incompletezza e liberta`. nota critica di filosofia della scienza sulle

Incompletezza e libertà
Nota critica di filosofia della scienza
sulle riflessioni di P. Bellavite e M. Zatti
Paolo Musso
The recent attempt by P. Bellavite and M. Zatti to compare human freedom with chaotic
dynamics is critically discussed in this essay which, in three points, makes a precise distinction
berween cause in an physical sense and cause in an ontological sense, indicating the different
outcomes of a theory according to whether one applies an ontological or epistemological
perspective.
Il tentativo di mettere la libertà umana in relazione con (o addirittura di fondarla su) fenomeni di
incompletezza e/o indeterminazione, fatto recentemente da Bellavite e Zatti (BELLAVITE-ZATTI, Il
paradigma della complessità nelle scienze e in medicina, Nuova Secondaria), non è in realtà
nuovo, come anche gli autori riconoscono. Il precedente di gran lunga più celebre è senz'altro
quello di Sir John Eccles, il quale, insieme a Karl Popper (L'Io e il suo cervello), ritenne di poter
identificare l'interconnessione tra i due mondi -quello fisico, dominato dalla necessità, e quello
spirituale, dominato dalla libertà- nei processi sinaptici, in virtù del fatto che ciascuno di essi è
causato da un singolo evento quantistico ed è perciò sottoposto al principio di indeterminazione di
Heisenberg. Ma anche altri hanno battuto questa strada (per esempio Bartholomew, che vi cerca
anche una soluzione al problema del dolore abbastanza simile a quella dei nostri autori, e, più
recentemente, Meinzer e, in parte, Basti e MacKay).
La novità di Bellavite e Zatti, come anche da loro stessi dichiarato, sta principalmente nell'aver
riproposto tale soluzione con riferimento alle dinamiche caotiche. Essa ha dei punti in comune con
quelle precedentemente proposte, ma anche degli elementi originali, che devono esere
attentamente valutati.
In primo luogo occorre a mio avviso distinguere tre differenti aspetti del problema, rispetto a
ciascuno dei quali la situazione non si presenta omogenea: in primo luogo la questione della
libertà in quanto tale; secondariamente quella della creatività, che attiene più propriamente alla
sfera della ragione; e infine il problema del dolore nel mondo e quindi della libertà creatrice di Dio.
LA LIBERTÀ
Rispetto a questo primo punto la soluzione proposta dai due autori si presenta ambivalente,
come del resto anche quelle precedenti: da un lato, infatti, essa, se presa alla lettera nella sua
formulazione attuale, non è a mio giudizio accettabile; d'altro canto, però, indica una prospettiva
interessante che può, con alcune correzioni (che, certo, impongono di rinunciare a qualcosa),
diventare pienamente percorribile.
Dirò quindi subito in cosa consiste il difetto fondamentale di questa posizione (e di tutte le altre
consimili). In poche parole, essa non tiene conto di questo: che una causa fisica, per quanto
piccola e/o indeterminata possa essere, resta comunque una causa fisica; e che, di conseguenza,
qualsiasi violazione del principio di conservazione dell'energia resta tale per quanto piccola e/o
indeterminata possa essere la causa che l'ha prodotta.
Quando perciò Bellavite e Zatti scrivono (p. 51) che "in conclusione si può fare l'ipotesi che
eventi mentali attraverso piccole perturbazioni potrebbero interferire per esempio sulla frequenza
del campo elettromagnetico che può modulare azioni di neurotrasmettitori, e infine modificare
dinamiche del sistema, attrattori e campi delle forme" (ipotesi, intendiamoci, in sé perfettamente
legittima e anzi, come vedremo, anche davvero utile, ma solo nella prospettiva modificata che
indicheremo) non hanno, in realtà, ancora risolto niente. Infatti delle due l'una: o tale "piccola
perturbazione" non è prodotta da una successione deterministica di eventi fisici (e allora comporta
comunque una violazione del principio di conservazione dell'energia, per quanto piccola,
imprevedibile, non determinabile e magari nemmeno constatabile: per cui che sia piccola non è
rilevante); oppure è prodotta da una successione deterministica di tal fatta (e allora gli eventi
mentali non hanno una reale autonomia, potendo esistere al massimo come epifenomeni privi di
efficacia causale, in quanto la "causa" ad essi collegata è in realtà interamente spiegabile
all'interno di tale successione: per cui che sia piccola non è rilevante). In ogni caso, che sia piccola
non è rilevante.
