Leggi di guerra di Giuseppe Pelazza, avvocato milanese. Pubblicato su Senza Censura n. 7 - febbraio 2002 La guerra globale iniziata dagli Stati Uniti d'America prosegue ormai da mesi, e produce i suoi effetti devastanti non soltanto sul piano della violenza dispiegata dai militari (sulla quale peraltro, i mezzi di informazione nulla di completo ci dicono), ma anche sul piano del rimodellamento degli ordinamenti interni degli Stati occidentali. E', quindi, il caso di occuparsi, anche se sinteticamente, delle modifiche profonde che sono state introdotte nel tessuto giuridico delle cosiddette "democrazie". E questo, non per gridare a quanto sia cattivo il nemico, ma per avere una occasione di riflessione sugli ambiti nei quali ci troviamo a muoverci, ambiti che spesso già in passato, si sono modificati senza che noi ne avessimo l'esatta, e profonda, percezione. Intendo, qui, riferirmi al disegno di riorganizzazione delle forze armate (partito nel 1990), finalizzato alla costruzione dell'esercito professionale proiettato in campi d'azione esterni al nostro territorio, con l'obiettivo di difendere non la "Patria", così come dice l'art. 52 della Costituzione - collegato all'art. 11 che ripudia la guerra, ma gli interessi economici delle imprese italiane, la disponibilità di materie prime e fonti energetiche a costi convenienti, l'ordine internazionale funzionale al dominio del mercato (e cioè delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie). Intendo riferirmi, ancora ad esempio, alla introduzione nel nostro ordinamento degli elementi di un diritto differenziato per nazionalità, "speciale" nella clamorosa violazione di storici principi di civiltà giuridica, che ha portato alla creazione e diffusione dei campi di detenzione amministrativa. Intendo, infine, riferirmi alla esperienza concreta delle guerre, cui l'Italia ha partecipato, contro l'Iraq prima, contro la Repubblica Federale Jugoslava, poi, esperienza che ha devastato il nostro sistema costituzionale, e che si è, altresì, sottilmente introdotta, a livello psicologico di massa ed anche, in embrione, ordinamentale, come modello di relazione fra potere dello Stato e settori sociali antagonisti (soggettivamente od anche solo oggettivamente) o, più semplicemente, devianti rispetto agli schemi imposti. Bene, tornando all'oggi, ed all'esigenza di consapevolezza di quest'oggi, veniamo a considerare, così come dicevo, cosa succede sul piano del diritto. E partiamo da alcuni dati che riguardano lo Stato "guida", gli USA: qui, dopo l'11 settembre, ha avuto inizio una consistente produzione normativa che, fra l'altro, ha introdotto la possibilità di detenzione provvisoria di qualunque non-cittadino statunitense (alien) per un periodo, anche di più mesi, senza bisogno di prove incriminanti. Il Congresso ha poi varato una nuova legge antiterroristica, anch'essa mirata a colpire soprattutto gli stranieri, con la previsione, addirittura, della detenzione obbligatoria di qualsiasi straniero sia stato definito presunto terrorista dal ministro della giustizia. Tale legge dà, altresì, spazio alla possibilità di espulsione o di incarcerazione a tempo indeterminato per qualsiasi straniero che fornisca aiuto umanitario, sostegno materiale ad associazioni definibili terroristiche secondo una nozione "talmente ampia e talmente vaga da poter includere i movimenti di liberazione come l'African National Congress sudafricano, gruppi quali l'Ira in Irlanda, e anche associazioni non violente della società civile come Greenpeace" (così Michael Ratner "Le libertà sacrificate sull'altare della guerra" in Le Monde Diplomatique - Il Manifesto 15.11.2001). Senza dilungarci ulteriormente, ricordiamo le ulteriori norme in tema di intercettazioni (potranno essere utilizzati anche sistemi informatici in grado di ispezionare tutta la posta elettronica che passi attraverso un server), i nuovi poteri di "infiltrazione" di agenti in organizzazioni da controllare, la criminalizzazione di chi non informa l'Fbi dei suoi "ragionevoli sospetti" su persone che possano essere sul punto di commettere un atto