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Angelo Campodonico
Etica e natura (testo ad uso privato)
Introduzione:
Innanzi tutto una precisazione sul titolo delle lezione. Qui natura sta per natura umana. Ovviamente
l’etica “naturale”, come l’etica in generale, può essere praticata senza essere fondata in sede
filosofica. Ma qui mi soffermerò in particolare sul tema della sua fondazione in sede filosofica.
Più che cercare di dare una risposta originale al problema, cosa che sarebbe troppo impegnativo,
tanto più trattandosi di una lezione introduttiva, il mio discorso mira a fornire una sorta di mappa,
ad inquadrare il tema etica e natura, a farne vedere l’ampiezza sotto il profilo storico e speculativo e
anche la sua attualità. Solo alla fine dirò forse, ma prudentemente, qualcosa di mio, di propositivo,
quasi un’indicazione di lavoro.
Il tema è antico quanto l’etica come disciplina filosofica. Già i sofisti usavano il termine
naturale (fusikon) per indicare il comportamento dell’uomo in quanto non soggetto a regole morali,
alla legge (nomos) (il giusto come l’utile del più forte – Trasimaco nella Repubblica - se volete,
qualcosa di simile allo stato di natura hobbesiano quale “guerra di tutti contro tutti”). I filosofi
greci classici, inversamente, indicavano con questo termine proprio la dimensione normativa
dell’etica in quanto in armonia con la vera natura umana, ciò che veramente conviene all’uomo (cfr.
Platone, Aristotele, Stoici). Questa distinzione fra due accezioni di natura è di fatto presente lungo
la storia fino ad oggi. Nel primo caso si ha una sottodeterminazione del naturale che viene ridotto
al piano fattuale-descrittivo, inteso sia in senso meramente biologico (“tutto è natura”, come oggi
nel naturalismo scientista di stampo evoluzionistico)1, sia, inversamente, in senso esclusivamente
culturale (“tutto è cultura”, come accade oggi in certe letture influenzate dall’antropologia
culturale)2. Le due prospettive si rovesciano l’una nell’altra, essendo accomunate dalla valenza
meramente descrittiva (“etologica”).
Nel secondo caso si ha, invece, un significato normativo di natura, cioè una sovradeterminazione
del naturale3. Come nota Spaemann a proposito di Platone: “La dottrina platonica rovescia la tesi
1
Questa posizione trova un precursore in Diderot. Cfr. D. Diderot, Ritorno alla natura. Supplemento al viaggio di
Bougainville, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 44. Per una critica del biologismo evoluzionistico in etica cfr quanto nota
Moore: “La sopravvivenza del più adatto non significa, come si potrebbe credere, la sopravvivenza di ciò che è più
adatto a raggiungere uno scopo buono, cioè più adatto ad un fine buono: in definitiva essa significa semplicemente la
sopravvivenza del più adatto a sopravvivere; e il valore della teoria scientifica (dell’evoluzionismo), un valore che essa
indubbiamente possiede, consiste unicamente nel mostrare quasi siano le cause che producono certi effetti biologici: se
questi effetti siano buoni o cattivi, essa non può pretendere di giudicarlo”(G. E. Moore . Principia ethica, Bompiani,
Milano 1972, p. 105).
2 Un precursore di questa lettura è Montaigne. Cfr, in particolare, M. Montaigne, Saggi, tr.it, di F. Garavini, Mondadori,
Milano 1970, p. 145.
3 Il significato normativo di natura è sottolineato nella modernità da J.J. Rousseau. Di questo autore cfr. Opere, Sansoni,
Firenze 1962, p. 7.
2
sofistica dell’origine naturale e del carattere antinaturale, cioè illusorio, della validità del nomos.
Platone sostiene che esiste il nomos naturale, ciò che è giusto per natura, e che la ragione della sua
validità sta nella sua naturalità. Ma questa naturalità non è una naturalità di origine, ma una
naturalità di convenienza. È un essere conforme alla natura. Comprendere tale convenienza è
compito della ragione” (R. Spaemann, Natura e ragione. Saggi di antropologia,
Edizioni
Università della S. Croce, Roma 2006, p. 102). Ma anche in Aristotele, che può essere considerato
uno dei padri del diritto naturale, troviamo la duplice accezione di natura. Le virtù naturali non sono
vere virtù, lo sono invece quelle acquisite e che costituiscono quasi una “seconda natura”: “Le virtù
non si generano né per natura, né contro natura, ma è nella nostra natura accoglierle, e sono portate
a perfezione in noi per mezzo dell’abitudine” (Et. Nic. II 1103a 24-26).