Questa obiezione, tuttavia, vale soltanto a livello ontologico, (dove, a mio parere, è
insuperabile: il problema infatti è se lo spirito ha o non ha una sua reale -e perciò autonomacapacità causale; se si ritiene di ammettere che ce l'ha, non si può poi pretendere di spiegarla
interamente all'interno delle leggi fisiche, "per la contraddizion che nol consente"). Se, viceversa,
accettiamo di spostarci al peraltro non meno importante livello epistemologico, ecco che la teoria
suesposta ritrova tutta la sua validità e la sua importanza. A questo livello, infatti, che la
perturbazione sia piccola è rilevante, per l'ottima ragione che noi la supposta violazione del
principio di conservazione non la constatiamo mai. E se è vero, come ho detto, che una teoria
metafisica (come è quella sulla libertà del volere) non può essere totalmente ricompresa all'interno
delle teorie fisiche, è però altrettanto vero che essa deve potervisi armonizzare, vale a dire non
può essere in palese contraddizione con esse (questo anzi è uno dei criteri più importanti per
discriminare tra soluzioni metafisiche buone e meno buone -o anche, come spesso accade,
decisamente cattive). Ora, ipotizzare che lo spirito abbia una sua autonoma efficacia causale sulla
materia (perlomeno su quella costituente il corpo umano) è solo apparentemente contraddittorio
con la teoria fisica che afferma la necessità della conservazione dell'energia: alla base di tale
teoria (o meglio, di tale postulato) non vi è infatti nient'altro che il vecchio principio logico-filosofico
per cui nulla viene dal nulla e ogni effetto deve avere una causa proporzionata. Certamente,
trattandosi di una legge fisica, il principio in questione richiede ancora, inoltre, che la causa
adeguata sia una causa fisica e che tra essa e il suo effetto sussista una precisa relazione
matematica: in questo senso, dunque, ci sarebbe senz'altro violazione. Tuttavia non ci sarebbe
contraddizione in senso profondo, perché non si sta qui negando la validità di tale principio
all'interno del suo ambito (cioè quando sono implicati soltanto enti del mondo fisico), ma solo la
sua validità assoluta (cioè quando entrano in gioco anche enti che al mondo fisico non
appartenengono), la quale non è giustificata da quegli stessi princìpi su cui esso si fonda. Lo
spirito umano infatti non è il nulla (una volta ammesso che esista ed abbia una propria realtà e
consistenza autonome) e sul fatto che possa o meno (e, se sì, eventualmente con quali limiti)
avere una causalità di questo tipo una teoria fisica nulla può dire per definizione, né in positivo, né
però tantomeno in negativo. Del resto, se così non fosse, portando il ragionamento alle sue
estreme conseguenze (che è sempre un ottimo metodo per verificarne la validità) si dovrebbe
arrivare a negare la possibilità stessa della Creazione (e difatti è proprio quello che fanno certi
fisici, che certo a mio avviso sbagliano, ma altrettanto certamente sono metodologicamente assai
meno incoerenti di quanto spesso si dice -anzi, secondo me sono molto conseguenti, spesso più
dei loro stessi detrattori). Ma se così stanno le cose in linea di principio, in linea di fatto è però
altrettanto vero (nel senso che è empiricamente constatabile) che, almeno finora, non si è mai
rilevata una violazione del postulato suddetto nell'ambito della nostra attività cerebrale: vale a dire,
non si è mai constatato un apporto di energia di entità rilevabile dai nostri strumenti la cui origine
non fosse esaurientemente spiegabile in termini esclusivamente fisici. Se quindi vogliamo (non per
capriccio, ma perché riteniamo di doverlo fare in base a ragioni valide, benché di tipo non
scientifico) tenere ferma la tesi dell'azione causale dello spirito sulla materia da un lato e, dall'altro,
non entrare in contraddizione con le nostre attuali conoscenze a livello scientifico non resta che
una soluzione: tale azione esiste, ma l'apporto di energia da essa determinato non è mai rilevato
dai nostri strumenti perché di entità tale da non essere rilevabile in linea di principio. Siccome la
sensibilità di tali strumenti è al giorno d'oggi elevatissima, ecco che diventa rilevante che sia
piccola.
Perché questa non sia soltanto una soluzione di comodo, tuttavia, è necesssario indicare dei
meccanismi precisi attraverso i quali un'azione della piccolezza richiesta possa produrre gli effetti
macroscopici desiderati: in caso contrario i detrattori avrebbero ragione a parlare di "teoria
metafisica" in senso deteriore. Di qui l'importanza (e non solo la validità) della proposta avanzata
da Bellavite e Zatti, che precisamente tali meccanismi individua (e che, devo dire, si armonizza
perfettamente con quanto da me sostenuto nella mia Filosofia del caos, Franco Angeli, Milano
1997).