terroristico (la vaghezza e indeterminatezza della disposizione è davvero esemplare). Ma, possiamo dire, il vero centro dello scardinamento della democrazia sta nella istituzione, con Ordine Presidenziale del 13 novembre 2001, dei Tribunali militari speciali: questo provvedimento, innanzitutto, pone alla base della attività c.d. antiterroristica le Forze armate ("per identificare i terroristi e chi li sostiene, disgregare la loro attività ed annullare la loro capacità di condurre attacchi"), sottopone alla giurisdizione (se così si può chiamare) di Commissioni Militari (cioè, Tribunali Speciali) i non cittadini che anche soltanto - in qualunque parte del mondo - avessero "l'intento di causare danneggiamenti o effetti comunque avversi agli Stati Uniti, i suoi cittadini, la sicurezza nazionale, la politica estera o l'economia"; prevede di non applicare alle Commissioni Militari " i principi di legge e le norme che regolano l'acquisizione delle prove"; stabilisce che il "potere detentivo" spetta al Segretario della Difesa (che designerà appositi luoghi, entro o al di fuori degli Usa), così come la giurisdizione delle Commissioni Militari è definita "del Segretario della Difesa", cui compete di stabilire "le procedure che riguardano l'istruttoria, il processo e la sentenza, l'acquisizione delle prove", ed il potere di "riunire le commissioni militari in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo". Il verbale del procedimento, verdetto e sentenza inclusi, saranno, infine sottoposti "per ogni revisione e decisione finale" al Presidente o, su sua delega, al Segretario alla Difesa. Dunque non residua più nulla della classica tripartizione dei poteri, né del diritto internazionale in tema di rapporti fra diversi ordinamenti statali. Il presidente USA crea una "struttura" giurisdizionale con pretesa di competenza territoriale sull'intero globo, che, a sua volta, è direttamente gestita dall' Esecutivo. E' perciò esatto il commento di Domenico Gallo: "Qui ci troviamo di fronte più che a una struttura giudiziaria, ad uno strumento per la prosecuzione della guerra con altri mezzi: una sorta di attrezzatura legale che consente all'apparato di continuare l'azione offensiva intrapresa con i bombardamenti" (in Il Manifesto 15.11.2001). Avrebbe forse un senso, allora, allargare il discorso ad un'analisi generale sulla intima natura dello Stato e del diritto, e sulla necessità di non cadere nelle trappole ideologiche che ce li vogliono presentare come "neutrali". Ma scopo di questo intervento è soprattutto quello di fornire dati. Si può, forse, aggiungere che un simile meccanismo, e le sue concrete modalità di attuazione, forniscono al mondo un'immagine di terribilità e assolutezza del potere Usa: a Guantanamo si sommano gli schemi della deportazione, dell'imprigionamento senza accuse e per "identità", della tortura, della riaffermazione di un potere coloniale sul territorio di uno degli ultimi stati socialisti rimasti. E questa immagine è, probabilmente, volutamente rilanciata per compensare, in modo primitivo ma mirato al profondo, quella delle due Torri e, soprattutto, quella - già censurata - del Pentagono in fiamme e dell'Air Force One allo sbando nei cieli americani. Gli strateghi della guerra, si occupano, cioè, anche dell'immaginario. Il filo delle modifiche legislative all'insegna della guerra si dipana, poi, anche in altri Stati occidentali. In Inghilterra, ad esempio, ricorrendo all'art. 15 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, articolo che consente di derogare, in caso di guerra, agli obblighi imposti dalla Convenzione stessa, è prevista la disapplicazione dell'art. 5 in tema di controllo dell'autorità giudiziaria sulla privazione della libertà, e viene introdotta la detenzione amministrativa per i "sospetti". Più specificamente, l'Anti-Terrorism Crime and Security Bill, fra le altra norme, "prevede la possibilità di detenere a tempo indefinito (art. 21) gli stranieri che, sulla base di un decreto del ministro dell'interno, siano dichiarati sospetti di far parte di un'organizzazione terroristica, di