Testimoni del Risorto, don Erio Castellucci [ 66KB]

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Azione Cattolica Italiana – Campo Nazionale Settore Giovani
3 agosto 2005 – Sacrofano (RM)
Testimoni del Risorto
Il fondamento biblico e teologico della speranza cristiana
Inizio prendendo spunto da due orizzonti, molto diversi, che pongono a loro modo provocatoriamente
la domanda sulla speranza. Il primo è assunto dal Diario di Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese
morta in campo di sterminio nazista. Scrive l’11 luglio 1942, pensando alla persona da lei più amata: “In
questo mondo sconvolto, le comunicazioni dirette tra due persone passano ormai solo per l'anima.
Esteriormente si è scaraventati lontano, e i sentieri che ci collegano rimangono sepolti sotto le macerie,
cosicché in molti casi non potremo mai più ritrovarli. La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una
vita in comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la speranza di ritrovarci ancora su
questa terra?”. Il secondo orizzonte è legato al motivo per cui vi ho chiesto un cambiamento di
programma questa mattina: la morte di Matteo - un bimbo di cinque anni figlio di due miei amici - di cui
verranno celebrati i funerali oggi pomeriggio. Ieri, fermandomi un po’ davanti al suo piccolo corpo, nella
bara bianca, mi sono chiesto se la speranza cristiana sia in grado di tenere accesa una luce in questa
terribile esperienza, e in tantissime esperienze simili che ogni giorno si verificano nel mondo.
Che cosa significa dunque l’invito dell’apostolo Pietro a “rendere ragione della speranza” presente
nel cristiano (cf. 1 Pt 3,15)? Sono tre i concetti coinvolti nell’esortazione di 1 Pt: nel cristiano c’è una
speranza, che però non va mantenuta gelosamente per sè, ma va donata, va resa ad altri; e resa tuttavia –
terzo concetto – non solamente come testimonianza ma anche come “ragione”, cioè non solo come un
fatto intimo che uno sperimenta ma anche attraverso il tentativo di far vedere che ha a che fare con il
senso della vita. La fede infatti, pur non essendo il risultato di un procedimento razionale, se deve essere
trasmessa in modo da fondare la speranza, come tutto il Nuovo Testamento domanda, deve avere anche
una dimensione ragionevole, deve poter essere argomentata; altrimenti sarebbe un sentimento e niente di
più, e non sarebbe possibile renderne ragione.
Il breve percorso che segue potrà risultare a tratti arido, rispetto al forte appello emotivo che
esercitano le domande sulla speranza: ma spero che alla fine emerga la ragionevolezza della proposta
cristiana e la sua capacità di andare incontro alle speranze più vere nascoste nell’intimo dell’uomo.
1. Recupero recente della centralità della “speranza” in teologia, dopo secoli nei quali era
ridotta ad essere trattata come una delle tre “virtù teologali”.
1.1. Mentre la fede era ampiamente analizzata dall'apologetica come atto e dalla dogmatica come
contenuto e la carità entrava (in parte) nella morale (le virtù), la speranza era riservata al trattato di
escatologia: ma poiché questo era stato emarginato dalla teologia, quasi come “appendice”, anche la
speranza era rimasta emarginata. Nel Novecento viene riscoperta in teologia la speranza, a due riprese:
prima con la scuola “escatologica” che reagisce al liberalismo, poi con la "teologia della speranza" nella
ritrovata centralità della risurrezione di Gesù; istanze che, lasciandosi stimolare dalla “liberazione”,
coniugano la speranza cristiana nel futuro con l’impegno intraterreno. A queste due piste teologiche va
affiancata una filosofica, che in parte le precede.
1.2. Gli "escatologisti", all'inizio del secolo, reagirono all'interpretazione liberale del regno di Dio
predicato da Gesù come una realtà "etica". Rappresentativa è la posizione di Harnack nel 1900: Gesù ha
predicato un regno che è già arrivato e consiste nell'annuncio della paternità di Dio e della dignità
dell'anima umana. E' il compimento del Gesù "moralizzatore" illuminista. Weiss e Loisy, negli stessi
anni, rifiutano il liberalismo proponendo il regno annunciato da Gesù come realtà futura, un Gesù
1
predicatore escatologico al posto di un Gesù predicatore morale. Da quel momento in avanti (molti altri
nomi dovrebbero essere ricordati, ma almeno Schweitzer non si può omettere) viene accolta dalla
maggior parte dei teologi ed esegeti l'idea che la speranza nella venuta del regno futuro era parte
essenziale del messaggio di Gesù di Nazareth. Viene poi introdotta in teologia, specialmente ad opera di
Cullmann, l'insopprimibile tensione tra il già e il non ancora, cioè tra la trasformazione e il
trascendimento del presente.
1.3. Dopo la metà del XX secolo la teologia riceve nuovo impulso in direzione della speranza ad opera
dei teologi tedeschi, in particolare J. Moltmann, che si lasciano interrogare dalla critica marxista al
cristianesimo come "alienazione" in quanto propone speranze ultraterrene illusorie, che intendono
trascendere ma non trasformare il presente. Se Marx aveva trascurato la dimensione
individuale-esistenziale della speranza (basti pensare al suo quasi-silenzio sul fenomeno della morte), E.