Peraltro potrebbe forse non essere necessario nemmeno ipotizzare la violazione suddetta se
accettassimo la teoria di Eccles-Popper precedentemente citata (e dai nostri autori vista con
favore). Tuttavia bisogna rilevare che non è chiaro a tutt'oggi (anzi, è decisamente oscuro) che
cosa sia un "campo di probabilità" in meccanica quantistica e se, di conseguenza, per modificarlo
sia o no necessario un apporto di energia. Se la risposta fosse sì, ci ritroveremmo nella stessa
situazione di prima, non essendo rilevante, per le ragioni appena esposte, il fatto che tale apporto
possa essere non constatabile perfino in linea di principio. Se la risposta fosse no, l'ipotesi di
un'azione dello spirito sulla materia non implicherebbe più la violazione di alcuna legge fisica, ma il
dilemma non sarebbe con ciò risolto, bensì semplicemente (e drammaticamente) spostato nel
cuore della fisica stessa, perché bisognerebbe poi ancora spiegare come un campo privo di
energia possa influenzare fenomeni in cui l'energia invece è presente ed ha un ruolo decisivo. Va
peraltro ancora rilevato che una tale interpretazione sarebbe oggi vista con favore probabilmente
assai più dai fisici "eretici" sostenitori della teoria dell'"onda pilota" di Bohm-De Broglie che non da
quanti accettano la versione "ortodossa" della meccanica quantistica e che rappresentano la larga
maggioranza (anche se in fisica l'essere in maggioranza può di per sé non significare nulla). Può
anche darsi che questo sia un modo scorretto da parte nostra di vedere le cose e che in realtà
ogni ente fisico abbia per così dire un "lato" massivo-energetico e un "lato" informazionale, e che i
due interagiscano in un modo descrivibile matematicamente, ma non ulteriormente sondabile nella
sua natura profonda, in modo tale che sia possibile influire su uno di essi agendo sull'altro e
viceversa e anche, in certa misura ed entro certi limiti, predire l'esito di tali interventi, ma non
comprenderne il meccanismo sottostante. In ogni caso, anche qui si tratterebbe di interazioni a
livello microscopico, che non solo non escludono, ma anzi richiedono a gran voce l'intervento di
meccanismi di amplificazione. La teoria di Bellavite e Zatti non si pone dunque in alternativa con
quella di derivazione quantistica, ma in continuità con essa, come del resto sottolineato anche
dagli autori, e ne costituisce l'indispensabile e perciò meritorio completamento.
Va peraltro sottolineato ancora una volta, a conclusione di questo primo punto, quanto occorre
essere disposti ad abbandonare perché questo approccio si riveli corretto e quindi fruttuoso: e ciò
è costituito a mio giudizio dalla pretesa, che si dimostra infondata, che esso possa risolvere il
dilemma anche a livello ontologico, cosa che una teoria scientifica (per sua natura, e dunque tanto
più quanto più è una buona teoria scientifica) non potrà mai fare.
LA CREATIVITÀ
Che il caos deterministico abbia un ruolo importante nelle dinamiche neuronali e quindi
nell'attività cerebrale è certamente un fatto ormai dimostrato.
Che questo abbia un ruolo nel pensiero creativo non è altrettanto certo, ma è quantomeno
probabile. È perciò sostanzialmente corretto (anche se personalmente avrei preferito vedervi
aggiunto, appunto, un "probabilmente") dire, come fanno Bellavite e Zatti, che "la capacità del
cervello di rispondere in modo flessibile alle sollecitazioni del mondo esterno e di generare nuovi
tipi di attività, compreso il concepire idee nuove, è connessa [corsivo mio] alla tendenza di ampi
gruppi di neuroni a passare bruscamente e simultaneamente da un quadro complesso di attività
ad un altro in risposta al più piccolo degli stimoli" (p. 51). Ben altra cosa è invece dire, come fa
Klaus Mainzer nella citazione riportata subito prima (pp. 50-51), che "l'emergenza di stati mentali è
spiegata [di nuovo corsivo mio] dall'evoluzione di parametri d'ordine (macroscopici) di insiemi di
unità cerebrali che vengono causati da interazioni non-lineari (microscopiche) di cellule nervose in
strategie di apprendimento lontano dall'equilibrio termico". Questa è infatti un'affermazione di forte
sapore riduzionistico (benché probabilmente involontario, in quanto Mainzer nelle proprie
intenzioni non vuole affatto difendere il riduzionismo, ma semmai combatterlo) e, come vedremo
subito, tutt'altro che supportata dai fatti: non solo quelli fino ad oggi noti, ma anche tutti quelli che
abbiamo ragione di supporre che lo diventeranno in futuro. Tuttavia i nostri autori non paiono
vedere la profonda, essenziale differenza intercorrente tra questa affermazione e la loro,
precedentemente riportata, ed anzi sembrano, con ogni evidenza, farla propria. Tuttavia tale
differenza è importante, non soltanto in sé, ma anche, come vedremo, in relazione al discorso
sulla libertà. Pertanto occorre chiarirla esplicitamente.
Ora, in prima battuta bisogna rilevare che dinamiche analoghe a quelle descritte sono presenti
nel cervello di tutti gli animali, perlomeno di quelli cosiddetti "superiori": eppure non pare che
nessuno di loro abbia "idee nuove" (e, per vero, nemmeno semplicemente "idee", vecchie o nuove
che siano), perlomeno nel senso in cui le intendiamo parlando dell'uomo.
Ma perché questo dovrebbe accadere se tutto dipendesse soltanto dalla flessibilità e plasticità
delle dinamiche caotiche neuronali?