sostenerla, di esserne simpatizzanti o anche solo di avere un qualsiasi legame con membri di tale organizzazione (art. 21, II)..." (Alessandro De Giorgi "Contro il nemico interno" in Guerre e Pace n.86, febbraio 2001). Paradossalmente tale detenzione a tempo indeterminato è applicabile a quegli stranieri che non possono essere processati in Inghilterra proprio perché gli elementi a loro carico sono insufficienti! In Canada, il nuovo Public Security Act stabilisce che si può dichiarare una qualsiasi area del territorio "zona di sicurezza militare", procedendo quindi all'allontanamento forzato di chiunque non sia stato autorizzato ad entrare; ed è chiaro come tale disposizione sia del tutto funzionale alla organizzazione del G8 del prossimo giugno. In Spagna si è cercato, e si cerca, di far rientrare nella categoria di "organizzazione terrorista" i gruppi legali di sostegno ai detenuti politici baschi e le organizzazioni giovanili vicine ad Herri Batasuna. Ma consideriamo, ora, quanto è successo in Italia. Il 18 ottobre 2001, "ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto nei confronti del terrorismo internazionale prevedendo l'introduzione di adeguate misure sanzionatorie e di idonei dispositivi operativi" è stato emanato il decreto legge n. 374, poi convertito, con alcune modifiche, nella legge 15 dicembre 2001 n. 438: vediamone alcuni aspetti essenziali. All'interno dell'art. 270 bis del codice penale (articolo introdotto nel dicembre 1979 dal c.d. decreto Cossiga, e che già puniva le associazioni con finalità di terrorismo) è stata inserita anche l'ipotesi di associazione con finalità di "terrorismo internazionale". Con l'occasione sono state ulteriormente inasprite le già pesanti pene: si è passati da un minimo di 4 ad un minimo di 5 anni, e da un massimo di 8 ad un massimo di 10 anni, e questo per la partecipazione semplice. Per comprendere la furia repressiva, si pensi che il legislatore fascista, con l'art. 306, colpiva con pene da 3 a 9 anni chi partecipava al ben più agguerrito sodalizio definito, appunto, come "banda armata". Ma il nodo della questione è l'indeterminatezza con cui viene indicato il comportamento punito, che pare realizzato dal semplice "proporsi" il compimento di atti di violenza con le finalità in questione, e quindi si tende a criminalizzare anche la semplice intenzione. Inoltre, poi, è del tutto indeterminato anche il tipo di atti di violenza che l'associazione dovrebbe voler compiere. Del resto questa grave violazione dell'art. 25 Cost. (la indeterminatezza della condotta) già connotava il cossighiano art. 270 bis, ma ben pochi se ne sono lamentati. Dalla riformulazione, attuata dalla legge, della nozione generale della finalità di terrorismo, consegue anche che per gli "atti di violenza... rivolti contro uno stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale" si applica l'aggravante prevista dall'art. 1 del già ricordato decreto Cossiga, aggravante che determina un aumento di pena della metà, con impossibilità di cancellare l'aggravante medesima (come invece succede per le aggravanti ordinarie) con il riconoscimento di attenuanti. E le parole usate dal legislatore sembrano proprio voler rendere possibile l'equiparazione tra qualunque tipo di violenza contro Stati esteri od organismi internazionali e la finalità di terrorismo: questo, evidentemente, consentirebbe di colpire pesantemente non soltanto gli associati a gruppi ristretti, bensì i partecipanti a movimenti di massa con connotazioni internazionaliste. Novità della legge è, poi, l'introduzione, nel codice penale, dell'art.270 ter, che punisce, con pena fino a 4 anni, chi "fuori dei casi di concorso nel reato e di favoreggiamento, dà rifugio o fornisca vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione" a chi partecipa alle associazioni punite dall'art. 270 bis e dal vecchio art. 270 CP (associazione sovversiva "semplice"). La preoccupazione è dunque quella di colpire comunque chi è contiguo alla sovversione (si pensi che l'art. 270 CP era stato strutturato per colpire, nel ventennio, comunisti, socialisti