Bloch, negli anni '50, riprende invece la prospettiva marxista inserendola proprio nel contesto della
speranza come motore dell'agire umano. Il punto d'arrivo resta, per Bloch come per Marx, una società
perfetta e giusta intraterrena: ma Bloch dà spazio molto più di Marx alla dinamica esistenziale, per cui la
speranza nel non-ancora da realizzare diventa per lui la spinta ad impegnarsi già da ora 1. Moltmann,
criticando l'emarginazione della speranza nella teologia tradizionale, riprende le suggestioni di Bloch e
le colloca nel contesto della fede cristiana: il credente non può accettare l'estinguersi della speranza in
qualche realizzazione intraterrena: e tuttavia deve coniugare, come fa Bloch, l'attesa del futuro con
l'impegno a cambiare il presente, il trascendimento con la trasformazione. Moltmann, tra i primi insieme
a Pannenberg, propone di rimettere al centro del cristianesimo il mistero pasquale e in particolare la
risurrezione di Gesù. Può sembrare scontato, ma non lo era affatto: la cristologia era costruita attorno
all’incarnazione (le due nature e l’unica persona), mentre il mistero pasquale era stato suddiviso tra due
diversi trattati: la croce era stata posta al centro della soteriologia e ne costituiva di fatto l’unico
contenuto, mentre la risurrezione era stata assorbita dall’apologetica, che si occupava di dimostrarne la
storicità. Moltmann e Pannenberg ritengono invece che la risurrezione di Gesù sia la lente attraverso la
quale leggere l’intera cristologia e, anzi, l’intera teologia.
1.4. Un'altra pista nel frattempo, era stata percorsa in filosofia già a partire dalla fine dell'Ottocento:
quella che fa capo al nome di M. Blondel. E’ una pista che poi entra nella teologia dalla porta
dell’antropologia. Criticando l’estrinsecismo nell'apologetica (cioè la pretesa di condurre alla fede
attraverso l'analisi di prove esterne all'uomo), propone quella che poi sarà chiamata la via
dell’immanenza, che altro non è se non la precisazione del meccanismo della speranza come molla di
ogni azione umana. Ne L'Action, ha tracciato le linee fondamentali di quella che poi sarebbe stata la
filosofia della speranza: l'uomo è spinto ad agire dalla volontà (volonté voulante), che si propone una
méta; una volta però raggiunta quella méta, la volontà che in essa si è concretizzata (volonté voulue) è
insoddisfatta e mira sempre oltre. Questo meccanismo vale per tutta la gamma delle azioni umane: da
quelle più interiori che riguardano l'autocoscienza a quella via via più esterne, che riguardano i rapporti
con il mondo, con gli altri uomini e con il divino. Questa è la dinamica dell'azione che, per lui, postula
L. BLAIN, Due filosofie incentrate sulla speranza: quelle di G.Marcel e di E. Bloch, in Concilium 6 (1970) n. 9,
127-132. Per Bloch soltanto l'orizzonte del futuro dà alla speranza la sua dimensione vera. L'uomo ha una spinta interiore
verso il futuro e deve guidarla con coraggio verso il meglio per l'umanità. Viviamo perciò circondati non solo dalla presenza
ma anche dalla possibilità. La realtà non possiede una dimensione definitiva: non è ancora "finita"; il quietismo è codardia:
occorre impegnarsi perché esistono veramente possibilità "nuove" nella storia (contro Hegel). Il non-ancora (utopie, sogni,
ideali) rende possibile la trasformazione del già. Il futuro sarà costruito da una classe di uomini che condividono gli stessi
ideali e che si dirigono verso il raggiungimento di una società senza classi. Cf. anche K. GASTGEBER, L’attuale crisi e la
nascita di nuovi modelli di speranza, in Ib., 23-36. Per Bloch l’uomo è un enorme serbatoio di possibilità non ancora
tradotte in atto (33); “Dio” è una riproduzione dell’uomo, non però della sua alienata condizione sociale ma del futuro non
ancora scoperto; Dio è l’ideale utopisticamente ipostatizzato dell’uomo ancora sconosciuto; Dio è l’homo absconditus. Non
ci sarà più bisogno di Dio quando il mondo ideale sarà raggiunto: quanto cioè vi sarà la perfetta realizzazione della giustizia
sociale e della pace.
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ultimamente un Soprannaturale che appaghi la volontà; in caso contrario la vita non ha senso, perché
sarebbe un indefinito girare a vuoto sempre inappagato e senza alcuna meta. La riflessione blondeliana
ha influenzato i maggiori teologi del Novecento (da Rahner a Balthasar, da De Lubac ad Alfaro).
1.5. In filosofia ma soprattutto in teologia, poi, il Novecento ha visto un recupero in chiave positiva
della categoria di utopia, una sorta di “versione laica” della speranza. Se in generale per utopia si intende
"ogni ideale politico, sociale o religioso di difficile o impossibile realizzazione" 2, occorre dire che la
valutazione di questa categoria è stata molto divergente da parte dei filosofi. Per Comte ha il compito di
migliorare le istituzioni politiche e sviluppare le idee scientifiche; per Marx ed Engels, al contrario, il
socialismo 'utopistico' (Saint Simon, Fourier, Proudhon) si contrappone a quello 'scientifico'. Bloch
riprende la categoria in senso positivo. Conclude Abbagnano: "In generale si può dire che l'U.
rappresenta una correzione o un'integrazione ideale di una situazione politica o sociale o religiosa
esistente. Questa correzione può rimanere, come spesso è accaduto ed accade, allo stato di semplice
aspirazione o sogno generico, risolvendosi in una specie di evasione dalla realtà vissuta. Ma può anche
accadere che l'U. diventi una forza di trasformazione della realtà in atto e assuma abbastanza corpo e
consistenza per trasformarsi in autentica volontà innovatrice e trovare i mezzi dell'innovazione" 3. Il che
equivale a dire che si può intendere l'utopia o come puro trascendimento o anche come trasformazione
del presente. In teologia è necessaria una certa attenzione nell'uso di questa categoria, perché non è di
immediata trasposizione nelle categorie escatologiche cristiane 4: tuttavia si può dire che, se intesa anche
come trasformazione, esprime certamente qualcosa della speranza cristiana.