Poi questa accezione normativa di natura in etica ha preso il sopravvento nell’antichità pagana con
gli stoici, nel Medioevo e in età moderna come si desume da termini aventi una carica normativa
come legge naturale, diritto naturale, diritti naturali (o diritti umani). Oggi in Europa il termine
naturale applicato all’etica e al diritto in senso normativo non è sempre visto bene, anzi.
Diversamente accade negli USA dove la rivendicazione della libertà dall’Inghilterra e dalla
schiavitù è stata sostenuta in nome del diritto naturale.
È opportuno rilevare che alla base del tema della natura in etica c’è in Occidente da un lato il
tema della legge che ha una radice biblica (pensiamo al Decalogo - ma non solo) e che si coniuga
con il tema stoico della fusis (vivere secondo natura) e dall’altro il tema della giustizia, del diritto
oggettivo (lo ius come dare a ciascuno il suo- suum cuique tribuere). In Tommaso d’Aquino, per
esempio i due temi (legge naturale e ius (diritto)) sono trattati in luoghi differenti, certamente sono
in stretta connessione fra di loro, ma vi possono essere diverse interpretazioni di questa
connessione.
1) In generale sono convinto che il tema etica-natura, cioè il problema della necessità e opportunità
di fondare la legge morale sulla natura dell’uomo, ma si dovrebbe dire su quella che è la
dimensione più propriamente umana (la sua ragione pratica che comprende e valorizza la natura)
sia un tema irrinunciabile (tanto è vero che anche coloro che negano la legge naturale in teoria,
l’abbracciano in pratica), anche se estremamente problematico. Questo tema emerge soprattutto
quando occorre reagire al diritto positivo, ad una determinata legislazione considerata disumana e,
quindi, contro natura, come è avvenuto dopo i totalitarismi del Novecento e la seconda guerra
mondiale. Da parte di cristiani soprattutto cattolici, ebrei, ma anche agnostici si è sentita l’esigenza
di rifarsi al diritto naturale. Si è parlato di un “eterno ritorno del diritto naturale” (Rommen).
La premessa della legge naturale può essere stabilita molto semplicemente. Vi sono alcune leggi
che sono vere e obbliganti prima delle leggi fatte dall’uomo. La legge naturale è scoperta anziché
3
essere fatta, posita (donde positivo), il che non significa che non vi sia un lavoro interpretativo.
Sembra, per es., che scopriamo o riconosciamo la legge in base a cui l’innocente non dovrebbe
essere deliberatamente danneggiato, o quella secondo cui in una testimonianza ad un processo si
dovrebbe dire la verità.
In sintesi: il mondo dell’obbligazione morale non inizia né termina con i contratti, gli accordi e gli
statuti fatti dall’uomo. Sarebbe stolto pensare che la norma morale che vieta la frode è essa stessa
esito di un contratto.
Naturale significa in etica quel azione, quel comportamento che è coerente con quello che l’uomo è
in quanto essere teso ad un compimento. Naturale qui comprende anche la dimensione biologica,
ma la trascende in quanto riguarda il compimento complessivo dell’uomo: il termine naturale non
riguarda solo il passato, ma soprattutto il futuro. Nel tema della natura c’è una dimensione che
guarda al passato, a ciò che rimane stabile, ma una che guarda al futuro, a ciò che trascende il
presente. Pensare al naturale, secondo la radice dinamica di fusis significa guardare innanzi a
partire dal presente. Chiedersi: che cosa ci corrisponde veramente?
In generale il rischio quando si parla di etica e natura è quello di dire troppo o troppo poco
(irrilevanza del tema della natura in etica). Tommaso d’Aquino, per esempio, ne è consapevole.
