Determinazione preventiva del costo di prodotto - Digilander

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ECONOMIA AZIENDALE
INDICE DEGLI ARGOMENTI
Le imprese bancarie
Il mercato dei capitali e l’intermediazione creditizia
Funzioni delle banche
La funzione di prestazione dei servizi
La funzione di trasmissione della politica monetaria
La gestione delle imprese bancarie
La legislazione bancaria e il sistema bancario italiano
Le operazioni di raccolta
L’affidamento e le aperture di credito
La contabilità analitica
Concetti fondamentali
Determinazione del costo di prodotto
Diagramma di reddività
Pianificazione strategica e budget
Il bilancio e l’analisi di bilancio
Concetti fondamentali
Riclassificazione e analisi del bilancio per indici e per flussi
Bilanci straordinari
Aspetto fiscale
Economia delle aziende di erogazione
Le aziende di erogazione
Stato ed enti territoriali minori
LE IMPRESE BANCARIE
IL MERCATO DEI CAPITALI E L’INTERMEDIAZIONE CREDITIZIA
Soggetti in surplus e in deficit
Lo svolgimento dell’attività economica origina costantemente il trasferimento di
somme monetarie tra i soggetti in surplus e quelli in deficit. I soggetti coinvolti nei
trasferimenti di denaro sono le famiglie, le imprese e la pubblica amministrazione, che
a seconda delle circostanze possono chiedere ma anche offrire risorse monetarie con
l’eccezione dello Stato che è sempre in deficit.
Trasferimento diretto e indiretto
Il trasferimento di risorse monetarie può essere diretto o indiretto. Il trasferimento
diretto si ha quando i due soggetti interessati contrattano personalmente le condizioni
del credito. Il trasferimento indiretto si ha quando nel trasferimento delle risorse
monetarie si inserisce la figura dell’intermediario che da un lato raccoglie le somme
versate dai soggetti in surplus e dall’altro concede finanziamenti ai soggetti in deficit
usando quelle stesse somme. L’attività di intermediazione rende molto più agevole
l’accesso al credito e l’investimento delle somme in surplus perché in questo modo
viene eliminato il collegamento tra chi chiede e chi offre, collegamento che
considerate le diverse esigenze dei due soggetti sarebbe spesso la causa del
fallimento del trasferimento (pensiamo a una famiglia che mette i soldi in banca per
avere un po’ di interessi ma soprattutto con la certezza di poterli riavere in ogni
momento e pensiamo all’impresa che ha bisogno del finanziamento a lungo da
rimborsare in un lungo periodo, pensiamo poi agli importi necessari all’impresa che
essendo elevati difficilmente potrebbero essere concessi da una singola famiglia, si
capisce quindi che se non ci fosse l’intermediario difficilmente la famiglia potrebbe
investire i proprio risparmi e altrettanto difficilmente l’impresa potrebbe avere i soldi
che le servono proprio per le diverse esigenze che i due soggetti hanno). Il principale
intermediario del credito è, come ben sappiamo, la banca, che ha come compito
fondamentale appunto quello di raccogliere somme di denaro dai risparmiatori per
cederle ai soggetti che necessitano di finanziamenti. L’attività della banca però è
cambiata negli ultimi tempi a causa di molti fattori esterni (cambiamenti nel mercato
del credito, maggior livello tecnologico, mutate esigenze della clientela, ingresso
nell’Unione Europea sono solo alcuni dei principali elementi di novità) tanto che
attualmente vengono affiancati ai tradizionali servizi di gestione della liquidità anche
molti servizi più evoluti e atipici per una banca come il leasing, il factoring,
l’elaborazione automatica dei dati, etc.
Il mercato dei capitali
Il mercato in cui avviene il trasferimento delle somme di denaro dai risparmiatori ai
soggetti bisognosi di finanziamenti è il mercato dei capitali. Esso viene suddiviso in
mercato diretto e mercato aperto, dove il mercato diretto è quello in cui i soggetti
contrattano personalmente le condizioni di concessione del credito, mentre invece il
mercato aperto è regolato da norme precise che sovrintendono al trasferimento delle
somme di denaro e a tutti gli aspetti connessi al trasferimento stesso. Il mercato
aperto è a sua volta suddiviso in mercato monetario, finanziario e dei cambi. La
differenza tra i primi due è temporale: nel mercato monetario vengono concessi e
ottenuti finanziamenti per durate non superiori a un anno (alcuni esempi sono lo
sconto di pagherò diretto, l’accettazione bancaria e il pronti contro termine) mentre
invece nel mercato finanziario si hanno finanziamenti a medio-lungo termine (dove
per medio termine si intende una durata compresa tra un anno e cinque anni, mentre
per lungo termine si intendono finanziamenti con scadenza oltre i cinque anni). Il
mercato dei cambi invece è quello in cui si ha lo scambio tra i diversi mezzi di
pagamento internazionali ed è stato fortemente ridimensionato dopo la nascita
dell’UEM visto che a questo punto restano l’Euro e le valute extra-UEM soltanto. Una
sezione a parte del mercato dei capitali è costituita dal mercato mobiliare. In esso il
trasferimento delle somme di denaro avviene attraverso la sottoscrizione di titoli
(azioni, obbligazioni e titoli del debito pubblico). La differenza con gli altri mercati sta
quindi nel mezzo impiegato per il trasferimento e l’investimento delle somme in
surplus.
FUNZIONI DELLE BANCHE
Funzioni delle banche
Le principali funzioni delle banche sono:
 Funzione di intermediazione creditizia, ovvero raccolta di somme di denaro dai
risparmiatori e successiva concessione delle stesse per finanziare i soggetti in
deficit;
 Funzione monetaria, ovvero predisposizione di strumenti in grado di sostituire
la moneta legale nei pagamenti, come la moneta cartolare (assegni bancari e
circolari) e la moneta scritturale ed elettronica (bonifici, pagamenti con carte di
credito e bancomat, etc.);
 Funzione di prestazione di servizi, ovvero fornitura di servizi alla clientela che
non sono strettamente collegati all’intermediazione creditizia ma che svolgono
l’importante funzione di migliorare l’immagine dell’istituto di credito e la
situazione economica dell’impresa;
 Funzione di trasmissione della politica economica e monetaria, infatti spesso le
politiche in materia economica vengono realizzate imponendo alle banche la
variazione del limite di riserva obbligatoria o l’effettuazione di operazioni di
mercato aperto che avremo modo di vedere meglio in seguito.
Ovviamente ognuna delle funzioni fondamentali sopra indicate comprende un gran
numero di attività, che possono essere ritrovate a pag. 27 del nostro libro. Non è
fondamentale impararle tutte a memoria, però avere un’idea un po’ più precisa
dell’attività della banca potrebbe essere importante, fosse altro per fare qualche
esempio un po’ meno banale nel caso ci toccasse di parlare delle funzioni delle
banche. A pag. 27 non sono indicate ovviamente le attività di trasmissione della
politica economica e monetaria in quanto non sono vere e proprie attività bancarie.
Alla funzione di trasmissione della politica economica e monetaria è dedicato però un
intero capitolo, “La politica monetaria”, che trovate in seguito.
LA FUNZIONE DI PRESTAZIONE DI SERVIZI
Come abbiamo visto, una delle principali funzioni delle banche di oggi è quella della
fornitura di servizi, che si associa alla tradizionale attività di intermediazione
finanziaria e spesso assume una grande importanza per gli istituti di credito. Negli
ultimi anni in particolare, abbiamo assistito a una crescita notevole dell’importanza dei
servizi bancari, il che può essere spiegato con:
 il ridimensionamento dei depositi bancari, ovvero quel fenomeno che è andato
sotto il nome di disintermediazione creditizia, che ha costretto le banche a
creare nuovi strumenti per attirare e fidelizzare la clientela;
 l’innovazione finanziaria, con la comparsa di molte società che fornivano servizi
di finanziamento alternativi a quelli offerti dalle banche, con la conseguenza che
le banche si sono aggiornate ed hanno iniziato a fornire esse stesse quei servizi
per non correre il rischio di perdere clienti;
 l’aumento del livello tecnologico, che ha permesso di fornire alcuni servizi che
prima parevano particolarmente complessi e onerosi in modo immediato,
efficiente e meno oneroso per gli istituti di credito;
 l’aumento delle esigenze della clientela, che ha iniziato a richiedere alle banche
servizi sempre più sofisticati da associare al tradizionale conto corrente di
corrispondenza;
 l’entrata in vigore, particolarmente importante, del testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia, che ha permesso alle banche di compiere una
lunga lista di attività anche non strettamente collegate con l’intermediazione
finanziaria.
La fornitura dei servizi è particolarmente importante per le banche perché permette
loro di ottenere due tipi di vantaggi allo stesso tempo, cioè:
 vantaggi diretti, collegati al fatto che i servizi offerti sono a titolo oneroso e
quindi sono all’origine di entrate per la banca, il che contribuisce a migliorare
sia la redditività dell’impresa che la situazione finanziaria;
 vantaggi indiretti, consistenti nel miglioramento dell’immagine dell’impresa
bancaria e nella fidelizzazione della clientela.
Parlando di servizi bancari, una fondamentale distinzione che deve essere fatta è
quella tra:
 servizi complementari, detti anche tradizionali, che sono strettamente legati
all’attività di intermediazione nel credito. Ne costituiscono alcuni esempi i
bonifici, gli assegni, i bancomat, le carte di credito, le cassette di sicurezza e
così via;
 servizi collaterali, detti anche innovativi, ovvero i nuovi servizi che le banche
hanno iniziato ad offrire solo di recente direttamente o attraverso società
collegate. Ne costituiscono esempi significativi il leasing e il factoring.
Un altro tipo di classificazione importante che possiamo fare dei servizi bancari è
quella che divide i servizi a seconda delle esigenze della clientela che essi tendono a
soddisfare. Abbiamo così:
 servizi di pagamento;
 servizi di incasso;
 servizi di custodia;
 servizi di natura finanziaria;
 attività di acquisizione e gestione del risparmio;
 altri servizi.
I servizi di pagamento
Parlando dei servizi di pagamento, dobbiamo ricordare tra i più importanti:
 il rilascio di assegni circolari;
 le carte di credito;
 le carte di debito;
 il remote banking;
 il cash menagement;
 altri servizi di pagamento.
A proposito degli assegni circolari, come ben sappiamo sono quegli assegni che
vengono consegnati dalla banca dietro versamento allo sportello del relativo
ammontare oppure, se il richiedente è un correntista della banca, dietro
addebitamento del conto corrente del richiedente. Si caratterizzano per il fatto che
non richiedono un rapporto di conto corrente con l’ente creditizio a cui ci si rivolge per
ottenerli (basta pagare il relativo importo in contanti al momento della richiesta
dell’assegno allo sportello) e sono uno strumento di pagamento ben accettato in
quanto costituiscono l’impegno formale della banca di corrispondere al possessore
dell’assegno l’importo su di esso indicato, quindi chi riceve l’assegno circolare ha la
certezza assoluta che recandosi presso un qualsiasi sportello della banca emittente
potrà ottenere il pagamento dell’assegno.
Va ricordato però che non tutte le banche sono autorizzate ad emettere assegni
circolari, infatti per farlo occorre una particolare autorizzazione rilasciata dal CICR
(Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio). Le banche prive di tale
autorizzazione stipulano solitamente degli accordi con altri istituti di credito muniti
della necessarie autorizzazione ed emettono assegni circolari pagabili presso l’istituto
di credito convenzionato.
Per la banca, questo tipo di operazione è anche un’operazione di approvvigionamento
a breve termine, infatti la banca ha a disposizione l’importo dell’assegno circolare
emesso dal momento in cui esso viene richiesto fino al momento in cui il beneficiario
dell’assegno non si presenterà allo sportello della banca per richiederne il pagamento.
Si tratta tra l’altro di un’operazione di approvvigionamento che, se da un lato ha lo
svantaggio di essere a brevissimo termine, dall’altro ha il grande vantaggio di non
comportare per l’impresa bancaria il sostenimento di alcun onere, anzi semmai la
riscossione delle relative commissioni.
Per quanto attiene alle carte di credito, come sappiamo sono tessere magnetiche
emesse dalle banche ma anche da altre grandi organizzazioni internazionali, che
permettono al possessore di regolare le prestazioni ottenute senza corrispondere
moneta legale. Il soggetto che riceve il pagamento tramite carta di credito si presenta
poi presso l’istituto emittente per ottenere il pagamento del relativo importo.
Periodicamente infine l’istituto che ha rilasciato la carta di credito addebita il conto
corrente del possessore se si tratta di una banca oppure richiede al possessore il
pagamento con contanti o con assegni se si tratta di una diversa organizzazione.
Le carte di debito invece sono delle carte che permettono di pagare senza utilizzare
moneta legale con addebito immediato sul conto corrente. La differenza quindi sta nel
tempo dell’operazione: con la carta di credito il possessore paga e poi periodicamente
regola la sua posizione nei confronti dell’istituto emittente, con le carte di debito
invece il possessore paga e il suo conto viene immediatamente addebitato del relativo
importo. Le carte di debito più comuni sono le carte bancomat e PagoBancomat.
Il remote banking è il servizio che la banca offre a chi dispone di un collegamento a
internet e in taluni casi anche di un cellulare permettendo la gestione del conto
corrente a distanza, impartendo ordini attraverso la rete oppure mediante l’uso del
cellulare. E’ un servizio ad alto contenuto tecnologico che permette ovviamente oltre
agli atti dispositivi (giroconti, bonifici, etc) anche la visualizzazione dell’estratto conto
e del saldo in tempo reale.
Il cash menagement costituisce un’evoluzione del remote banking permettendo
soprattutto alle grandi imprese di tenere sotto controllo costantemente i movimenti e i
saldi dei vari conti correnti aperti presso i vari istituti di credito con cui l’impresa ha un
rapporto di clientela. Questo permette ad esempio di effettuare non solo operazioni
dispositive, ma anche giroconti da un conto all’altro della stessa impresa in modo da
evitare ad esempio che un conto vada scoperto e che un altro sia ampiamente attivo,
perché questo significherebbe pagare inutilmente degli alti interessi passivi e quindi
peggiorare senza motivo la situazione economica dell’impresa.
Altri servizi di pagamento sempre più diffusi sono le domiciliazioni delle utenze, il
pagamento delle imposte realizzato in via automatica tramite l’istituto di credito, la
disposizione di bonifici permanenti (ad esempio per il pagamento di periodici che
impongono un pagamento rateale) e i servizi di tesoreria effettuati per conto degli enti
pubblici.
I servizi di incasso
I servizi di incasso sono i servizi in cui la banca agisce come mandatario riscuotendo
per conto del cliente mandante i crediti che quest’ultimo ha nei confronti di terzi. La
fornitura di questo tipo di servizi comporta per la banca notevoli vantaggi, cioè:
 permette il miglioramento della situazione economica visto che la banca
richiede per lo svolgimento del servizio delle commissioni e talvolta anche dei
rimborsi spese, soprattutto nel caso di effetti insoluti per i quali l’istituto di
credito abbia avviato la procedura per il protesto;
 trattandosi di riscossioni dei correntisti, consente alla banca di avere a
disposizione una maggiore quantità di disponibilità liquide da impiegare per la
concessione di finanziamenti o per altri tipi di investimenti;
 il fatto che le posizioni creditorie debbano essere ovviamente comprovate
dall’esistenza di titoli di credito cartacei (cambiali, fatture) o elettronici (RiBa,
MAV, RID) è importante per la banca soprattutto quando il correntista che
ordina la riscossione ha ottenuto un affidamento, infatti da questi documenti la
banca trae importanti informazioni circa l’evoluzione della situazione del cliente
affidato.
Come detto, i servizi di incasso vengono eseguiti ovviamente dietro presentazione di
titoli di credito che comprovino l’esistenza di una situazione creditoria del correntista
nei confronti di terzi. Questi titoli di credito possono essere di diversa natura, ad ogni
modo essi possono essere innanzi tutto classificati in:
 cartacei, come ad esempio le cambiali e le fatture;
 elettronici, come le Ri.Ba., i MAV e i RID.
Il funzionamento dell’accreditamento delle cambiali e delle fatture lo conosciamo
bene. Sappiamo che possono essere accreditate con valuta immediata e allora si
tratta di un anticipo (vedi apposita sezione) oppure al dopo incasso, cioè la banca
accredita il relativo importo solo dopo che lo ha riscosso. In ogni caso, la banca chiede
delle commissioni e nel caso in cui gli effetti non vadano a buon fine addebita le spese
di protesto. Nel caso degli anticipi inoltre, se gli effetti non vanno a buon fine, viene
ovviamente riaddebitato anche l’importo inizialmente anticipato.
Il funzionamento degli anticipi su Ri.Ba. è sostanzialmente lo stesso. Cambia il
comportamento della banca nel momento in cui va a registrare le operazioni sul conto
corrente, ma per il resto si tratta comunque di titoli di credito che possono essere
accreditati dalla banca con valuta immediata (anticipo su Ri.Ba.) o al dopo incasso
esattamente come per gli altri titoli. Esattamente uguali sono le conseguenze nel caso
in cui le Ri.Ba. vadano insolute, con l’ovvia differenza che non essendo titoli esecutivi,
non ci potranno mai essere chiesti rimborsi di spese di protesto.
Più interessanti, anche perché almeno io non ne avevo mai sentito parlare, sono i
servizi di riscossione elettronici MAV e RID.
Il servizio MAV, acronimo di “Mediante Avviso”, consiste nel fatto che la banca,
ricevute le fatture dal suo correntista, trasmette per via telematica ai debitori gli
avvisi di scadenza. Essi possono quindi recarsi in qualunque filiale di qualunque banca
per effettuare il pagamento, sarà poi la banca presso cui il debitore si è recato che
accrediterà l’importo del versamento alla banca presso cui il creditore ha aperto il suo
conto corrente. Il vantaggio sta ovviamente nell’immediatezza e nella semplicità
dell’operazione, oltre al fatto che il cliente che ha portato le fatture da riscuotere alla
banca può sapere in ogni momento se sono state pagate o no.
Il servizio RID, acronimo di “Rapporti Interbancari Diretti”, è particolarmente utile a
quei soggetti che devono corrispondere periodicamente piccole somme di denaro. Essi
possono andare in banca una sola volta e ordinare che la banca corrisponda
automaticamente l’importo da versare in corrispondenza delle varie scadenze.
Ovviamente sia l’entità degli importi che la periodicità del versamento sono indicati dal
cliente, il quale indica anche il beneficiario del versamento stesso. Il vantaggio sta nel
fatto che in questo modo il debitore si mette al riparo da possibili dimenticanze e evita
di andare ogni volta in banca per disporre il pagamento.
I servizi di custodia
I servizi di custodia consistono nella locazione di cassette di sicurezza e nei depositi a
custodia.
La locazione di cassette di sicurezza è molto richiesta dai clienti delle banche che
hanno spesso necessità di tenere in un luogo sicuro documenti importanti, titoli di
credito, oggetti di valore e così via. Il problema è che per tenere le cassette di
sicurezza la banca deve avere un caveau sotterraneo blindato che non tutte le filiali
hanno.
La locazione delle cassette di sicurezza ha una durata di sei mesi o di un anno ed è
automaticamente rinnovata salva comunicazione contraria del cliente almeno 15 giorni
prima della scadenza. Per la locazione delle cassette di sicurezza è necessario
corrispondere un canone semestrale o annuale a seconda della durata del contratto.
La tutela della riservatezza del cliente è garantita sia dalla segretezza assoluta del
contenuto della cassetta, che non è noto neppure alla banca, sia dalla particolare
procedura che deve essere seguita ogni volta che il cliente desidera aprire la cassetta
per immettere o prelevare materiale.
L’altro servizio di deposito come detto è il deposito a custodia. Esistono depositi a
custodia aperti, in cui la banca è a conoscenza della merce depositata che figura da
un’apposita distinta e si assume tutte le responsabilità relative alla sua conservazione,
ma esistono anche depositi a custodia chiusi in cui il materiale da conservare è
contenuto in un bauletto blindato che la banca si deve limitare a conservare
assicurandone l’integrità esteriore. Ovviamente anche in questo caso la banca richiede
un canone che viene corrisposto in genere con cadenza semestrale.
I servizi finanziari
I principali servizi finanziari sono il leasing e il factoring.
Un imprenditore fa ricorso al leasing quando deve acquistare delle immobilizzazioni
materiali aventi un costo tanto elevato da rendere impossibile per l’imprenditore
l’acquisto tradizionale. In questo caso, l’impresa si rivolge a una società di leasing o a
una banca la quale acquista il bene per conto dell’impresa richiedente e quindi lo cede
all’impresa la quale da parte sua corrisponde un certo numero di canoni periodici, la
cui quantità e il cui ammontare sono ovviamente determinati preventivamente al
momento della stipulazione del contratto. Una volta che l’impresa ha terminato il
pagamento dei canoni di leasing, può decidere di riscattare il bene versando alla
società di leasing o alla banca che ha offerto il servizio un’ulteriore somma anch’essa
determinata alla stipulazione del contratto e che di solito è piuttosto bassa visto che la
banca o la società che ha offerto il servizio non ha assolutamente alcun interesse a
vedersi restituire un macchinario che non ha niente a che vedere con la sua attività
tipica, quindi di solito la banca preferisce stabilire un riscatto basso in modo che
l’impresa richiedente decida di pagarlo e di tenersi il bene piuttosto che di restituire il
bene alla banca che poi non se ne farebbe di nulla.
Il factoring invece è il contratto mediante il quale un’impresa trasferisce alla banca i
crediti verso clienti risultanti dalle fatture di vendita e la banca corrisponde
l’ammontare delle fatture dopo aver sottratto una percentuale variabile tra il 20 e il
30% per tutelarsi da eventuali resi e abbuoni.
I soggetti coinvolti sono quindi:
 l’impresa cedente, che ha dei crediti verso clienti risultanti da fattura e che li
cede al factor, in questo caso alla banca, dietro riscossione del relativo
ammontare;
 l’impresa cessionaria, chiamata factor, che acquisisce i crediti dell’impresa
cedente e mette in atto tutte le procedure necessarie alla loro successiva
riscossione;
 le aziende clienti, che hanno dei debiti di fornitura nei confronti dell’impresa
cedente e che quindi non devono più pagare all’impresa cedente bensì al factor.
La banca considera questo servizio come un vero e proprio affidamento, in quanto
assume su di sé il rischio di insolvenza dei clienti di un correntista. Per questo motivo
prima di stipulare il contratto, esegue tutte le indagini necessarie per accertare la
solvibilità dei clienti ceduti e anche della stessa impresa cedente e alla fine definisce
l’importo massimo che è risposta globalmente a rischiare e definisce anche il rischio
massimo che è disposta a sopportare per ogni cliente ceduto.
La stipula del contratto prevede per la banca i seguenti doveri:
 deve dare informazioni commerciali inerenti la solvibilità dei clienti dell’impresa
cedente, in modo che anche l’impresa cedente possa fruire delle informazioni
raccolte dalla banca riducendo o prevenendo così il rischio di perdite su crediti;
 deve gestire e amministrare i crediti acquistati, tenendo le necessarie relazioni
con i clienti ceduti e facendo tutto quanto è necessario per ottenere il
pagamento del credito acquistato.
A proposito della garanzia del buon esito dell’operazione, è necessario distinguere tra:
 factoring pro-solvendo, detto anche con rivalsa, quando il factor non garantisce
il buon esito dell’operazione e si rivale sull’impresa cedente nel caso in cui il
cliente ceduto sia insolvente;
 factoring pro-soluto, detto anche senza rivalsa, quando il factor assume su di sé
i rischi connessi all’eventuale insolvenza dei clienti ceduti e quindi rinuncia a
rivalersi sull’impresa cedente in caso di insolvenza.
In taluni casi possiamo trovare da parte del factor anche una funzione di
finanziamento, infatti esistono:
 factoring con accredito a scadenza, in cui il factor accredita all’impresa
l’ammontare dei crediti ceduti soltanto al momento della loro scadenza;
 factoring con accredito anticipato, quando il factor accredita l’ammontare dei
crediti al momento della presentazione degli stessi, quindi in via anticipata. In
questo secondo caso si ha appunto un’operazione di finanziamento eseguita dal
factor nei confronti dell’impresa cedente.
Il costo che l’impresa cedente deve sostenere per la fruizione del servizio di factoring
è dato dalla somma di:
 spese di istruttoria, ovvero il rimborso delle spese che la banca deve sostenere
per accertare la solvibilità dei clienti ceduti;
 commissione di factoring, che la banca chiede all’impresa cedente come
rimborso per le spese collegate alla gestione dei crediti e, eventualmente,
all’assunzione del rischio di insolvenza. Si tratta di una percentuale calcolata sul
totale delle fatture cedute che va dallo 0,5% nel caso di factoring con rivalsa
fino al 3% nel caso di factoring senza rivalsa;
 un diritto fisso richiesto a titolo di rimborso spese generale che varia tra 5 € e
15 € per ogni fattura ceduta;
 le spese di tenuta conto richieste in misura fissa e addebitate ad ogni
liquidazione delle competenze alla fine quindi di ogni periodo di
capitalizzazione;
 in caso di accreditamento anticipato, gli interessi che vanno dal momento
dell’accreditamento fino alla scadenza del credito.
Il principale svantaggio per l’impresa ceduta in rapporto ad esempio al normale
anticipo su fatture è costituito dal costo notevolmente più alto, i principali vantaggi
invece sono:
 l’impresa cedente può impiegare il personale e le risorse che prima impiegava
nella funzione di riscossione dei crediti in altre funzioni, visto che con il
factoring è il factor che si occupa della gestione e della riscossione dei crediti;