N. ABBAGNANO, Utopia, in Dizionario di Filosofia, UTET, Torino 1971, 905.
Ibid., 906.
4
Cf. M. DEMAISON, I sentieri dell’utopia cristiana, in Concilium 6 (1970) n. 9, 61-80. Passa al vaglio criticamente
l’uso teologico della nozione di “utopia”. L’utopia è realtà complessa. Merito soprattutto di Bloch “di avere sbarazzato il
termine delle sfumature peggiorative di futilità e di sterilità, che lo contrassegnarono sin dalla sua origine, nella sua stessa
etimologia. Bloch ha fatto dell’utopia una nozione filosofica importante, definendone lo statuto epistemologico e fondando
ontologicamente il suo valore morale pratico” (63). La teologia lo ha omologato senza tante distinzioni. Come genere
letterario, l’utopia compare con Moro (retroattivamente applicata a Platone), con lo scopo più o meno confessato “di
esercitare così una critica dell’ordine esistente e di orientare eventualmente la sua trasformazione” (64). Non ci sono radici
dirette di questo genere letterario nella Bibbia; però ci sono analogie con temi quali: alleanza, promessa, profezia,
messianismo, apocalittica... che confluiscono nella escatologia. “La dimensione escatologica è per l’appunto l’angolatura
sotto la quale la rivelazione giudaico-cristiana considera la questione della felicità perfetta per l’umanità” (65). L’utopia ha
queste caratteristiche: si assenta dal mondo qual è per sostituirvi una presentazione immaginata del mondo quale dovrebbe
essere; ricerca la felicità per tutti, partendo dall’idea di felicità incarnata nel presente; poggia su un giudizio critico sul
presente e si eleva addirittura a protesta; contiene almeno implicitamente una istanza pratica, e di riflesso etica, che orienta
ad un cambiamento. Da questo punto di vista, e considerata positivamente, l'utopia anima tutta la Scrittura: "Dal 'lascia il
tuo paese' rivolto ad Abramo fino al 'sì, il mio ritorno è prossimo' dell'Apocalisse, tutte le iniziative decisive ispirate dalla
fede si presentano come una volontà di rompere il cerchio necessario delle cose 'che sono ciò che sono' per lasciar
subentrare un ordine nuovo comandato da una legge nuova. Allora l'immaginario viene sollecitato, e raramente esso ha
funzionato con altrettanta profusione ed invenzione del momento in cui era necessario tracciare le vie verso il regno di Dio,
preparare ed affrettare il suo arrivo, celebrare la sua gloria futura. L'irruzione dell'immaginario cristiano ha influito sul
corso di intere società, agendo come un eccitante" (68). Nel NT il comandamento dell'amore "svolge il ruolo di regolazione
e di orientamento dell'azione che fu riconosciuto alla funzione utopica" (69). Per cui: "la funzione utopica del cristianesimo
poggia sull'attività dell'immaginario che ordina e stimola un insieme di rappresentazioni concernenti l'avvento di un regno
in cui la sola legge è l'amore" (70). Ma questo regno non è pura proiezione futura: "in ragione della storicità dell'uomo il
punto fisso, Gesù Cristo, non può più essere reso come un puro fatto da raggiungere nell'immobilità del suo passato, e il
punto di fuga, il regno escatologico, è inevitabilmente mancato se non viene rapportato all'evento compiuto
nell'incarnazione" (73). Perciò l'utopia è di utilizzo teologico problematico: perché immagina la società ideale in luoghi e
tempi indefiniti, mentre la teologia ha a che fare con grandezze temporali e spaziali; perché rimanda oltre il tempo, mentre
il vangelo rinvia al compito di oggi... il limite più grosso dell'utopia è di essere ucronia. La speranza cristiana "è speranza di
ciò che è creduto e non augurio di ciò che è immaginabile" (76).
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3
3
2. Visione critica della teologia della speranza; la "carità" come contenuto della speranza.
Speranza "laica" e speranza cristiana: utopia ed escatologia. La risurrezione di Cristo come
perno della speranza cristiana.
2.1. L'uomo è l'essere che spera. "Ogni uomo vive in quanto ha delle aspirazioni e fa dei progetti, in
quanto, spera, insomma" 5. Sperare e vivere, in un certo senso, si identificano: l'uomo spera di vivere
(bene e sempre) e può vivere quando spera. L'esperienza dimostra che perfino le situazioni-limite, dove
le forze umane - fisiche e psichiche - sembrano esaurite, possono essere sopportate e superate dall'uomo
che "spera" di uscirne; le situazioni psico-fisiche apparentemente appaganti, al contrario, si rivelano
insufficienti a sostenere la volontà di vivere, quando non sono accompagnate dalla speranza di una méta
ulteriore 6. Come afferma E. Brunner: "la speranza rappresenta per la vita umana ciò che è l'ossigeno per
i polmoni. Se si elimina l'ossigeno, sopraggiunge la morte per soffocamento. Se si elimina la speranza,
sopraggiunge negli uomini l'affanno cioè la disperazione, la paralisi della molla spirituale dell'anima,
con un senso di nullità, di assurdità della vita" 7. La speranza, riscoperta oggi dalla filosofia e dalla
teologia, si rivela così come la struttura antropologica fondamentale che sostiene ogni azione ed ogni
pensiero dell'uomo 8. E' l'intuizione già menzionata di Blondel che, in termini più vicini alla moderna
sensibilità esistenzialista, si può esprimere così: la speranza dell'uomo "va sempre oltre le sue speranze,
le precede. Esiste un dislivello insuperabile fra la profonda tensione del suo spirito che lo spinge ad
operare, e i risultati concreti della sua azione nel mondo. Se non esistesse, l'uomo si troverebbe
nell'incapacità di decidere e di agire; perché possa continuare il suo impegno per la trasformazione del
mondo, la sua speranza deve continuamente superare le méte raggiunte. L'azione dell'uomo sul mondo,
quindi, nella sua stessa dialettica interna, porta con sé l'impossibilità della di lui pienezza intramondana"
9
.