2) L’idea che vi sia un fondamento naturale dell’etica nella natura umana è stata criticata in nome
- della libertà dell’uomo come libertà senza natura (l’esistenza precede l’essenza, l’uomo è quel
essere che si da liberamente la sua natura – come in certo esistenzialismo)
- del pluralismo, della pluralità delle culture, dei costumi
e delle etiche sia in senso
sincronico/critica di taglio antropologico attenta alla specifica singolarità delle culture presente oggi
in Remotti (Contro natura, Laterza, Roma-Bari, 2008), ma già in Erodoto - nihil sub sole novi),
Ma nota a questo proposito Spaemann: “È un’incomprensione largamente diffusa quella che fonda
il concetto di ciò che è giusto per natura su un’ingenua ignoranza della differenza che intercorre tra
culture e costumi. Essa è reperibile anche in Pascal. È vero piuttosto il contrario: il concetto di
giusto per natura nasce soltanto in relazione a questa scoperta. Solo la differenza tra costumi e
culture, infatti, fa sorgere la domanda se disponiamo di un criterio che permette di distinguere tra
costumi migliori e costumi peggiori” (R. Spaemann, Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero, Milano
1998, p. 210). Yves Simon dopo l’epoca dei totalitarismi mette in luce che l’accordo degli uomini
intorno ad alcune supposte evidenze non è condizione necessaria perché si possa parlare di legge
naturale. L’ideologia si presenta come qualcosa di immediatamente evidente.
- della pluralità dei costumi e delle etiche in senso diacronico (il problema della storia – L. Strauss,
Diritto naturale e storia, Il Melangolo, Genova). Ma si può pensare a un progressivo emergere o
esplicitarsi di diritti a partire da una certa affermazione di principi quali la dignità dell’uomo.
4
Spesso gli storici come gli antropologi si fermano alla singolarità del dato, senza passare al piano
normativo proprio della filosofia.
- dell’impossibilità di derivare proposizioni normative da proposizioni descrittive (la cosiddetta
“legge di Hume”). Dico subito che è corretto anche per Aristotele affermare questa impossibilità,
ma non è detto che ciò abbia luogo quando si parla di natura. Per Macintyre, ma anche per altri
come la Annas e Berti, non vi sarebbe in Aristotele alcun salto logico tra il descrittivo e il
prescrittivo, perché la realizzazione dell’uomo altro non è che l’esplicitazione attraverso l’esercizio
della libertà e la cura delle disposizioni virtuose, delle potenzialità insite nel suo essere4.
3) Vi sono state storicamente diverse posizioni riguardo al tema natura ed etica o legge –diritto
naturale. Non procedo in ordine cronologico.
a)
Diritto naturale minimo, (Hobbes, Hart). Ne Il concetto di diritto Herbert L. A. Hart
(Oxford) afferma che esiste un diritto naturale minimo che si fonda sulla vulnerabilità
umana, sull’uguaglianza approssimativa (per cui si può sempre essere aggrediti),
sull’altruismo limitato (per cui occorre controllare le tendenze all’aggressione), sulle risorse
limitate (una certa forma di diritto di proprietà si rende necessaria). Ammettere che alla
base del diritto positivo vi sia un diritto naturale minimo che consiste essenzialmente nella
tendenza all’autoconservazione, è importante. Ma può anche essere irrilevante. Dipende da
che cosa si può affermare in più.
b) Kant e i kantiani in genere non fanno in genere in etica riferimento alla natura, ma vi è qualche
significativa eccezione. Per esempio in questa nota affermazione di Kant: “Agisci come se la
massima della tua azione dovesse diventare per mezzo della tua volontà una legge universale della
natura” (Kant, Fondazione della metafisica dei costumi).
Kant afferma che la persona ha dignità: “considera l’umanità in te stesso e negli altri sempre come
fine e mai come mezzo”. Alan Donagan ha visto un nesso fra questa concezione di Kant della
persona e la concezione di Dio come fine in sé che ritroviamo nel Medioevo, per es., in Tommaso.
Di fatto Kant è un fautore del diritto naturale, del fatto che la legge morale non è riducibile alla
legge positiva. Il suo problema piuttosto è che, per motivi dipendenti dal più generale contesto
culturale tipico della modernità, la sua antropologia è carente sotto il profilo del rapporto psichecorporeità, razionalità-affettività e io-altri (intersoggettività). Per questo non parla di natura (si
scadrebbe, secondo lui, nel naturalistico, nel biologico).
Altro problema posto dalla lettura di Kant è quello del rapporto natura umana-libertà: quale delle
due precede l’altra? Se la natura, allora ha senso parlare di diritto naturale, se la libertà non ha
4
Dopo la virtù, p. 71.