La risposta classica a questa obiezione è che il nostro cervello è "più complesso" del loro,
qualsiasi cosa ciò significhi (vorrei ricordare, en passant, che finora non esiste nessuna definizione
universalmente accettata e veramente soddisfacente di complessità: su questo problema, e su
una possibile sua soluzione, si veda il mio [1997]). Ora, in primo luogo, questo significa già
introdurre un criterio ulteriore (e di natura qualitativa) rispetto a quello enunciato: non basterebbe
più infatti, in questa prospettiva, richiamarsi alle proprietà generali e ormai ben stabilite delle
dinamiche caotiche in quanto tali, ma alle proprietà specifiche (attualmente ignote e in linea di
principio assai difficili da identificare) di particolari dinamiche caotiche di un determinato grado (a
sua volta ben difficile da definire) di complessità.
Ma soprattutto, in secondo luogo, prima ancora di affrontare il problema del pensiero creativo
occorrerebbe aver risolto quello del pensiero in quanto tale. E, a parte il fatto che da tale obiettivo
siamo (e forse resteremo sempre) ben lontani, proprio le cose che abbiamo imparato dallo studio
delle dinamiche non lineari ci porta a dubitare sempre più fortemente che la soluzione possa
essere rintracciata interamente all'interno di un modello fisico quale che sia, compresi quindi
(ovviamente) quelli basati sulle dinamiche non lineari stesse.
Ho detto "interamente" perché il problema più grosso nel caso del pensiero non sembra essere
tanto costituito dal fatto che esso appartenga ad un piano diverso da quello fisico, come
comunemente si pensa e come ha sempre sostenuto anche la stragrande maggioranza dei filosofi
non riduzionisti, quanto dal fatto che esso scaturisce dall'intersecarsi (in maniera complessa) di
tale "piano diverso" con il piano fisico.
È fuor di dubbio, infatti, che se si subiscono deterninati danni cerebrali anche la capacità di
pensare ne viene gravemente compromessa. Non si può pertanto sostenere che il pensiero sia un
fenomeno interamente non fisico. Al tempo stesso, però, è altrettanto difficile, alla luce delle nostre
attuali conoscenze, sostenere che esso sia un fenomeno interamente fisico. Proprio l'applicazione
all'Intelligenza Artificiale delle scoperte fatte nell'ambito della scienza non lineare ha, infatti, messo
in evidenza che queste dinamiche funzionano molto bene per quanto riguarda i processi di
cosiddetta pattern recognition, o riconoscimento di strutture significanti (quelle che i medioevali
chiamavano species sensibiles o species impressae): ma anche che proprio per questo non sono
di alcuna utilità per spiegare il processo che porta dalle immagini ai concetti astratti, i quali, proprio
in quanto astratti, non hanno (e non possono avere) alcun pattern fisico significativo associato
(naturalmente stiamo qui parlando dei concetti astratti in senso stretto, come "bene", "diritto",
"guadagno", "filosofo", "infinito", "Dio", ecc., e non dei semplici universali associati ai termini di
specie naturale, che proprio attraverso gli attrattori strani possono essere ricollegati -benché,
probabilmente, non per questo ridotti- a forme fisiche particolari).
È un fatto (e le ricerche più recenti lo hanno messo ancor meglio in evidenza, anche se in
fondo lo si era sempre saputo) che il pensiero in generale, e quello creativo in particolare, è
qualcosa di molto più complesso e di molto meno lineare che un semplice unire e separare
concetti secondo regole logiche e che in esso le immagini e le loro associazioni, spesso
apparentemente casuali e irragionevoli, hanno invece un ruolo essenziale. Ma è pure un fatto che
senza concetti astratti in senso stretto non potrebbero esistere la scienza, il diritto, la politica,
l'economia, la letteratura, la filosofia e la religione: vale a dire tutte le attività più propriamente e
caratteristicamente umane e nelle quali sono certamente coinvolti al massimo grado il pensiero e
la creatività. Sembra dunque che il pensiero come fenomeno globale abbia una base materiale,
sulla quale però s'innesta ad un certo punto (a quale punto e con quali modalità è un altro paio di
maniche) una componente -essenziale- che invece materiale non è.
D'altronde, se così non fosse non potrebbe neppure sussistere il discorso precedentemente
fatto a proposito della libertà. Se infatti, come abbiamo detto, per poter parlare di libertà in senso
proprio (e non meramente epifenomenico e perciò illusorio) è necessario ammettere nell'uomo
l'esistenza di una componente di natura non fisica e capace di agire, modificandola, sulla catena
di cause fisiche che determinano il nostro agire in un modo piuttosto che in un altro, ciò non può
d'altra parte essere totalmente estraneo ai meccanismi del pensiero: altrimenti il nostro agire
potrebbe sì ancora essere libero, ma soltanto a patto di essere altresi irrazionale. Se infatti il
pensiero fosse un fenomeno interamente fisico, esso sarebbe anche interamente determinato: e le
nostre scelte potrebbero quindi non esserlo a loro volta soltanto a patto di andare contro ciò che ci
appare, a livello teorico, l'unica conclusione possibile (e dunque l'unica razionale). Ma non è
questa la nostra esperienza quotidiana: chiunque sa bene, infatti, per averlo vissuto più e più
volte, che il dramma della libertà si gioca dentro il processo del pensare, non fuori o contro di
esso, qualunque cosa ciò possa voler dire (se pure, poi, vuole dir qualcosa).