2.2. Su questa struttura antropologica fondamentale si innesta il discorso della speranza cristiana, con
il suo contenuto escatologico: essa non è allora una sovrastruttura aggiunta all'antropologia, quasi un
cosmetico che cancelli qualche ruga ed abbellisca una situazione già di per sé non disprezzabile;
piuttosto il problema escatologico è "legittimo, universale, inevitabile. Nella misura in cui coincide col
problema del significato ultimo e vero dell'esistenza mia e del mondo, è la domanda che sovrasta tutte le
altre e le domina: è la più semplice e la più alta, la più urgente e la più drammatica. E' la sola domanda
alla quale è assolutamente necessario dare risposta. Ed è la domanda cui non pare possibile dare una
risposta seria, se si resta nell'ambito delle conoscenze umane. Gli uomini si trovano come davanti a una
muraglia di oscurità che tutto ci induce a credere impenetrabile" 10. La prospettiva escatologica cristiana
mostra la sua credibilità in quanto si innesta nella struttura fondamentale dell'uomo, la speranza, e ne
prospetta l'appagamento nel Trascendente. Le concezioni "escatologiche" che prescindono dal
Trascendente appaiono insufficienti già per il fatto di non rispondere alla speranza dell'uomo: il
marxismo, anche nella sua versione blochiana, piega il singolo ad una collettività finale, lasciando
irrisolta la domanda sul senso della vita di miliardi di esseri umani "sacrificati" lungo il cammino 11.
J. ALFARO, Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, Queriniana, Brescia 1985, 15.
Si confrontino i racconti delle atrocità sopportate dai prigionieri nei campi di concentramento con i fatti di cronaca che
registrano talvolta suicidi di persone (dello spettacolo, della moda, della politica, ecc.) che sembravano avere ottenuto tutto
dalla vita.
7
E. BRUNNER, L'eternità come futuro e tempo presente, Dehoniane, Bologna 1973, 13.
8
Per una documentazione ed una puntuale riflessione sul tema, in relazione alla filosofia e alla teologia
contemporanena, cf. J. ALFARO, Speranza cristiana e liberazione dell'uomo, cit., 13-29.
9
Ibid., 16-17.
10
G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, Jaca Book, Milano 1984, 9.
11
"Nella logica di tali ideologie bisogna dare per scontato il sacrificio di innumerevoli generazioni, in onore di uno
stadio finale del quale godrà solo una parte del genere umano. A rigore si potrebbe dire che, al di fuori di questa porzione
privilegiata, nessun uomo ha futuro. Più concretamente, le escatologie secolari si dimostrano incapaci di armonizzare gli
interessi dell'individuo con quelli della collettività. La domanda sul significato è totalizzante: ha senso l'io singolare, la
5
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4
2.3. Ma prima di procedere, è necessario chiederci come oggi viene declinata la speranza nella nostra
cultura. Non troveremo tanto Marx o Bloch, quanto la post-modernità e il pensiero debole 12. Se gli anni
sessanta e i primi anni settanta erano quelli delle grandi speranze ("grandi narrazioni"), magari veicolate
dalle ideologie di massa, oggi viviamo piuttosto l'epoca delle piccole speranze. Fino a qualche decennio
fa dominava ancora, nel clima culturale diffuso, una fiducia quasi totale nella ragione, specialmente nella
sua dimensione scientifica e tecnologica; fiducia che spingeva alle grandi programmazioni, agli ideali
forti, all'ottimismo diffuso. L'uomo degli ultimi decenni, invece, si sente deluso dalla ragione e della
scienza e ritiene spesso inutile porsi le grandi domande sul significato dell'esistenza: inutile, perché è
convinto che non troverà risposta 13. Da migliaia di anni l'uomo insegue certezze e sembra ottenerne solo
illusioni; ad un pensiero filosofico che vuole affrontare e risolvere le grandi domande della vita, tende
ormai a sostituirsi un pensiero filosofico che si accontenta di gestire il quotidiano: il cosiddetto pensiero
debole 14. La post-modernità è segnata, contrariamente a quanto prospettavano materialisti e positivisti,
dal prevalere dell'irrazionale sulla ragione, della sfiducia in ogni sistema sulla fede nella scienza, dei
micro-progetti individualistici sui mega-progetti sociali. I positivisti d'inizio secolo XX non
immaginavano certo che quella scienza e quella ragione su cui riponevano tutta la speranza 15 sarebbero
entrate in profonda crisi e si sarebbe aperta l'epoca post-moderna e che quella religione di cui
decretavano la fine si sarebbe invece rialzata, fin troppo rigogliosa e piena di vita. La post-modernità, se
da una parte è l'ultimo gradino della modernità, dall'altra ne è l'eutanasia. Si vede già bene, all’inizio del
terzo millennio, che l'esito della secolarizzazione non è la scomparsa del "sacro" in nome della ragione e
della scienza bensì, al contrario, la ricomparsa di un "sacro" rivestito di modalità irrazionali e
disordinate, un sacro impazzito: magia, superstizione e demonismo; sacralizzazione idolatrica del corpo
e del sesso; investimento delle speranze nel mercato e nel consumo. Nel clima irrazionale del
post-moderno, risorge, dunque, la domanda religiosa, del resto mai sopita, nascosta in passato sotto le
spoglie del materialismo. L'esplodere delle sètte, che spesso incanalano questa religiosità irrazionale, si
spiega proprio all'interno del fenomeno del post-moderno, come reazione uguale a contraria al
razionalismo e all'anonimato della società tecnologizzata 16.