l’impresa cedente può valutare la qualità dei suoi clienti sulla base delle
informazioni commerciali fornite dal factor che fa le sue indagini per valutare
l’affidabilità dei clienti ceduti ed è poi tenuto a comunicare le informazioni
raccolte anche all’impresa cedente;
non compromette la possibilità di ricorrere ad altri finanziatori e non riduce
l’importo di fido disponibile presso la banca che offre il servizio di factoring,
mentre invece l’anticipo su fatture è una vera e propria apertura di credito, il
che vuol dire che riduce l’ammontare del fido disponibile e rende molto
complesso riuscire ad ottenere finanziamenti da altri istituti (come sappiamo,
l’esistenza di un affidamento presso una banca, costituisce un fattore di grande
importanza per un finanziatore che debba decidere se accordare o no un
finanziamento ad un’impresa);
i corrispettivi pagati al factor sono completamente deducibili fiscalmente.
Altri servizi
Altri servizi di minore importanza offerti dalle banche sono:
 i servizi resi a società ed enti emittenti di valori mobiliari;
 l’assistenza nel commercio con l’estero;
 le attività in campo assicurativo;
 le attività di acquisizione di partecipazioni;
 le attività di revisione e di elaborazione dati.
LA FUNZIONE DI TRASMISSIONE DELLA POLITICA MONETARIA
Finalità della politica economica
La politica economica è l’insieme di tutti i provvedimenti che possono essere presi per
perseguire le seguenti finalità:
 sviluppo dell’economia;
 piena occupazione;
 contenimento del tasso di inflazione;
 equilibrio dei cambi;
 contenimento del deficit di bilancio.
Essa è attualmente affidata in larga misura alla Banca Centrale Europea, che in
quanto vertice del SEBC (Sistema Europeo delle Banche Centrali) ha il compito di
definire la politica economica dell’area Euro.
La BCE e il SEBC
La BCE, con sede a Francoforte, acquista personalità giuridica nel 1999 e viene posta
a capo del SEBC, organo incaricato della definizione della politica economica in tutta
l’area Euro.
La BCE si compone di tre organi:
 il comitato direttivo, formato da tutti i governatori delle banche centrali
nazionali dei Paesi dell’area Euro, che ha il compito di formulare una politica
monetaria comune a tutti gli Stati membri;
 il consiglio esecutivo, formato da 6 membri scelti tra i maggiori esperti del
settore, con il compito di assicurarsi che venga data concreta attuazione nei

vari Stati dell’area Euro alle disposizioni inerenti la politica economica e
monetaria che vengono prese a livello centrale;
il consiglio generale, con funzione consultiva.
La BCE è l’unico organo che può autorizzare l’emissione di moneta nell’area Euro ed è
anche incaricata della raccolta dei dati statistici inerenti il mercato creditizio e
mobiliare nell’area Euro. Svolge inoltre un ruolo determinante, in qualità di presidente
del SEBC, nella definizione della politica economica e monetaria comune all’area Euro.
Il SEBC è costituito dall’insieme delle banche centrali dei Paesi dell’area Euro e anche
dalle banche centrali dei Paesi europei non aderenti (Gran Bretagna, Danimarca e
Svezia che però hanno un ruolo meno importante all’interno dell’organo e non sono
obbligate a dare esecuzione alle delibere in materia di politica economica) ed è
presieduto dalla BCE. E’ un organo del tutto indipendente dal potere politico che ha
come compito principale, come già più volte ripetuto, quello di definire la politica
economica e monetaria in tutta l’area Euro.
La politica monetaria come strumento di politica economica
Gli strumenti a disposizione del SEBC per perseguire questi scopi sono molteplici. Uno
di questi strumenti è la politica monetaria, che consiste nell’espansione o nella
riduzione della cosiddetta base monetaria, costituita dalla somma della moneta
bancaria, delle riserve legali depositate dalle banche presso la Banca d’Italia e dai
crediti inutilizzati concessi dalla Banca d’Italia alle varie banche.
Le finalità della politica monetaria
La politica espansiva della base monetaria viene realizzata con lo scopo di aumentare
la quantità di moneta in circolazione e di conseguenza il volume degli scambi e degli
investimenti. Al contrario, la politica monetaria restrittiva viene attuata per ridurre la
quantità di moneta in circolazione con lo scopo di frenare la spinta inflazionistica.
Gli strumenti utilizzati per realizzare la politica monetaria
Sia la politica monetaria espansiva che quella restrittiva vengono realizzate nel
concreto:
 utilizzando strumenti di mercato (ovvero regolando le operazioni di mercato
aperto effettuate dalle banche);
 ridefinendo di volta in volta l’ammontare minimo della riserva obbligatoria che
ogni istituto di credito deve depositare presso la Banca d’Italia;
 eseguendo operazioni su iniziativa delle controparti.
Non può più essere utilizzato lo strumento della manovra del tasso ufficiale di sconto
(ovvero il tasso di interesse che veniva richiesto agli istituti di credito nazionali quando
si rivolgevano alla banca centrale del proprio Paese per chiedere un finanziamento),
che ha cessato completamente di esistere con la nascita dell’Euro.
Le operazioni di mercato aperto
Le operazioni di mercato aperto sono classificate in:


operazioni di rifinanziamento, che consistono nella stipulazione di contratti
pronti contro termine tra i vari istituti di credito nazionali e le rispettive banche
centrali. Possono essere effettuati pronti contro termine di due diversi tipi a
seconda dello scopo per cui sono fatti:
o pronti contro termine di impiego, in cui l’istituto di credito acquista titoli
mobiliari dalla banca centrale del suo Paese per poi rivendere a scadenza
i titoli stessi a un prezzo maggiorato. Questa operazione, che per gli
istituti di credito privati è conveniente in quanto il prezzo a termine come
sappiamo è sempre maggiore del prezzo a pronti, serve per eseguire una
politica economica restrittiva, infatti se le varie banche private investono
nei pronti contro termine emessi dalla banca centrale del loro Paese, vuol
dire che avranno meno risorse da impiegare altrimenti e quindi si riduce
seppure temporaneamente la quantità di moneta in circolazione e quindi
si ha anche una riduzione della base monetaria;
o pronti contro termine di finanziamento, che hanno esattamente lo scopo
opposto. In questo caso infatti è la banca centrale che acquista dalle
banche private i titoli mobiliari e pronti per poi rivenderli a termine a un
prezzo maggiorato. In questo caso quindi le banche private hanno un
costo di finanziamento costituito dalla differenza tra il prezzo a termine e
quello a pronti e soprattutto però hanno momentaneamente una
maggiore disponibilità di moneta da impiegare, quindi si ha un aumento
della quantità di moneta in circolazione e quindi un’espansione della base
monetaria;
Esistono operazioni di rifinanziamento principali in cui la durata dei P/T è di due
settimane, ma esistono anche operazioni di rifinanziamento a più lungo termine
in cui la durata dei P/T è di 3 mesi.
certificati di debito della BCE, la cui remuneratività è data dalla differenza tra il
prezzo di emissione sotto la pari e il valore nominale rimborsato a scadenza, la
cui durata massima è di 1 anno.
In tutte queste operazioni è di fatto la Banca Centrale Europea a influenzare il
comportamento delle banche private, manovrando i tassi dei pronti contro termine.
Infatti se la banca centrale vuole realizzare una politica espansiva della base
monetaria, farà in modo che per le banche sia conveniente indebitarsi presso le
rispettive banche nazionali e quindi definirà dei tassi bassi per i pronti contro termine
di finanziamento in maniera tale che le banche siano invogliate a ricorrere a questo
strumento di finanziamento e quindi aumentino le loro disponibilità liquide
espandendo così la base monetaria. Al contrario, se la BCE vuole fare una politica
restrittiva, farò in modo che i tassi dei pronti contro termine di impiego siano alti, in
modo da invogliare le banche private a impegnare le loro risorse monetarie
investendole nei pronti contro termine di impiego. Se le banche investono le loro
risorse nei P/T di impiego infatti, queste risorse vengono tolte dalla circolazione,
diminuisce quindi temporaneamente la quantità di risorse monetarie in circolazione e
si attua quindi una politica restrittiva della base monetaria. Per i certificati della BCE
vale lo stesso discorso: se la BCE vuole fare una politica restrittiva, farà in modo che
essi risultino convenienti per le banche private che in questo modo investono in questi
certificati di debito riducendo temporaneamente la quantità di risorse a loro
disposizione e riducendo quindi nel complesso la base monetaria.
Le operazioni su iniziativa delle controparti
Le operazioni su iniziativa delle controparti sono operazioni di brevissima durata (sono
dette overnight, infatti durano dal pomeriggio di un giorno fino al mattino del giorno
successivo) che vengono appunto proposte dagli istituti di credito privati alle rispettive
banche centrali. Possono essere sia richieste di finanziamenti (e quindi indebitamenti
delle banche private nei confronti delle banche centrali), sia depositi (e quindi si ha
l’indebitamento della banca centrale nei confronti della banca privata che ha effettuato
il deposito). Ovviamente anche in questo caso i tassi passivi e attivi su queste
operazioni sono definiti dalla BCE, che metterà tassi bassi nel caso in cui desideri
invogliare le banche private ad indebitarsi aumentando così le loro disponibilità
monetarie ed espandendo quindi la base monetaria mentre al contrario metterà tassi
alti nel caso in cui desideri che le banche private investano le loro disponibilità
monetarie riducendo così momentaneamente la quantità di moneta a loro disposizione
e riducendo quindi momentaneamente la base monetaria.
La riserva obbligatoria
La riserva obbligatoria è una riserva che le banche private nazionali sono obbligate a
versare presso le rispettive banche centrali. E’ calcolata applicando il 2% alla
cosiddetta base della riserva, ovvero al totale delle risorse monetarie soggette a
riserva che la banca ha a disposizione. Non sono soggette a riserva, in generale:
 le operazioni pronti contro termine;
 i depositi con scadenza superiore a 2 anni;
 i fondi derivanti da finanziamenti ottenuti da altre banche dell’area Euro.
La riserva obbligatoria è un semplice strumento di politica monetaria in quanto
l’aumento del coefficiente di riserva obbligatoria (cioè la percentuale da applicare sulla
base della riserva, che attualmente è fissata al 2%) comporta l’aumento della quantità
di denaro che le varie banche devono depositare presso le rispettive banche nazionali
e quindi comporta anche una diminuzione delle risorse a disposizione delle banche con
conseguente riduzione della base monetaria. D’altra parte, una riduzione del
coefficiente di riserva obbligatoria ha come conseguenza il fatto che le banche hanno
maggiori risorse a loro disposizione e quindi anche la base monetaria (che è costituita
appunto dall’insieme delle risorse monetarie a disposizione delle banche nelle varie
forme) aumenta.
LA GESTIONE DELLE IMPRESE BANCARIE
Aspetti organizzativi delle aziende bancarie
Per organizzazione di un’impresa si intende il modo in cui vengono coordinate le
risorse umane e materiali disponibili in modo da riuscire ad ottenere la massima
efficienza possibile.
Andando a vedere come si organizza una banca, dobbiamo fare prima di tutto una
distinzione, cioè dobbiamo vedere:
 la distribuzione sul territorio;
 l’organizzazione dell’impresa al suo interno dal punto di vista gerarchico e dei
poteri.
A proposito della distribuzione sul territorio, praticamente tutte le imprese bancarie
sono imprese divise, cioè esse non operano in un solo luogo con un’unica sede, ma
hanno una sede centrale e poi diverse sedi distaccate con poteri minori e raggi
d’azione minori. A questo proposito, dobbiamo distinguere:
 sede centrale, in cui vengono prese le decisioni di orientamento generale
dell’attività dell’impresa;
 sedi decentrate, o filiali, che sono le unità organizzative più importanti dopo la
sede centrale. Esse sono situate generalmente nei grandi centri e sovrintendono
all’attività delle succursali di tutta la provincia o di tutta la ragione a seconda
dei casi;
 succursali, generalmente situate nei centri medio-piccoli, dotate di minore
autonomia e soggette al controllo della filiale che ha competenza nell’area in cui
esse si trovano. Esercitano il loro controllo sulle agenzie situate nell’area di
propria competenza;
 agenzie, con autonomia molto limitata, operano alle strette dipendenze delle
succursali. Si trovano nei vari quartieri di una stessa città o nei paesi di piccole
dimensioni;
 uffici di rappresentanza, non svolgono attività di intermediazione finanziaria,
ma hanno lo scopo di promuovere l’impresa bancaria e contattare potenziali
clienti in aree marginali non ancora raggiunte dall’impresa con le sue agenzie.
Servono quindi a trovare i clienti ancora prima di mettere l’agenzia, per evitare
di mettere l’agenzia sostenendo i relativi costi per poi scoprire che non c’è
nessuno che vi apre un conto.
Se invece guardiamo all’organizzazione gerarchica interna all’impresa, possiamo
trovare tre tipi diversi di organizzazione, cioè:
 struttura funzionale;
 struttura divisionale;
 struttura matriciale.
La struttura funzionale può essere semplice o complessa.
Nella struttura funzionale semplice c’è la direzione generale che ha alle sue
dipendenze le varie direzioni delle diverse funzioni della banca, quindi ad esempio c’è
la direzione generale e poi sotto, tutte sullo stesso livello, la direzione pianificazione e
controllo, la direzione marketing, la direzione personale, la direzione tesoreria e così
via per tutte le varie funzioni della banca. Tutte queste direzioni lavorano quindi alle
dipendenze della direzione generale la quale impartisce poi direttamente gli ordini alle
varie filiali le quali poi a loro volta trasmettono gli ordini alle varie dipendenze minori
come abbiamo visto prima.
Nella struttura funzionale complessa invece ci sono degli organi intermedi che in
quella semplice non ci sono. Prima di tutto c’è la direzione coordinamento filiali che
riceve gli ordini dalla direzione generale e li trasmette alle varie filiali, mentre prima
era la direzione generale che impartiva direttamente gli ordini senza nessun
intermediario. Poi le varie direzioni funzionali non sono direttamente alle dipendenze
della direzione generale, ma ci sono degli organi intermedi, ad esempio le direzioni di
contabilità, personale e controllo operativo non sono alle dirette dipendenze della
direzione generale, ma sono invece alle dipendenze di un organo intermedio che sta
tra la direzione generale e le varie direzioni minori che in questo caso si chiama
direzione amministrazione.
Vi consiglio comunque, e questo vale anche per le altre, di dare un’occhiata anche al
libro, anche solo agli schemi, che forse vi restano in mente meglio dei discorsi.
Un'altra raccomandazione: non vi fossilizzate su queste cose, io le metto perché sono
cosine facili alla fin fine e se dovessero capitare sarebbe da coglioni lasciare pagina
bianca per non aver fatto delle bischerate così, però non vi fasciate il capo se non vi
ricordate tutti i nomi o tutti i particolari, chi se ne frega!!!
Nella struttura divisionale, resta tutto uguale alla struttura funzionale, solo che le
varie filiali non sono alle dirette dipendenze della direzione generale o della direzione
coordinamento filiali, ma ci sono degli organi intermedi tra le direzioni e le filiali. Per
fare questo, la banca prima di tutto sceglie su quale criterio vuole raggruppare le filiali
e può scegliere di raggrupparle:
 per area geografica;
 per tipo di servizio offerto;
 per categoria di clienti.
A questo punto, se ad esempio si è scelto di raggruppare le filiali per area geografica,
si creano tanti organi intermedi tra la direzione e le filiali (che si chiamano “divisioni”),
uno per ogni area geografica e quindi le varie filiali non saranno più alle dipendenze
della direzione, ma saranno alle dipendenze della divisione che ha competenza
nell’area geografica in cui si trovano.
Lo stesso discorso vale per gli altri tipi possibili di raggruppamento, cambia solo che
invece che esserci una divisione per ogni area geografica, ci sarà una divisione per
ogni servizio o per ogni categoria di clienti (attenzione a questa qui perché è un po’
particolare, si avvicina di più all’organizzazione funzionale che a quella divisionale a
dire la verità, però loro la mettono come struttura divisionale).
Infine, nella struttura matriciale, non c’è un’unica direzione, ma tante direzioni
diverse, ad esempio ci può essere una direzione per ogni area geografica, per ogni
categoria di clienti, per ogni servizio bancario, per ogni funzione e così via. A questo
punto i diversi organi di comando passano le direttive alla direzione generale la quale
le trasmette alle varie filiali. Quindi la direzione generale c’è ma non ha il compito di
coordinare il lavoro delle varie direzioni. Le varie direzioni sono indipendenti dalla
direzione generale e hanno tutte lo stesso potere, la direzione generale raccoglie le
indicazioni delle varie direzioni e le trasmette alle filiali senza esercitare nessun potere
di controllo o di organizzazione. L’assenza di un potere centralizzato comporta però
problemi legati all’assenza di un preciso indirizzo generale della gestione oltre al fatto
che non essendo tra loro coordinate, le varie direzioni possono addirittura impartire
ordini incompatibili tra loro.
Consiglio personale: siccome questa roba ci potrebbe servire io credo solo se ci
capitasse l’organigramma di un’impresa bancaria, non vi andate a beccare proprio
quella matriciale o quella divisionale per clienti!!! C’è quella funzionale o quella
divisionale per aree geografiche o per prodotti che sono tanto facili!!!!
Equilibrio patrimoniale, economico e finanziario
Nella gestione della propria attività la banca deve, come tutte le altre imprese del
resto, porre particolare attenzione a realizzare l’equilibrio patrimoniale, economico e
finanziari.
Realizzare l’equilibrio patrimoniale significa:
 fare in modo che gli impieghi a lungo siano opportunamente finanziati dalle
fonti a lungo (capitale di proprietà, che nelle imprese bancarie è sempre
relativamente ridotto, e finanziamenti di terzi a lungo);
 fare in modo che l’attivo circolante sia superiore al passivo corrente in modo da
realizzare l’equilibrio patrimoniale nel breve periodo.
Realizzare l’equilibrio economico significa fare in modo che nel lungo periodo l’attività
d’impresa sia in grado di produrre una redditività tale da remunerare opportunamente
il capitale investito garantendo anche in una certa misura l’autofinanziamento della
banca. Questo obiettivo viene ovviamente raggiunto se l’impresa riesce ad avere nel
corso dei vari esercizi dei ricavi superiori ai costi e quindi un utile. I principali elementi
che influiscono sulla gestione economica della banca sono:
 i tassi di interesse, che sono per le banche una fonte di reddito in quando
ovviamente il tasso corrisposto ai risparmiatori è nettamente inferiore a quello
richiesto ai soggetti che si rivolgono alla banca per ottenere un finanziamento. I
tassi attivi per la banca sono influenzati da molteplici fattori, come ad esempio:
o il livello dei tassi presenti sul mercato;
o il rischio del finanziamento;
o la durata del finanziamento;
o la forma tecnica adottata;
o la finalità per cui il finanziamento stesso è stato richiesto.
Anche i tassi passivi per la banca sono influenzati da diversi fattori tra cui i più
importanti sono:
o la forma tecnica di approvvigionamento scelta dalla banca;
o la durata dell’operazione di approvvigionamento;
o l’entità della somma che il risparmiatore ha deciso di investire.
 i proventi derivanti dalla fornitura dei servizi accessori all’intermediazione
creditizia, che come già accennato servono sia per migliorare la situazione
economica dell’impresa sia per migliorare l’immagine e la notorietà di
quest’ultima all’esterno;
 i costi extra-creditizi sono potremmo dire il corrispondente della fornitura dei
servizi sul lato passivo però, nel senso che essi non hanno niente a che vedere
con la funzione di intermediazione creditizia (come niente avevano a che vedere
i servizi accessori) ma sono costi che devono comunque essere sostenuti perché
l’impresa possa funzionare e generare reddito (impianti, personale, marketing,
etc.).
Infine l’equilibrio finanziario viene realizzato quando la banca riesce ad avere
costantemente una quantità di risorse liquide sufficiente per soddisfare le richieste dei
risparmiatori che in ogni momento possono rivolgersi all’istituto di credito per chiedere
che venga loro restituita una parte delle somme disponibili sui c/c. L’equilibrio
finanziario viene realizzato attraverso due tipi di gestioni:
 la gestione della liquidità (che consiste nel coordinamento delle entrate ed
uscite monetarie nel medio-lungo periodo);
 la gestione della tesoreria (che consiste invece nella previsione delle entrate e
delle uscite nel breve e nel brevissimo periodo e nel ricorso alla vendita dei titoli
o al credito presso la Banca d’Italia nel caso in cui le previsioni evidenzino saldi
negativi tali da rendere insufficiente anche il ricorso alle riserve di liquidità che
le banche sempre accantonano proprio in previsione di possibili riduzioni delle
risorse liquide disponibili).
Il rischio d’impresa
Come tutte le attività d’impresa poi, l’impresa bancaria è sottoposta al rischio
d’impresa e anzi per certi aspetti lo è ancora di più rispetto ad altre attività
imprenditoriali. I rischi per la banca possono essere di natura sia economica che
finanziaria.
I principali rischi di natura economica derivano da:
 possibile insolvenza dei soggetti a cui la banca concede i finanziamenti;
 andamento dei tassi (se la banca concede prestiti a tasso fisso e poi i tassi
alzano la banca ha un guadagno minore rispetto a quello che avrebbe potuto
avere, d’altra parte se la banca assume debiti a tasso fisso e poi i tassi
abbassano gli oneri per la banca saranno maggiori di quelli che avrebbero
potuto essere);
 andamento dei mercati finanziari, in quanto esiste il pericolo che i titoli del
mercato mobiliare su cui la banca ha investito subiscano una svalutazione;
 inflazione, in quanto visto che la maggior parte delle attività della banca sono
costituite da crediti, in caso di forte inflazione la somma nominale restituita a
scadenza dal cliente alla banca avrebbe un valore reale molto inferiore a quello
previsto.
I rischi finanziari sono per lo più legati invece all’insolvenza dei soggetti a cui sono
stati concessi dei finanziamenti visto che se questi soggetti non rimborsano i loro
debiti nei tempi previsti alla banca vengono a mancare le risorse liquide necessarie in
quanto viene a mancare la concordanza tra entrate e uscite che è il principale
strumento che la banca ha per assicurarsi l’equilibrio finanziario.
Il principale strumento di cui la banca dispone per ridurre il rischio d’impresa è il
frazionamento dei rischi creditizi attraverso:
 diversificazione
quantitativa,
che
consiste
nell’evitare
di concedere
finanziamenti di ammontare eccessivamente elevato a un unico soggetto;
 diversificazione territoriale, che consiste nel concedere finanziamenti a imprese
situate in diverse zone geografiche e non concentrate quindi in un’unica area;
 diversificazione settoriale, che consiste nel concedere finanziamenti a imprese
operanti in settori diversi;
 diversificazione delle forme tecniche di concessione dei finanziamenti.
Il marketing bancario
Come tutte le imprese, anche le banche hanno bisogno di fare marketing per
prendersi nuovi clienti o per fidelizzare quelli che già hanno.
Il concetto di marketing parte dal presupposto che l’impresa è inserita in un ambiente
e che ci sono dei flussi continui di informazioni oltre che di denaro che vanno
dall’impresa all’ambiente e viceversa. I flussi che possiamo individuare sono:
 flusso di prodotti e servizi che va dalla banca all’esterno, visto che la banca
fornisce prodotti e servizi a chi si trova nell’ambiente esterno;



