affermata un’identità associativa. Questi si possono rintracciare in una fonte che Grendi impiegherà un ventennio a comprendere e a studiare: i conflitti giurisdizionali. Essi rendono manifesta la natura precaria, non lineare e “pluralista” di quelle stesse identità corporative alle quali danno forma. Le associazioni infatti si sviluppano attraverso una molteplicità di tensioni: la storiografia ha enfatizzato, con una caratteristica gerarchizzazione delle rilevanze, la contrapposizione fra confraternite e autorità centrali (laiche ed ecclesiastiche insieme). Lo sguardo morfologico di Grendi scopre anche l’esistenza di forti tensioni fra confraternite e ordini religiosi, così come fra associazioni e autorità locali (parrocchia o comunità). Allo stesso modo, egli si preoccupa di restituire la molteplicità degli apporti sociali e culturali che presiedono alla Riforma cattolica, alla diffusione del culto eucaristico, alla stessa presenza dei nuovi ordini religiosi della Controriforma, soprattutto i Gesuiti. Alla fine, e solo alla fine, l’analisi si rivolge alla “mitica” casaccia, e vede nell’autonomia e nella laicità sancite dalla conquista dello spazio rituale i segni di una “mentalità collettiva particolaristica”. Questo ci pare in effetti il più importante risultato conseguito dal lavoro: l’individuazione di luoghi e di modi di costruzione delle identità sociali la cui natura non è riconducibile alle nostre categorie (sociologiche). Inoltre, tale “mentalità collettiva particolaristica” non ha nulla di naturale: essa si manifesta infatti, secondo Grendi, con l’esaurirsi della fase più spontanea, penitenziale e di “riforma spirituale”, dell’associazione, ed è il risultato della costruzione dei confini di un corpo sociale attraverso una politica devozionale. Non è l’espressione genuina della religione popolare, ma ne costituisce piuttosto un’istituzionalizzazione. […]