L'unica conclusione compatibile con i fatti, con la nostra esperienza interiore e con il discorso
che stiamo cercando di sviluppare è pertanto che è certo verosimile, anzi assai probabile, che le
dinamiche non lineari abbiano un ruolo importante come base e quindi come condizione del
pensiero e in particolare del pensiero creativo, almeno così come noi lo conosciamo nella nostra
esistenza concreta di esseri umani; ma che questo è ben lungi dal descrivere esaurientemente (e
men che meno dal definire e spiegare nella sua intima essenza) il processo del pensare nella sua
interezza e globalità.
IL DOLORE
L'ultimo punto affrontato da Bellavite e Zatti nel loro articolo è il tentativo di trovare un senso al
dolore che possa armonizzarsi con la concezione cristiana di un Dio buono, onnipotente e
creatore. Il dolore a cui i nostri autori qui si riferiscono non è tanto quello imputabile alla cattiveria
umana, cioè all'uso distorto da parte dell'uomo della propria libertà: questo, infatti, per quanto
tragico possa essere, risulta però comprensibile, in quanto ha un responsabile chiaramente
individuato, che è per l'appunto l'uomo stesso e non Dio. Si può discutere (come in effetti si
discute, e non da oggi) sul perché Dio non intervenga per impedire almeno certi eccessi, ma in
ogni caso, anche per chi non la condivide, la ragione è chiara: è il rispetto della libertà dell'uomo,
premessa indispensabile perché possano "venire alla luce i pensieri dei cuori" e ognuno possa poi
ricevere il premio o il castigo in base al proprio comportamento. Si può cioè, per così dire, "non
condividere" l'operato di Dio in queste circostanze, perfino, al limite, ritenerlo crudele e inumano,
ma non comunque giudicarlo del tutto incomprensibile.
Diverso è invece, o almeno sembra esserlo, il discorso per quanto riguarda il dolore provocato
da eventi naturali, per i quali nessuno, se non Dio in persona, sembra poter essere responsabile.
È proprio a questo genere di dolore, il cui tipo paradigmatico è da essi indviduato nella
"incomprensibile sciagura", che si rivolge la riflessione di Bellavite e Zatti. I quali ritengono di
individuare la possibile soluzione in una "estensione del principio antropico" (secondo il quale
"perché fosse possibile la presenza di osservatori, quali noi siamo, questo universo doveva proprio
essere per tanti aspetti così com'è"), così formulata: "se gli osservatori, quali noi siamo, dovevano
essere dei soggetti dotati di libertà, allora era necessario che la stoffa dell'universo non fosse
strettamente condizionata da leggi deterministiche"; ma poiché "una materia non completamente
determinata nella successione degli eventi possibili […] è un congegno passibile di errore, ed
errore in biologia vuol dire spesso dolore", ecco allora che "l'estensione del principio antropico ci
consente dunque di dire: perché fosse possibile la presenza di osservatori liberi, quali noi siamo,
questo universo doveva essere così com'è, doveva essere luogo di dolore" (p. 52).
Anche in questo caso, come già in quello relativo al problema della libertà umana, tale tesi, se
presa alla lettera e in questa formulazione, risulta del tutto inaccettabile, e ciò sia dal punto di vista
scientifico, sia da quello filosofico, sia infine da quello più propriamente teologico; mentre con una
correzione analoga a quella proposta in precedenza può dischiudere una prospettiva interessante.
Ciò non a caso, ma in quanto pregi e difetti delle due soluzioni sono strettamente connessi,
dipendendo entrambi, come subito vedremo, dalle stesse ragioni di fondo.
In primo luogo, infatti, da un punto di vista strettamente scientifico la tesi sta in piedi soltanto ed
esclusivamente se si intende l'indeterminismo in senso "forte", cioè ontologico, come vera e
propria assenza di causa (di qualsiasi causa, e non semplicemente di una causa da noi misurabile
o comunque almeno determinabile). Ora, ciò è quantomeno discutibile nel caso della meccanica
quantistica, mentre è semplicemente falso per quanto riguarda il caos, che non a caso si chiama
deterministico: non per gusto del paradosso, ma perché tale è. Ma anche nel caso quantistico non
esiste, in realtà, nessuna ragione scientifica, né teorica né sperimentale, che ci costringa ad
adottare un indeterminismo ontologico e non solo meramente epistemologico, in quanto nessuno
dei suoi celebri paradossi è di per sé incompatibile con una (e generalmente anche più d'una)
interpretazione di tipo causale: tant'è vero che molte ne sono state effettivamente avanzate, anche
se nella maggior parte dei casi quelle fin qui proposte risultano sperimentalmente indistinguibili, e
perciò equivalenti (ma appunto: equivalenti, non "meno-valenti"), rispetto a quelle
indeterministiche. L'indeterminismo ontologico quantico è perciò una tesi metafisica nel senso
stretto del termine e come tale va giudicata: con il che però siamo ormai usciti dall'ambito
scientifico per entrare in quello filosofico.