flusso di informazioni che va dalla banca all’esterno (pensiamo alle consulenze,
alle indicazioni sull’apertura di credito da scegliere, alle indicazioni sulla
solvibilità dei clienti nel caso in cui la banca funzioni da factor e così via);
flusso di denaro e di informazioni allo stesso tempo che va dall’esterno alla
banca nel momento in cui i clienti versano dei titoli di credito in conseguenza di
transazioni commerciali (la banca riceve infatti informazioni su quali sono i
maggiori soggetti economici, qual è il loro volume di acquisti e vendite, quali
sono quelli insolventi, quali sono le attività economiche predominanti e così
via);
flusso di informazioni provenienti dall’ambiente esterno dirette alla banca che
consistono semplicemente nell’analisi del comportamento dei soggetti di fronte
all’introduzione di un nuovo servizio, ad esempio (è il cosiddetto feed-back, cioè
la banca fa qualcosa e osserva cosa succede come conseguenza, prendendo
così in modo indiretto delle informazioni dall’ambiente esterno).
La banca quindi non può ignorare l’ambiente esterno, che è invece di vitale
importanza per la sua attività. Deve riuscire a capire quali sono le tendenze, quali
sono le esigenze e sulla base di questo deve fornire e presentare opportunamente i
servizi che meglio possono soddisfare le esigenze dei potenziali clienti o dei clienti che
già ha e che non vuole perdere (fidelizzazione dei clienti).
Il primo passo che l’impresa deve fare sul lato del marketing è quello di porsi degli
obiettivi da raggiungere. Gli obiettivi sono prima di tutto generali, ad esempio:
 la definizione del livello di redditività complessiva da raggiungere;
 l’individuazione delle aree geografiche o delle fasce di clientela in cui ci si vuole
espandere;
 il totale delle entrate finanziarie che si vuole conseguire attraverso i depositi in
conto corrente;
 altri che cambiano di volta in volta.
Definiti gli obiettivi generali, bisogna definire i sotto-obiettivi che devono essere
raggiunti per poter raggiungere gli obiettivi generali, ad esempio:
 il numero di nuovi clienti che si vogliono avere in un anno;
 il volume d’affari che si vuole realizzare per ogni servizio;
 i nuovi prodotti o servizi che si vogliono introdurre;
 il rilancio di prodotti già esistenti ma poco richiesti;
 altri.
Fatto il primo passo con la definizione degli obiettivi, bisogna fare il secondo
suddividendo la clientela in base ai criteri che si ritengono più opportuni. Lo scopo è
quello di suddividere i clienti attuali e i potenziali clienti futuri in gruppi omogenei, che
tengono cioè lo stesso comportamento di fronte alle varie iniziative che la banca può
intraprendere. Il criterio che la banca può usare per fare la suddivisione può essere:
 geografico;
 demografico;
 sociale;
 economico;
 misto.
Il criterio misto consiste semplicemente nel fare i raggruppamenti secondo due o più
parametri tra quelli visti sopra, ad esempio unendo il criterio sociale e quello
economico possiamo suddividere i clienti in questi gruppi:
 sposati e poveri;
 sposati e ricchi;
 celibi e poveri;
 celibi e ricchi;
 divorziati e poveri;
 divorziati e ricchi.
Lo so che vi pare che stia bischereggiando, ma vi assicuro che non è così. Anche
queste due cose sul marketing, se ci capita bancaria, ci potrebbero tornare utili e poi
dai… mi direte mica che sono difficili!!! ;-)
Una volta creati i gruppi omogenei, viene la parte più difficile, cioè bisogna capire
quali sono, per ogni gruppo, le iniziative che hanno maggiore probabilità di avere
successo, cioè bisogna capire che cosa vogliono dalla banca i soggetti appartenenti ai
diversi gruppi che ci siamo fatti.
E qui entra in gioco il marketing mix, cioè l’insieme delle azioni di marketing che la
banca deve intraprendere con riferimento a ciascuna categoria di clienti per fare in
modo che diventino clienti della banca o che si “affezionino” ancora di più alla banca.
Queste azioni vengono chiamate leve di marketing e sono:
 la gamma dei prodotti/servizi: cioè per ogni categoria di soggetti si va ad
individuare quali potrebbero essere i servizi che verrebbero accolti con maggior
favore o quali sono i servizi che vengono maggiormente usati e che quindi
devono essere potenziati, ad esempio ci saranno categorie di clienti che
considerano più importanti i servizi di investimento, altri considerano invece più
utili quelli di finanziamento, altri ancora quelli di incasso e pagamento e così
via, quindi a seconda del soggetto a cui ci vogliamo rivolgere dobbiamo
potenziare più gli uni o gli altri uniformandoci alle sue esigenze;
 il prezzo praticato, cioè il livello dei tassi e le altre condizioni: cioè dobbiamo
prima di tutto cercare di offrire condizioni migliori di quelle della concorrenza a
livello complessivo ma dobbiamo fare attenzione anche a come bilanciare gli
interessi e le commissioni, ad esempio se ci rivolgiamo a persone con bassa
cultura, se gli diamo tassi appetibili e poi recuperiamo con le commissioni va
bene tanto non se ne accorgono, invece se ci rivolgiamo a gente che sa il fatto
suo e pensiamo di prenderli in giro così quelli se ne accorgono, si offendono e ci
salutano (ho banalizzato, e neanche poco, ma serve per rendere un po’ l’idea,
almeno spero);
 la distribuzione sul territorio delle dipendenze minori: in generale cioè si tratta
di capire quali sono i mezzi più idonei per permettere ai vari soggetti di entrare
in contatto con la banca. Sappiamo ad esempio che ci sono modi tradizionali
(sportelli) e i vari modi automatici (remote banking, sportelli bancomat, cash
menagement, MAV, RID e così via) e la scelta ad esempio tra il potenziamento
degli sportelli e il potenziamento dei mezzi informatici e automatici non è
casuale, dipende dai soggetti a cui ci vogliamo rivolgere (se ad esempio
vogliamo “conquistare” i vecchini di certo sarà più importante mettergli lo
sportello sotto casa che potenziare il servizio con Internet visto che non sanno

neanche cosa sia, mente invece se ci rivolgiamo ai giovani o agli uomini d’affari
con poco tempo è probabile che sia maggiormente apprezzato il potenziamento
dei mezzi telematici);
la comunicazione, in particolare il personale addetto al pubblico, che deve
sapersi regolare in base alle persone che ha di fronte (cioè ad esempio deve
saper essere disponibile e semplice se ha a che fare con della gente che non se
ne intende, mentre deve essere qualificato e preciso se si rivolge a degli addetti
ai lavori), ma nella leva della comunicazione rientrano e hanno un’enorme
importanza anche le campagne pubblicitarie, cioè a seconda dei soggetti a cui ci
vogliamo rivolgere dobbiamo capire qual è lo strumento più idoneo (giornali,
volantini, TV, radio, Internet, etc) e dobbiamo anche trovare il modo più adatto
per passare il messaggio, cioè utilizzare gli strumenti di comunicazione di
massa in modo che il nostro messaggio colpisca chi lo riceve.
Il bilancio delle imprese bancarie
I principi generali sulla redazione del bilancio e i criteri di valutazione sono indicati nel
D. Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87 che è trascritto in maniera integrale come legge
collegata nel codice civile 2002 di Elemond Scuola & Azienda che vi RACCOMANDO di
prendere per gli esami, anche perché ci sono un macello di cose importanti per
ragioneria (attenzione perché ce ne sono 2, non mi prendete quello specializzato
sull’ambiente e il territorio!!!)
Gli schemi di bilancio e le riclassificazioni dello Stato Patrimoniale e del Conto
Economico sono indicate in modo chiarissimo sul libro. Si tratta semplicemente di
schemi da imparare, che prenderemo in mano insieme al momento di studiare. E’
inutile che perda una mattinata a riscrivere pari pari le cose del libro.
LA LEGISLAZIONE BANCARIA E IL SISTEMA BANCARIO ITALIANO
La legislazione in materia bancaria è stata profondamente modificata in tempi
relativamente recenti da due Testi Unici. Il primo, del 1993, venne chiamato “Testo
unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” e riunì una serie di leggi emanate nel
corso degli anni ’90 per accogliere le direttive europee in materia bancaria. Il secondo,
del 1998, ha in parte integrato e in parte anche modificato il T.U. del ’93 e che è stato
chiamato “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”.
Prima del ’93, l’attività bancaria era regolata da un insieme di disposizioni emanate
nel corso di diversi anni che venivano riassunte sotto il nome di “Legge Bancaria”. Il
punto di riferimento della cosiddetta Legge Bancaria era un regio decreto legge del
’36, poi a più riprese rivisto e modificato fino ad arrivare appunto alla revisione
completa della normativa del ’93. La legge bancaria si basava su alcuni principi
cardine che traevano la loro origine dalla grave crisi che interessò il settore bancario
in corrispondenza della crisi del ’29, quando anche le banche risentirono
pesantemente della crisi delle industrie visto che buona parte del capitale delle banche
era detenuto dalle industrie sotto forma di partecipazioni e visto anche che le industrie
non avevano le risorse necessarie per rimborsare i debiti che avevano verso gli istituti
di credito i quali si trovarono quindi in grave carenza di liquidità e ottennero in quegli
anni risultati economici oltre che finanziari catastrofici. Questi principi cardine erano,
in particolare:






la proprietà pubblica delle imprese bancarie, che finirono tutte per essere
controllate dallo Stato e in particolare dall’IRI, Istituto per la Ricostruzione
Industriale, che acquisì le partecipazioni in attività industriali che erano
detenute dalle tre maggiori banche del tempo e acquisì anche la maggioranza
del capitale delle banche stesse;
la separazione netta tra le attività industriali e quelle di intermediazione
creditizia;
la specializzazione temporale, cioè una banca non poteva concedere
finanziamenti a breve e a lungo allo stesso tempo, doveva decidere se
specializzarsi nei finanziamenti a breve (e prendere quindi il nome di banca
commerciale o istituto di credito ordinario) o nei finanziamenti a lungo (e
prendere il nome di istituto di credito speciale);
la specializzazione settoriale, cioè gli istituti di credito speciali (e solo quelli,
quindi questo non vale per le banche commerciali) dovevano scegliere un
settore in cui operare (si trattava di macro-settori, che comprendevano in realtà
un numero piuttosto cospicuo di attività economiche) e potevano concedere
finanziamenti solo alle imprese operanti in quel settore;
il pluralismo degli istituti di credito, nel senso che essi potevano assumere la
forma giuridica che meglio si adattava al tipo di attività e alla realtà locale in cui
i vari istituti si trovavano ad operare, ma erano sottoposti a una diversa
regolamentazione a seconda della forma giuridica adottata;
l’istituzione della Banca d’Italia, unico istituto incaricato dell’emissione di
moneta.
A partire dal ’93 poi, come detto, c’è stato questo profondo rinnovamento, che ha
avuto come principi cardine:
 la liberalizzazione dell’attività bancaria e il mutuo riconoscimento, con l’ingresso
nel settore dell’intermediazione creditizia di molte imprese capaci di fare
concorrenza ai colossi del credito che esistevano già a inizio secolo e con la
possibilità offerta alle imprese bancarie straniere di installare le loro filiali in
Italia (la stessa cosa ovviamente la possono fare le banche italiane, che
possono quindi installare le loro filiali in ogni Paese dell’area Euro senza
limitazioni, secondo appunto il principio del mutuo riconoscimento);
 l’accrescimento dell’efficienza delle aziende di credito italiane in modo da poter
sostenere il confronto con gli istituti di credito europei, realizzato anche
attraverso la privatizzazione degli istituti di credito che fino agli anni ’90 erano
in gran parte controllati ancora dallo Stato;
 la despecializzazione temporale e settoriale delle banche, che così sono lasciate
libere di concedere finanziamenti senza limiti temporali o di settore;
 la prudente gestione dell’attività creditizia e la ricerca della stabilità del sistema
finanziario, in modo da tutelare il pubblico risparmio e evitare gravi crisi di
settore come quella che si era verificata a inizio secolo;
 la possibilità di acquisire partecipazioni in imprese sia del settore creditizio che
di altri settori, anche se in questo senso restano ancora alcuni limiti;
 la definizione tassativa della forma giuridica delle imprese bancarie, che devono
necessariamente essere società per azioni o società in accomandita per azioni
senza differenze di trattamento a seconda che venga assunta l’una o l’altra
forma giuridica.
Ovviamente la normativa bancaria non si esaurisce qui, ma si compone di un
complesso di disposizioni che mi guardo bene dall’elencare nei particolari anche
perché mi pare davvero improbabile che ci venga richiesto di esporre nei particolari la
regolamentazione del settore bancario, molto più probabile invece che ci venga
chiesta l’evoluzione storica della regolamentazione, cioè quello che ho messo fin qui.
Non dimentichiamo tra l’altro che praticamente qualunque codice civile ha il T.U. delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, quindi questo mi pare davvero
l’ultimo dei problemi.
LE OPERAZIONI DI RACCOLTA
Le operazioni di raccolta sono tutte quelle operazioni che vengono svolte dalla banca
per raccogliere le risorse monetarie che vengono poi concesse sotto forma di
finanziamenti ai soggetti in deficit.
Esistono operazioni di raccolta originarie e derivate. Quelle originarie sono quelle
maggiormente diffuse attualmente e possono essere così elencate:
 depositi a risparmio libero;
 depositi a risparmio vincolato;
 certificati di deposito;
 conti correnti di corrispondenza passivi;
 raccolta obbligazionaria;
 operazioni pronti contro termine.
Quelle derivate invece sono le operazioni di approvvigionamento effettuate non con i
privati cittadini, ma con le altre banche. Queste operazioni, molto diffuse in passato,
sono ora molto meno utilizzate tanto che il testo le cita soltanto senza dilungarsi oltre.
Alcuni esempi sono:
 i depositi interbancari;
 i risconti;
 le anticipazioni passive;
 i riporti passivi.
I DEPOSITI BANCARI IN GENERALE
Aspetto giuridico
I depositi bancari, sia quelli liberi che quelli vincolati, sono regolati nel codice civile
all’art. 1834, che recita testualmente:
“nei depositi di una somma di denaro presso una banca, questa ne acquista la
proprietà ed è obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria, alla scadenza del
termine convenuto ovvero a richiesta del depositante, con l’osservanza di un periodo
di preavviso stabilito dalle parti o dagli usi”
Il contratto di deposito viene quindi inteso come un esempio di deposito irregolare,
regolato anch’esso nel codice civile all’art. 1782 che recita testualmente:
“Se il deposito ha per oggetto una quantità di denaro o altre cose fungibili, con facoltà
per il depositario di servirsene, questi ne acquista la proprietà ed è tenuto a
restituirne altrettante della stessa specie e qualità”
Dal punto di vista giuridico quindi il contratto di deposito è:
 tipico, in quanto regolato dal codice civile;
 reale, in quanto si perfeziona (cioè si conclude) al momento della materiale
consegna del denaro all’ente creditizio;
 non solenne, in quanto la legge non prevede che debbano essere rispettate
precise regole formali nella sua stesura;
 in serie (o per adesione), in quanto il modulo con le condizioni contrattuali è già
predisposto ed il cliente può solo accettarlo o rifiutarlo in toto.
Aspetto economico
Le ragioni per cui un privato cittadino o un’impresa possono decidere di depositare le
proprie risorse monetarie presso un istituto di credito sono:
 la funzione di custodia, ovvero quella funzione svolta dalla banca la quale si
incarica di predisporre tutte le misure necessarie affinché le risorse depositate
non siano soggette a furti o smarrimenti assumendo su di sé ogni responsabilità
nel caso questi eventi dovessero verificarsi;
 la funzione di investimento, che interessa ai risparmiatori che non avendo le
capacità o la predisposizione ad investire i propri risparmi in altro modo,
decidono di depositarli in banca con lo scopo di ottenere su di essi il pagamento
degli interessi (va detto però che essendo gli interessi sui depositi molto bassi,
sono pochi i risparmiatori che fanno ricorso al deposito bancario in quanto
attirati dalla sua remuneratività);
 la funzione monetaria, ovvero la possibilità di usare il conto in alternativa alla
moneta legale per il regolamento dei debiti e la riscossione dei crediti attraverso
la moneta cartolare (gli assegni), ma anche la moneta scritturale ed elettronica
(bonifici, giroconti, pagamenti e riscossioni con carte di credito e Bancomat,
etc.).
Aspetto tecnico
Per venire incontro alle diverse esigenze della clientela, le banche mettono a
disposizione depositi con caratteristiche diverse e ogni cliente sceglie quello che
meglio soddisfa le due esigenze. Di particolare importanza a questo proposito è la
distinzione che viene fatta tra depositi a vista e depositi vincolati.
I depositi a vista, detti anche depositi liberi, sono i depositi in cui il cliente può in ogni
momento senza necessità di alcun preavviso recarsi in banca e prelevare le somme
precedentemente versate. Di solito vengono utilizzati dai risparmiatori che non hanno
grandi somme da investire e che ricorrono al deposito bancario soprattutto per i
servizi ad esso connessi. I depositi liberi sono a loro volta classificati in:
 depositi a risparmio libero, in cui le operazioni sono svolte quasi esclusivamente
in contanti e i servizi connessi sono molto limitati;
 conti correnti di corrispondenza passivi, che noi chiamiamo semplicemente conti
correnti e che si caratterizzano per il gran numero di servizi connessi e per la
molteplicità degli strumenti che possono essere impiegati per regolare le
posizioni debitorie e ottenere i pagamenti;
I depositi vincolati invece si caratterizzano per il fatto che le somme versate non sono
a completa disposizione del cliente che quindi non può recarsi in banca e chiedere il
rimborso in qualunque momento, o meglio, può farlo ma la redditività
dell’investimento diverrebbe a quel punto molto bassa. Ricordiamo comunque che in
nessun caso la banca può restituire al cliente una somma inferiore a quella
inizialmente versata. Ci sono tre tipi di depositi vincolati:
 depositi a risparmio vincolati a scadenza fissa, in cui al momento del
versamento viene fissata una data esatta prima della quale per il cliente non è
affatto conveniente richiedere la restituzione della somma depositata;
 depositi a risparmio vincolati a scadenza indeterminata, in cui il cliente è tenuto
a dare un preavviso di un certo numero di giorni (che cambia a seconda della
banca) prima di poter ritirare la somma depositata;
 certificati di deposito, ovvero documenti semplicissimi che vengono emessi dalle
banche e che vengono comprati dai risparmiatori corrispondendo il relativo
valore nominale, poi a scadenza ovviamente la banca accredita il conto del
cliente del valore nominale e degli interessi che sono ovviamente più alti di
quelli corrisposti dalla banca sui depositi semplici.
Elementi caratteristici dei depositi
La banca di solito calcola su ogni deposito alcuni valori che sono importanti per le
scelte di gestione dell’istituto di credito, ad esempio per stabilire il tasso di interesse
da applicare (sia attivo che passivo), per realizzare l’equilibrio finanziario, per
determinare l’ammontare massimo dei finanziamenti che possono essere concessi e
per molte altre scelte di gestione. Questi valori importanti che vengono determinati
sono:
 la consistenza media;
 la giacenza media;
 la velocità di circolazione;
 la movimentazione.
La consistenza media è un valore che indica l’ammontare medio delle risorse
monetarie presenti sul conto corrente con riferimento a un certo periodo di tempo.
Quindi, detto semplicemente, quanti soldi ci sono in media sul conto. Esso si ottiene
dividendo la somma dei numeri (quelli che si trovano dallo scalare interessi) per i
giorni (cioè quanti giorni ci sono nel periodo di riferimento, che coincide quasi sempre
con il periodo di capitalizzazione). Il calcolo deriva dal fatto che i numeri derivano dal
prodotto dei saldi per i giorni, quindi se dividiamo per i giorni ci rimane il saldo medio
al numeratore.
La giacenza media invece ci dice per quanto tempo mediamente 1 Euro resta sul conto
e questo è importante per la banca perché se la giacenza è lunga, cioè se i soldi
depositati sul conto ci restano per molto, vuol dire che la banca può utilizzare quei
soldi per degli investimenti di medio-lungo periodo con una certa tranquillità mentre
se in un deposito i soldi versati vengono prelevati spesso e in modo imprevedibile la
banca non può fare grande affidamento su quel deposito. La giacenza media si trova
con una formula che trovate a pag. 77 del nostro libro.
La velocità di circolazione va invece a misurare una grandezza del tutto opposta alla
giacenza media, cioè va a vedere quante volte il conto si rinnova completamente
durante il periodo di riferimento. La velocità di circolazione può essere calcolata
facendo l’inverso della giacenza media, quindi saputa la giacenza media, sappiamo
anche la velocità di circolazione.
La movimentazione invece non è un vero e proprio valore, ma piuttosto un grafico che
evidenzia l’andamento del conto durante il periodo di riferimento o durante l’intero
anno.
Aspetto computistico
L’aspetto computistico è l’aspetto pratico della trattazione dei depositi, quindi non mi
ci soffermo più di tanto perché avremo modo di parlarne in modo approfondito in
seguito prendendo in mano i vari depositi separatamente.
Per il momento ci basti sapere che l’aspetto più importante dal punto di vista
computistico è, com’è facile immaginare, la determinazione delle competenze. A
questo scopo assumono particolare rilevanza come sappiamo tre elementi:
 le valute delle operazioni;
 il tasso di interesse applicato;
 le spese generali e di tenuta conto.
Il tasso di interesse applicato è generalmente non reciproco, nel senso che i tassi di
interesse attivi per la banca sono maggiori, talvolta anche di molto, rispetto ai tassi di
interesse attivi per il cliente (e quindi passivi per la banca). L’entità dei tassi di
interesse passivi dipende da molti fattori tra cui:
 il rischio del finanziamento;
 l’entità della somma richiesta;
 la forma tecnica di concessione del finanziamento;
 i tassi presenti sul mercato
ma anche i tassi attivi per il cliente sono variabili e cambiano soprattutto in funzione
dell’entità del deposito, cioè capita spesso che al crescere della consistenza media,
cresca anche il tasso di interesse che la banca corrisponde al cliente.
Sulla base di queste informazioni vengono redatti i due documenti fondamentali,
ovvero l’estratto conto (che contiene l’elenco delle operazioni in ordine cronologico) e
lo scalare interessi (detto anche staffa, che contiene l’elenco delle operazioni in ordine
di valuta). A questo punto operiamo sullo scalare interessi e determiniamo gli interessi
sulla base del procedimento amburghese, che consiste nel moltiplicare i vari saldi che
si sono presentati nel periodo di riferimento per i giorni in cui questi saldi sono rimasti
sul conto. Il risultato di questa moltiplicazione è scritto nella colonna dei numeri, che
poi vengono sommati tra loro, moltiplicati per il tasso di interesse e divisi per 36500
per trovare l’importo degli interessi. Dagli interessi lordi andrà poi sottratta la ritenuta
del 27% e andranno anche sottratte le varie spese bancarie per arrivare a
determinare le competenze nette da accreditare sul conto del cliente (o da addebitare,
a seconda dei casi).
I DEPOSITI A RISPAMIO LIBERO IN PARTICOLARE
I depositi a risparmio libero sono stati per tanto tempo la più comune forma di
investimento per i piccoli risparmiatori e quindi anche il principale strumento di
approvvigionamento per le banche. Attualmente essi sono meno utilizzati perché ci
sono altri strumenti per investire i propri risparmi che garantiscono una maggiore
redditività o un maggior numero di servizi collegati.
Osservati dal punto di vista della banca, questi depositi sono operazioni di provvista
caratterizzate da un’elevata giacenza media, il che vuol dire che le somme depositate
sono in genere destinate a restare nel deposito per lunghi periodi in quanto si tratta
spesso di risparmi delle famiglie durevolmente sottratti al consumo e depositati in
banca affinché possano fruttare nel tempo degli interessi. D’altra parte però c’è anche
un aspetto negativo, cioè gli interessi che la banca deve corrispondere su questi
depositi sono più elevati di quelli che vengono corrisposti su altri depositi oggi
maggiormente utilizzati, come ad esempio i conti correnti di corrispondenza passivi.
Osservati dal punto di vista del risparmiatore, sono operazioni di impiego del
risparmio che garantiscono la disponibilità immediata delle somme depositate e un
discreto tasso di interesse, ma presentano il grande svantaggio della scomodità: tutti i
versamenti devono essere effettuati in contanti o con assegni emessi dalla banca
presso cui è aperto il deposito a risparmio libero e tutti i prelevamenti devono essere
effettuati in contanti, quindi non ci sono i servizi di domiciliazione delle utenze, i
bonifici, le carte di credito, i bancomat, gli assegni, insomma tutti quegli strumenti che
vengono offerti con i conti correnti di corrispondenza e che al giorno d’oggi sono
largamente usati.
Al momento dell’apertura del deposito, l’incaricato della banca prende ovviamente le
generalità del depositante il quale provvede al compimento della prima operazione che
deve essere necessariamente un versamento (ricordiamo infatti che un’altra
caratteristica fondamentale di questi depositi è che essi devono essere sempre attivi
e, limitatamente ai libretti al portatore, non possono eccedere il saldo attivo di 20
milioni di lire, ovvero 10.329 € ). Al cliente viene quindi consegnato il libretto di
risparmio sul quale verranno di volta in volta annotate tutte le operazioni di
versamento e prelevamento compiute sul conto.
I libretti possono essere nominativi o al portatore. Se sono nominativi significa che
solo il cliente o un suo delegato può procedere ai prelevamenti mentre chiunque
ovviamente può procedere a versamenti. In caso di smarrimento di un libretto
nominativo, il cliente ne da comunicazione alla banca che mette un avviso nella filiale
in cui invita il possessore a riconsegnarlo. Se questo non avviene, dopo 90 giorni il
vecchio libretto diviene inutilizzabile e ne viene emesso un duplicato. Se sono al
portatore significa che chi ne ha possesso può procedere al compimento di
prelevamenti e versamenti in tutta libertà. La banca non è tenuta a verificare che il
soggetto che presenta il libretto ne sia il legittimo possessore, quindi c’è il grande
problema che se il libretto viene rubato o perso il soggetto che ne entra in possesso
può prosciugare il conto senza difficoltà. Anche la procedura di ammortamento in
questo caso è più complessa. Infatti la denuncia va fatta sia alla banca che all’autorità
giudiziaria, la quale eseguite le necessarie indagini dichiara nullo il libretto al portatore
perso o rubato (decreto di ammortamento) e invita la banca a rilasciare un duplicato
non prima che siano trascorsi 90 giorni e non oltre i 180 giorni dalla pubblicazione del
decreto sulla Gazzetta Ufficiale. La ragione del termine minimo sta nel fatto che è
previsto il reclamo da parte del possessore del libretto al momento dell’emissione del
decreto di ammortamento (ovviamente se si tratta di un ladro il reclamo è piuttosto
improbabile, ma se si trattasse invece di un legittimo proprietario che aveva ricevuto il
libretto come mezzo di pagamento e poi se lo vede annullare, beh allora a quel punto
il reclamo è il minimo che possa fare).
Per quanto attiene alla movimentazione del deposito a risparmio libero, va detto che
tutti i prelevamenti devono essere effettuati in contanti (niente bonifici, assegni, carte
di credito, bancomat e quant’altro) mentre invece per i versamenti si può usare
denaro contante, ma anche assegni bancari emessi da un correntista della stessa
banca su cui si trova il deposito a risparmio libero e anche assegni circolari ma solo se
emessi dalla banca su cui si trova il deposito a risparmio libero. Tutti gli altri titoli di
credito bancari possono essere riscossi a discrezione del dipendente della filiale presso
cui è aperto il deposito e solo se il libretto del deposito è nominativo e di solito la
valuta dell’accreditamento è di qualche giorno successiva al versamento (unico caso in
cui la valuta e la data dell’operazione non coincidono).
L’aspetto pratico non ha senso trattarlo qui perché mi porterebbe via un casino di
tempo e fatto in questo modo servirebbe anche a poco. Studierò io il modo più
opportuno per perdere il minor tempo possibile e avere comunque la massima
efficacia. In questo documento mi limito a trattare la parte teorica.
I DEPOSITI VINCOLATI IN PARTICOLARE
Così come avveniva per i depositi a risparmio libero, anche per quelli vincolati la prima
operazione è un versamento in corrispondenza del quale la banca rilascia al cliente un
libretto di deposito diverso da quello utilizzato per i depositi a risparmio libero, su cui
vengono registrate le varie operazioni effettuate sul conto vincolato. Anche questi
libretti possono essere nominativi o al portatore con le stesse differenze che abbiamo
visto sopra.
Come già detto, si tratta di depositi in cui il cliente, dopo aver effettuato il
versamento, è sottoposto a dei limiti per il prelevamento della somma versata, che
possono consistere nella determinazione di una data di scadenza precisa prima della
quale è del tutto sconveniente per il cliente procedere al ritiro della somma oppure
nella determinazione di un certo numero di giorni di
preavviso obbligatori prima di poter procedere al ritiro delle somme versate.
I rimborsi anticipati vengono effettuati dalla banca ma a condizioni particolarmente
sfavorevoli per il cliente. L’importo che viene consegnato infatti è uguale al montante
che sarebbe stato consegnato a scadenza sottratti però gli interessi che avrebbero
dovuto maturare dalla data del ritiro anticipato a quella di scadenza del vincolo
applicando però un tasso di interesse più elevato di quello che è stato applicato per
calcolare le competenze a favore del cliente relative al periodo precedente al ritiro,
quindi di fatto la redditività per il cliente diviene bassissima, anche se dobbiamo
ricordare che mai la banca può restituire al cliente una somma inferiore a quella
originariamente versata.
Per quanto attiene ai calcoli, ricordiamo che gli interessi vengono accreditati sul conto
del cliente al 31/12 di ogni anno e alla scadenza del vincolo per la parte di
competenza e che sono determinati sempre con lo stesso procedimento.
I CERTIFICATI DI DEPOSITO IN PARTICOLARE
I certificati di deposito sono documenti di credito del valore nominale di 1000 o
multiplo di 1000 emessi dalle banche per reperire risorse finanziarie dai risparmiatori.
Possono essere a breve (massimo 18 mesi) oppure a medio-lungo termine e anche
per questi titoli possiamo trovare sia certificati di credito nominali che al portatore.
I certificati di deposito a breve sono a rendimento fisso, quindi c’è un tasso di
interesse fisso pre-determinato che viene applicato al valore nominale del titolo
corrisposto dal cliente, ottenendo così il montante che la banca dovrà accreditare al
cliente alla scadenza.
I certificati di deposito a lungo possono essere anche:
 zero coupon: cioè non ci sono gli interessi ma solo il guadagno di capitale tra il
prezzo che il cliente deve corrispondere a pronti per l’acquisto del titolo e il
valore nominale del titolo che la banca accrediterà al cliente a scadenza;
 indicizzati: cioè con tassi di interesse che variano al variare di certe condizioni e
di certi indici;
 con interessi legati all’andamento degli indici di borsa e del cambio.
Dal punto di vista dei calcoli, non ci sono grandi difficoltà, si tratta semplicemente di
calcolare gli interessi con la formula tradizionale per trovare gli interessi da sommare
al valore nominale del titolo per trovare il prezzo a termine. Ovviamente se il tasso è
indicizzato e quindi varia con il passare del tempo, alla scadenza andranno calcolati
più interessi parziali con i vari tassi che si sono succeduti e l’interesse totale sarà dato
semplicemente dalla somma dei vari interessi parziali. Ricordiamo sempre che dagli
interessi va sottratta la ritenuta fiscale del 27% (prima era il 12,50 ma a partire dal
’96 è stata cambiata con la conseguenza che i risparmiatori hanno ridotto
sensibilmente l’acquisto di certificati di deposito costringendo le banche a trovare altri
metodi di approvvigionamento e a ricorrere in particolare alle obbligazioni).
Potrebbe essere interessante un confronto con i BOT, titoli molto simili ai certificati di
deposito come principio. Le principali differenze sono costituite dal fatto che:
 sui BOT viene calcolata un’imposta sostitutiva del 12,50% mentre sui certificati
di deposito come detto viene applicata un’imposta pari al 27% degli interessi;
 all’acquisto dei BOT è necessario pagare all’intermediario una commissione che
invece non viene richiesta se acquistiamo i certificati di deposito;
 i BOT possono essere smobilizzati facilmente prima della scadenza perché sono
negoziati in borsa al contrario dei certificati di deposito il cui smobilizzo prima
della scadenza risulta difficoltoso.
LA RACCOLTA OBBLIGAZIONARIA NEI PARTICOLARI
Che cosa siano le obbligazioni penso che a questo punto lo sappiamo, quindi direi di
andare oltre e vedere l’evoluzione e l’importanza di questo strumento sia per i
risparmiatori che per le banche.
A partire dal ’93, quando la nuova legge bancaria ha stabilito la despecializzazione
temporale delle imprese bancarie, le banche hanno la possibilità di emettere
obbligazioni per reperire le risorse finanziarie di cui necessitano.
L’importanza delle obbligazione come mezzo di approvvigionamento è però
notevolmente aumentata solo a partire dal ’96, quando cioè i certificati di deposito
sono divenuti meno remunerativi a causa della più elevata tassazione e quindi le
banche per garantirsi comunque l’afflusso di capitali dai risparmiatori hanno dovuto
sperimentare nuove tecniche e la principale di queste tecniche è appunto l’emissione
di obbligazioni, che sono soggette a una tassazione meno gravosa (per quelle oltre i
18 mesi è del 12,50% mentre per quelle entro i 18 mesi è al 27% esattamente come
per i certificati di deposito).
La raccolta obbligazionaria presenta dal punto di vista delle banche numerosi
vantaggi, cioè:
 sono debiti da rimborsare a lungo, il che significa che le somme ottenute
possono essere investite anche per concedere finanziamenti a lungo questo
senza compromettere l’equilibrio finanziario;
 possono essere usate per favorire il rafforzamento patrimoniale dell’impresa
attraverso un aumento di capitale, infatti esistono anche obbligazioni
convertibili e con warrant che alla scadenza possono essere convertite in azioni
con conseguente incremento del capitale sociale;
 se la durata dei titoli emessi è superiore a 3 anni, la somma ricevuta non è
soggetta a riserva obbligatoria.
Il principale svantaggio invece è costituito dal costo del finanziamento, infatti
l’emissione di obbligazioni comporta un onere per interessi superiore rispetto a quello
che deve essere sostenuto dalla banca per le altre forme di approvvigionamento,
anche in considerazione del fatto che per invogliare i risparmiatori a sottoscrivere le
obbligazioni la banca è costretta a offrire dei tassi di interesse relativamente elevati.
LA RACCOLTA PRONTI CONTRO TERMINE NEI PARTICOLARI
Nella raccolta pronti contro termine (P/T) con un unico contratto il cliente si impegna a
comprare alla banca a pronti una certa quantità di titoli e la banca si impegna a
riacquistarli a termine pagando un ammontare superiore a quello corrisposto dal
cliente, applicando un tasso di interesse passivo per la banca la cui entità è variabile e
viene di volta in volta contrattata dalle parti in considerazione della durata e dell’entità
dell’operazione, al contrario di quanto avviene ad esempio per i BOT o per altri titoli di
Stato in cui il tasso di interesse è fisso e immodificabile.
Di solito l’ammontare minimo che il cliente deve versare a pronti è piuttosto elevato
(50.000 € circa) ma alcune banche prevedono anche versamenti minori per consentire
l’accesso alla raccolta P/T anche ai piccoli risparmiatori.
Fiscalmente, gli interessi che il cliente percepisce per queste operazioni non sono
tassati nel caso in cui i titoli oggetto della negoziazione siano già di per sé soggetti ad
imposta sostitutiva oppure se il cliente è un imprenditore e i proventi dell’operazione
concorrono alla formazione dell’utile lordo d’esercizio per evitare che ci sia una doppia
tassazione. In tutti gli altri casi i proventi dell’operazione sono soggetti ad imposta
sostitutiva del 12,50%. Inoltre, se c’è stato un guadagno di capitale (cioè se il corso
secco a termine è maggiore di quello a pronti), sul guadagno di capitale deve essere
applicata la ritenuta fiscale del 12,50%.
La raccolta P/T presenta per la banca numerosi vantaggi, cioè:
 si tratta di una raccolta vincolata, quindi il cliente non può chiedere lo
smobilizzo della somma investita prima della scadenza convenuta;
 è uno strumento alternativo ai BOT che permette alle banche di ottenere
almeno una parte dei risparmi dei piccoli risparmiatori che altrimenti si
indirizzerebbero tutti sui BOT causando una perdita di importanza e una
riduzione delle possibilità di azione delle banche;
 il costo dell’operazione è in genere abbastanza contenuto;
 è un valido strumento di marketing.
Per il risparmiatore invece i principali vantaggi sono:
 la possibilità di concordare con la banca la scadenza dell’operazione;
 il rendimento è di solito superiore rispetto a quello garantito dai depositi sia
liberi che vincolati e dai BOT, anche grazie al fatto che la banca non applica
nessuna commissione ma solo un rimborso spese di modesta entità;
 l’operazione non presenta rischi visto che l’eventuale variazione del corso dei
titoli andrebbe a ripercuotersi sulla banca e non sul risparmiatore che in ogni
caso è certo di vedersi corrispondere l’importo a termine determinato alla
stipulazione del contratto;
I CONTI CORRENTI BANCARI NEI PARTICOLARI
I conti correnti di corrispondenza costituiscono al momento attuale il principale
strumento utilizzato dalle banche per reperire le risorse di cui necessitano, visto che al
momento attuale sono molti i soggetti, imprenditori ma anche famiglie, che ricorrono
a questo strumento sia per la sua remuneratività (comunque bassa) sia soprattutto
per il gran numero di servizi che ad esso sono collegati.
Dal punto di vista giuridico si tratta di un contratto atipico, cioè non regolamentato dal
codice civile, che comprende in realtà molti altri contratti legati alle operazioni di
approvvigionamento e finanziamento di volta in volta compiute dalla banca. Sul codice
civile vengono regolate solo alcune delle operazioni che possono essere svolte dai
correntisti, nella sezione V “delle operazioni bancarie in conto corrente”, artt. 1852 e
sgg.
L’apertura del conto avviene per iniziativa di un privato, singolo cittadino o impresa,
che chiedono di poter aprire il conto corrente. La banca, fatte le dovute indagini sulla
moralità, correttezza e solvibilità del potenziale cliente, se ritiene che ve ne siano i
presupposti consegna al cliente la lettera-contratto con riportate le clausole generali
stabilite dall’ABI e le clausole specifiche applicate al conto corrente dalla banca.
Questo contratto può solo essere accettato in toto dal cliente, non è prevista nessuna
modifica. Contestualmente all’apertura del conto, la banca rilascia anche un libretto
degli assegni, previa dichiarazione del cliente secondo cui egli non è interdetto
all’emissione di assegni e non è stato condannato per aver emesso assegni scoperti
nel semestre precedente.
Durante il rapporto di conto corrente la banca registra tutte le operazioni compiute e
redige due documenti distinti, l’estratto conto e lo scalare interessi che vengono
periodicamente inviati ai correntisti (di solito in corrispondenza della fine di ogni
periodo di capitalizzazione, ma il correntista può richiedere che l’invio della
documentazione avvenga con maggior frequenza sostenendo ovviamente le relative
spese).
Il conto può essere estinto in ogni momento su iniziativa di ognuna delle due parti (di
solito su iniziativa del cliente) con preavviso di un giorno. La chiusura del conto
comporta la determinazione delle competenze fino a quel momento maturate e il
versamento da parte della banca del saldo creditore (per mezzo di assegno circolare o
di bonifico a un c/c indicato dal cliente) oppure il versamento da parte del correntista
del saldo debitore.
Una caratteristica fondamentale dei conti correnti di corrispondenza, che li differenzia
dal punto di vista computistico dai depositi a risparmio, è che nei conti correnti di
corrispondenza la valuta delle operazioni molto raramente coincide con la data in cui
l’operazione viene effettuata. Questo ha una notevole rilevanza ai fini del calcolo delle
competenze visto che le operazioni, al momento della redazione dello scalare
interessi, vengono ovviamente messe in ordine di valuta, quindi la valuta che viene
considerata per la determinazione degli interessi e non la data reale in cui è stata
effettuata l’operazione. Ricordiamo comunque che ci sono alcune operazioni che
devono essere registrate obbligatoriamente con valuta in giornata, cioè:
 prelevamenti in contanti;
 versamenti in contanti;
 versamenti di assegni bancari emessi da correntisti della stessa banca;
 versamenti di assegni circolari emessi dalla stessa banca.
Proprio in virtù di questa divergenza tra le valute e le date di svolgimento delle
operazioni, può capitare che un’operazione svolta in un certo periodo di
capitalizzazione non venga contabilizzata in quel periodo perché ha valuta nel periodo
di capitalizzazione successivo (postergate) oppure perché ha valuta nel periodo di
capitalizzazione precedente (antergata). Nel caso di postergate, l’operazione figura
nell’estratto conto del periodo in cui essa viene effettuata ma non figura nello scalare
interessi, figurerà quindi nello scalare interessi del periodo successivo. Nel caso di
antergata, l’operazione figura sia nell’estratto conto che nello scalare interessi del
periodo in cui essa viene effettuata, ma la registrazione nello scalare interessi viene
effettuata con una tecnica particolare che permette di rettificare le competenze
corrisposte relativamente al periodo precedente.
Sempre a causa della discordanza tra data dell’operazione e valuta, abbiamo sul conto
due saldi distinti, quello contabile e quello liquido. Quello contabile deriva dall’estratto
conto, quello liquido dallo scalare interessi. Cioè se mettiamo le operazioni in ordine di
data, troviamo dopo ogni operazione un saldo che è però il saldo contabile. Se invece
mettiamo le operazioni in ordine di valuta dopo ogni operazione troviamo un saldo che
è il saldo liquido.
Le competenze vengono liquidate periodicamente con cadenza variabile a seconda
delle banche, ma in ogni caso le cadenze devono essere le stesse sia per i conti attivi
che per quelli passivi. Per la determinazione delle competenze è necessario innanzi
tutto determinare gli interessi moltiplicando la somma dei numeri dello scalare
interessi per il tasso e dividendo per 36500 (o per 36,5 se i numeri erano stati divisi
per 1000). A questo punto se ci sono stati degli scoperti la banca addebita la
commissione di massimo scoperto, una percentuale che viene calcolata su importi
diversi a seconda della tecnica scelta. Le tre tecniche possibili sono:
 assoluta, cioè la percentuale è calcolata sul massimo saldo negativo del periodo
senza tenere in alcuna considerazione la durata;
 relativa, cioè non si considerano gli scoperti che hanno avuto durata inferiore a
10 giorni e tra quelli che restano si calcola la percentuale sul massimo saldo
debitore;
 mista, cioè non si addebita nessuna commissione se non ci sono stati saldi
debitori di durata superiore a 10 giorni mentre invece se ci sono stati saldi
debitori di durata superiore a 10 giorni si addebita la commissione di massimo
scoperto calcolando la percentuale sul massimo saldo debitore del periodo
senza considerare la sua durata.
Oltre alla commissione di massimo scoperto la banca addebita spesso spese generali
che di solito hanno ammontare fisso e vengono addebitate al momento della
liquidazione delle competenze alla fine di ogni periodo di capitalizzazione e addebita
anche spese di tenuta conto, sempre al momento della liquidazione delle competenze,
che sono date dal prodotto tra un valore fisso di solito di modesta entità e il numero di
scritture che sono state eseguite sull’estratto conto nel periodo di riferimento.
L’AFFIDAMENTO E LE APERTURE DI CREDITO
L’AFFIDAMENTO
La domanda
Il primo passo che un privato cittadino o un’impresa devono compiere quando
necessitano di un finanziamento da parte di un istituto di credito è la richiesta di
affidamento, ovvero una domanda scritta firmata dal richiedente in cui sono indicati
l’ammontare del fido richiesto, la durata, la motivazione e le eventuali garanzie che il
richiedente è in grado di offrire alla banca. A seconda delle circostanze, la banca può
chiedere anche che vengano fornite informazioni specifiche come ad esempio
l’eventuale esistenza di altre posizioni debitorie per quanto riguarda le persone fisiche
oppure una copia dell’ultimo bilancio approvato per quanto attiene alle imprese.
Questi ultimi sono solo due dei più frequenti esempi di richieste specifiche della banca,
il che non toglie però che vengano richiesti anche altri documenti e informazioni
ritenuti importanti per determinare la situazione del cliente e quindi arrivare a
prendere una decisione in merito al fido richiesto.
L’istruttoria
Una volta che il cliente ha fornito tutte le informazioni richieste, la banca procede
all’istruttoria, ovvero svolge tutte le indagini e tutte le analisi ritenute necessarie per
accertare il grado di affidabilità e solvibilità del richiedente, da cui dipenderà poi la
scelta finale. In particolare si tende ad accertare:
 capacità reddituale, ovvero capacità di produrre redditi da impiegare per
adempiere al pagamento dei debiti;
 consistenza patrimoniale, ovvero l’entità dei beni su cui la banca potrebbe
eventualmente rifarsi in caso di insolvenza;
 le caratteristiche personali del richiedente (abilità imprenditoriale, competenza,
professionalità, correttezza commerciale, etc.).
Le indagini che vengono svolte per accertare quanto appena detto sono sia interne
che esterne.
Le indagini interne consistono nell’analisi dei documenti forniti dal cliente o comunque
in possesso della banca relativi al cliente (ad esempio se il cliente è un correntista
della banca, questa ha già gli estratti conti dell’ultimo periodo a sua disposizione e da
questi può trarre importanti informazioni). Tra le indagini interne, assume particolare
rilevanza l’analisi del bilancio. Dalla riclassificazione dello stato patrimoniale e dalla
redazione del conto economico a valore aggiunto, la banca trae infatti importanti
informazioni sull’equilibrio patrimoniale e finanziario dell’impresa e sulla sua capacità
di produrre redditi. Specialmente per le grandi imprese poi può assumere importanza
anche l’analisi per flussi, sia di capitale circolante netto che di cassa, che evidenzia la
situazione finanziaria dell’impresa.
Le indagini esterne consistono nella richiesta di informazioni ritenute di rilievo a
organismi pubblici e privati esterni alla banca come le Camere di Commercio o la
Centrale Rischi per vedere se il cliente ha affidamenti in corso presso altre banche. Tra
le indagini esterne, assumono particolare importanza le informazioni che giungono dal
Bollettino dei protesti che evidenzia i soggetti che non hanno adempiuto agli obblighi
derivanti dalle cambiali commerciali e la centrale dei rischi, dove sono registrati tutti
gli affidamenti concessi dalle banche ai vari soggetti. Importante è anche il
sopralluogo che può essere fatto dal settorista competente, ovvero dal funzionario
dell’ufficio fidi che si occupa della richiesta di affidamento in quanto esperto del
settore a cui appartiene l’impresa che ha concesso l’affidamento.
La delibera
La procedura di affidamento si conclude con la delibera. Essa può essere eseguita
direttamente dal dipendente dell’ufficio fidi della filiale presso cui la domanda è stata
presentata oppure da organismi dirigenziali superiori, a seconda dell’importo richiesto.
Nel deliberare in merito all’affidamento, la banca determina l’ammontare massimo del
fido concesso, che non necessariamente coincide con quello richiesto dal cliente e
determina anche la forma tecnica di concessione del fido (apertura di credito). In
alcuni casi la banca può però decidere di non indicare una forma tecnica precisa e
lasciare il cliente libero di scegliere quella che + più adatta alle sue esigenze.
I controlli successivi
Una volta concesso il finanziamento, fino a che questo non viene completamente
estinto dal cliente, la banca controlla la situazione del correntista richiedendo
periodicamente i documenti contabili e tutte le informazioni ritenute importanti per
percepire in anticipo eventuali sintomi di difficoltà e predisporre le azioni necessarie al
recupero del credito.
LE APERTURE DI CREDITO
Considerazioni generali
Sotto il profilo giuridico l’apertura di credito bancario è “il contratto col quale la banca
si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato
periodo di tempo o a tempo indeterminato”, come recita l’art. 1842 del codice civile,
primo di una serie di quattro articoli in cui sono trattati gli aspetti fondamentali del
contratto di apertura di credito, che quindi può essere definito:
 tipico, in quanto regolato dal codice civile;
 consensuale, in quanto si perfeziona nel momento dell’accettazione della banca,
anche se il cliente non fa immediatamente uso dell’affidamento;
 bilaterale, in quanto comporta obblighi per entrambe le parti;
 per adesione, in quanto il contratto sottoscritto dall’affidato è redatto dall’ente
creditizio sulla base della delibera di affidamento e il cliente può solo decidere di
accettarlo o rifiutarlo in toto.
Delle aperture di credito possiamo fare diverse classificazioni, cioè:
 in base alla scadenza, l’apertura di credito può essere a scadenza fissa o a
scadenza indeterminata;
 in base alle garanzie, l’apertura di credito può essere in bianco (ovvero non
garantita) oppure coperta da garanzie. Nel caso di apertura di credito in bianco,
la banca chiede di solito al cliente di sottoscrivere un pagherò in bianco (ovvero
senza che vi sia riportato l’importo da pagare) su cui viene pagata e addebitata
al cliente un’imposta di bollo sufficiente a coprire l’importo dell’intero
finanziamento comprensivo di spese e interessi. Questo pagherò, che viene
chiamato effetto di smobilizzo, è destinato essenzialmente a garantire la banca
in merito all’adempimento dell’obbligazione, infatti se il cliente non rimborsa il
finanziamento la banca compila il pagherò con l’importo dovuto ed ha in mano
un titolo esecutivo da presentare all’autorità giudiziaria per chiedere
l’adempimento forzato. Se invece vengono presentate delle garanzie, va
ricordato che esse possono essere reali (pegno o ipoteca, rispettivamente su
beni mobili e immobili) o personali (fidejussione e avallo da parte di terzi);
 a seconda del beneficiario, l’apertura di credito può essere a favore del
richiedente (ed è il caso largamente più comune) oppure a favore di terzi (è il
caso ad esempio della richiesta di apertura di credito a favore dell’esportatore
nel caso di pagamento con apertura di credito documentaria, largamente usata
nel commercio internazionale);
 in base alle modalità di utilizzo, l’apertura di credito può essere per cassa
(quando viene messa a disposizione una somma di denaro) oppure per firma
(quando la banca non mette a disposizione denaro ma funziona da garante nei
confronti dei creditori dell’affidato).
L’apertura di credito in conto corrente
Si ha un’apertura di credito in conto corrente quando la banca permette al cliente
correntista di prelevare somme di denaro dal proprio conto corrente in misura
maggiore rispetto a quelle presenti su di esso. E’ quello che comunemente viene
chiamato scoperto di conto corrente. Attualmente questa è l’apertura di credito
maggiormente utilizzata e quindi è a questo tipo di finanziamenti che è indirizzata la
maggior parte delle risorse raccolte dalla banca.
Si possono avere aperture di credito ordinarie, quando il conto dell’affidato è
costantemente negativo, oppure aperture di credito per elasticità di cassa, quando il
conto dell’affidato presenta saldi positivi e negativi che si alternano.
Il ricorso a questo tipo di apertura di credito presenta vantaggi sia per il cliente
affidato che per la banca.
I principali vantaggi per il cliente affidato sono:
 la possibilità di disporre di una forma di credito elastica, che possa essere
impiegata in misura maggiore o minore a seconda della necessità, entro i limiti
ovviamente del fido concesso dalla banca;
 il costo del finanziamento è proporzionato alla parte utilizzata dal correntista,
quindi se il correntista ha ottenuto l’apertura di credito ma non va scoperto sul
conto (per assurdo) non paga interessi debitori, o comunque se va scoperto
paga gli interessi debitori solo sull’importo dello scoperto e sulla sua durata.
Questo aspetto differenzia le aperture di credito in conto corrente da quelle
semplici a scadenza fissa ed è un grande vantaggio, perché in quelle a scadenza
fissa il cliente paga gli interessi su tutto il finanziamento richiesto e per tutta la
sua durata, anche se in pratica la parte effettivamente utilizzata è minore.
I principali vantaggi per la banca invece sono:
 la possibilità di rivedere periodicamente le condizioni applicate al finanziamento,
ad esempio in corrispondenza di significative variazioni dei tassi presenti sul
mercato;
 la possibilità di ottenere importanti informazioni dall’andamento del conto
corrente del cliente affidato, che costituisce già di per sé un importante
strumento di controllo della banca sul comportamento del cliente e sulle sue
possibilità di rimborsare il debito contratto.
Alcune informazioni che può essere utile conoscere relativamente alle aperture di
credito in conto corrente sono l’effettivo grado di utilizzo e il costo effettivo
dell’indebitamento, che però attengono alla parte pratica e verranno visti in separata
sede.
Le aperture di credito semplici
Le aperture di credito semplici invece sono aperture di credito che consistono nel
versamento da parte della banca di un determinato importo e del rimborso dello
stesso da parte del cliente a scadenza, con la maggiorazione degli interessi e delle
varie spese. Al contrario di quanto avviene nelle aperture di credito in c/c, in questi
casi i versamenti eventualmente operati dal cliente durante la durata del
finanziamento non comportano variazioni nell’ammontare del costo da sostenere per
l’indebitamento, infatti questo viene determinato al momento della concessione del
finanziamento sul totale del finanziamento e per l’intera durata dello stesso, senza
tenere in considerazione il fatto che il cliente utilizzi completamente il finanziamento
ottenuto.
A questo tipo di finanziamenti ricorrono soprattutto le imprese con attività stagionale,
che hanno necessità di finanziamenti per finanziare il ciclo produttivo e sono poi in
grado di rimborsare i finanziamenti stessi al momento della vendita di quanto
prodotto.
Un esempio importante di apertura di credito semplice diretta alle imprese è la
sovvenzione cambiaria, detta anche sconto di pagherò diretto che vediamo ora nei
particolari.
La sovvenzione cambiaria
Si tratta di un pagherò che il cliente che richiede il finanziamento emette a favore
della banca presso cui il finanziamento è richiesto come garanzia del suo
adempimento.
Dietro presentazione del pagherò, la banca accredita al cliente il valore nominale del
pagherò, sottratto lo sconto, le commissioni e il rimborso delle spese per il bollo
cambiario. A scadenza il cliente rimborsa il valore nominale del pagherò. Il costo del
finanziamento quindi è dato dalla differenza tra il netto ricavo accreditato al cliente a
pronti e l’importo che il cliente rimborsa alla banca alla scadenza.
Trattandosi di una cambiale non commerciale, il rischio per la banca è più elevato in
quanto l’adempimento da parte del cliente dipende esclusivamente dalla sua
solvibilità. Per questo motivo il costo del finanziamento è generalmente più elevato
rispetto al costo che il cliente sosterrebbe se scontasse una cambiale commerciale e
inoltre vengono spesso richieste delle garanzie di firma da parte di terzi.
Le aperture di credito per firma
Le aperture di credito per firma sono degli impegni che la banca assume nei confronti
di un cliente senza erogare somme monetarie, ma fungendo invece da garante in
modo che il cliente possa chiedere un finanziamento presso altre fonti godendo della
garanzia importante di una banca.
Il costo del finanziamento è dato da una commissione applicata in via anticipata al
momento della concessione della garanzia e da eventuali rimborsi spese.
I motivi principali per cui un’impresa può aver bisogno di un’apertura di credito per
firma sono:
 evitare il deposito di cauzioni di denaro, frequentemente richieste alle imprese
che partecipano ad esempio alle gare d’appalto per l’edilizia;
 rendere più agevole la conclusione di un acquisto con regolamento differito,
soprattutto quando il venditore, non conoscendo il compratore, non
concederebbe la dilazione di pagamento senza le necessarie garanzie;
 ottenere un finanziamento di cassa presso un altro istituto bancario a condizioni
più vantaggiose in quanto coperto dalla garanzia fornita dall’istituto di credito
che ha concesso l’apertura di credito per firma.
Le tre tipologie di apertura di credito per firma sono:



avallo, cioè la banca diviene obbligato cambiario, garantendo che se il cliente
non adempirà al pagamento previsto nella cambiale sarà la banca stessa ad
adempiere;
fidejussione, in questo caso non ci sono cambiali di mezzo, ma semplicemente
obbligazioni, cioè impegni presi da un soggetto con la stipula di un contratto a
titolo oneroso e la banca funziona da garante nel senso che se il cliente non
adempie all’obbligazione prevista nel contratto la banca adempie al suo posto;
accettazione bancaria, che vediamo ora nei particolari.
L’accettazione bancaria
Le fasi dell’accettazione bancaria sono le seguenti:
1. il cliente spicca tratta a suo favore nei confronti della banca sulla base di un
precedente accordo;
2. la banca accetta la tratta spiccata dal cliente e diventa così obbligato cambiario
nei confronti del cliente che ha spiccato la tratta, in cambio dell’accettazione
però richiede il versamento di una commissione di accettazione;
3. il cliente a questo punto ha in mano la tratta accettata dalla banca e la cede a
una società finanziaria la quale corrisponde al cliente il valore attuale della
tratta applicando lo sconto secondo un tasso che viene detto tasso Denaro, in
questo modo il cliente entra in possesso della somma di cui ha bisogno, seppure
decurtata della commissione bancaria e dello sconto applicato dalla società
finanziaria;
4. la società finanziaria colloca la tratta presso un risparmiatore il quale
corrisponde il valore attuale della stessa applicando lo sconto con un tasso che
viene detto tasso Lettera e che è inferiore rispetto al tasso denaro, la differenza
tra il tasso denaro e il tasso lettera costituisce il guadagno per la società
finanziaria;
5. il risparmiatore alla scadenza della cambiale va presso la banca che l’ha
accettata in origine e riscuote il valore nominale della cambiale, da cui viene
sottratta però l’imposta del 27% calcolata sulla differenza tra il valore nominale
del titolo e il prezzo corrisposto dalla società finanziaria al cliente della banca
che aveva chiesto il finanziamento;
6. la banca, dopo aver corrisposto al risparmiatore quanto dovuto, addebita il
conto del cliente che aveva emesso la tratta di un importo corrispondente al
valore nominale della tratta stessa.
Per il cliente quindi il costo di questo finanziamento è dato dalla somma di:
 commissione di accettazione richiesta dalla banca nel momento in cui accetta la
tratta spiccata dal cliente;
 sconto applicato dalla società finanziaria nel momento in cui il cliente cede la
tratta alla società finanziaria per ottenere le risorse monetarie di cui ha
bisogno;
 bollo cambiario nella misura dello 0,01% del valore nominale della tratta.
Le aperture di credito documentarie
Le aperture di credito documentarie costituiscono il principale esempio di apertura di
credito in cui il beneficiario non è il cliente che chiede l’apertura di credito ma un terzo
soggetto. Esse sono ampiamente impiegate nel commercio internazionale come
metodo di pagamento sicuro effettuato tramite gli istituti di credito dei due soggetti
interessati.
Le fasi dell’apertura di credito documentaria sono:
1. l’importatore si reca presso la sua banca e chiede che venga effettuata
un’apertura di credito nei confronti dell’esportatore;
2. la banca dell’importatore invia alla banca dell’esportatore la lettera di credito
con cui la informa dell’apertura di credito effettuata nei confronti
dell’esportatore, cioè in sostanza la banca dell’importatore si impegna a
corrispondere alla banca dell’esportatore e quindi in sostanza all’esportatore
l’importo relativo alla transazione commerciale che è avvenuta tra i due
soggetti;
3. appena ricevuta la lettera di credito, la banca dell’esportatore invia una lettera
di notifica all’esportatore con cui lo avvisa dell’apertura di credito effettuata nei
suoi confronti e lo invita a consegnare i documenti relativi alla transazione
commerciale;
4. ricevuti i documenti relativi alla transazione commerciale, la banca
dell’esportatore provvede a inviarli alla banca dell’importatore;
5. la banca dell’importatore, controllata la corrispondenza dei documenti ricevuti
con l’apertura di credito richiesta dall’importatore, provvede ad inviare i
documenti all’importatore suo cliente e versa l’importo dovuto alla banca
dell’esportatore che quindi lo accrediterà sul conto dell’esportatore;
6. una volta effettuato il pagamento, la banca dell’importatore addebita il conto
corrente dell’importatore suo cliente dell’importo della transazione commerciale.
Le anticipazioni
Il contratto di anticipazione è un contratto regolato dal codice civile che deriva
dall’unione di due diversi contratti: il contratto di prestito e il contratto di pegno su
titoli o su merci.
In esso la banca si impegna a mettere a disposizione dell’affidato la somma richiesta
dietro la garanzia costituita dal pegno di beni o di titoli. Sui beni o i titoli messi in
pegno, la banca ha i seguenti diritti:
 di ritenzione, cioè la banca acquisisce il possesso dei beni o dei titoli messi in
pegno fino alla scadenza del finanziamento con il relativo rimborso, quindi la
banca è autorizzata a trattenere i beni o i titoli messi in pegno fino
all’adempimento da parte dell’affidato;
 il diritto di far vendere i beni al pubblico incanto in caso di inadempimento, cioè
di far mettere i beni o i titoli all’asta e prendersi il ricavato fino alla totale
copertura del debito assunto dal soggetto insolvente;
 il diritto di privilegio, cioè la banca è il primo creditore, il che significa che con il
ricavato della vendita dei beni dell’inadempiente bisogna prima di tutto che sia
soddisfatto il credito della banca, poi con quello che resta verranno soddisfatti i
crediti di tutti gli altri soggetti.
Caratteristica fondamentale di questa apertura di credito è che l’ammontare del
finanziamento concesso è soggetto a variazioni in caso di svalutazione dei beni dei
titoli dati in pegno dall’affidato. In particolare, se i beni o i titoli in pegno subiscono
una svalutazione superiore a 1/10 del loro valore iniziale, la banca può chiedere che
vengano messi in pegno altri beni oppure che venga rimborsata una parte del
finanziamento inizialmente concesso.
Come detto, si tratta di un contratto tipico (cioè regolato nel codice civile, artt. 1846 e
sgg.) denominato e il documento che attesta la sua stipulazione è chiamato polizza di
anticipazione.
L’anticipazione può essere classificata in base all’oggetto del pegno in anticipazione su
titoli e anticipazione su merci.
Le anticipazioni su titoli, oggi meno diffuse che in passato a causa del maggior utilizzo
delle aperture di credito in conto corrente garantite, sono appunto le anticipazioni
concesse dietro messa in pegno di titoli da parte del cliente. Sono preferibili alle
anticipazioni su merci perché richiedono minori spese in quanto il valore dei titoli è
determinato sulla base della quotazione della Borsa valori e quindi non è necessaria la
stima del perito e di conseguenza il finanziamento risulta meno oneroso per il
richiedente. Per quanto riguarda i diritti accessori sui titoli messi in pegno, va
ricordato che mentre i titoli sono in pegno, le cedole e i dividendi ad essi collegati
vengono comunque percepiti dal cliente proprietario e non dalla banca, mentre invece
il diritto di voto nelle assemblee, salvo patto contrario, spetta alla banca.
Le anticipazioni su merci possono essere fatte solo se le merci messe in pegno non
sono deteriorabili, hanno un ampio mercato e sono quotate ufficialmente. Le merci
oggetto dell’anticipazione possono essere depositate direttamente presso la banca che
ha concesso l’anticipazione oppure essere depositate presso i magazzini generali i
quali rilasciano due documenti: la fede di deposito, che resta in mano al proprietario
delle merci, e la nota di pegno, documento esecutivo che viene dato dal proprietario
delle merci alla banca come garanzia e che attribuisce alla banca il possesso dei beni e
quindi tutti i diritti che abbiamo visto all’inizio. Nel caso in cui il proprietario delle
merci depositi le merci presso i MM.GG. e quindi dia la nota di pegno alla banca, si
parla di sconto di nota di pegno. Questo tipo di anticipazione è più onerosa per il
cliente perché deve sostenere anche le spese per la perizia che mira a determinare il
valore delle merci messe in pegno.
In base alle modalità di utilizzo del finanziamento, possiamo distinguere tra
anticipazioni a scadenza fissa e anticipazioni in conto corrente.
In caso di anticipazione a scadenza fissa, la banca mette a disposizione del cliente a
pronti un importo uguale al valore delle merci o dei titoli messi in pegno diminuito
però dello scarto di garanzia (che mira a tutelare la banca dalla possibile svalutazione
dei beni messi in pegno), degli interessi e del bollo da apporre sulla nota di pegno (in
caso di anticipazione su merci). Alla scadenza dell’anticipazione, il cliente dovrà
rimborsare alla banca un importo pari al valore dei beni messi in pegno sottratto lo
scarto di garanzia. Il costo per il cliente è quindi costituito dagli interessi, dal bollo e
dalle eventuali spese di perizia.
In caso di anticipazione in conto corrente invece al cliente viene concessa la possibilità
di andare scoperto sul conto corrente per un importo corrispondente al valore delle
merci o dei titoli messi in pegno sottratto come sempre lo scarto di garanzia. Gli
interessi passivi sullo scoperto saranno ovviamente inferiori rispetto a quelli di uno
scoperto privo di garanzie.
Il riporto
Il riporto è il contratto con cui un soggetto (detto riportato) si impegna a vendere a
pronti a un altro soggetto (detto riportatore) una certa quantità di titoli con l’obbligo
da parte del riportatore di rivendere i titoli al riportato a una scadenza prestabilita. E’
regolato nel codice civile agli art. 1548 e sgg.
Quindi abbiamo due soggetti:
 il riportato, che cede a pronti i titoli ed ottiene la temporanea disponibilità di
una somma di denaro;
 il riportatore, che acquista a pronti i titoli in cambio ovviamente di denaro e che
poi rivende gli stessi titoli al riportato alla scadenza dell’operazione.
Nel caso del riporto finanziario (esiste anche un riporto di Borsa che serve per scopi
speculativi sui titoli e che non ha niente a che vedere con le aperture di credito) il
riportato è il cliente che necessita del finanziamento e il riportatore è l’istituto di
credito che concede il finanziamento. Ovviamente quindi il prezzo a termine è più alto
del prezzo a pronti, cioè il prezzo che il cliente deve corrispondere alla banca alla
scadenza dell’operazione per riprendere la proprietà dei titoli è superiore rispetto al
prezzo che la banca ha corrisposto al cliente al momento della concessione del
finanziamento e la differenza tra i due prezzi costituisce il costo del finanziamento per
il cliente.
Ovviamente anche in questo caso viene applicato lo scarto di garanzia, il che significa
che dal valore di mercato dei titoli viene sottratta una percentuale variabile in
funzione del tipo di titolo oggetto del riporto e quello che si ottiene è il prezzo a
termine, cioè il prezzo che il cliente dovrà corrispondere alla banca alla scadenza
dell’operazione per riprendere la proprietà dei titoli venduti a pronti. Se poi dal prezzo
a termine togliamo gli interessi che la banca chiede al cliente per la concessione del
finanziamento, troviamo il prezzo a pronti, cioè il prezzo che la banca corrisponde a
pronti al cliente in cambio dei titoli.
Anche in questo caso inoltre restano al cliente i diritti accessori sui titoli, ad eccezione
del diritto di voto in assemblea che passa alla banca per tutta la durata del
finanziamento.
Confronto tra anticipazioni e riporti
Le principali differenze tra anticipazioni e riporti sono:
 il riporto è giuridicamente un contratto unico e indivisibile, anche se dà luogo a
due operazioni tra loro collegate, eseguite in tempi diversi mentre invece
l’anticipazione è giuridicamente l’abbinamento di un contratto di prestito e di un
contratto di pegno;
 il riporto è un contratto traslativo della proprietà, per cui la banca può disporre
dei titoli ricevuti a riporto mentre invece nell’anticipazione la banca non
acquisisce la proprietà dei titoli per cui, salvo patto contrario, deve restituire gli
stessi titoli sottoposti a pegno, senza poterli utilizzare;
 il riporto è documentato da una nota contabile mentre l’anticipazione risulta
dalla polizza di anticipazione;
 nel riporto le variazioni di valore dei titoli non influiscono sull’operazione mentre
nell’anticipazione in caso di diminuzione del valore dei titoli di almeno il 10%, la



banca può chiedere un supplemento di garanzia o la decurtazione del
finanziamento;
nel riporto non è prevista l’estinzione anticipata dell’operazione mentre
nell’anticipazione il sovvenzionato può in ogni momento estinguere
l’operazione;
nel riporto la banca eroga il prezzo a pronti in un’unica soluzione mentre
nell’anticipazione la somma può essere erogata in un’unica soluzione oppure
messa a garanzia dello scoperto di conto corrente;
nel riporto, in caso di insolvenza del cliente riportato, la banca può trattenere i
titoli presi a riporto mentre nell’anticipazione in caso di insolvenza del cliente la
banca deve far vendere i titoli, rivalendosi sulla somma ricavata.
I mutui ipotecari
I mutui ipotecari sono finanziamenti concessi in un’unica soluzione e rimborsati in un
lungo periodo variabile tra i 5 e i 30 anni mediante il versamento di rate che possono
essere costanti ma anche variabili aventi cadenza semestrale, trimestrale o mensile.
La garanzia per la banca che concede il prestito è costituita come dice il nome
dall’ipoteca su beni immobili.
Essi vengono contratti dalle famiglie o dalle imprese per finanziare investimenti
destinati a dare utilità per molti anni (la famiglia che acquista o ristruttura la casa,
l’impresa che costruisce il capannone industriale, etc.).
Vengono classificati a seconda che siano a tasso fisso, variabile o in valuta.
I mutui a tasso fisso vengono a loro volta classificati a seconda che l’ammontare delle
rate del rimborso sia costante, crescente o decrescente. In caso di rate costanti,
siccome ogni rata comprende una parte di capitale e una parte di interessi, si vedrà
che all’inizio, siccome il valore da rimborsare è ancora alto, gli interessi da pagare
sono alti e quindi la parte di prestito rimborsata è relativamente bassa mentre con il
passare del tempo, diminuendo l’entità del debito da rimborsare, diminuiscono anche
gli interessi e quindi aumenta in proporzione la parte di mutuo che viene rimborsata.
Per capire bene questo discorso date un’occhiata al piano di ammortamento di pag.
240 che esemplifica proprio il caso che vi ho appena detto. I mutui a tasso fisso come
già detto possono essere anche a rate crescenti (cosa che capita ad esempio nelle
imprese che presumono di realizzare le entrate connesse all’investimento dopo un
certo numero di anni e quindi preferiscono ritardare per quanto possibile il rimborso
del prestito) o anche a rate decrescenti, quando si presume che l’investimento fatto
dia la sua massima utilità nell’immediato e diminuisca invece la sua utilità con il
passare del tempo.
I mutui a tasso variabile hanno appunto un tasso che varia al variare di un indice
determinato al momento della concessione del finanziamento. Anche in questo caso le
rate possono essere costanti o variabili. Il caso più normale è quello delle rate
variabili, in cui resta costante la quota di mutuo rimborsata ma variano invece gli
interessi passivi che il cliente deve corrispondere. Può però capitare anche il caso in
cui le rate siano costanti, a quel punto però non è possibile prevedere il momento
esatto in cui il rimborso del mutuo verrà portato a termine, infatti se l’importo di ogni
rata è predeterminato e non può variare, significa che se gli interessi da corrispondere
saranno bassi verrà rimborsato più velocemente il mutuo e di conseguenza il rimborso
finirà prima, mentre invece se gli interessi saranno alti il rimborso del mutuo avverrà
più lentamente (il concetto è lo stesso del caso di tasso fisso e rate costanti). Essendo
il tasso di interesse indicizzato, non è possibile sapere a priori se gli interessi saranno
alti o bassi e di conseguenza non è possibile neanche prevedere la data esatta in cui il
rimborso verrà completato.
Esistono poi come caso eccezionale i mutui in valuta, contratti per godere di tassi di
interesse passivi più bassi, in linea con quelli in vigore nel paese di cui si sceglie di
adottare la valuta. Il rischio però è che la moneta nazionale si svaluti nei confronti
della moneta estera in cui si è deciso di contrarre il mutuo con la conseguenza che il
costo del finanziamento diverrebbe maggiore di quello previsto. D’altra parte però può
anche essere che la moneta nazionale si apprezzi su quella del paese straniero e che
di conseguenza il costo finale del finanziamento sia più basso del previsto.
Esistono infine, come casi eccezionali, dei mutui concessi a condizioni agevolate per
favorire lo sviluppo di alcune aree geografiche o di alcuni settori produttivi. In questi
casi possiamo avere mutui a tasso agevolato, ma anche mutui parzialmente a fondo
perduto, in cui cioè gli interessi vengono corrisposti soltanto su una parte del
finanziamento. In entrambi i casi, è l’ente pubblico che ha promosso il finanziamento
agevolato o il mutuo a fondo perduto che assume su di sé l’onere di corrispondere
all’istituto di credito il costo che non è stato corrisposto dall’impresa che ha goduto del
finanziamento agevolato.
Dal punto di vista computistico, la situazione è abbastanza complicata. Oltre agli
interessi sul mutuo infatti, il cliente deve sostenere tutta una serie di costi aggiuntivi
che alla fine aumentano in modo sensibile il costo del finanziamento. Questi costi
sono:
 gli interessi di pre-ammortamento, cioè gli interessi che maturano dal momento
in cui viene concesso il mutuo fino all’inizio del piano di ammortamento
(ricordiamo infatti che se contraggo un mutuo semestrale in data 1/5 il piano di
ammortamento inizia comunque in data 1/7 e le date di scadenza saranno 1/7
e 1/1 di ogni anno, così come se il mutuo è trimestrale le date di scadenza sono
1/1, 1 aprile, 1/7 e 1/10 dal che deriva che gli interessi compresi tra l’1/5 e
l’1/7 non sono compresi nel piano di ammortamento ma devono comunque
essere corrisposti e vengono chiamati interessi di pre-ammortamento proprio
perché sono relativi al periodo che precede l’inizio dell’ammortamento del
mutuo, cioè il rimborso del mutuo che viene chiamato ammortamento perché
viene fatto a rate);
 le spese per la perizia tecnica che mira a determinare il valore commerciale
dell’immobile ipotecato;
 gli oneri fiscali, ovvero l’imposta di bollo sui contratti bancari di 10,33 € e
l’imposta sostitutiva dello 0,25% da calcolare sull’ammontare del
finanziamento;
 le spese notarili, necessarie per la stipulazione del contratto di mutuo e per la
registrazione dell’ipoteca dei pubblici registri immobiliari.
Lo sconto cambiario
Lo sconto cambiario è un’operazione di smobilizzo di crediti commerciali che risultano
da cambiali pagherò o tratte che il cliente, avendo necessità finanziarie immediate,
desidera riscuotere prima che giungano a scadenza.
E’ un finanziamento che viene utilizzato con sempre minor frequenza per vari motivi,
in particolare:
 le cambiali vengono sempre meno utilizzate come metodo di pagamento;
 il costo del finanziamento è più elevato rispetto a quello da sostenere per altri
finanziamenti simili;
 è un finanziamento poco flessibile, che si adatta male alle mutevoli esigenze
finanziarie dell’impresa, come tutti i finanziamenti a scadenza fissa del resto,
quindi si tende a privilegiare ad esempio l’apertura di credito in conto corrente
piuttosto che lo smobilizzo di cambiali commerciali.
Si compone di tre fasi:
 la presentazione delle cambiali commerciali alla banca e la richiesta di
smobilizzo delle stesse, che viene eseguita girando le cambiali alla banca e
presentando la relativa “distinta di presentazione di cambiali allo sconto”;
 l’analisi del castelletto (cioè dell’importo totale delle cambiali che il richiedente è
autorizzato a portare allo sconto, che dipende direttamente dall’importo
accordato nella delibera di fido) e delle caratteristiche delle cambiali presentate;
 l’ammissione allo sconto delle cambiali con i necessari requisiti e
l’accreditamento salvo buon fine del netto ricavo (salvo buon fine vuol dire che
se a scadenza la cambiale presentata allo sconto risulta insoluta, la banca
esegue l’azione cambiaria addebitando al cliente che aveva presentato la
cambiale sia il valore nominale della stessa che era stato anticipato al momento
dell’ammissione allo sconto, sia le spese per il protesto).
Soffermiamoci sulla seconda fase.
Abbiamo parlato prima di tutto del castelletto. Il castelletto è un valore monetario.
Quando il soggetto che ha bisogno di un finanziamento va in banca, come sappiamo,
la banca nella delibera di affidamento decide l’importo totale del fido e spesso decide
anche la forma tecnica in cui esso deve essere utilizzato. Il castelletto è il valore
monetario della parte di fido che deve essere utilizzata per scontare cambiali
commerciali. Quindi se nella delibera di affidamento, la banca dice che concede fido
per 100.000 € e che 20.000 € sono adibiti allo sconto di cambiali commerciali, vuol
dire che il castelletto è di 20.000 €. Ovviamente ogni volta che viene presentata una
cambiale allo sconto, l’importo del castelletto è ridotto del valore nominale della
cambiale e ogni volta che una cambiale scontata giunge a scadenza, l’importo del
castelletto aumenta nuovamente del valore nominale della cambiale che è stata
riscossa dalla banca. Quindi potremmo dire che il castelletto è il valore monetario che
indica quanto la banca è disposta a rischiare con il suo cliente in un certo momento
relativamente allo sconto di cambiali commerciali.
Poi abbiamo parlato di caratteristiche che le cambiali devono avere per poter essere
accettate dalla banca. Queste caratteristiche, in particolare, sono:




la natura commerciale della cambiale, cioè la cambiale portata allo sconto deve
essere una cambiale emessa da un cliente di colui che la presenta a
regolamento di un debito di fornitura;
l’affidabilità del cliente che ha portato le cambiali allo sconto;
la qualità delle firme dell’obbligato principale e degli altri eventuali obbligati in
via di regresso, cioè si va a controllare che l’obbligato principale o comunque
uno degli avallanti abbia una solidità economica tale da costituire una certezza
in merito al buon esito della cambiale;
la regolarità del bollo apposto sulla cambiale, in quanto è proprio dalla presenza
e dalla regolarità del bollo che dipende la possibilità o meno per chi possiede la
cambiale (e quindi in questo caso per la banca) di procedere con l’azione
esecutiva per ottenere il pagamento della cambiale.
Non parlo qui delle modalità di determinazione del netto ricavo perché è una parte
pratica e come tutte le parti pratiche verranno prese in mano in separata sede per i
motivi che ho già avuto modo di dire.
L’anticipo su effetti
L’anticipo su effetti è un’altra operazione di smobilizzo di crediti commerciali in cui
però gli effetti presentati possono essere sia cambiali che ricevute bancarie, molto più
diffuse al giorno d’oggi come mezzo di pagamento.
Giuridicamente, non viene considerata una cessione del credito, ma un mandato che
l’impresa creditrice (ovvero il cliente che porta gli effetti allo sconto) attribuisce alla
banca di riscuotere per suo conto gli effetti presentati.
L’anticipo su effetti può essere fatto:
 al dopo incasso, in questo caso non si tratta di un finanziamento ma
semplicemente di un servizio che la banca offre al cliente, prendendo in
consegna la cambiale e procedendo all’accreditamento della stessa sul conto del
cliente soltanto dopo che il debitore ha pagato alla banca l’importo dovuto;
 con disponibilità a valuta maturata, in questo caso viene fatta la valuta
adeguata degli effetti presentati e in quella data viene effettuato
l’accreditamento. E’ una via di mezzo tra la presentazione al dopo incasso e la
presentazione con disponibilità immediata;
 con disponibilità immediata, in questo caso si ha il finanziamento in quanto la
banca mette immediatamente a disposizione del cliente il valore nominale degli
effetti presentati salvo poi ovviamente addebitare gli interessi per il periodo che
va dalla presentazione alla scadenza degli effetti.
Prendiamo in esame l’ultimo tipo di accreditamento, che costituisce alla fin fine l’unico
caso in cui si ha un vero e proprio finanziamento richiesto dal cliente che presenta gli
effetti alla banca.
In questo caso, il cliente porta le Ri.Ba. o le cambiali alla banca e chiede che gli venga
accreditato il valore nominale delle stesse compilando un’apposita distinta. La
differenza fondamentale tra lo sconto cambiario e l’anticipo su effetti è proprio qui:
nello sconto cambiario viene accreditato il netto ricavo, mentre nell’anticipo viene
accreditato il valore nominale degli effetti presentati togliendo soltanto le commissioni
sull’operazione. Se il cliente dispone di un affidamento sufficiente a coprire il valore
nominale degli effetti presentati e se gli effetti presentati posseggono tutti i requisiti
necessari per poter essere accettati, la banca accredita sul conto corrente del cliente il
valore nominale dei titoli presentati e allo stesso tempo apre un altro conto, il conto
anticipi su effetti, su cui vengono registrate due scritture:
 una scrittura, con data nel giorno della presentazione e valuta immediata, ha
descrizione “giroconto a c/c” e ospita in DARE il valore nominale degli effetti
presentati;
 l’altra scrittura, con data nel giorno della presentazione e valuta nel giorno di
scadenza adeguata dei titoli presentati, ha descrizione “Presentazione effetti” e
ospita in AVERE il valore nominale degli effetti presentati.
Quindi sul conto corrente abbiamo un accreditamento, ma il conto anticipi va scoperto
per valuta e alla fine del periodo di capitalizzazione la banca addebiterà sul conto
corrente gli interessi passivi di competenza maturati sul conto anticipi.
Anche questi effetti vengono accreditati salvo buon fine, quindi se a scadenza vanno
insoluti la banca ne addebita il valore nominale e le spese di protesto sul conto
corrente del cliente che li aveva presentati all’anticipo.
Gli anticipi su fatture
L’anticipo su fatture consiste nella presentazione da parte del cliente di fatture che
provano l’esistenza di un credito verso un terzo soggetto derivante appunto da una
transazione commerciale. La banca, ricevute le fatture, ne controlla i requisiti e, se il
cliente dispone di un affidamento sufficiente, accredita l’importo delle fatture sul conto
del cliente.
In questo caso, al contrario del precedente, si ha dal punto di vista giuridico la
cessione del credito così come regolamentata agli artt. 1260 e sgg. del codice civile.
Le fasi di questa operazione sono già state sinteticamente esposte, comunque
abbiamo:
1. presentazione delle fatture alla banca;
2. verifica dei requisiti delle fatture e del valore dell’affidamento concesso al
cliente che le ha presentate;
3. se tutto è in regola, accreditamento delle fatture sul conto corrente del cliente
(detratte le commissioni e eventualmente lo scarto di garanzia) e
addebitamento delle stesse sul conto anticipi su fatture;
4. a scadenza, il conto anticipi su fatture viene riaccreditato in ogni caso, mentre
sul conto corrente se la fattura viene pagata non accade niente (oppure viene
accreditata la parte mancante se l’anticipo non aveva interessato l’intero
importo della fattura, ma il caso non è frequente) mentre se la fattura va
insoluta la banca riaddebita l’importo della fattura e eventualmente il rimborso
spese.
LA CONTABILITA’ ANALITICA
CONCETTI FONDAMENTALI
Finalità della Contabilità Analitica
I motivi per cui un imprenditore può decidere di affiancare alla Contabilità Generale
anche la Contabilità Analitica che consente, detto brevemente, di determinare i costi e
i ricavi con riferimento a una specifica area aziendale, o a uno specifico reparto
produttivo o anche a un singolo prodotto sono molteplici. Tra questi, i più importanti
sono:
 Orientamento dei prezzi di vendita, perché la Co.An. permette di determinare il
costo del prodotto e di conseguenza anche il prezzo a cui esso deve essere
messo sul mercato affinché la produzione stessa sia economicamente
conveniente;
 Valutazione delle rimanenze di magazzino di materie prime, semilavorati e
prodotti finiti;
 Controllo dei costi delle varie aree e dei vari reparti per riuscire a realizzare una
maggiore efficienza;
 Preparazione di programmi economici e finanziari a preventivo, validi per gli
anni successivi a quello in cui sono preparati (budget);
 Esecuzione di calcoli di convenienza economica comparata, cioè ad esempio
confrontare la redditività di una certa produzione rispetto a un’altra per
scegliere ad esempio quale delle due debba essere interrotta;
 Altre finalità che cambiano da impresa a impresa.
Caratteristiche della Contabilità Analitica
La contabilità analitica deve possedere tre caratteristiche fondamentali:
 Analiticità, nel senso che si devono ricercare i costi e i ricavi non a livello
generale aziendale ma con maggiore precisione, con riferimento a uno specifico
prodotto o a uno specifico reparto;
 Tempestività, nel senso che è necessario predisporre un sistema informativo
tale da permetterci di avere le informazioni necessarie in tempi brevi, anche
durante l’anno e non soltanto a consuntivo, in modo da prendere le misure
necessarie in tempo se qualcosa non dovesse andare;
 Forma semplice, nel senso che siccome le informazioni raccolte sono poi
analizzate da un soggetto diverso da quello che le ha raccolte, la forma in cui
esse sono esposte deve essere chiara e semplice in modo che non ci siano
difficoltà per i vertici dell’impresa nell’interpretare e nel comprendere i dati
forniti.
Confronto tra Contabilità Generale e Contabilità Analitica
Confrontando la CO.GE. con la CO.AN. possiamo individuare diverse differenze in
relazione a:
 l’Oggetto, cioè nella CO.GE. si considera l’intero complesso aziendale sotto
l’aspetto economico e patrimoniale mentre nella CO.AN. si analizza solo una
parte ristretta del complesso aziendale e solo dal punto di vista economico;




La Forma, cioè la CO.GE. deve essere tenuta mediante le scritture contabili
registrate in partita doppia seguendo regole precise formali e sostanziali mentre
non c’è nessuna legge che obblighi a tenere la CO.AN. in un certo modo
piuttosto che in un altro;
La Tenuta, cioè la CO.GE. deve necessariamente essere tenuta con il metodo
della partita doppia mentre la CO.AN può essere tenuta sia con il metodo della
partita doppia che con un insieme di scritture elementari, a scelta dell’impresa
(vedi anche “Sistemi di tenuta della Contabilità Analitica”);
I Dati, cioè nella CO.GE. si analizzano i dati al 31/12 e sono quindi dati
consuntivi, mentre invece in CO.AN. si svolgono analisi consuntive, ma anche
contestuali e preventive (budget);
La Classificazione dei costi, cioè nella CO.GE. i costi sono raggruppati per
natura, cioè a seconda del tipo di costo, mentre invece in CO.AN. i costi sono
raggruppati per funzione perché non ci interessa il tipo di costo ma ci interessa
dove, in quale area o in conseguenza di quale produzione questo costo si è
generato.
Il livello di analiticità
Come detto, la Co.An. si distingue dalla Co.Ge. proprio per il diverso livello di
analiticità della prima rispetto alla seconda. Per capire però fino a dove va spinta
l’analiticità, cioè fino a che punto conviene scendere nei particolari nell’analisi dei costi
(e anche dei ricavi) vanno presi in considerazione due elementi:
 la Precisione, perché è ovvio che più restringiamo l’oggetto della nostra analisi,
minori saranno i costi specifici direttamente imputabili a quell’oggetto e tutti gli
altri andranno ripartiti, ma facendo i riparti dei costi tra più oggetti noi
sappiamo che perdiamo in precisione nel determinare i costi;
 il Costo gestionale, perché più informazioni vogliamo avere e più ampio deve
essere il sistema informativo (l’insieme di tutte le risorse umane e materiali
destinate alla raccolta delle informazioni necessarie per la Co.An.) e quindi si
hanno costi sempre maggiori.
Sistemi di tenuta della Contabilità Analitica
Come sappiamo, non ci sono leggi che stabiliscono come debba essere tenuta la
contabilità analitica e questo molto semplicemente perché non ci sono neppure leggi
che impongano di tenerla, è l’imprenditore che a sua discrezione può decidere di
tenerla o meno. Ad ogni modo, pur non essendovi regole codificate, esistono dei
metodi, tre per la precisione, che di solito vengono adottati per tenere la Co.An. e
cioè:
 Metodo Unico Contabile, usato prima del 1973 quando non era ancora
obbligatoria la redazione del reddito d’esercizio, questo metodo consisteva nel
tenere una contabilità che fosse tutta finalizzata alla determinazione del
patrimonio tenendo conto ovviamente sia dei fatti interni che di quelli esterni di
gestione. Il reddito d’esercizio veniva determinato per differenza tra il
patrimonio netto iniziale e quello finale.
 Metodo Duplice Contabile, che consiste nella predisposizione di un piano dei
conti molto esteso in cui sono inclusi i conti tradizionali della Co.Ge., i conti
speciali necessari per poter avere informazioni particolareggiate tipiche della

Co.An. e i conti che permettono di collegare tra loro i due tipi di contabilità, che
vengono quindi tutti tenuti con il metodo della partita doppia;
Metodo Duplice Misto, che consiste nella tenuta delle scritture contabili di
Co.Ge. con il metodo della partita doppia mentre invece le informazioni
necessarie alla Co.An. vengono tenute distinte con una serie di scritture
elementari.
DETERMINAZIONE DEL COSTO DI PRODOTTO
Determinazione del costo: le scelte necessarie
Per poter determinare il costo di un’area ristretta della nostra impresa, ad esempio
soltanto l’area industriale, oppure un singolo reparto dell’area industriale o addirittura
un singolo prodotto, dobbiamo operare una serie di scelte, cioè:
1. Determinare l’Oggetto (cioè decidere se vogliamo trovare il costo totale
dell’area industriale, o di uno specifico reparto o di un solo prodotto e nel caso
in cui vogliamo trovare il costo di prodotto, decidere se vogliamo farlo per
commessa, per processo o per lotti, a questo proposito vedi anche “L’Oggetto
di calcolo dei costi”);
2. Determinare lo Scopo, cioè definire per quale motivo vogliamo conoscere il
costo dell’oggetto della nostra analisi, perché da questo dipendono tante altre
scelte quali ad esempio l’includere o meno i costi indiretti (vedi anche “Full
Costing e Direct Costing”) e in quale misura includerli (vedi anche
“Configurazioni di Costo”);
3. Determinare il tempo di riferimento, cioè definire se vogliamo svolgere
un’analisi preventiva (vedi anche “Determinazione preventiva del costo di
prodotto”), contestuale o consuntiva;
4. Determinare gli Elementi del costo, cioè definire quali sono i costi che, tenuto
conto dell’oggetto dell’analisi, possono essere definiti diretti, quali indiretti (che
quindi poi vanno ripartiti, a questo proposito vedi anche “Metodi di imputazione
delle Spese Generali di Produzione”) e quali del tutto trascurabili (a seconda
dello scopo dell’analisi visto al punto 2, infatti, può anche capitare che ci siano
dei costi che non mi interessano per niente, come capita spesso per i costi
dell’area amministrativa e commerciale o per gli oneri finanziari di lungo).
L’oggetto di calcolo dei costi
L’oggetto di calcolo dei costi dipende in larga misura dal tipo di prodotto che l’impresa
produce e commercializza.
Ci sono infatti delle attività che prevedono la produzione di diversi prodotti ben
distinguibili l’uno dall’altro ognuno dei quali ha una sua fisionomia e un suo costo di
produzione che può essere anche notevolmente diverso da quello degli altri prodotti
della stessa impresa. Pensiamo ad esempio ad un cantiere navale che produce sia le
barchette da diporto per i pescatori che le navi da crociera, beni che sono molto
diversi tra loro e che hanno anche costi di produzione tanto diversi da rendere assurdo
calcolare il costo di prodotto semplicemente facendo la media tra i vari prodotti. In
casi come questo il costo del prodotto viene quindi calcolato per commessa, cioè per
ogni singolo bene prodotto.
Poi ci sono invece delle attività che prevedono la produzione di tante varietà di beni,
che però possono essere raggruppati in gruppi omogenei composti da prodotti simili
tra loro. E’ il caso ad esempio delle industrie automobilistiche: le autovetture prodotte
sono molte e tra loro diverse, ma possono essere raggruppate a seconda del modello
in gruppi omogenei i cui elementi differiscono soltanto per gli accessori installati
all’interno. In questo caso il costo del prodotto viene ricercato per lotti, ovvero per
gruppi omogenei di prodotti. Ad esempio la FIAT ricercherebbe il costo totale
sostenuto per le Punto, poi a parte il costo totale sostenuto per le Stilo, poi ancora il
costo totale per le Barchetta e così via. Le Punto, le Stilo, le Barchetta sono i lotti, cioè
gruppi omogenei di prodotti che differiscono tra loro solo per qualche particolare di
poco rilievo, nel caso specifico per un accessorio in più o in meno o cose di questo
tipo.
Infine ci sono alcune imprese che attuano delle produzioni in cui non è possibile
distinguere con esattezza un bene da un altro. Pensiamo ad esempio ad un mulino, o
anche a un cementificio, tutte attività in cui non è affatto semplice determinare
durante il processo di produzione dove finisce un bene e dove inizia l’altro perché i
beni non escono dalla produzione divisi ma formano tutto un insieme continuo di
materia che solo in seguito verrà divisa per essere commercializzata. In casi come
questo, in cui non è possibile distinguere un bene da un altro, il costo del prodotto
viene ricercato con riferimento a un certo periodo di tempo, ad esempio si va a vedere
quanto ci è costata la produzione di farina o di cemento realizzata nell’arco di una
giornata o di una settimana o di un mese a nostra scelta. In questo caso si dice che il
costo del prodotto viene ricercato per processo.
Le configurazioni di costo
Come abbiamo già visto, quando andiamo a determinare il costo di un prodotto
dobbiamo fare una serie di scelte e tra queste la più importante in assoluto è quella
dello scopo: perché vogliamo conoscere il costo di un certo oggetto (ricordiamo
sempre che oggetto non è necessariamente sinonimo di prodotto, un oggetto d’analisi
può benissimo essere un reparto di produzione, un ciclo di lavorazione, un’area
aziendale e così via). Uno dei motivi per cui lo scopo è particolarmente importante lo
vediamo nei particolari ora: a seconda dell’obiettivo che mi pongo, ci sono dei costi
che definisco specifici, dei costi che definisco generali e che poi devo ripartire e dei
costi che non mi interessano per niente. A seconda quindi dello scopo, possiamo
decidere di trovare:
1. il costo Primo, che è dato semplicemente dalla somma dei costi diretti per la
manodopera (retribuzioni del personale che lavora solo nel reparto che
analizziamo o che produce solo il prodotto che analizziamo), dei costi diretti
per le materie prime (costo delle materie necessarie per la produzione del
reparto o per produrre il singolo prodotto) e di altri costi speciali (modelli,
stampi, forme e così via);
2. il costo Industriale, che è dato dal costo primo a cui vanno sommati però i costi
generali industriali (utenze, materiali di consumo vari utilizzati per la
produzione, manutenzioni alle attrezzature industriali, ammortamenti delle
attrezzature industriali, manodopera indiretta che lavora nell’area industriale
ma che non si occupa di un solo reparto o di un solo prodotto ma di tutta la
produzione e così via) che ovviamente devono essere ripartiti tra i vari reparti
o tra i vari prodotti seguendo uno dei modi indicati nella parte “metodi di
imputazione delle spese generali di produzione”;
3. il costo Complessivo, che si ottiene sommando al costo industriale i costi che
non hanno nessuna attinenza con l’attività di produzione, ad esempio i costi
dell’area amministrativa e commerciale, gli oneri finanziari, gli oneri tributari e
così via;
4. il costo Economico Tecnico, che si ottiene sommando al costo complessivo gli
oneri figurativi, cioè gli interessi di computo (ovvero gli interessi che si
sarebbero ottenuti se si fosse scelto di investire il proprio capitale invece che in
azienda in un’altra forma di investimento sicura come i titoli di Stato o il conto
corrente bancario), lo stipendio direzionale (ovvero la retribuzione che spetta
di diritto al proprietario dell’impresa per aver lavorato all’interno dell’impresa in
qualità di massimo dirigente) e i fitti figurativi (presenti solo nel caso in cui gli
immobili utilizzati per lo svolgimento dell’attività d’impresa siano di proprietà
dell’imprenditore, essi consistono nell’ammontare degli affitti che l’imprenditore
avrebbe potuto percepire se avesse deciso di mettere in affitto gli immobili
invece di utilizzarli per svolgere l’attività d’impresa).
Full Costing e Direct Costing
A seconda dell’obiettivo che ci poniamo, possiamo decidere di determinare il costo del
nostro oggetto di analisi a costi pieni (Full Costing) che comprende sia i costi speciali
direttamente imputabili all’oggetto che i costi generali da ripartire, ma possiamo
anche decidere di tenere la contabilità a costi diretti (Direct Costing), considerando
cioè soltanto i costi speciali direttamente imputabili all’oggetto d’analisi senza
prendere in considerazione le spese generali di produzione e menché meno i costi che
non hanno attinenza con la produzione.
La scelta tra un metodo e l’altro non è senza conseguenze, infatti:
 la contabilità a costi pieni molto imprecisa e soggettiva perché considera anche
i costi generali che devono essere ripartiti tra i vari oggetti in base a dei criteri
soggettivi che comunque non potranno mai essere precisi come nell’analisi a
costi diretti;
 la contabilità a costi pieni permette di conoscere il costo complessivo di un
singolo prodotto, sia pure con un certo margine di approssimazione, e questo è
un dato particolarmente importante perché permette all’impresa di definire il
prezzo di vendita del prodotto stesso, cosa che con la contabilità a costi diretti
non si può fare perché non tiene conto di tutti i costi generali che pure ci sono e
incidono talvolta anche molto pesantemente sul reddito d’esercizio;
 la contabilità a costi diretti permette, al contrario di quella a costi pieni, di
determinare il margine lordo di contribuzione, ovvero la differenza tra ricavi e
costi diretti e quindi la capacità del singolo prodotto di contribuire alla copertura
dei costi fissi, informazione questa di particolare importanza quando si vanno a
fare scelte tra prodotti diversi per decidere quale debba essere eliminato oppure
quale produzione debba essere potenziata e così via;
 scegliere un metodo o l’altro ha influenza sulla valutazione delle rimanenze
finali, in quanto essendo le rimanenze finali di prodotti valutate generalmente
secondo il criterio del costo (eccetto il caso piuttosto raro che il prezzo di
mercato del prodotto sia inferiore al costo di produzione), è ovvio che se
l’imprenditore utilizza il criterio del costo pieno, le rimanenze finali avranno un
valore comprensivo sia dei costi diretti che delle quote di quelli indiretti e quindi
sarà superiore rispetto a quello che sarebbe stato se fosse stato usato il metodo
dei costi diretti che non comprendono come sappiamo le quote di spese
generali. Questo ha influenza sul reddito d’esercizio in quanto come sappiamo
le rimanenze finali sono una componente positiva del reddito e quindi se
l’imprenditore usa la contabilità a costi pieni avrà un reddito superiore rispetto a
quello di un altro imprenditore che nelle stesse condizioni decida però di usare
la contabilità a costi diretti. L’imprenditore che sceglie la contabilità a costi
diretti quindi ha valori più prudenziali e un maggiore autofinanziamento rispetto
a un imprenditore che scelga invece di tenere la contabilità a costi pieni.
Qualunque sia il metodo che decidiamo di usare, dobbiamo sempre fare attenzione al
fatto che non tutti i costi sono completamente fissi oppure completamente variabili. Ci
sono costi (l’esempio tipico è quello delle utenze) che si compongono di una parte
fissa indipendente dai consumi e quindi dalla produzione e di una parte variabile che
varia appunto in funzione dei consumi e quindi della produzione. Ci sono vari modi per
trattare questi costi, che vengono detti semi-fissi o semi-variabili a seconda che
prevalga in essi, rispettivamente, la parte fissa o quella variabile. I metodi più
comunemente utilizzati sono:
 considerare completamente fissi i costi semi-fissi e completamente variabili i
costi semi-variabili;
 usare la retta di regressione, ovvero, se ad esempio parliamo di utenze, creare
un diagramma cartesiano in cui riportiamo in ascissa i consumi e in ordinata i
costi, quindi indichiamo con dei punti l’andamento dei costi in relazione
all’aumentare dei consumi e usiamo infine l’interpolazione lineare con il metodo
dei minimi quadrati per disegnare una retta che si avvicini quanto più possibile
ai vari punti. A questo punto consideriamo il termine noto dell’equazione della
retta interpolante (ovvero il punto di intersezione tra la retta e l’ordinata) come
componente fissa del costo dell’utenza e la parte che eccede tale valore come
componente variabile.
Metodi di imputazione delle Spese Generali di Produzione
Come già visto, quando andiamo a determinare il costo di un oggetto troviamo
sempre dei costi che sono tipici di quell’oggetto, che si producono soltanto lì e che
quindi sono speciali (o diretti) e non pongono nessun problema perché basta
sommarli, ma troviamo anche dei costi che si originano anche in quell’oggetto, ma
non solo. In questo caso bisogna dividere il costo tra i vari oggetti che lo originano per
capire quanta parte di quel costo deve essere imputata all’oggetto che stiamo
analizzando. Per fare questo abbiamo a disposizione tre metodi tradizionali e uno di
più recente introduzione (ABC). I metodi tradizionali sono:
 metodo della Base Unica, cioè tutte le spese generali che vogliamo
comprendere nella nostra analisi vengono sommate e tra loro e poi vengono
distribuite tra i vari oggetti facendo un riparto semplice diretto in base a un
certo valore che riteniamo significativo (ad esempio, decidiamo di sommare
tutte le spese generali di produzione e di suddividerle con un semplice riparto
tra i vari reparti usando come criterio il numero di pezzi prodotti in un anno in
quel reparto). I valori che vengono ritenuti significativi per questo tipo di
suddivisione in genere sono valori fisici come le ore macchina, la quantità
prodotta e la manodopera diretta oppure valori in senso stretto come il costo


delle materie dirette, il costo della manodopera diretta, il costo primo il ricavo
di vendita (quest’ultimo caso però costituisce un’eccezione);
metodo della Base Multipla, cioè le spese generali che vogliamo comprendere
nella nostra analisi vengono raggruppate in diversi gruppi omogenei e per ogni
gruppo viene scelto un criterio in base al quale le spese stesse vengono ripartite
(ad esempio possiamo dividere le spese generali in spese per manutenzioni da
un parte e altre spese generali di produzione dall’altra e possiamo decidere che
le spese per manutenzioni le ripartiamo tra i vari reparti in base al numero di
ore di funzionamento dei macchinari in un anno e invece le altre spese generali
le ripartiamo in base al numero di prodotti che vengono fatti sempre in un
anno). In genere quando si adotta questo metodo si dividono le spese generali
in tre gruppi omogenei e si adottano come criteri per la suddivisione le materie
dirette (a quantità o a valori) per il primo, la manodopera diretta (a quantità o
a valori) per il secondo e le ore macchina per il terzo;
metodo dei Centri di Costo. In base a questo metodo, si individuano diverse
unità organizzative aziendali alle quali vengono attribuiti i costi generali di
produzione operando un riparto in base ai criteri ritenuti di volta in volta più
adeguati. Dopo aver distribuito le spese generali di produzione tra le varie unità
organizzative, si procede all’ulteriore distribuzione dei costi di ogni unità
organizzativa che vengono quindi imputati ai vari prodotti. Si tratta quindi di un
passaggio intermedio: invece di imputare i costi generali di produzione
direttamente ai prodotti, essi vengono imputati prima alle unità organizzative
(che chiamiamo centri di costo) e poi ai prodotti. Tra l’altro dobbiamo ricordare
che non sempre le unità organizzative sono reali, infatti possono essere fatti
anche dei centri di costo fittizi, che servono solo per motivi di calcolo o per
controllare ad esempio l’operato di un certo team di dipendenti e così via.
Un’altra classificazione che può essere fatta distingue i centri di costo a seconda
della loro funzione, cioè:
o centri principali, dove si svolge l’attività produttiva vera e propria;
o centri ausiliari, cioè delle unità organizzative dove non vengono prodotti
dei beni, ma vengono invece forniti beni e servizi materialmente
quantificabili che servono nei centri principali per produrre i beni destinati
alla vendita (ad esempio le centrali elettriche, le centrali di produzione di
vapore, etc.);
o centri comuni, che hanno lo stesso scopo dei centri ausiliari solo che i
beni e servizi prodotti non sono materialmente quantificabili (ad esempio
i centri di controllo di qualità, l’officina di manutenzione, i trasporti
interni, etc.);
o centri funzionali, che hanno lo scopo di fornire servizi all’impresa nel suo
complesso e non soltanto all’area produttiva (ad esempio centri di
sorveglianza, servizio personale, servizio marketing, ufficio ragioneria,
etc).
Il metodo introdotto in tempi relativamente recenti per l’imputazione delle spese
generali di produzione ai vari prodotti è l’Activity Based Costing che si pone quindi
come alternativa ai tre modi appena visti. Il concetto che sta alla base di questo
metodo è diverso da quello che sovrintende a quelli appena visti. Se si decide di
imputare le spese generali ai prodotti usando questo metodo, bisogna prima di tutto
individuare quelli che vengono chiamati “Cost Driver”, cioè quali sono gli elementi che
causano l’insorgere dei costi generali di produzione. In generale, possiamo dire che i
Cost Driver più comuni sono le Ore-Macchina, gli Attrezzaggi, i Trasferimenti, i
Controlli di Qualità, i Tempi morti (anche stare senza far nulla in certe situazioni
costa). Ovviamente non è detto che siano solo questi, ci possono essere volendo
anche altre “origini” dei costi generali di produzione che sono diverse da caso a caso,
così come non è detto che ci siano tutti quelli elencati, che sono infatti riportati solo a
titolo indicativo. Una volta individuati i “Cost Drivers” bisogna stabilire quant’è il costo
di ogni attività transazionale, cioè quanto mi costa una singola unità del Cost Driver.
Ad esempio, per le Ore-Macchina, dovrò determinare quanto mi costa tenere accesa la
macchina per un’ora; per gli attrezzaggi dovrò vedere quanto mi costa un singolo
attrezzaggio; per i trasferimenti dovrò vedere quanto mi costa un singolo
trasferimento e così via. A questo punto dovremo determinare quante attività
transazionali di ogni Cost Driver mi servono per ogni singolo prodotto (o lotto di
prodotti, o processo a seconda del tipo di oggetto che prendo in considerazione). Fatto
questo direi che abbiamo finito, nel senso che per trovare il costo del nostro prodotto
basterà prendere il costo unitario dei vari Cost Driver e moltiplicarlo per il numero di
unità che mi servono di quel cost driver per fare il mio prodotto. A questo ovviamente
vanno aggiunti i costi diretti, cioè i costi per le materie prime, per il personale e per gli
altri costi speciali; l’ABC infatti serve solo per distribuire le spese generali di
produzione tra i prodotti ma noi sappiamo benissimo che il costo del prodotto è dato
sia dalle spese generali che da quelle specifiche. Un esempio fatto piuttosto bene di
applicazione dell’ABC, nel caso (molto probabile) non mi fosse riuscito di spiegarmi, lo
trovate anche a pag. 459 del libro.
Situazioni particolari per il calcolo del costo di prodotto
Quando l’oggetto della nostra analisi è il costo di un singolo prodotto, possono
verificarsi alcune situazioni particolari che devono essere trattate separatamente in
quando non rientrano esattamente all’interno di quanto detto finora. Si tratta del caso
delle produzioni congiunte e delle produzioni in corso di lavorazione alla chiusura
dell’esercizio o comunque al termine del periodo preso come riferimento.
Per quanto riguarda le produzioni congiunte, esse si hanno quando all’interno di un
certo reparto produttivo, abbiamo la produzione di un certo numero di beni per così
dire principali da cui deriva però anche la produzione di materiale di scarto, gli scarti
di lavorazione appunto. Se questi scarti di lavorazione non possono essere utilizzati in
alcuna maniera e non possono essere commercializzati, il loro costo va inteso uguale a
zero. Nel caso in cui, invece, gli scarti di lavorazione possano essere comunque
commercializzati, il loro costo potrà essere determinato semplicemente ponendolo
uguale al valore che si prevede di realizzare dalla vendita degli scarti stessi. In questo
secondo caso quindi, per trovare il costo dei prodotti principali, dovremo prima
togliere dal costo totale del reparto il valore che si prevede di realizzare dalla vendita
degli scarti di produzione e poi potremo ripartire quel che resta tra i prodotti principali
seguendo uno dei metodi di cui abbiamo già parlato.
Per quanto riguarda invece il caso in cui vi siano prodotti in corso di lavorazione alla
chiusura dell’esercizio o del periodo di riferimento, dobbiamo possedere innanzi tutto:
 la percentuale di completamento dei prodotti (che nel nostro caso è detta anche
percentuale di assorbimento costi) che erano in lavorazione all’inizio del periodo
e che sono stati completati;