5
senso. O s'interpreta Kant, riconoscendo che la libertà dell'uomo si fonda sulla ragione che è aperta
all'essere (Tommaso) e allora è accettabile sotto il profilo che qui c’interessa, oppure se la ragione
si fonda sulla libertà, allora è aperta la strada a Nietszche, all'esistenzialismo e, in ultima analisi, al
nichilismo: tutto nell'uomo può essere messo in discussione perché non c'è nulla che la ragione
riconosce come humanum, come natura umana.
Kant è uno dei padri del liberalismo. Ci si è chiesti perché dovremmo considerare migliore un
ordinamento maggiormente in armonia con i principi del liberalismo rispetto ad uno che soddisfi in
misura minore, o che non soddisfi affatto, questo requisito. Le ragioni in questione, per essere
realmente cogenti, dovrebbero mostrarci che tale ordinamento è migliore sulla base di qualche
parametro diverso dal semplice fatto che in questo momento ci capiti di pensarla in un certo modo.
Anche se l’idea che ci sia un diritto naturale, ammettendo che essa sia accettabile, non è sufficiente
a generare una teoria liberale della giustizia, si potrebbe sostenere che è difficile concepire una
giustificazione normativa del liberalismo politico che non includa tra le sue premesse una teoria del
diritto naturale5.
b) Poi c’è la tradizione della legge naturale o diritto naturale classico ripresa in epoca
medioevale e moderna. Distinguerei tre filoni:
- Quello platonico-agostiniano (ripreso nel Novecento da Strauss e Taylor) che si rifà, in ultima
analisi, a Platone, al Gorgia e soprattutto alla Repubblica. Il segno del fatto che non si segue la
legge morale naturale (la gerarchia, la giustizia fra le parti dell’anima), che cioè si mettono al primo
posto le inclinazioni fisiche (ciò che è in basso) rispetto a quelle spirituali superiori e in basso ciò
che è in alto (Agostino- De vera religione) è la disunione nella singola persona (il venir meno del
senso della vita) e corrispettivamente la disunione della società, il suo sfilacciarsi (la società è
specchio della persona- Repubblica). Leo Strauss vede il rischio della modernità (Hobbes) nel fatto
che si possa pensare ad una repubblica ordinata di diavoli, ad un sistema che renda gli uomini buoni
attraverso un calcolo scientifico delle passioni, facendo a meno delle virtù etiche. Secondo quanto
afferma Eliot: Essi cercano sempre di evadere dal buio esterno e interiore, sognando sistemi
talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono6.
- Filone aristotelico-tomista (Maritain, Simon, Villey, Anscombe, Finnis, Nussbaum, Annas, Foot).
Benché possa inglobare anche le istanze platoniche-agostiniane di unità e di senso, esso parte dallo
sviluppo ordinato e armonioso (fioritura umana) delle potenzialità umane (capabilities). In
Tommaso la razionalità pratica che tende al bene dell’uomo e sfuggire il male, interpreta e rende
normative alcune inclinazioni comuni a tutti gli uomini: alla conservazione della vita, alla
comunicazione della vita e all’allevamento-educazione della prole, alla coltivazione della ragione in
5
6
J. RAWLS 1996, p. 109 n. e 161.
T.S. Eliot, Poesie, Bompiani, Milano 1983, p. 419.
6
tutte le sue forme (società, cultura, religione). A differenza di autori contemporanei come la Foot
(cfr. La natura del bene, Il Mulino, Bologna 2007) che sottolineano che si può parlare di un buon
coltello ( un coltello che adempie alla sua funzione) o di un cattivo coltello (di uno che non
l’adempie), evidenziando così
l’analogia uomo-natura inanimata, Tommaso sottolinea
maggiormente che naturale è ciò che la ragione pratica dell’uomo riconosce come bene, rendendolo
normativo. La ratio ut natura (i primi principi o prime evidenze dell’intelletto pratico) sono esito
della sinergia di razionalità pratica normativa e inclinazioni già informate in qualche misura dalla
ragione, la quale è forma dell’anima e di tutto l’uomo. Secondo Spaemann, “La ragione non è
identica alla natura, ma soltanto ciò che è secondo ragione è il venire alla luce anche della verità di
ciò che è secondo natura e questo venire alla luce si trova esso stesso inscritto nella teleologia della
natura. Ciò che è naturale in quanto puramente naturale si trova in rapporto di antagonismo con ciò
che è pure naturale, ma è diverso. Ma la verità su ciò che è naturale è comune e là dove esseri
naturali in quanto esseri ragionevoli hanno un interesse per questa verità è superato l’antagonismo
immediato” (Natura e ragione, p. 105). A partire dai questi precetti fondamentali della legge
naturale di Tommaso si possono dedurre o determinare indicazioni più concrete anche se la scelta
“qui ed ora” è affidata , in ultima analisi, al virtuoso, al saggio, al santo. I principi della legge
naturale sono semina virtutum (semi delle virtù); le virtù etiche li sviluppano e permettono loro di
concretizzarsi. Non dobbiamo dimenticare che Tommaso è un teologo che vive in un contesto
cristiano e che, quindi, vi sono diversi paletti che aiutano a precisare il comportamento in concreto.