2.4. Nasce di qui una domanda vitale per la teologia cristiana odierna: come presentare credibilmente
i grandi orizzonti della speranza cristiana ad un uomo che, in gran parte, incanala le sue speranze verso
obiettivi minimi. E' necessario forse "prenderlo per fame", aspettando che esperimenti l'inevitabile
delusione e fallimento, per potergli mettere davanti - come una tavola imbandita - la prospettiva
dell'eternità? E' necessario attendere, per annunciare la bella notizia, che l'uomo si trovi in una brutta
umanità, il mondo? Hanno senso le generazioni intermedie?" (J. L. RUIZ DE LA PEÑA, L'altra dimensione. Escatologia
cristiana, Borla, Roma 1981, 33).
12
Il "manifesto" della post-modernità si può considerare il libro ormai classico di J. F. LYOTARD, La condizione
postmoderna, Feltrinelli, Milano 1994; cf. anche: G. VATTIMO, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1991.
13
Non possiamo addentrarci ovviamente nell'analisi delle cause di questo passaggio epocale. Esse andrebbero ricercate
in varie direzioni: il ridimensionamento delle pretese scientiste ad opera di quei filosofi della scienza che, come K.Popper,
hanno dichiarato tramontata la pretesa di oggettività e neutralità delle scienze empiriche; la caduta della fiducia nella
razionalità umana e nella "bontà" della tecnica, che può essere simboleggiata da Auschwitz da una parte e Hiroschima
dall'altra; il riemergere prepotente della domanda di senso davanti alle risposte inevitabilmente parziali che la ragione da
sola può dare.
14
G. VATTIMO e P. A. ROVATTI edd., Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983.
15
Si vedano, ad esempio, le famose pagine conclusive del libretto che S. FREUD scrisse nel 1927 contro la religione:
dopo averla definita 'illusione' ed averne tentato alcune spiegazioni dal punto di vista della psicologia sociale, egli conclude:
"a lungo andare nulla può resistere alla ragione e all'esperienza, e l'opposizione della religione nei riguardi di entrambe è fin
troppo evidente (...)... mediante numerosi e importanti successi, la scienza ci ha dato la prova di non essere un'illusione (...).
No, la scienza non è un'illusione. Sarebbe invece un'illusione credere di poter ricevere altrove ciò che essa non può darci"
(L'avvenire di un'illusione, Boringhieri, Torino 1975, 84.85.87).
16
Cf., tra gli innumerevoli studi in merito, M. INTROVIGNE, I nuovi culti, Mondadori,Milano 1990.
5
situazione? E' indispensabile che venga scottato dall'esperienza della paura, della morte, del dolore? E'
inevitabile che l'annuncio della speranza cristiana si innesti sulla disperazione? Sebbene l'esperienza
dello scacco possa costituire effettivamente un'occasione di riscoperta della speranza cristiana, come
segnala Marcel quando parla della speranza come di una realtà strettamente legata alla "prova" 17 (la
persona è più disponibile ad accogliere una salvezza dal di fuori, quanto non può raggiungerla con le sue
forze), non possiamo ridurre l'annuncio delle verità escatologiche ad un rattoppo da mettere su uno
strappo. Avrebbero allora ragione Marx, Nietzsche e Freud quando presentano la categoria di "illusione"
come struttura-base della religione e delle sue speranze ultraterrene 18. Dio sarebbe quel "tappabuchi"
che D. Bonhöffer avversava con tutte le sue forze 19; la speranza cristiana dovrebbe intervenire solo
quando la ragione fallisce; la grazia farebbe irruzione quando il merito non ha più le forze; Dio
occuperebbe gli spazi del fallimento dell'uomo; la vita eterna diventerebbe credibile solo quando la vita
terrena non ha più nulla da dare. La speranza rischierebbe di apparire solo, come affermava Cartesio,
"una disposizione dell'anima a convincersi che i suoi desideri si realizzeranno" (Les passions de l'âme, §
165).