la percentuale di completamento dei prodotti che sono in lavorazione alla
chiusura del periodo e che verranno completati nel periodo successivo;
il totale dei prodotti portati a termine nel periodo considerato.
Il nostro obiettivo è determinare la quantità prodotta per poi determinare il costo
unitario con una semplice divisione. Per trovare la quantità prodotta, dobbiamo
sommare tra loro:
 la quantità totale di prodotti che sono stati terminati nel periodo di riferimento;
 la quantità di prodotti che sono in lavorazione alla fine del periodo, moltiplicati
però per la percentuale di completamento
e poi dalla somma dobbiamo togliere la quantità dei prodotti che erano in lavorazione
all’inizio del periodo moltiplicati però per il complemento a 100 della percentuale di
completamento.
Un altro metodo che possiamo seguire, che rispecchia anche più chiaramente il
ragionamento che sta dietro al calcolo, è quello che prevede la somma di:
 quantità di prodotti in corso di lavorazione all’inizio del periodo moltiplicata per
il complemento a 100 della percentuale di completamento;
 quantità di prodotti iniziati e terminati all’interno del periodo di riferimento;
 quantità di prodotti in corso di lavorazione alla fine del periodo moltiplicata per
la percentuale di completamento.
Una volta determinata la quantità totale prodotta nel periodo di riferimento usando
uno dei due metodi appena indicati, si potrà trovare il costo unitario di prodotto
semplicemente dividendo il costo complessivo di reparto per la quantità totale
prodotta.
Determinazione preventiva del costo di prodotto
Le procedure fin qui illustrate per determinare il costo dei prodotti sono procedure
consuntive, che ci permettono cioè di rilevare il costo della produzione dopo che essa
è stata ottenuta. Per poter formulare delle previsioni per il futuro (budget), è però
importante essere in grado di determinare il costo di prodotto non a consuntivo, ma a
preventivo (e tra l’altro questa è una delle grandi opportunità che ci offre la Co.An. al
contrario della Co.Ge.). In genere per determinare i costi a preventivo, cioè per
formulare delle previsioni in merito al costo che sosterremo per produrre un certo
bene, si usano due metodi:
 metodo del riferimento a dati storici;
 metodo dei costi standard.
Il metodo del riferimento a dati storici viene attuato prendendo come punto di
partenza i costi di prodotto rilevati a consuntivo nel periodo precedente a quello per
cui si vuole fare la previsione. Quindi ad esempio se si vuole prevedere il costo per la
produzione di un certo bene in un certo anno, si prende come riferimento il costo che
si è sostenuto per produrre quel bene nell’anno precedente. A consuntivo poi si vede
se effettivamente il costo sostenuto è stato maggiore, minore o corrispondente a
quello previsto. Il problema quando si sceglie questo metodo è che il costo che noi
avevamo previsto non è il migliore possibile, ma è semplicemente il costo che
avevamo sostenuto nell’anno precedente e quindi è poco indicativo, cioè ci dice solo
se siamo andati meglio o peggio dell’anno precedente ma non ci dice se siamo
effettivamente efficienti in termini assoluti.
Questo problema viene risolto determinando i costi a preventivo non facendo
riferimento ai costi del periodo precedente, ma facendo riferimento ai cosiddetti costi
standard. I costi standard possiedono le seguenti caratteristiche:
 predeterminati, infatti non sono definiti a consuntivo, ma a preventivo, cioè
prima della produzione;
 obiettivi, nel senso che costituiscono un obiettivo, sono cioè i costi che l’impresa
dovrebbe riuscire a raggiungere per potersi definire efficiente;
 parametrici, in quanto vengono usati a consuntivo come parametro di
riferimento per stabilire se l’impresa è stata efficiente o meno;
 ipotetici, in quanto ovviamente essendo a preventivo sono delle ipotesi che
vengono formulate tenendo conto di tutta una serie di elementi come la
capacità produttiva, la modernità delle macchine, la competenza del personale
e così via.
Ci sono vari tipi di costi standard, suddivisi a seconda del livello di efficienza a cui
corrispondono. Esistono quindi:
1. costi standard di base, cioè dei costi che si sosterranno se riusciremo a
mantenere l’impresa su dei livelli di efficienza normali. Di solito quando
un’impresa introduce per la prima volta il criterio dei costi standard, adotta i
costi standard di base, che non sono destinati ad essere modificati entro breve
tempo;
2. costi standard attesi, cioè dei costi che si potrebbero ottenere in condizioni di
efficienza buone. Si tratta quindi di previsioni di costo più ottimistiche rispetto
a quelle dei costi standard di base, ma comunque possibili da ottenere con le
condizioni attuali, senza dover fare grandi cambiamenti o stravolgimenti,
semplicemente adottando delle opportune misure nell’organizzazione dell’area
produttiva. Siccome in questo caso si punta alla massima efficienza possibile, è
molto probabile che anche un minimo cambiamento nelle condizioni costringa a
cambiare anche le previsioni di costo, quindi i costi standard attesi sono molto
più suscettibili di variazioni rispetto ai costi standard di base;
3. costi standard ideali, cioè i costi che si avrebbero se ci trovassimo in condizioni
di efficienza ottime, che non è detto tra l’altro che siano materialmente
raggiungibili dalla nostra imprese nelle condizioni attuali, anzi spesso queste
previsioni sono fatte non per essere effettivamente raggiunte, cosa ritenuta
impossibile, ma semplicemente per vedere quanto l’impresa riuscirà ad
avvicinarsi alle previsioni stesse.
Da cosa dipende la scelta del tipo di costo standard da adottare? Beh, potremmo dire
che dipende semplicemente dall’imprenditore, nel senso che è lui che decide se si
accontenta di avere un’impresa in condizioni di efficienza normale, o se invece vuole
puntare ad avere un’impresa che raggiunge sempre il massimo dell’efficienza possibile
o se invece si pone degli obiettivi che materialmente non possono nemmeno essere
raggiunti e che vengono posti semplicemente per vedere quanto l’impresa è distante
dalla massima efficienza ottenibile in assoluto.
Il sistema dei costi standard si rivela efficace soprattutto se viene applicato a tutti i
prodotti, cioè se per tutte le produzioni di stabilisce un costo ideale (che può essere,
l’abbiamo visto ora, più o meno ideale) che poi si confronta con l’effettivo costo
sostenuto a consuntivo. E’ importante inoltre che ci sia un costante controllo dei
risultati consuntivi che devono essere confrontati con i costi standard, in modo da
poter prendere provvedimenti in tempi rapidi nel caso in cui ci si renda conto che i
costi reali sono troppo superiori a quelli previsti. Per poter effettuare questo controllo
particolareggiato è di solito necessario non solo programmare attentamente la
produzione, ma anche prevedere la presenza di un responsabile per ogni produzione
che si occupi appunto di verificare i risultati e provvedere eventualmente a mettere in
atto le necessarie manovre correttive.
DIAGRAMMA DI REDDITIVITA’
Il diagramma di redditività è una rappresentazione grafica in cui si riportano su un
piano cartesiano le curve relative ai costi fissi, variabili e totali nonché la curva
relativa ai ricavi con lo scopo di determinare visivamente, oltre che algebricamente, le
seguenti grandezze:
 quantità di equilibrio, ovvero la quantità da produrre e vendere per non avere
né utili né perdite;
 quantità di guadagno, ovvero determinare quanto bisogna produrre e vendere
per conseguire un determinato guadagno che abbiamo stabilito di voler
raggiungere;
 prezzo di vendita, ovvero determinare a quanto dobbiamo vendere i nostri
prodotti per raggiungere il punto di equilibrio o superarlo di un valore definito
da noi a priori.
Inoltre, è uno strumento di particolare importanza perché permette all’imprenditore di
vedere quali sono le variazioni che subiscono le diverse grandezze al variare di una di
queste e in particolare al variare della quantità prodotta e venduta. Esso può quindi
essere utilizzato efficacemente per programmare gli investimenti futuri.
Vediamo ora come si determinano i valori a cui abbiamo fatto riferimento nell’elenco
precedente.
Prima di iniziare l’analisi nei particolari, ricordiamo sempre che:
PV * Qtà = CF + CVu * Q.tà + Uu * Qtà
E cioè che il prezzo di vendita (PV) per la quantità prodotta e venduta (Qtà) è sempre
uguale alla somma dei costi fissi (CF), dei costi variabili (dati a loro volta dal prodotto
tra il costo variabile unitario e la quantità prodotta e venduta: CVu * Q.tà) e dell’utile
(dato a sua volta dal prodotto tra l’utile unitario e la quantità prodotta e venduta: Uu
* Qtà).
Partendo da questa equazione, comprendiamo facilmente che per trovare la quantità
di equilibrio sarà sufficiente riscrivere l’equazione stessa inserendo la quantità
prodotta e venduta come incognita e inserendo al posto del prezzo di vendita, del
costo variabile unitario e dei costi fissi totali (che devono ovviamente essere tutti
valori che conosciamo, se no non possiamo trovare il punto di equilibrio) i relativi
valori. Ovviamente in questo caso dovremo eliminare dall’equazione la parte relativa
all’utile perché se cerchiamo il punto di equilibrio, significa che cerchiamo appunto la
produzione per cui l’utile è zero.
Alla stessa maniera, se vogliamo determinare la quantità da produrre per ottenere un
determinato utile, basterà nuovamente scrivere l’equazione mettendo la quantità
prodotta e venduta come incognita e inserendo al posto del ricavo unitario di vendita,
dei costi fissi totali, dei costi variabili unitari e dell’utile unitario che vogliamo
conseguire (tutti valori che devono essere conosciuti) i relativi valori.
Lo stesso ragionamento deve farsi nel caso in cui debba essere determinata non la
quantità da produrre e vendere bensì il prezzo a cui bisogna vendere i prodotti per
raggiungere il punto di equilibrio o per ottenere un certo utile. In questi casi, dovremo
riscrivere l’equazione mettendo come incognita il prezzo di vendita e inserendo tutti gli
altri valori che si dà per scontato che conosciamo.
Per concludere l’argomento, vediamo i principali vantaggi e svantaggi di questo
strumento. I principali svantaggi sono:
 non sempre i costi e i ricavi crescono in misura costante con l’aumentare della
quantità prodotta e venduta, quindi a volte per rappresentare correttamente la
situazione non ci vorrebbero le rette ma delle curve;
 è un diagramma statico, quindi deve essere rifatto ogni volta che il prezzo di
vendita, i costi fissi o i costi variabili subiscono delle variazioni;
 vicino agli estremi, quindi vicino a quantità prodotte uguali a zero e per
quantità particolarmente grandi, il diagramma non rappresenta la situazione in
modo veritiero perché per quantità troppo basse è molto probabile che non ci
sia interesse per l’imprenditore a produrre e vendere mentre per quantità
particolarmente alte è probabile che l’imprenditore possa decidere di abbassare
i prezzi per conquistare nuove aree di mercato oppure che possa ottenere degli
sconti dai fornitori per la grande quantità di materie prime acquistata. L’area
all’interno della quale il diagramma rappresenta in modo piuttosto veritiero la
situazione, quella cioè compresa tra i due estremi, è detta “area di
significatività”.
Mentre invece i principali vantaggi sono:
 rappresenta in modo chiaro e immediato le relazioni esistenti tra volumi di
produzione, costi di produzione, ricavi di vendita e utili;
 è uno strumento importante per la direzione aziendale perché permette di
valutare le conseguenze delle variazioni che potrebbero intervenire sulle varie
grandezze e consente anche di fare delle previsioni per il futuro.
PIANIFICAZIONE STRATEGICA E BUDGET
LA PIANIFICAZIONE STRATEGICA
Per capire l’importanza della pianificazione strategica bisogna partire da un dato di
fatto, e cioè che nei tempi moderni, molto di più che in passato, le condizioni in cui un
imprenditore si trova ad operare sono in continuo cambiamento e inoltre ci sono
moltissimi elementi che messi insieme determinano il successo o il fallimento di
un’idea imprenditoriale. Per questo motivo, per gli imprenditori moderni è importante
prima di tutto avere ben presente la situazione esterna all’impresa considerando tutte
le varie componenti che possono essere determinanti per il successo dell’impresa e poi
è importante anche essere capaci di prevedere come sarà la situazione nel futuro e
sulla base delle previsioni per il futuro è importante che l’imprenditore faccia dei piani,
cioè si ponga degli obiettivi da raggiungere nel lungo periodo e stabilisca in che modo
questi obiettivi devono essere raggiunti e poi, per poter realizzare gli obiettivi di lungo
periodo, è importante che l’imprenditore faccia dei programmi di breve, cioè si ponga
degli obiettivi intermedi e stabilisca come raggiungere questi obiettivi intermedi,
programmando nei particolari le varie azioni che dovranno essere intraprese nelle
varie aree dell’impresa per arrivare a raggiungere nel complesso gli obiettivi prefissati.
Poi è importante che l’imprenditore controlli costantemente che la situazione effettiva
corrisponda ai piani e ai programmi, cioè l’imprenditore deve predisporre un sistema
di controlli che permetta di capire subito se ci si sta allontanando troppo dagli obiettivi
per poter prendere i necessari provvedimenti. Al controllo operativo-gestionale, cioè al
controllo dei risultati, si deve però associare anche un altro controllo, che è detto
controllo strategico, cioè bisogna che l’imprenditore non smetta mai di osservare bene
la realtà in tutti i suoi aspetti in modo da cogliere eventuali cambiamenti e da adattare
sia gli obiettivi che le azioni intraprese per raggiungerli in funzione dei cambiamenti,
infatti come abbiamo già detto la realtà cambia e con essa devono cambiare anche gli
obiettivi e i modi per raggiungerli.
La pianificazione strategica quindi per definizione è l’insieme di tutte queste
operazioni: studiare la situazione attuale in tutti i suoi aspetti e prevedere quella
futura, quindi in base alla situazione attuale e a quella prevista fare dei piani di lungo
periodo e dei programmi di breve periodo e predisporre dei controlli continui sia
operativo-gestionali per verificare se stiamo raggiungendo o no i risultati, sia
strategici, per verificare se ci sono stati nell’ambiente esterno dei cambiamenti che
richiedono la revisione degli obiettivi o dei modi che avevamo stabilito di usare per
raggiungere gli obiettivi stessi.
Potremmo dire che quando un’impresa si costituisce, c’è un percorso preciso che
l’imprenditore deve seguire per fare una buona pianificazione strategica. Questo
percorso è costituito dai seguenti passaggi:
1. Analisi della situazione di partenza
2. Individuazione ed analisi dei punti di forza e di debolezza
3. Definizione degli obiettivi
4. Formulazione delle strategie
5. Predisposizione del piano
6. Approvazione, esecuzione e controllo del piano
Analisi della situazione di partenza
La situazione di partenza, come si è già detto, è composta da tanti elementi che
concorrono tutti insieme al successo o al fallimento dell’impresa. Questi elementi che
devono essere considerati dall’imprenditore prima di iniziare la propria attività sono:
 l’ambiente in generale;
 il settore economico-produttivo;
 la posizione che l’azienda occuperà nel settore;
 le condizioni interne di svolgimento dell’attività.
Quando andiamo ad analizzare l’ambiente in generale, dobbiamo pensare allo Stato
o all’insieme degli Stati (nel caso di multinazionali) in cui si svolgerà l’attività
dell’impresa. All’interno dello Stato, l’imprenditore dovrà prendere in considerazione la
situazione economica, sociale, politica, legislativa, tecnologica, fisico-geografica e
culturale in modo da avere un quadro preciso della situazione complessiva presente
nello Stato o negli Stati in cui si svolgerà l’attività economica. Tutti gli elementi
appena detti, che formano nel loro insieme l’ambiente esterno generale, possono
rimanere sempre gli stessi con il passare del tempo (ambiente stazionario), ma
possono anche cambiare soltanto in senso quantitativo (ambiente ciclico-ripetitivo)
oppure possono cambiare sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, cioè ci
possono essere modificazioni sostanziali e quantitative contemporaneamente
(ambiente dinamico). A seconda del tipo di ambiente, l’imprenditore dovrà tenere un
comportamento diverso. Ad esempio se l’ambiente è statico l’imprenditore potrà
esercitare l’attività tenendo sempre lo stesso comportamento e facendo sempre gli
stessi piani anno dopo anno, mentre in un ambiente ciclico dovrà adattarsi
introducendo delle piccole innovazioni operative, cioè nel modo di lavorare e di
organizzare il lavoro, in modo da adattarsi alle modificazioni quantitative dei vari
elementi mentre se l’ambiente è dinamico è necessario un controllo costante della
situazione per poter prendere in anticipo i provvedimenti necessari e non essere mai
indietro rispetto alle imprese concorrenti, cercando di anticipare anzi le innovazioni.
Il secondo passo da compiere quando si analizza la situazione di partenza è quello di
studiare il mercato dove si andrà ad operare. In questo senso, bisogna ricordare che
ogni settore produttivo presenta delle caratteristiche diverse rispetto agli altri e che la
conoscenza di queste caratteristiche è fondamentale per fare le scelte giuste. Quando
studiamo un settore produttivo, dobbiamo tenere conto di diversi elementi
caratterizzanti, tra cui i più importanti sono:
 il grado di maturità;
 la domanda globale;
 l’offerta globale;
 la concorrenza.
Un settore, in base al grado di maturità, può essere:
 emergente, cioè i prodotti o servizi che si producono e vendono in quel settore
produttivo sono di recente introduzione, innovativi e quindi destinati a
conoscere un’espansione nella diffusione con il passare del tempo;
 sviluppato, cioè i prodotti o servizi prodotti e venduti non sono più una novità
perché c’è già una buona domanda e un’altrettanto buona offerta, questo senza
nulla togliere al fatto che possa esserci ancora una crescita nei consumi di
questi beni e servizi e quindi un ulteriore sviluppo;
 maturo, significa che ormai tutti i soggetti interessati hanno fatto domanda del
bene o servizio caratteristico del settore e quindi non è più prevedibile una
grande espansione della domanda e quindi dell’offerta, ma piuttosto una fase di
stagnazione, in cui cioè la domanda e l’offerta sono destinate a restare uguali a
sé stesse anche per lunghi periodi;
 in declino, cioè i prodotti o servizi offerti sono stati superati da altri prodotti o
servizi che svolgono la stessa funzione ma che hanno migliori prospettive per
motivi di costo o di qualità, quindi si può ipotizzare che entro breve tempo i
nuovi prodotti sostituiranno quelli vecchi e il settore che prima aveva conosciuto
un grande sviluppo è destinato invece a subire un declino, cioè un calo della
domanda e quindi della produzione.
Quando andiamo ad analizzare la domanda globale, sono tanti gli elementi che
possono essere importanti, ad esempio dovremo occuparci di conoscere quanto
durano in media i prodotti, quanti ne vengono chiesti complessivamente con
riferimento a un certo periodo di tempo e soprattutto qual è il tasso di crescita o di
decremento della domanda. Fatto questo dovremo suddividere i soggetti che fanno
domanda in gruppi omogenei, che possono essere costruiti tenendo conto a seconda
dei casi di elementi anche molto diversi tra loro come la localizzazione geografica,
l’età, il sesso, il livello culturale, etc. Una volta costruiti i gruppi omogenei faremo la
stessa analisi fatta a livello generale anche per i singoli gruppi, quindi per ogni
categoria di consumatori andremo a vedere la durata media di utilizzo, la quantità
domandata in un certo periodo e la crescita o il decremento della domanda.
Quando andiamo a studiare l’offerta globale di un certo settore invece dobbiamo
tenere di conto ad esempio della durata media degli impianti, della capacità produttiva
totale e del livello di utilizzo attuale della capacità produttiva degli impianti, delle
difficoltà connesse all’approvvigionamento delle materie prime o comunque dei fattori
della produzione (compresa anche ad esempio la forza lavoro) e anche delle modalità
con cui i prodotti o servizi giungono ai potenziali consumatori.
Quando andiamo a studiare la concorrenza invece ci dobbiamo occupare di conoscere i
costi e i prezzi medi che vengono sostenuti e praticati dalle altre imprese, oltre che il
livello tecnologico della loro produzione e la redditività media della loro attività.
Queste informazioni sono importanti perché ovviamente per essere competitivi
dovremo avere costi minori o livelli qualitativi maggiori, insomma qualcosa che ci
differenzi e ci faccia essere migliori degli altri e per definire se siamo o meno migliori
degli altri è ovvio che prima bisogna sapere come sono gli altri. Una volta che
sappiamo qual è la situazione media delle imprese concorrenti e in particolare
dell’impresa leader del settore dove vogliamo andare ad operare, dobbiamo pensare a
quali potrebbero essere i cosiddetti fattori chiave, cioè quegli elementi che ci
potrebbero permettere di essere migliori degli altri e di imporci sul mercato. Quindi
dovremo studiare attentamente, ad esempio, come potremmo fare per:
 far sì che ad esempio i consumatori preferiscano i nostri prodotti a quelli della
concorrenza (migliore qualità? Prezzo più basso? Stesso prezzo e qualità ma un
diverso canale distributivo? Campagne pubblicitarie che facciano sembrare i
nostri prodotti migliori anche se non lo sono? Localizzazione diversa per restare
più comodi ai potenziali consumatori? Forme di pagamento agevolate?
Assistenza post-vendita accurata?);
 far sì che i nostri costi siano minori di quelli degli altri (usare maggiore
tecnologia? Comprare in quantità maggiore per ottenere sconti? Produrre su
commessa invece che per il magazzino? Tenere la contabilità analitica? Ridurre
gli organici e i fattori della produzione al minimo necessario?).
Ovviamente per conseguire costi minori degli altri o per imporre il nostro prodotto
anche se ha lo stesso costo degli altri, dobbiamo predisporre delle azioni opportune e
avere il personale adatto, ad esempio per avere dei costi minori della concorrenza
dobbiamo avere personale con competenze specifiche inerenti il dimensionamento
degli impianti e le modalità di produzione, ma dovremo anche organizzare la
produzione per centri di responsabilità e motivare opportunamente i relativi
responsabili con incentivi di vario tipo. Se invece puntiamo alla differenziazione del
nostro prodotto dagli altri, dovremo avere delle buone competenze in marketing,
dovremo creare un’area apposita per la ricerca e lo sviluppo di nuove soluzioni,
individuare dei centri di responsabilità e ancora una volta trovare il modo migliore per
motivare il personale.
Facciamo attenzione poi al fatto che le due azioni non sono l’una alternativa all’altra,
ma devono essere intraprese insieme. Cioè, se un’impresa decide di concentrarsi sulla
riduzione dei costi, non vuol dire che si debba disinteressare dell’immagine del
prodotto, del canale distributivo, dell’innovazione tecnologica e così via e allo stesso
modo se un’impresa decide di concentrarsi sull’innovazione tecnologica, sulla
presentazione del prodotto, sul canale distributivo non vuol dire che debba lasciar
perdere i costi ed essere inefficiente da questo punto di vista. I due obiettivi e le
corrispondenti azioni devono essere intraprese contemporaneamente.
Lo scopo di tutto questo lavoro è quello di avere quello che viene chiamato vantaggio
competitivo, cioè appunto quel qualcosa in più e in meglio rispetto agli altri che ci
permette di imporre la nostra impresa sul mercato.
Quando andiamo a studiare la posizione che occuperà la nostra azienda nel
settore in cui andremo ad operare, ci riferiamo in particolare all’importanza che
arriverà ad avere la nostra impresa nel settore. Per svolgere questa analisi, bisogna:
1. prima di tutto fare un grafico dove si delinea la curva delle quantità
potenzialmente vendibili sul mercato dal totale di tutti i soggetti che offrono i
loro beni e servizi nel settore dove vogliamo andare ad operare;
2. quindi fare una curva che indica invece le quantità effettivamente vendute fino
al momento attuale, in modo da avere un’idea dello scarto che c’è tra le
massime vendite possibili e quelle realmente attuate prima dell’ingresso della
nostra impresa (questo è importante perché ci permette di ipotizzare quale
sarà la curva delle vendite effettive per il futuro, supponendo che lo scarto
rimanga lo stesso);
3. fare la curva che indica le quantità potenzialmente vendibili della nostra
impresa dal momento in cui inizierà ad esercitare la sua attività e sulla base di
questo potremo anche ipotizzare momento per momento quanta parte di
mercato sarà occupata dalla nostra impresa, sia in termini di quantità vendute
in senso assoluto, sia soprattutto in termini di percentuale sul totale venduto.
Un esempio di grafico dove sono indicate le vendite totali potenziali, le vendite totali
reali e le previsioni di vendite della nostra impresa con il passare del tempo lo avete a
pag. 386 del nostro libro.
Quando andiamo ad analizzare le condizioni interne di svolgimento dell’attività
produttiva, dobbiamo scomporre l’impresa nelle sue diverse aree funzionali e per ogni
area vedere se siamo in condizioni di efficienza e a che livello di efficienza ci troviamo,
anche facendo i confronti con le altre imprese concorrenti quando è possibile. Questa
analisi interna ci permette di raggiungere il livello di efficienza migliore possibile
ovviamente con riferimento alla nostra azienda, il che non significa che
necessariamente avremo successo perché poi ci sono tutti i problemi legati al settore
economico e alla concorrenza che però abbiamo già studiato. Certo è che l’impresa, di
per sé, deve cercare di essere nelle condizioni migliori possibili perché se no le
probabilità che si riveli incapace di reggere il confronto con concorrenza e di
sopravvivere sul mercato aumentano notevolmente.
Individuazione ed analisi dei punti di forza e di debolezza
I punti di forza come si può ben capire sono quegli aspetti in cui la nostra impresa è
migliore rispetto alle concorrenti, mentre i punti di debolezza sono gli aspetti in cui la
concorrenza è migliore. L’analisi dei punti di forza e di debolezza diventa molto
complessa se si prendono in considerazione molti elementi di confronto, il che di fatto
però ne riduce la vera efficacia. Perché l’analisi dei punti di forza e di debolezza sia
efficace bisogna che con essa riusciamo ad evidenziare gli aspetti fondamentali, che
rivestono una grande importanza, in cui noi siamo migliori degli altri o gli altri migliori
di noi. Per questo motivo di solito si prendono in considerazione solo i fattori chiave
del prodotto e dell’impresa, tralasciando gli elementi di confronto secondari. Una lista
di elementi chiave in cui dobbiamo vedere se siamo migliori o peggiori della
concorrenza può essere, a titolo indicativo, la seguente:
 il costo di produzione
 il prezzo di vendita
 la qualità del prodotto
 l’immagine del prodotto e dell’impresa
 l’efficienza del canale distributivo
 la fidelizzazione del cliente
 la capacità di adattamento e di sviluppo tecnologico
Ovviamente non sono solo questi, ma certamente questi sono tra i più importanti, che
già ci permettono di individuare i punti di forza e di debolezza fondamentali e nel caso
di punti di debolezza, di prendere i necessari provvedimenti per farli diventare punti di
forza.
Sempre a proposito dei punti di forza e di debolezza, un modo carino per
rappresentare graficamente la situazione lo abbiamo nel grafico che c’è sul libro a
pag. 388 che non dice molto di più rispetto a quello che uno dovrà spiegare per
iscritto, ma che come tutti i grafici fa un gran bell’effetto, se accompagnato dalle
necessarie informazioni.
Definizione degli obiettivi
Una volta che abbiamo studiato attentamente la situazione esterna ed esterna
all’impresa e i punti di forza e di debolezza, dobbiamo iniziare a pensare agli obiettivi.
Gli obiettivi, ricordiamolo fin d’ora, sono di lungo e di breve e gli obiettivi di breve
devono essere intesi come degli obiettivi intermedi che devono essere raggiunti per
conseguire l’obiettivo di lungo.
Gli obiettivi del lungo periodo che tutte le imprese dovrebbero desiderare di
raggiungere sono:
 massimizzazione della redditività del capitale investito (ROI);
 sopravvivenza sul mercato e massimizzazione della quota di mercato detenuta
dall’impresa.
Gli obiettivi di lungo periodo però non è detto che siano solo questi, infatti a seconda
dell’imprenditore, può darsi ad esempio che un obiettivo di lungo periodo sia quello di
creare una rete di dipendenti che siano motivati e legati alla direzione da rapporti di
complicità e di stima, oppure di migliorare le condizioni di lavoro dei dipendenti o di
diminuire le emissioni inquinanti della sua attività.
D’altra parte, non è detto nemmeno che ci siano questi due obiettivi principali: un
gruppo di persone può anche decidere di dare vita a un’attività con lo scopo di
guadagnare quanto più possibile nel breve disinteressandosi dei dipendenti e delle
strategie di lungo salvo poi capitolare di fronte alla maggiore efficienza di quelle
imprese che rinunciando a dei grandi guadagni immediati sono riuscite a organizzare
meglio la loro attività.
Spesso gli obiettivi di lungo periodo vengono visti come un circolo vizioso positivo,
cioè il raggiungimento di alcuni obiettivi in via automatica porta al raggiungimento
degli altri. Ad esempio, se l’imprenditore riesce a soddisfare la clientela e quindi
essere competitivo e allo stesso tempo riesce ad attirare forza lavoro e capitali (per la
sua serietà, per le sue capacità umane e professionali), è molto probabile che dal
raggiungimento di questi due obiettivi dipenda il benessere dell’azienda e quindi il suo
sviluppo, ma un’azienda che si sviluppa a sua volta incrementa la sua competitività e
attrae sia forza lavoro che capitali, ma attirando forza lavoro e capitali e aumentando
la competitività si riesce a migliorare ancora la situazione dell’impresa che continua a
svilupparsi e così via in un circolo che non finisce mai. Questo discorso si vede bene
anche a pag. 390 nello schema che fa il libro.
Come già accennato, gli obiettivi di lungo periodo vengono raggiunti ponendo degli
obiettivi intermedi, che sono detti anche strumentali (perché sono lo strumento che
permette di raggiungere l’obiettivo generale). Gli obiettivi intermedi sono elaborati con
riferimento alla varie aree di gestione prese singolarmente. Quindi per definire gli
obiettivi intermedi, si divide l’attività dell’impresa nelle sue diverse aree (produzione,
commercializzazione, amministrazione, marketing, ricerca e sviluppo, etc.) e per ogni
area si vanno a definire gli obiettivi specifici che si vogliono raggiungere che
ovviamente cambiano da area ad area. Poi in genere si creano anche delle finte aree,
cioè delle aree cosiddette sociali (“relazioni con il personale” e “relazioni con l’esterno”
sono le più comuni) e anche per ognuna di queste si stabiliscono gli obiettivi che si
vogliono raggiungere (incremento dell’occupazione, miglioramento delle condizioni di
lavoro dei dipendenti, applicazione di dispositivi anti-inquinamento, etc.).
Ovviamente anche qui sta alla discrezione dell’imprenditore: un’area come il
marketing ad esempio se non gli si dà importanza la si può mettere sotto l’area
amministrativa o commerciale e definire obiettivi comuni, oppure le aree sociali se non
ci interessano le condizioni di lavoro dei dipendenti o l’inquinamento dell’ambiente le
possiamo del tutto togliere e così abbiamo qualche obiettivo di meno da raggiungere.
Soggettivo è anche, ovviamente, il numero e il tipo di obiettivi che si intende
raggiungere all’interno di ogni area.
Quello che è uguale per tutti, lo ricordiamo, è lo scopo: si divide l’attività in aree e si
individuano obiettivi specifici area per area con il solo scopo di raggiungere l’obiettivo
generale di lungo periodo attraverso il raggiungimento dei vari obiettivi intermedi
nelle varie aree.
La formulazione delle strategie
Detto semplicemente, le strategie sono i provvedimenti attraverso i quali intendiamo
raggiungere gli obiettivi. E’ naturale infatti che dopo aver stabilito quali sono gli
obiettivi sia necessario stabilire anche come intendiamo raggiungerli.
Così come per gli obiettivi c’erano obiettivi generali aziendali e obiettivi specifici che
cambiavano da area ad area e che andavano raggiunti per poter raggiungere quelli
generali, allo stesso modo ci sono strategie generali di lungo periodo e strategie
specifiche che cambiano da area ad area.
Trattare le strategie specifiche è praticamente impossibile. Il motivo è semplice: le
aree in cui l’imprenditore decide di dividere l’impresa cambiano da soggetto a
soggetto, così come cambiano gli obiettivi specifici che l’imprenditore si pone
all’interno di ogni area, quindi sono talmente tante le variabili e sono talmente tanti i
modi diversi che possono essere usati per risolvere un problema specifico di una
singola area che una trattazione generale delle strategie specifiche risulta
improponibile. In sede d’esame, se dovremo fare questo tipo di lavoro, individueremo
noi a nostra scelta le aree e all’interno di queste gli obiettivi, e una volta scelti gli
obiettivi proveremo ad ipotizzare delle strategie per raggiungerli a cui penseremo lì
per lì.
Quello che possiamo fare invece è trattare delle strategie di lungo periodo. Sappiamo
infatti che la maggior parte delle imprese nasce per vivere, per essere redditizia nel
lungo periodo e per espandersi, quindi l’obiettivo fondamentale dell’impresa è quello
di guadagnare quote di mercato perché così può aumentare la redditività del capitale
investito. L’obiettivo di guadagnare quote di mercato può essere raggiunto in vari
modi, seguendo cioè varie strategie di lungo periodo. Queste strategie vengono divise
in aggressive e difensive: quelle aggressive sono adottate dalle imprese nuove
arrivate o che comunque non hanno una buona posizione sul mercato con lo scopo di
guadagnare quote di mercato mentre quelle difensive ovviamente sono adottate dalle
imprese leader di settore che vogliono mantenere la loro posizione difendendosi dalle
imprese concorrenti.
Le principali strategie aggressive, che sono tra loro alternative, sono:
 strategie basate sulla specializzazione, cioè sul tentativo di commercializzare
prodotti “vecchi”, non innovativi, in un mercato dove questi prodotti sono già
presenti (il che si può fare in presenza di un aumento spontaneo della domanda
oppure cercando di causare un aumento della domanda con una politica di
marketing opportuna) oppure di commercializzare sempre prodotti non
innovativi in un mercato in cui però questi non ci sono ancora (ad esempio
prodotti che qui sono ormai superati nel sud del mondo non esistono) oppure
cercando di innovare dei prodotti già esistenti e commercializzarli negli stessi
mercati dove esistevano già gli stessi prodotti ma nella versione precedente (è
quello che hanno fatto le ditte di televisioni quando hanno messo le TV a colori
dopo quelle in bianco e nero o quando hanno messo il televideo nelle TV a
colori).
 Strategie basate sulla diversificazione, ovvero nell’inserimento dell’azienda in
altri settori produttivi attraverso la produzione di altri beni, anche
profondamente diversi da quelli prodotti fino a quel momento. Per fare questo
occorre prima di tutto dotarsi dei necessari fattori produttivi (macchinari,
personale competente, etc.) che ovviamente non possono essere gli stessi se si
va da un settore a un altro e poi occorre anche avere una buona attività di
marketing per pubblicizzare e commercializzare i nuovi prodotti, perché è ovvio
che se cambiamo produzione o se associamo a quella precedente una nuova
produzione la prima cosa da fare è quella di far sapere ai potenziali consumatori
della nostra nuova produzione che ora ci siamo anche noi;