Ora, da questo secondo punto di vista la questione si pone nei seguenti termini: posto che
esista un evento realmente indeterminato da un punto di vista fisico (sia esso quantistico o di altro
genere), o esso è del tutto privo di causa oppure ne ha una di tipo diverso, cioè non fisica. La
prima ipotesi è senz'altro da respingere, in quanto, prima ancora che falsa, è semplicemente priva
di senso, qualcosa che si può dire, ma non si può anche realmente pensare (un neopositivista
direbbe che non è una "formula ben formata" nel dominio del linguaggio umano): e, in ogni caso,
non ci illuminerebbe rispetto al nostro problema, in quanto non farebbe altro che sostituire ad un
incomprensibile (il dolore per il quale non riusciamo a trovare una ragione adeguata) un
incomprensibile di grado più elevato (la nozione, per noi inconcepibile, di un evento privo di
qualsiasi ragione). Resta l'ipotesi di una causa non fisica. Ma, a parte la libertà umana (che in
questo caso abbiamo escluso per definizione: il dolore di cui ci stiamo occupando, infatti, è proprio
quello caratterizzato dal fatto di non essere causato da noi), almeno per quanto ci è dato di capire,
ci restano soltanto due alternative: o una causalità diretta da parte di Dio (il che, oltre a finire in un
occasionalismo di sapore vagamente malebranchiano, era proprio ciò che i nostri due autori
volevano evitare) o una causalità attribuibile alla natura stessa, intesa come soggetto liberamente
agente. Ma una simile ipotesi, oltre a non essere certamente nelle intenzioni dei nostri autori, ci
porta subito in una selva inestricabile di paradossi e contraddizioni. Dovremmo infatti attribuire una
natura spirituale alla natura? E, se sì, alla natura nel suo insieme o a ciascuno dei suoi
componenti? O magari ad entrambi? E che dire dell'elettrone che, con una transizione quantistica,
produce una mutazione cancerogena? In che rapporti starebbero la sua volontà e quella
dell'organismo di cui è parte? E se la mutazione si rivelasse fatale Dio dovrebbe forse punirlo?
Esiste un inferno per gli elettroni? E per le meteoriti? Che dire di quella che ha sterminato i
dinosauri, ma ha permesso la nostra evoluzione? Le toccherà l'inferno o il paradiso? Forse un po’
di purgatorio potrebbe essere il giusto mezzo… In realtà queste domande non sono delle semplici
battute di spirito, ma al contrario le necessarie e inevitabili implicazioni dell'alternativa considerata.
La loro evidente e grottesca assurdità dovrebbe bastare a farci capire in quale considerazione la
dovremmo tenere. Il fatto è, però, che questa alternativa era anche l'ultima possibile per chi voglia
sostenere un vero indeterminismo ontologico. Il suo inglorioso fallimento sembra non lasciarci altra
scelta: un indeterminismo fisico ontologico coerente è impraticabile e perciò non resta che la
possibilità che esso sia, sempre e comunque, un indeterminismo epistemologico.
Da un punto di vista teologico, infine, e lasciando qui da parte le ben note e peraltro niente
affatto trascurabili critiche, di matrice sia laica (tipicamente: Voltaire) che religiosa (nientemeno
che San Tommaso d'Aquino), ad ogni teorizzazione del "migliore dei mondi possibili", in cui questa
tesi finisce per ricadere, occorre notare che essa conduce (oggettivamente, al di là delle intenzioni
degli autori) ad una posizione gnostica. Essa infatti equivale a ipostatizzare le leggi fisiche (che
invece, in sé, sono contingenti), facendone un assoluto superiore a Dio stesso (come vorrebbe
Stephen Hawking, e molti altri con lui), una specie di platonico Mondo delle Idee che si impone
come cogente e limitante rispetto alla libertà creatrice dell'Artefice (che non a caso per Platone è
soltanto un Demiurgo, un "plasmatore", e non un vero Creatore). Il che, in termini più brutali, ma
non per questo meno precisi, è un pò come dire che Dio è un deficiente: infatti non sarebbe stato
neppure capace, in questa prospettiva, di immaginare un mondo in cui la libertà non implichi
necessariamente la possibilità dell'"incomprensibile sciagura"; mentre perfino noi sappiamo farlo
benissimo.