2.5. Se vuol essere davvero credibile, l'annuncio della speranza cristiana deve essere possibile non
solo come "compensazione della tristezza" ma anche come "pienezza della gioia". Il cristianesimo deve
mostrarsi non solo capace di rispondere a dei bisogni 20 - per quanto profondi - ma anche in grado di
suscitare nuovi bisogni, o meglio, di rendere l'uomo cosciente che esistono possibilità insospettate di
realizzazione. La speranza cristiana non ha solo la funzione di rispondere ai bisogni cosciente, ma anche
quella di suscitare bisogni profondi, che risvegliano desideri di realizzazione sopiti. La speranza
cristiana deve essere in grado di sostenere già da ora una vita anche umanamente piena, perché non è
tanto supplenza quanto pienezza della felicità umana in tutti i suoi risvolti: amicizia, affetti, bellezza,
pace, giustizia. Certo questi valori, assunti dal Vangelo, vengono purificati in un processo che comporta
anche fatica e distacco: ma ciò che è autenticamente umano non scompare, anzi, è esaltato 21. Questo
comporta l'abbandono definitivo dell'insistenza sulla sola "salvezza dell'anima" come esito della
speranza cristiana; insistenza che ha segnato secoli di catechesi e di immaginario collettivo, producendo
anche grandi risultati di tensione morale elevata e santità, ma contenendo due riduzioni fatali: dell'uomo
alla sua anima (dimenticando il corpo) e della salvezza all'aldilà (dimenticando la storia). La salvezza
cristiana sperata inizia già ora: è salvezza "integrale", che prende già forma nella corporeità e nella storia
umana.
2.6. Corpo e storia, cioè relazioni spazio-temporali, entrano a pieno titolo nella speranza cristiana, se
non vuole ridursi a trascendimento senza trasformazione, ad illusione alienante. Dal punto di vista
Cf. L. BLAIN, Due filosofie incentrate sulla speranza: quelle di G. Marcel e di E. Bloch, in Concilium 6 (1970) n. 9,
120-133.
18
Per una presentazione sintetica delle tre prospettive in relazione alla speranza cristiana, cf. G. ANGELINI, Speranza,
in G. BARBAGLIO e S. DIANICH edd., Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Alba 1977, 1508-1533; qui 1522-1524.
19
Per D. BONHÖFFER, come è noto, "tappabuchi" è il Dio della religione; egli, come un "deus ex machina", interviene
quando è richiesto a risolvere le situazioni impossibili dell'uomo. Ma in questo modo si lascia a Dio solo lo spazio negativo
delle paure e dell'ignoranza (che si assottiglia sempre più con la scienza, fino a rendere questo Dio inutile), mentre il
cristianesimo (che è il contrario di una religione) proclama che il posto di Dio è il "centro" della vita, è il positivo; la Chiesa
non può occupare la periferia lasciatale libera dal fallimento delle facoltà umane: deve istallarsi nel centro del villaggio (cf.:
Widerstand und Ergebung, Kaiser, München 1951, 134-135).
20
Opportunamente W. BREUNING segnala un "malinteso" che ha a che vedere con ciò che stiamo dicendo: "nella
storia di Dio con gli uomini, il desiderium umano gioca un ruolo essenziale. Ma il compimento che Dio garantisce si
presenta come qualcosa di infinitamente trascendente. E' la critica che si muove a dei progetti umani unilaterali, evoluti
esclusivamente dal basso" (Sviluppo sistematico degli enunciati escatologici, in J. FEINER e M. LÖHRER edd., Mysterium
Salutis 11, Queriniana, Brescia 1978, 326).
21
Come scrive J. ALFARO: "la teologia deve cercare di spiegare come la vita cristiana non si sovrapponga
artificialmente all'essere dell'uomo, bensì vi si inserisca nel profondo della sua esistenza" (Speranza cristiana e liberazione
dell'uomo, cit., 7-8).
17
6
teologico è come dire la parola amore. E' l'amore il senso della vita, il centro della fede e il contenuto
della speranza 22. L'uomo trova il senso della propria vita quando si sente amato; la gioia del cristiano
nasce dal sapersi amato da Dio. La speranza stessa sarebbe una parola vuota, una pura categoria formale
se non riposasse nell'amore. La "teologia della speranza", da sola, rischia il formalismo, se non viene
completata da una "teologia della carità" che indica il contenuto e il fondamento di quella speranza. Se
infatti "la speranza non delude", è solo "perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rom 5,5). La speranza che non riposa nell'amore, invece,
"delude": tale è la speranza materalista, che non sa rilevare altro se non una continua spinta dell'uomo
verso l'oltre, ma senza ammettere che la morte è vinta dall'amore. La speranza che sostiene ogni nostra
azione è, ultimamente, speranza di-essere-amati-pienamente. E siccome questa pienezza non si verifica
nell'esperienza immanente, ne deriva che la speranza ha senso se esiste un amore trascendente che la
appaga.
2.7. E' questo in sintesi il presupposto antropologico che permette l'annuncio delle verità
escatologiche: l'uomo agisce perché spera di essere amato di più, ma non trova mai - per quanto cerchi
sinceramente - la pienezza di questo amore; la sua vita sarebbe un grido senza risposta se non esistesse
questa pienezza. Anche l'uomo post-moderno, per quanto spenda la sua speranza in maniera frantumata e
ridotta, spera l'amore: lo spera dagli idoli, dal denaro, dal successo; lo spera da una dinamica religiosa
emozionalmente forte; ma non può mai raggiungerlo in pienezza. Si tratta dunque di scegliere: il non
senso di una vita che rinuncia alla pienezza dell'essere-amati (in tanti modi e con tanti surrogati) o il
senso di una vita che va verso la pienezza dell'essere-amati. E' nella carità che si compiono gli altri due
doni (più che virtù) teologali, la fede e la speranza (cf. 1 Cor 13,8.13); la carità, infatti, è la sostanza
stessa di Dio (cf. 1 Gv 4,8.16) 23. Perciò la speranza, va riempita con il contenuto dell'amore. "Speranza
esiste solamente là dove esiste amore, e l'uomo può sperare, perché nel Cristo crocifisso l'amore si è
manifestato oltre la morte" 24: questo annuncio d'amore che vince la morte e riempie la vita - annuncio
quindi gioioso - è la chiave di lettura fondamentale dell'esistenza cristiana, perché la prospettiva della
vita eterna appaia capace di dare senso e compimento alla vita terrena, anche oggi.