massimalisti ed anarchici), e non contano, per il nostro legislatore, gli effetti paradossali: è punito più pesantemente chi accompagna in auto un "associato sovversivo", che l'associato sovversivo stesso; o, ancora, è più conveniente, sul piano della pena, fornire vitto e alloggio a un partecipe di banda armata (pena fino a due anni - art. 307 CP), piuttosto che ad un soggetto che faccia parte di un'associazione "diretta a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre" (pena fino a 4 anni). O forse, in quest'ultimo caso, c'è il recupero, da parte del legislatore, della consapevolezza che l'ideologia e la teoria politica possono essere assai pericolose? E che, quindi, intorno ad esse bisogna fare terra bruciata? L'art. 3 della legge prevede, quindi, che anche nel corso delle operazioni di polizia relative a delitti con finalità di terrorismo, sia possibile procedere a perquisizioni per "blocchi di edifici", con facoltà di sospendere "la circolazione di persone e di veicoli nelle aree interessate": qualcosa di simile al rastrellamento, dunque. L'art. 5 introduce la possibilità delle cosiddette "Intercettazioni preventive", già previste per i reati di mafia, anche per i reati con finalità di terrorismo con pene non inferiori nel minimo a 5 anni e nel massimo a 10. Tali intercettazioni (anche telematiche, anche ambientali e in domicili privati) non sono limitate a chi è sottoposto ad indagini, ma sono ammissibili in via generale "quando sia necessario per l'acquisizione di notizie concernenti la prevenzione" dei delitti in questione: è chiaro, a questo punto, che chiunque e qualunque ambiente può essere oggetto di intercettazione. Non è quindi un caso che sulla rivista Guida al Diritto (nr. 50 del 29 dicembre 2001), un Maggiore dei Ros dei Carabinieri esprima soddisfazione perché "appare ancor più evidente... che si voglia concretamente inaugurare la nascita di una fase di investigazione preprocedimentale o extraprocedimentale", una fase cioè (commento io) del tutto al di fuori dello schema, e della finalizzazione, processuale. D'altra parte la tendenza a fare della procedura penale una procedura soprattutto di polizia, è comprovata dall'art. 4, che introduce, senza più alcuna forma di pudore, la disciplina delle "attività sotto copertura" della Polizia Giudiziaria. Tali attività sono disposte dal Capo della Polizia, dal Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri o della Guardia di Finanza ed effettuate dagli organismi investigativi di tali corpi "specializzati nell'attività di contrasto al terrorismo o all'eversione". Il Pubblico Ministero deve soltanto essere preventivamente informato: il fine delle operazioni è l' "acquisire elementi di prova in ordine ai delitti commessi per finalità di terrorismo", e gli operanti non sono punibili se "anche per interposta persona acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato, o altrimenti ostacolano l'individuazione della provenienza o ne consentono l'impiego". Proprio quest'ultima frase rende evidente la possibilità, per tali agenti, di concorrere nei delitti commessi, ad esempio, con le armi: con questa ampia previsione di non punibilità è, insomma, prevista espressamente l'attività di infiltrazione/provocazione (con la connivenza, si badi, della magistratura). Parallelamente, poi, alla disciplina di queste attività della Polizia, pare che la riforma dei Servizi Segreti in corso di elaborazione, attribuisca a questi ultimi impunità per una serie ben maggiore di delitti (sembrerebbero esclusi solo gli omicidi e le lesioni personali - cfr. La Repubblica del 27 novembre 2001). Infine, l'art. 10 bis compie un primo passo verso la creazione, per i delitti in questione, di un Pubblico Ministero e di un Giudice per le Indagini Preliminari, "speciali", giacché stabilisce la competenza di PM e GIP non presso il Tribunale competente, bensì del capoluogo del distretto. Ovviamente, tutta questa normativa inerente i reati con cosiddetta finalità di terrorismo, si intreccia con la definizione di terrorismo che sarà data a livello europeo, a proposito della quale è