Significativo è, in questa prospettiva, il nesso psiche-corporeità, razionalità speculativa e razionalità
pratica, e il fatto che dimensione normativa della legge è intimamente connessa al finalismo. Fare
il bene “conviene” all’uomo, alla sua intima natura. Ma Tommaso è consapevole che la natura si
può corrompere accidentalmente (che si possa instaurare una “seconda natura” viziosa, benché ci
sia sempre la possibilità di un riscatto grazie alle evidenze etiche o principi etici fondamentali (cosa
che in Aristotele è meno lampante).
Un aspetto interessante della ripresa di questo filone nel Novecento è la valorizzazione del fatto
che la legge naturale si possa conoscere anche per connaturalità o per inclinazione affettiva (si
potrebbe dire per esperienza) come una virtù la si riconosce perchè in qualche misura la si pratica e
non solo e non tanto perché se ne ha un concetto preciso. Questo tema è stato sviluppato nel
Novecento da Jacques Maritain.
Si può affermare, in questa prospettiva, che l’emergere di una nuova consapevolezza dei diritti
umani, di nuovi diritti lungo la storia è possibile grazie ai precetti della legge, intesi quindi come
schemi dinamici da una parte, e all’impatto della sofferenza umana, provocata dalla violazione di
7
certi diritti coerenti con la dignità dell’uomo dall’altro. Così, per esempio, Las Casas e Vitoria
estendono i diritti agli indios delle Americhe.
Nella riflessione di Martha Nussbaum si ha la riscoperta di una natura umana essenziale («teoria
forte e vaga del bene») in opposizione ad ogni relativismo dei valori morali 7. Tale natura umana
può essere riscoperta, secondo la Annas, attraverso lo sviluppo storico, il quale fa emergere
gradualmente alcune acquisizioni irreversibili riguardanti fondamentali valori umani8.
Un importante autore contemporaneo vivente che rientra in questo filone è John Finnis (cf. Legge
naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino 1996). Egli cerca di rispondere a questo
interrogativo: è possibile identificare una lista di valori umani fondamentali, da cui discendano i
relativi diritti? Questa è, secondo Franco Viola,
la domanda centrale del giusnaturalismo
contemporaneo. Se fosse possibile, allora questi orizzonti generali del bene umano, potrebbero
essere considerati come i princìpi della legge naturale, ben diversi dalle regole del giusnaturalismo
moderno.
Ponendosi da un punto di vista pratico, cioè delle azioni da farsi, secondo Finnis, risaltano con
evidenza alcuni ambiti di bene che tutti gli esseri umani non possono fare a meno di apprezzare e, in
diversa misura, di praticare. Secondo Finnis si tratterebbe della vita, della conoscenza, del gioco,
dell’esperienza estetica, della socievolezza e della cooperazione, della stessa ragionevolezza pratica
e della religione. A questi valori umani fondamentali potrebbero essere ricondotti tutte le altre
istanze valorative secondarie. Questi orizzonti generali del bene costituirebbero la grammatica della
vita pratica, cioè i princìpi della legge naturale. Si configurano, così, orizzonti di valore che non
costituiscono per nulla norme morali, ma solo princìpi comuni della vita pratica per le scelte eticopolitiche della cooperazione nel regime del pluralismo9.