2.8. Se la speranza cristiana è fondata sulla fede nell'evento di Cristo morto e risorto ed ha come
contenuto l'amore, significa che è nello stesso tempo trascendimento del presente (perché l'evento
centrale della fede, la risurrezione di Cristo, non ha ancora dispiegato tutte le sue potenzialità e perché
l'amore pieno si compirà nel regno di Dio) e trasformazione del presente (perché la risurrezione di Cristo
chiede di entrare già da ora nelle situazioni umane, e quindi si trasforma in impegno concreto per far
risorgere le le condizioni-croce degli uomini e perché il regno di Dio, sostanziato dall'amore, porterà a
pienezza tutti i germi di amore che già da ora gli uomini seminano). La speranza cristiana dunque non
Già in Marcel si trovano molte suggestioni in questa direzione: Per Marcel (cf. L. BLAIN, Due filosofie incentrate
sulla speranza: quelle di G. Marcel e di E. Bloch, cit., 122-127): "la pienezza umana della speranza si può trovare soltanto
là dove si dà quella intercomunione spirituale chiamata amore. 'Io spero in Te per noi' è la formula migliore per esprimere la
speranza. Quanto più la speranza si avvicina alla carità, tanto più partecipa di quella 'incondizionata qualità che è proprio il
segno della presenza' e 'questa presenza incarnata nel 'noi', per cui 'Io spero in Te', in una comunione, cioè, di cui proclamo
l'indistruttibilità" (125).
23
Tra le innumerevoli riflessioni sopra le tre virtù teologali si segnalano, per profondità, chiarezza ed ampiezza di
riferimenti, quelle del filosofo cristiano J. PIEPER, Lieben. Hoffen. Glauben, Kösel, München; ora raccolte anche in
volume unico, le tre trattazioni coprono in realtà un arco di oltre trent'anni: dalla prima sulla speranza (1935), passando
attraverso quella sulla fede (1962), fino all'ultima sull'amore (1971). E se la virtù della speranza è, classicamente, quella che
concerne più da vicino l'escatologia, Pieper lega però strettamente ad essa anche la carità. E' proprio trattando della carità
(amare significa dire: è meraviglioso che tu esista: cf. Ibid., 45.50.53), infatti che - rielaborando note intuizioni di G. Marcel
- mette in evidenza l'intrinseco legame fra le tre virtù: amare una persona significa credere che l'amato vivrà eternamente e
risorgerà corporalmente (cf. 51); è dunque nella logica dell'amore voler superare la morte, credere e sperare contro ogni
apparenza. La vita di grazia, nelle tre virtù teologali, è l'unico antidoto al rischio di nichilismo, l'unico possibile senso della
vita (cf. 254).
24
J. RATZINGER, Escatologia: morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1979, 84.
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giustifica né l'illusione di raggiungere una regno di Dio intraterreno (e quindi il trascendimento ne fa
parte essenziale) né il quietismo di chi attende che tutto venga operato da Dio (e quindi la trasformazione
ne fa parte essenziale). La "risurrezione della carne" non è altro che l'estensione universale della
risurrezione di Cristo, nel quale si è già verificato in maniera concentrata e puntuale il destino che si
dispiegherà nel cosmo e nella storia. Ecco il centro della speranza cristiana, l’unica prospettiva capace di
tenere accesa la lampada anche nel tunnel della sofferenza e della morte: la risurrezione di Gesù, la
glorificazione del suo corpo. Tutte le altre parole consolatorie, senza questa fede, sono palliative e
illusorie. Quando si scava a fondo nel cuore umano, sotto le speranze superficiali che ogni giorno
esprime, ve ne sono tre irrinunciabili: possiamo chiamarle le tre speranze radicali: superare la
solitudine, la sofferenza e la morte. Sono queste le più grandi paure, spesso intrecciate tra loro, degli
uomini di tutti e i tempi: e le speranze più vere sono legate al superamento di queste tra paure, di queste
tre esperienze terribili. Chi resta solo sul piano orizzontale (individuale o collettivo che sia) troverà
dunque al massimo delle magre consolazioni, come dimostrano l’esistenzialismo ateo e il marxismo
materialistico. Chi si lascia conquistare dalla fede non sarà certo investito da una luce solare (sarebbe la
situazione paradisiaca, dove non c’è più bisogno di speranza...), ma vedrà comunque il miracolo di una
luce che rimane ostinatamente accesa anche quando i fari della ragione umana e delle soluzioni
orizzontali non possono nulla. Questa luce – piccola ma in grado di rischiarare l’essenziale – si fonda
non su una vaga promessa futura, ma su un ‘fatto’ già accaduto: un piccolo fatto, se vogliamo,
compiutosi in tre giorni (dal venerdì santo alla domenica di Pasqua), ma così importante che milioni di
persone appendono ad esso la loro speranza. Se davvero Gesù è risorto nel suo corpo, allora vuol dire che
Dio è entrato potentemente (anche se umilmente) nella storia umana, e ha infranto una volta per tutte la
solitudine facendo comunione con l’uomo; vuol dire, in secondo luogo, che Dio ha visitato anche la
sofferenza, prendendola su di sé e facendone nella croce motivo di riscatto e di crescita; vuol dire infine
che la morte stessa non è più l’ultima parola, non è più la regina della vita (“sono io la morte e porto
corona”, cantava Branduardi riprendendo motivi popolari medievali), ma è scivolata al penultimo posto,
perché la parola ultima spetta alla vita, alla risurrezione. Nonostante che noi sperimentiamo ancora
queste tre grandi paure – della solitudine, della sofferenza e della morte – perché vediamo la vita dal lato
del venerdì santo e non potrebbe essere altrimenti, esse sono in germe già state vinte dalla Pasqua di
Gesù, da questa piccola grande storia di tre giorni che concentra non solo una vita di trent’anni ma
l’intera vicenda della storia umana. Il cristianesimo allora diventa annuncio di speranza quando rimane
fedele al suo nucleo, il mistero pasquale, e non quando si presenta come se fosse una semplice morale
(pericolo moralista) o una pura codificazione di leggi (pericolo legalista). Certo nel cristianesimo
esistono regole e leggi, ma sono solamente indicazioni derivate dalla ‘nuova vita’ portata da Cristo
risorto. E’ uno dei più grandi equivoci contemporanei, come ripetutamente ricorda Benedetto XVI,
prima da teologo e cardinale e ora da papa, quello di scambiare il nucleo del cristianesimo per un’etica o
un codice. Ma nessuna speranza viene dai codici e dalle norme: la speranza viene solo da una persona
viva, da Colui che è passato attraverso la solitudine, la sofferenza e la morte e le ha vinte con la
risurrezione.