più che lecito avanzare serie preoccupazioni, considerato quel che si legge circa il riferimento, quali atti di terrorismo, anche alle occupazioni abusive o ai danneggiamenti di infrastrutture statali e pubbliche, mezzi di trasporto, luoghi pubblici e beni, ovvero anche all'intralcio o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse fondamentali. Così come si intreccia con la elaborazione, sia da parte USA che da parte Europea (gli elenchi predisposti da quest'ultima non sono ancora noti), di elenchi di organizzazioni definite terroristiche: ricordiamo, ad esempio, che negli elenchi USA rientrano anche PKK, FPLP, FARC: se l'Italia, e la sua magistratura, si adeguassero, chi ospita taluno degli appartenenti a queste organizzazioni sarà punito ai sensi dell'art. 270 ter CP. Certo che il terreno viene alacremente preparato. Ancora, sul piano europeo, è anche utile tener conto delle innovazioni che si determineranno con l'entrata in funzione del "mandato di arresto europeo". Basti pensare che tale normativa (cfr. Proposta di Decisione Quadro del Consiglio n. 501PCO522 del 19.09.2001) prevede il pressoché automatico riconoscimento, ed esecuzione, delle sentenze e dei provvedimenti di cattura delle autorità giudiziarie di qualunque paese dell'Unione, senza alcun controllo né sul merito né sulle procedure (per mettere a fuoco la rilevanza della questione, è sufficiente ricordare la comunità degli "esiliati" italiani in Francia, da lì non estradati proprio perché, all'epoca, era prevista questa valutazione sul merito, non solo giudiziario, ma anche politico). La proposta di Decisione Quadro prevede poi la abolizione, quantomeno per una serie di reati, del principio della "doppia incriminazione", per il quale l'estradizione era possibile solo se i fatti posti a base della richiesta erano previsti come reato anche nel paese "richiesto". Per giunta le poche cause che potranno essere addotte a sostegno del rifiuto a consegnare sono elencate tassativamente, e fra queste, come prevedibile, non è ricompresa la natura politica della imputazione, con buona pace degli artt. 10 e 26 della nostra Costituzione, che invece non ammettono l'estradizione, nè del cittadino nè dello straniero, per reati politici. La produzione legislativa italiana legata alla guerra ricomprende anche le normative concernenti le "Disposizioni sanzionatorie per le violazioni delle misure adottate nei confronti della fazione afghana dei Talebani" (Decreto Legge 28.09.2001 n. 353 convertito con legge 27.11.2001 n. 415). Tali norme sono strettamente collegate ad altre di derivazione europea ed internazionale (Consiglio di sicurezza ONU): con esse si punisce chi contravviene alle disposizioni, previste dal Regolamento della Comunità Europea del 6.3.2001 n. 467, di blocco dei beni appartenenti alle persone e agli enti individuati dal Comitato per le sanzioni (istituito dal Consiglio di Sicurezza). Quello che impressiona è che, in sostanza, tale insieme di norme colpiscono una "collettività politico/religiosa", disponendo misure anche contro specifiche persone fisiche. E', in questo modo, escluso dal consorzio civile chi appartiene ad una comunità "nemica", e l'individuazione delle persone è effettuata, al di fuori di ogni garanzia giurisdizionale, dal comitato per le sanzioni. Questa "messa al bando", decretata, in sostanza, per via politico/amministrativa, suscita ricordi di un terribile passato e lancia preoccupanti ombre sul futuro... *** Queste "leggi di guerra", d'altra parte, si inseriscono in un contesto che già le stava preparando: la forma militare della repressione aveva, in Italia, avuto, ad esempio, un ulteriore e decisivo riconoscimento con la dalemiana legge di riordino dell'Arma dei Carabinieri (Legge delega 30 marzo 2000 n. 78), che ne ha enormemente accresciuto l'autonomia ed il potere di controllo sulla società tutta. Peculiare, peraltro, è il fatto che una Forza Armata sia la più numerosa ed importante polizia del paese, contemporaneamente svolgendo esclusivi compiti di polizia militare e di corpo speciale destinato a ruoli bellici. Senza