E con ciò siamo arrivati al punto. Tutti i paradossi fin qui esaminati nascono infatti direttamente
dalla tesi centrale sostenuta da Bellavite e Zatti: che cioè "solo una stoffa materiale di questo tipo
[cioè indeterministica] può d'altra parte permettere l'esistenza di soggetti capaci di esercitare la
libertà in questo universo" (p. 52). Ma è proprio questo assunto che deve essere messo in
discussione: e, in base alle considerazioni già fatte in precedenza al punto 1), decisamente
respinto.
Come abbiamo visto, infatti, se la libertà esiste davvero e non è una semplice illusione non si
può fare a meno di ammettere una causalità dello spirito sulla materia, benché le modalità con cui
questa si esplica concretamente ci restino in gran parte oscure. Ciò posto, le dimensioni di tale
causalità sono un fatto assolutamente contingente: è un fatto che nel nostro universo, almeno a
quanto ne sappiamo e a meno di prendere senz'altro per buone le affermazioni di certi
parapsicologi relative a fenomeni paranormali estremamente eclatanti ma altrettanto poco
controllati, essa sembra avere un raggio d'azione e una potenza molto limitati; ma, appunto,
questo è niente più che un fatto: nulla vieta, in linea di principio, che possa esistere un altro
universo retto da leggi ferreamente laplaciane nel quale allo spirito umano possa essere concesso
di produrre effetti causali molto più ampi, con violazioni del principio di conservazione evidenti e
continue anche a livello macroscopico. Un tale universo sarebbe certamente molto diverso dal
nostro, ma (di nuovo: almeno per quanto ne sappiamo) non sarebbe in alcun modo logicamente
contraddittorio e la libertà vi sarebbe ugualmente salvaguardata. Ma in realtà, a ben vedere,
perfino nel nostro universo una situazione del genere potrebbe, in linea di principio, verificarsi:
l'esistenza del caos e dei fenomeni quantistici implica infatti soltanto la non necessità che la
causalità dello spirito umano sulla materia abbia dimensioni macroscopiche, ma per nulla affatto la
sua impossibilità; e, all'inverso, ciò significa che essi, anche nel nostro universo, sono condizioni
necessarie soltanto per una libertà che abbia queste determinate caratteristiche, non invece per la
libertà tout court.
Semmai un nesso causale tra libertà e dolore (ma di tipo molto diverso da quello ipotizzato
dagli autori) potrebbe essere rintracciato in certe recenti acquisizioni della medicina
psicosomatica. È noto infatti che molte malattie (se non tutte), gravi e anche gravissime, hanno
origine inizialmente da eventi microscopici e in sé non dannosi né, tantomeno, dolorosi, a volte
addirittura (come il cancro) da singoli eventi quantistici che provocano una mutazione genetica in
una singola cellula. Tali eventi (tra i quali vanno annoverate anche le classiche infezioni batteriche
o virali) si evolvono poi nella malattia vera e propria solo se trovano una deterninata serie di
coincidenze favorevoli, tra le quali hanno un posto rilevante (secondo alcuni addirittura
determinante) le condizioni psicologiche del soggetto. Ora, pur senza voler ridurre lo spirituale allo
psicologico (errore oggi quanto mai frequente, e quanto mai deleterio), è indubbio che una salda
vita spirituale predispone, in generale, a reagire meglio alle avversità e la fiducia in un destino
buono e pieno di senso può aiutare ad avere un atteggiamento più positivo verso la vita. L'effetto
benefico di queste disposizioni mentali anche in relazione alla salute fisica è ormai ampiamente
dimostrato. In questo senso si potrebbe vedere in ciò un riflesso di quel legame tra peccato
originale, malattia e morte che la teologia cristiana, sulla scorta del dettato biblico, ha sempre
affermato. Ciò però può valere solo come tendenza, non come regola applicabile ad ogni singolo
caso (pena il ritornare alla pre-evangelica concezione della malattia come "castigo di Dio"). Senza
contare, poi, che vi sono nel mondo moltissime altre cause potenziali di "incomprensibile sciagura"
al di fuori della malattia, alle quali questa spiegazione non può certo applicarsi (benché alcune
correnti di psicosomatica "estremista", in genere di estrazione New Age, lo sostengano, peraltro in
base a teorie in generale non dimostrabili e, per certi aspetti, anche vagamente inquietanti). E
molte di esse, per giunta, non seguono affatto il modello teorico di Bellavite e Zatti: che cosa ha a
che fare col caos o con la meccanica quantistica la possibilità, per esempio, di venire attaccati da
un animale da preda? o, su scala cosmica, l'eventualità che una supernova, esplodendo nelle
nostre vicinanze, cancelli completamente la vita sulla Terra? E, d'altra parte, animali da preda e
supernovae sono anch'essi necessari alla vita così come la conosciamo (benché non alla libertà
umana). Non possiamo quindi dire semplicemente che sono il frutto di un "errore della natura":
l'esistenza di questo o quell'altro specifico animale da preda è certamente contingente (e almeno
quelli più "perversi" -ma in base a quale criterio?- potrebbero così, forse, essere ritenuti degli
"errori"), ma l'esistenza di animali da preda in generale non lo è affatto. Mentre, d'altro canto,
potrebbe esserlo (anzi, potrebbe addirittura essere impossibile) in un mondo diverso da quello che
conosciamo.