2.9. La vittoria di Gesù sulla morte alimenta la speranza, perché non si tratta di un ‘privilegio’
concesso a lui solo, ma di una ‘primizia’ della nostra stessa sorte e, come tale, investe anche noi: è il
dogma cristiano della ‘risurrezione della carne’ o dei morti o del corpo. Se si evitano interpretazioni
materialistiche e immaginose della risurrezione della carne, essa risulta capace di nutrire la speranza: da
una parte è tutto l'uomo compreso il "corpo" (relazioni, affetti... la propria storia) ad essere salvato e
dall'altra è un uomo trasfigurato, "spiritualizzato", perché la salvezza sarà pienezza di vita e non
semplice ripresa della vita attuale. Per questo il "giudizio" escatologico sarà sull'amore (cf. Mt
25,31-46), che è l'unica realtà a passare attraverso il filtro della morte. Se la salvezza è compimento del
"corpo", cioè delle relazioni spazio-temporali intessute durante la vita terrena, allora non ci si salva "in
parte" (salvezza dell'anima) né "da soli": si realizza la speranza di essere-amati-pienamente solo
passando attraverso il dono dell'amore: è questo, in ultima analisi, che assicura il legame tra la
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trasformazione e il trascendimento del presente, tra l'impegno attuale e l'attesa del futuro, tra la
dimensione immanente e quella trascendente del regno di Dio.
2.10 Per concludere, si potrebbe dire che la nostra speranza tende specularmente ad appagarsi, alla
fine della vita, in quella stessa esperienza che sta all’inizio della vita: l’essere accolti nelle braccia di
qualcuno che ci ama. E’ presente nel cristianesimo, a partire dalla teologia del martirio per allargarsi poi
alla situazione di tutti, l’idea della morte come ‘nuova nascita’, ‘vera nascita’: il giorno della morte è il
dies natalis. E’ una delle espressioni più audaci della speranza cristiana: riempire l’esperienza
detestabile e traumatica della morte con la sostanza desiderabile della nascita. Così il cristiano vive come
tre nascite: quella naturale, quella battesimale (simbolismo della nascita chiarissimo nel NT) e quella
finale della sua vita. Come le prime due sono un ‘morire’ ad un tipo di vita per essere accolti ad un altro
tipo di vita, che ha una certa continuità ma una maggiore discontinuità, così la terza. La nascita fisica
infatti è un’esperienza di abbandono della vita nel grembo materno, calda e sicura, per essere lanciati
nella vita sociale; non a caso il passaggio è fisiologicamente segnato dal pianto: è un trauma, un salto nel
vuoto; eppure è necessario perché quell’essere umano riceva e dia il suo contributo. Poi l’esperienza
dell’essere accolto, accudito, pulito, sfamato – in una parola dell’essere-amato gratuitamente da
qualcuno – ripaga la fatica del nascere, introduce ad una dimensione insperata. La ‘nuova nascita’, il
battesimo, rappresenta di nuovo una morte (al peccato, a Satana) e l’abbraccio di una nuova vita
attraverso un salto nel vuoto; anche in questo caso il salto avviene “per grazia” – si entra nella Chiesa
non sulla base di un concorso o di una selezione morale, ma di una gratuita accoglienza – ed anche allora
si scopre una dimensione insperata della vita (come spesso fanno notare coloro che si convertono in età
adulta e descrivono il passaggio come salto verso la luce – da una vita in bianco e nero a una vita a
colori). L’ultima nascita, quella finale della nostra esistenza, passa pure attraverso una morte: la morte a
questa dimensione terrena, la cessazione dei legami nella forma attuale; ed è questo che ci spaventa –
giustamente. La speranza cristiana dice che uno ha già compiuto questo salto con successo, attraverso la
morte è entrato nel mondo divino con il suo corpo trasfigurato; ci dice che la morte non è semplicemente
la raccolta delle sventure e ingiustizie del mondo, ma il passaggio ad una dimensione insperata di
pienezza. Anche in questa terza nascita è questione di “grazia”, perché non potremo mai meritare
quell’accoglienza amorevole che Cristo prospetta a chi, esplicitamente o implicitamente, si è affidato al
Padre nella sua vita terrena.
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