approfondire l'argomento (ben trattato da Gaspare De Caro - Roberto de Caro ne "La sventurata rispose. La sinistra e l'Ordine pubblico" in Guerra Civile Globale, edizioni Odradek, 2001), ricordiamo soltanto, come il 1° comma dell'art. 6 del successivo decreto di riordino affidi agli organi di polizia militare (cioè ai Carabinieri stessi) l'"azione di contrasto, di natura tecnico-militare delle attività dirette a ledere l'efficienza e il regolare svolgimento dei compiti delle Forze Armate", e come, su questa base, il Comando Generale dell'Arma abbia affermato, in suoi documenti interni, che "tra i compiti primari della Polizia Militare rientra anche fronteggiare la cosiddetta minaccia o guerra non ortodossa attuata nelle seguenti forme: "spionaggio, sabotaggio, sovversione, terrorismo, guerriglia, guerra psicologica, ingerenza, propaganda, influenza, disinformazione, separatismo..." (ibidem, pag.205). Ma è poi la complessiva organizzazione della società ad essere stata spinta, come già accennavo all'inizio, in una logica, se non di guerra, di "nemicità", con la legislazione sull'immigrazione. D'altra parte abbiamo visto che l'ulteriore imbarbarimento di questo settore normativo costituisce un elemento trainante, e comune a vari paesi, della produzione legislativa successiva all'11 settembre. Forse, allora, è lecito pensare che la guerra, seppure in modo con conclamato, era da tempo già in atto, e non solo a livello economico con lo strangolamento del Sud del mondo, ma anche con articolate scelte istituzionali, organizzatrici di "società differenziate" all'interno del nord, "società differenziate" essenziali (come lo sono le ricchezze e le fonti energetiche dei paesi di provenienza dell'immigrazione) al funzionamento della macchina capitalista. *** In conclusione vi è un ultimo dato da ricordare: con decreto legge 1.12.2001 n. 421 ("Disposizioni urgenti per la partecipazione di personale militare all'operazione multinazionale denominata ""Enduring Freedom"") si è stabilito (art. 8) che "Al corpo di spedizione italiano che partecipa alla campagna per il ripristino ed il mantenimento della legalità internazionale (sic!) denominata ""Enduring Freedom""... si applica il codice penale militare di guerra, approvato con regio decreto 20 febbraio 1941 n. 303". Ora, dunque, la guerra non è più un tabù e può essere (a differenza che nelle precedenti aggressioni all'Iraq ed alla RFJ) finalmente rivendicata. E si pensi che, se con la legge di conversione è stato abrogato l'art. 87 del cod. pen. Militare di guerra che puniva chiunque "profferisce parole di disprezzo o invettive contro la guerra", di articoli "incredibili" ne rimangono in vigore una bella serie: pensiamo, ad esempio, all'articolo 86, che punisce con la reclusione non inferiore a dieci anni (non inferiore a quindici se militare) "chiunque commette un fatto diretto a indurre il Governo alla sospensione delle ostilità o alla cessazione della guerra"! Infine, se tuttora il codice di guerra è dichiarato applicabile ai soli militari, la legge di conversione (n.6 del 31.01.2002) ne ha esteso l'applicabilità anche "al personale militare di supporto del corpo di spedizione che resta nel territorio nazionale", e ha altresì previsto che "sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all'estero per operazioni militari armate" qui ricomprendendo tutti "i casi di missioni militari all'estero, siano essi di peace keeping, di intervento umanitario, di legittima difesa collettiva, o come altrimenti qualificate a seconda delle contingenze" (così Roberto Rivello, in Guida al diritto n. 6/2002, pag. 28). Insomma, venuto meno il tabù, si può anche implicitamente riconoscere, con l'applicazione del codice di guerra, che le missioni di intervento umanitario, tanto umanitarie non sono... *** Guerra dispiegata all'esterno, guerra silenziosa all'interno, distruzione delle forme della democrazia borghese: tutto questo è solo segno della volontà di dominio senza più limiti, o, forse, può essere sintomo di una, giustificata, "imperiale" paura? [Articolo già pubblicato sul n° 10 di Rosso XXI°]