In realtà proprio questa ambivalenza delle cause che lo provocano sembra essere la
caratteristica fondamentale del dolore esistente in natura e non dipendente da volontà d'uomo:
ciò che sotto un aspetto è causa di dolore e di morte, sotto un altro è invece causa di vita e quindi
di gioia. Di tale ambivalenza l'indeterminismo è un aspetto (importante, ma non esauriente), e non
viceversa. Ora, proprio questo "chiaroscuro" della natura (di tutta la natura, non solo di quella
dipendente dall'indeterminismo) è invece profondamente legato alla libertà umana: non però
quanto alle condizioni della sua possibilità ontologica, quanto, piuttosto, a quelle del suo esercizio
effettivo, che potremmo anche chiamare la sua possibilità esistenziale. Così come nel caso della
causalità dello spirito sulla materia le condizioni "microscopiche" del suo concreto esercizio
(permesse dall'indeterminismo epistemologico quantistico e caotico) ci suggeriscono
discretamente la possibilità della sua esistenza reale senza però darcene l'evidenza, che
schiaccerebbe la nostra libertà, forzandoci a credervi "senza merito", allo stesso modo tale
ambivalenza, profondamente connaturata a pressoché ogni aspetto della realtà e di cui
l'indeterminismo (epistemologico) è certamente una componente importante, ci suggerisce, di
nuovo discretamente, il senso di un destino buono attraverso i suoi innegabili aspetti positivi,
sfidando al contempo la nostra ragione e la nostra libertà ad un'adesione non scontata e quindi
"con merito" attraverso gli aspetti apparentemente negativi e "incomprensibili".
Anche qui dunque, come già prima nel caso della libertà umana, i problemi nascono dal
tentativo indebito di usare una teoria scientifica per risolvere un problema la cui radice si trova ad
un livello più profondo. E anche qui le cose cambiano, e molto, se accettiamo di ridurre un poco le
nostre pretese e di riconsiderare la questione a livello semplicemente epistemologico.
Non a caso la parte più profonda e originale di questa riflessione dei nostri autori è quella
conclusiva, dove essi si chiedono "se esiste una positività diretta del dolore, cioè se esso serve a
qualcosa di per sé" (p. 52) e nella quale la distinzione fra i diversi piani ed aspetti della realtà è
invece pienamente ed accuratamente rispettata.
Notato infatti che "in generale, è chiaro che il dolore non è totalmente negativo solo se chi lo
prova riesce a trovarvi un senso", i due riconoscono che "si entra qui in un campo in cui la scienza
sa e dice poco, forse nullla". "Tuttavia", aggiungono (correttamente), "il <<modo di pensare>>
secondo il paradigma della complessità ci induce a sostenere che analogie esistano tra i diversi
piani della realtà, dal microcosmo al macrocosmo, che le leggi della complessità siano applicabili
alle molecole, alle cellule come alla vita psichica e relazionale. Perciò una prospettiva di apertura
all'altro-da-sé e quindi al trascendente non solo non è irrazionale ma è profondamente funzionale
alla natura dell'uomo e della sua evoluzione". E ciò in quanto l'uomo, così come ogni altro essere
vivente, del resto, "come sistema aperto e dissipativo […] mantiene il proprio ordine interno per il
continuo flusso di energia, materia e infrorrmazione che lo attraversa e per la continua dispersione
di entropia nell'ambiente". Analogamente, quindi, "secondo la prospettiva della complessità, tale
senso non può che risiedere nell'apertura del sistema-uomo a qualcosa d'altro o a qualcun altroda-sé, apertura che faccia sperimentare un ri-assestamento del proprio io (interno) verso uno
stato di maggiore armonia e di maggiore consapevolezza" (pp. 52-53). Il che è, a mio modo di
vedere, perfettamente condivisibile, e non soltanto dai credenti, ma anche da tutti coloro i quali
cercano tale senso non in un'alterità metafisica, ma in qualche prospettiva (il bene dei figli, il futuro
dell'umanità. Il senso della storia…) a mio parere insufficiente, ma che pur sempre in qualche
modo trascende la particolarità e la "chiusura" in sé stesso del singolo individuo e pertanto segue
anch'essa la "logica della complessità" delineata da Bellavite e Zatti.
L'augurio, se mai, è che essa possa servire almeno a qualcuno di quanti sono sinceramente
alla ricerca di un significato per i propri ed altrui drammi, perché li aiuti a non aver paura di portare
alle estreme conseguenze la strada intrapresa, "aprendo" ulteriormente il sistema complesso
"allargato" (ma pur sempre ancora limitato) che si sono costruiti (io-figli, io-umanità, io-storia del
mondo…) verso un "oltre" ancora più "oltre" che possa dare a tutto (e non solo al dolore) un senso
"ancora più senso", cioè un senso veramente pieno e comprensivo di tutti i fattori in gioco.