In realtà questi orizzonti di bene servono soltanto a dar senso alle nostre azioni, a renderle
significative, ragionevoli e, quindi, degne di considerazione e rispetto, nonché eventualmente anche
di critica e di dissenso. Affermare, ad esempio, che cooperare è bene e non cooperare è male non
Cfr. M. NUSSBAUM, Non-Relative Virtues: An Aristotelian Approach, in M. NUSSBAUM and A. SEN (eds.), The Quality of
Life, Clarendon Press, New York 1993, pp. 242-69.
8
Cfr., J. ANNAS, Women and the Quality of Life: Two Norms or One? in NUSSBAUM, SEN (eds.), The Quality of
Life, pp. 279-296.
9 (Questa reinterpretazione della legge naturale deve affrontare due ordini di obiezioni: da una parte, si rileva che, pur
ammettendo l’esistenza di valori umani fondamentali, è impossibile formularli in modo chiaro e completo senza
scambiare le convinzioni contingenti dell’uomo contemporaneo per verità eterne; dall’altra, si rifiuta l’idea che questi
valori fondamentali debbano riguardare i fini, perché ciò implicherebbe raccomandare un’etica particolare, violando il
regime del pluralismo. Questa seconda obiezione è ben più forte. John Rawls ha sostenuto che si debbono riconoscere
come beni primari solo quelli che sono funzionali all’elaborazione di qualsivoglia piano di vita, cioè la libertà,
l’opportunità, la ricchezza e il rispetto di sé. Questa concezione debole (thin) del bene permetterebbe di salvaguardare
l’imparzialità nei confronti di tutte le concezioni della vita etica. Tuttavia, se dovessimo accettare l’orientamento di
Rawls, non potremmo giustificare il carattere fondamentale di molti diritti affermati nella stessa Dichiarazione
universale e nelle Carte dei diritti che ad essa s’inspirano. Inoltre, si perde la possibilità di delineare un ordine non
puramente formale della ragionevolezza che consenta una mutua comprensione di concezioni differenti della vita
buona”9).
7
8
significa ancora prendere partito per una forma di cooperazione, rigettandone un’altra, ma rendere
possibile un dibattito sul tipo di cooperazione adeguato e conveniente in una data situazione o in un
caso specifico. Ciò significa assumere un punto di vista pratico, in cui le azioni da compiere sono
giustificate dal fatto di essere le più adatte per il raggiungimento di fini presupposti che non si
possono rifiutare senza cadere nell’insensatezza. Così si esprime oggi – a nostro parere – l’esigenza
di oggettività della conoscenza morale e la ragione per continuare a qualificare “naturali” questi
princìpi. Ma “sensato” o “insensato” non vuol dire ancora “giusto” o “ingiusto”, “buono” o
“cattivo”. Per questi ulteriori passi la ragione naturale deve mettersi all’opera e con ciò stesso farsi
artificiale, come diceva il grande giurista inglese Edward Coke. La ragion pratica stessa in tutta la
sua estensione è un’opera della cultura, cioè della coltivazione dei valori umani con il risultato di
una molteplicità di frutti, non sempre commestibili, vale a dire rispettosi della dignità umana10.
Tutto ciò significa che non si può più concepire, se mai lo è stato, il diritto naturale come un
insieme immutabile di contenuti giuridici scritti nel cielo. Si tratta, invece, di una ricerca compiuta
dalla ragione umana, sempre aperta per quanto riguarda l’identificazione dei princìpi primi e
sempre controvertibile per quanto riguarda le conclusioni ultime. È l’antidoto necessario per
controllare l’uso arbitrario del potere. Ma forse un limite della concezione di Finnis è che non offre
sufficienti indicazioni intorno alla corretta gerarchizzazione di questi beni.
- Il filone moderno giusnaturalistico se, nei suoi sviluppi, ha il merito di aver accentuato, ma fino
ad assolutizzarla, la dimensione dei diritti soggettivi (io ho il diritto di), presenta il limite della
rigidità della legge, cioè della confusione fra lex aeterna e lex naturalis (Villey, Azzoni), dell’oblio
della phronesis (iurisprudentia). Si tratta di una concezione di natura sovradeterminata.
- Situazione attuale. I diritti soggettivi (la libertà di poter fare o non fare qualcosa) sono sorti nel
medioevo e poi nella modernità, secondo una certa interpretazione, non da tutti condivisa, dal diritto
nturale oggettivo. Scorporando poi i diritti soggettivi dal diritto oggettivo, dalla giustizia, dal dovere
si è preparata forse l’odierna proliferazione dei diritti (senza chiedersi se qualcuno paga per i miei
diritti). Per cui affermare un nuovo diritto significa quasi realizzare un desiderio. Nota John
Hittinger: “E questa è la crux del problema: un essere che riformula se stesso, il quale insiste nel
Se a monte dei diritti vi sono valori fondamentali, a valle v’è la concretizzazione di questi princìpi nella
regolamentazione dei casi concreti. Qui i diritti possono confliggere tra loro e possono entrare in contrasto con le
esigenze di bene comune. Si attiva, pertanto, un ragionamento pratico alla ricerca di una conclusione che sia il modo
migliore per realizzare i valori fondamentali tutto considerato, cioè le circostanze di fatto e le specifiche pretese
normative. A questo punto il compito del giusnaturalismo è quello di mostrare che la struttura argomentativa più adatta
a questo scopo, ed effettivamente usata dalle corti costituzionali, è molto vicina a quella propria della tradizione del
diritto naturale, cioè quella che non si limita alla dimensione puramente procedurale, ma s’impegna in valutazioni
sostanziali riguardanti il peso dei valori in gioco.
10
9
collocare se stesso sotto una legge naturale perfino nonostante il fatto che non via sia nulla di
normativo al di fuori della libertà”11.
La cultura della modernità avanzata per usare la terminologia di Macintyre, desidera un ordine
fisso di diritti per proteggere un humanum fluido e riformulabile. L’umano indeterminato, evacuato
di contenuto antropologico, pone la cornice per le dottrine contemporanee della legge naturale e
dei diritti naturali. Una volta la libertà negativa (libertà da) implicava un’antropologia forte, cioè
che certi beni umani dovevano essere protetti dall’intervento del potere dello Stato. In questa
prospettiva la libertà negativa non implicava necessariamente scetticismo sulla natura umana né
scetticismo sulla situazione dell’uomo posto sotto una legge più elevata. Oggi, tuttavia, la libertà
umana è ancorata ad un’antropologia negativa, l’uomo è lasciato alla sua libertà per costruire la sua
natura. In sintesi: non si può abbandonare la legge naturale se non si vuole che lo Stato legiferi
secondo modalità che pregiudicano le nostre libertà; allo stesso tempo la coscienza non può avere
alcuna norma eccetto che per una natura umana riformulabile .
Come afferma il filosofo francese Pierre Manent “la natura umana è una cifra, un’efficace
indeterminazione” che permette una zona di libertà in cui l’individuo “può affermare se stesso
senza conoscersi”. Questa nuova posizione dovrebbe costituire la fine del discorso sulla legge
naturale, molto meno di quello sui diritti umani. Piuttosto è diventata la piattaforma per un diritto di
costruire privatamente che cosa significhi essere umani.
Nota sempre Hittinger: “Anche coloro che negano la legge naturale in teoria, l’abbracciano in
pratica. Ma questa nozione è assunta senza un’antropologia adeguata del bene umano e senza il
riconoscimento di una legge più elevata del nostro stesso giudizio”12.
Conclusioni:
Oggi il tema del diritto naturale riemerge ambiguamente con il proliferare dei diritti, ma anche di
fronte al rischio dell'applicazione indiscriminata delle biotecnologie all'uomo e di fronte ai problemi
posti dal pluralismo culturale.
Come notato, nell’ approccio al tema della natura vi sono due rischi: il rischio della eccessiva
sottodeterminazione o quello della eccessiva sovradeterminazione della nozione di natura.
Entrambe le posizioni non colgono la complessità dell’uomo. Già per Aristotele tra la natura come
fatto biologico e la natura vera e propria, intesa come completa realizzazione, vi è un legame: la
prima trova il suo compimento nella seconda; quest’ultima a sua volta non potrebbe sussistere senza
11
12
Relazione in via di pubblicazione
Ibid.
10
il supporto della prima. Gli approcci che fanno capo alla sottodeterminazione e alla
sovradeterminazione della natura sono da questo punto di vista due facce della stessa medaglia: essi
assumono il concetto di natura in modo unilaterale, mancando di scorgerne la pluralità di significati
e di valenze (cfr. A. Da Re, Percorsi di etica, Il Poligrafo, p. 52). In sintesi: l’uomo va interpretato
come narrazione, come percorso e destinazione non pienamente dominabili: un essere lanciato
verso l’infinito.
Come nota Julia Annas: “Il ricorso alla natura …è anche un richiamo a un ideale , un ideale etico
articolato da una teoria etica in termini tali da essere in grado di individuare, di criticare e di
modificare quegli elementi delle mie opinioni etiche che si basano su mere convenzioni” (La
morale della felicità, Vita e Pensiero, Milano 1996. p. 197).
È possibile e produttivo in etica un riferimento alla natura, purché non sia un riferimento diretto.
Un riferimento diretto alla natura rischia di essere la giustificazione ideologica di uno stato di fatto
(es. la schiavitù per Aristotele).
La razionalità pratica e il sapere pratico indagano se ciò che a prima vista appare naturale sia anche
effettivamente buono, corrisponda a quella realizzazione piena che va ben al di là della riproduzione
della mera datità naturale, perché implica l’esplicitazione della razionalità e della libertà dell’uomo.
L’etica è chiamata a svolgere un ruolo ricostruttivo e non meramente riproduttivo di ciò che già
sarebbe preventivamente determinato. Il riferimento diretto alla natura è inadeguato perché presume
di poter fare a meno della funzione interpretativa, ricostruttiva e critica della ragione, è cioè
preoccupato di certificare subito che cosa sia buono (perché secondo natura) o cattivo (in quanto
contrario a natura, perché ad esempio artificiale). Un riferimento invece indiretto alla natura,
mediato dalla razionalità, può ad esempio accertare la moralità, a determinate condizioni
dell’artificiale.
Occorre ricordare che già per Tommaso la ragione pratica considerando ordinem facit, ovvero
“conoscendo, pone ordine”13. V’è, quindi, sempre conoscenza del reale, della natura (la ragione
considerat), ma muta il fine rispetto alla razionalità meramente speculativa (si tratta di informare la
realtà, l’agire, non meramente di riconoscerla – la ragione ordinem facit nella natura).
E infine alcune indicazioni sommarie di lavoro:
a) Come si è accennato al tema del proliferare dei diritti. Occorre ripensare l’antropologia, in
particolare l’antropologia filosofica che diventa oggi una disciplina centrale, alla luce delle scienze
e della filosofia,
13
Cfr. In Eth. I, 1, 15-24.
11
- quindi l’uomo soprattutto nel suo nesso psiche-corporeità, sottolineato fortemente da certa
fenomenologia del Novecento (e da Spaemann nel suo libro Persone. Sulla differenza fra qualcosa
e qualcuno, Laterza, Roma –Bari 2006), e nei suoi nessi
- il tema io-altri, con il tema del desiderio come desiderio dell’altro e apertura all’infinito
- il tema uomo-sviluppo tecnico che incide sull’uomo. Lo sviluppo tecnologico oggi vertiginoso
non è semplicemente un mezzo. Un interrogativo s’impone: come il desiderio di senso, di
riconoscimento riemerge nonostante e attraverso il mutamento che la tecnologia produce
nell’uomo?
- il tema natura umana -storia.
Possiamo affermare tranquillamente, per esempio, non in forza della statistica, che l’uomo ha
bisogno per essere sé stesso, per essere autentico [Charles Taylor], cioè “per natura”, di un rapporto
stabile di riconoscimento gratuito con altri. In forme più o meno eticamente convenienti questi
rapporti si ritrovano in ogni cultura. Da questa tesi si possono trarre implicazioni coerenti e
diversificate nei vari contesti storici grazie alla razionalità etica che interpreta e all’educazione
virtuosa che rende saggi.
c) Non a caso occorre ricordare, infine, che il tema della legge naturale, della dimensione normativa
dell’etica non è mai stato considerato dai grandi classici come staccato dal tema della virtù e della
saggezza pratica, quindi dal tema dell’educazione. Questo è il rischio di una sovradeterminazione
della natura, rischio opposto e forse complementare rispetto a quello della sua sottodeterminazione.
Salvaguardare la natura significa qui salvaguardare il contatto dell’uomo con la realtà, quella
introduzione alla realtà che è compito proprio dell’educazione e dell’educazione morale in
particolare. La legge da sola non è motivante. Si tratta anche del grande tema dell’etica
contemporanea riguardante le modalità per superare lo iato ragioni/motivazioni per agire. Questa è
la parte di verità presente, per esempio, nella proposta del Macintyre di Dopo la virtù.