Strategie basate sull’integrazione, cioè nell’esecuzione in proprio di un
passaggio precedente o successivo nella catena distributiva. Sappiamo infatti
che un’impresa non si occupa mai di un’intera fase di produzione, ma si colloca
in un punto preciso della catena che va dall’estrazione o produzione delle
materie prime necessarie per fare un prodotto fino al negozio che poi vende il
prodotto finito. Per espandere la sua quota di mercato un’impresa può decidere
di fare in proprio una fase precedente, ad esempio un’impresa di confezioni che
fa i vestiti può decidere di fare anche i filati, cioè i fili che di solito gli arrivano
già pronti per essere uniti per fare il vestito. In questo modo l’impresa di
confezioni integra in sé la fase della filatura e quella della tessitura e aumenta
la propria quota di mercato perché magari di tutti i filati che fa una parte li
vende a imprese concorrenti, oppure riesce a produrre filati a un prezzo minore
del precedente costo d’acquisto e quindi è più competitiva sul mercato e si
espande. Lo stesso può essere fatto anche sul lato opposto, ad esempio la
stessa impresa che fa i vestiti può decidere anche di venderli e quindi di aprire
dei negozi essa stessa oppure si fare la vendita diretta in fabbrica: in questo
modo l’impresa integra un passaggio successivo, quello della distribuzione del
prodotto, che prima veniva affidato a un’impresa esterna.
Le strategie difensive invece sono quelle, come già detto, attuate dall’impresa
dominante che vuole mantenere la propria quota di mercato. Di solito queste imprese
puntano all’efficienza produttiva, cioè al contenimento dei costi per essere in grado
all’occorrenza di ridurre i prezzi, infatti queste imprese sono già molto conosciute sul
mercato, non hanno bisogno di essere innovative o di cercare nuovi mercati, ma
hanno solo bisogno di mantenere quello che già hanno.
Piani, programmi e budget
Sono la trasposizione sul piano economico, finanziario e patrimoniale delle strategie
globali e specifiche. Cioè le strategie, sia quelle suddivise per area che quelle generali,
sono la spiegazione discorsiva di che cosa bisogna fare per raggiungere un certo
obiettivo. Ovviamente però nel momento in cui l’imprenditore fa una strategia che
prevede assunzioni, acquisti di macchinari, attuazione di pubblicità con relative spese,
assunzione di debiti con relativi oneri, questa strategia ha delle ripercussioni a livello
economico, finanziario e patrimoniale ben precise. Queste ripercussioni sono indicate
nei piani, nei programmi e nei budget.
I piani corrispondono alle strategie generali dell’impresa e si riferiscono a un periodo
medio-lungo che va di solito da 3 a 5 anni. Essi si dividono in piani di costituzione, di
funzionamento e di cessazione. I piani di costituzione sono delle previsioni dei costi,
dei ricavi, degli oneri e proventi finanziari e della situazione patrimoniale futura
dell’impresa che vengono fatte prima di iniziare un’attività per determinare se è
effettivamente redditizia o meno. I piani di funzionamento riportano anch’essi a
preventivo, anno per anno per una durata che di solito va come detto da 3 a 5 anni, i
costi e ricavi previsti, nonché la situazione della gestione finanziaria e gli stati
patrimoniali previsti. I piani di cessazione vengono predisposti con la finalità di
valutare la convenienza di cessare l’attività aziendale.
Ai piani vengono affiancati i programmi. I programmi corrispondono alle strategie di
ogni singola area dell’impresa. Abbiamo visto prima che per definire gli obiettivi
intermedi e le conseguenti strategie l’impresa viene divisa in aree, ecco, nei
programmi scriviamo i costi e ricavi previsti, nonché le variazioni finanziarie e
patrimoniali previste che si rendono necessarie per poter realizzare gli obiettivi di ogni
singola area mediante le strategie stabilite per ogni singola area. Sono come dei conti
economici e degli stati patrimoniali preventivi che però non si riferiscono a tutta
l’impresa ma solo a un particolare settore di essa, a una particolare area. L’insieme di
tutti gli stati patrimoniali e conti economici specifici delle singole aree porta ad avere
lo stato patrimoniale ed il conto economico preventivi dell’intera impresa.
Talvolta, quando si vuole programmare l’attività di una certa area dell’impresa per un
periodo medio-lungo, si fanno anche i piani settoriali, cioè dei documenti dove si
prevedono costi, ricavi e variazioni finanziarie e patrimoniali che derivano dall’attività
di una singola area in un periodo però più lungo di quello coperto dai programmi (ogni
programma, o budget, copre un solo anno). Se per una singola area è stato redatto
un piano settoriale, è ovvio che i programmi che si succederanno nei vari anni
successivi saranno tutti orientati a raggiungere le previsioni che sono state fatte nel
piano settoriale.
Approvazione, esecuzione e il controllo dei piani
I piani quinquennali o triennali sia generali che (se ci sono) settoriali vengono rifatti
ogni anno e coprono sempre i cinque anni successivi (di cui quattro ci sono già e
l’ultimo deve essere fatto), quindi sempre un anno in più rispetto al piano precedente.
Per questo si dice che i piani sono scorrevoli, perché ogni anno viene aggiunto nel
piano la previsione per un ulteriore anno, il quinto (o il terzo) a decorrere dall’anno in
corso. Questa continua revisione e integrazione dei piani è importante anche perché
oltre ad aggiungere la previsione per il quinto o terzo anno successivo a quello in
corso, quando si riprende in mano il piano pluriennale si guarda anche che non ci
siano state nel frattempo delle variazioni nelle condizioni ambientali o interne tali da
giustificare un ridimensionamento degli obiettivi. Per essere utile, il piano deve
indicare per ogni anno degli obiettivi raggiungibili, quindi se nella previsione fatta negli
anni passati siamo stati troppo ottimisti oppure se sono cambiate le condizioni e ora
quella previsione appare troppo ottimistica, il piano deve essere non solo integrato
con l’aggiunta di un anno ma anche cambiato nelle parti che già erano state fatte.
Prima di poter essere eseguiti devono avere ovviamente l’approvazione dell’alta
dirigenza. Ottenuta questa, si passa alla fase esecutiva.
L’esecuzione materiale dei piani, come già visto, si attua con i programmi, cioè con
delle previsioni che hanno lo stesso contenuto dei piani, ma che si riferiscono a un
solo anno e a una singola area dell’impresa. Come già detto, dalla somma dei
programmi delle singole aree esce fuori il programma dell’intera impresa che è il
passo intermedio per arrivare a realizzare il piano pluriennale generale.
Ovviamente ogni anno si deve controllare che i dati rilevati a consuntivo siano
conformi alle previsioni, perché se in un anno non raggiungiamo gli obiettivi del
programma, poi non riusciamo neanche a raggiungere gli obiettivi finali del piano
pluriennale. Per questo motivo esiste un controllo operativo-gestionale con lo scopo di
rilevare gli scostamenti dalle previsioni e prendere i provvedimenti che permettano di
raggiungere ogni anno gli obiettivi della programmazione annuale.
I PROGRAMMI ANNUALI: LA REDAZIONE DEL BUDGET
Il budget è il documento amministrativo dove sono riportati costi, ricavi, variazioni
patrimoniali e variazioni finanziarie previste per l’esercizio successivo.
Esiste infatti un budget economico, che non è altro che un conto economico
preventivo, cioè si fa il conto economico ancora prima che cominci l’esercizio, in modo
da poter fare poi il confronto con il conto economico reale, consuntivo. Esiste poi un
budget patrimoniale che è uno stato patrimoniale preventivo e esiste infine un budget
finanziario che riassume le variazioni previste nelle grandezze finanziarie durante
l’esercizio a cui si riferisce il budget stesso. Questi sono i budget generali, che
coinvolgono cioè tutta l’impresa, e che sono fatti partendo da alcuni obiettivi
preventivamente definiti che sono espressi dai valori di alcuni indici importanti come il
ROE, ROI, ROS, rotazione degli investimenti, liquidità, etc.
Poi ci sono i budget settoriali, quelli cioè riferiti a una singola area dell’impresa, come
l’area commerciale, produttiva, di ricerca e sviluppo, finanziaria, etc. che vengono
redatti con lo scopo di definire gli obiettivi e le modalità di raggiungimento degli stessi
area per area, in modo che l’insieme dei risultati di tutte le aree dia il risultato
desiderato a livello aziendale.
Non ci resta che andare a vedere nello specifico come si fanno i budget. Prima di
tutto, dobbiamo dire che i budget più importanti per un’impresa sono quelli che si
riferiscono all’area commerciale, a quella della produzione e a quella degli
investimenti, dopodiché vengono tutti gli altri budget relativi alle varie aree in cui è
stata suddivisa l’impresa.
Per quanto riguarda il budget commerciale, che è il primo che viene fatto visto che
poi da questo dipendono tutti gli altri, va detto che esso si compone di due parti:
budget delle vendite e budget dei costi commerciali.
Il budget delle vendite di solito viene fatto seguendo le seguenti fasi:
1. Fissazione da parte della direzione del prezzo di vendita di ogni prodotto o
categoria di prodotti;
2. Invio dei prezzi ai responsabili delle vendite i quali formulano le previsioni di
vendita suddivise per periodo infrannuale, prodotto, area geografica e
categoria di cliente (grossisti, grande distribuzione, piccolo dettaglio, privati)
basandosi sia sull’andamento storico delle vendite che sulle previsioni di
andamento delle vendite;
3. Invio delle previsioni alla direzione, che le esamina, le discute insieme ai
soggetti che le hanno formulate e infine fissa gli obiettivi di fatturato;
4. Approvazione del budget delle vendite che diventa vincolante per i venditori
che hanno come obiettivo quello di realizzare nei periodi indicati il fatturato
previsto.
Solitamente le previsioni di vendite sia quantitative che monetarie vengono riportate
in dei prospetti riassuntivi che possono assumere diverse forme, non c’è una regola
precisa, l’importante è che vengano evidenziate bene per ogni prodotto le previsioni
relative alle vendite nelle varie aree geografiche e all’interno di ogni area, le vendite
previste per categoria di clienti. Alcuni esempi di prospetti che possono essere usati li
avete a pag. 487 del nostro libro.
Il budget dei costi commerciali invece riassume le previsioni di spesa relative all’area
commerciale. Solitamente, queste spese vengono divise in variabili (cioè legate alla
vendita dei prodotti, come possono essere gli sconti sui prodotti venduti, le spese di
trasporto, le provvigioni date ai rappresentanti per ogni prodotto venduto, etc.) e fisse
(strutture, costi per pubblicità, retribuzioni di base del personale dell’area
commerciale, etc.). Per i costi variabili viene redatto un unico documento a sé stante
che li riassume tutti, mentre invece per i costi fissi la cosa è un po’ più complicata.
Alcune imprese fanno due documenti separati per i costi fissi: uno dove mettono i
costi di struttura (immobili, retribuzioni di base del personale commerciale, etc) e
l’altro dove mettono i costi di politica, detti anche discrezionali, che possono essere
rimossi facilmente e in tempi brevi al contrario dei precedenti (alcuni esempi di costi
di politica sono le spese per pubblicità, i costi per l’aggiornamento del personale, etc.).
Altre imprese invece dividono i costi fissi in maniera diversa e invece di fare due
documenti (uno per i costi di struttura e l’altro per quelli di politica) ne fanno quattro,
e cioè:
 creazione e sviluppo della domanda, che contiene le spese per la pubblicità e
per le ricerche di mercato;
 acquisizione degli ordini, che comprende le spese per le retribuzioni e per le
attrezzature utilizzate per l’acquisizione degli ordini;
 evasione degli ordini, che comprende le spese per il personale addetto, per le
strutture e per il trasporto;
 mantenimento del patrimonio commerciale acquisito, cioè le spese necessarie
per non perdere i clienti che già si hanno, che comprende i costi per il personale
e per le attrezzature impiegate per le relazioni con i clienti e l’assistenza alla
clientela, oltre ai costi dell’area direzionale delle vendite (stipendi) e ai costi per
i problemi nelle vendite tipo l’insolvenza dei clienti oppure la concessione di
ribassi e abbuoni e così via.
Dopo aver redatto il budget commerciale delle vendite, l’imprenditore può redigere il
budget della produzione, che infatti dipende strettamente dal volume delle vendite
che si prevede di realizzare nei vari periodi dell’anno. Anche il budget della
produzione, come quello delle vendite, viene redatto con riferimento a periodi di
tempo infrannuali, di solito con riferimento a ogni singolo mese dell’anno. Il budget
della produzione viene articolato infatti per:
 periodo dell’anno;
 prodotto o insieme omogeneo di prodotti;
 centro di responsabilità (reparto produttivo).
Il budget della produzione si compone di quattro parti distinte tra loro, cioè:
 budget delle quantità da produrre;
 budget del fabbisogno e degli approvvigionamenti di materie dirette;
 budget della manodopera diretta;
 budget dei costi industriali.
Il budget delle quantità da produrre mira a definire, per ogni periodo di tempo in cui
viene suddiviso l’esercizio (di solito, come detto, per ogni mese), la quantità da
produrre per ogni prodotto e quindi la quantità da produrre per ogni stabilimento
industriale, se l’impresa attua la produzione in più stabilimenti. Per definire quanto è
necessario produrre bisogna tenere di conto delle rimanenze di magazzino, infatti la
quantità da produrre è uguale alle vendite programmate a cui vanno aggiunte le
esistenze iniziali previste a cui vanno tolte le esistenze finali previste. E’ l’imprenditore
che decide quante sono le rimanenze di magazzino che desidera avere e sulla base di
esse, delle vendite previste (budget commerciale) e delle rimanenze iniziali previste
stabilisce quanto deve produrre nel periodo considerato. Un esempio di prospetto
dove sono indicati i valori del budget delle quantità da produrre lo abbiamo a pag. 493
e poi anche a pag. 494 del nostro libro.
Il budget del fabbisogno e degli approvvigionamenti di materie prime invece mira ad
individuare quante materie prime devo comprare con riferimento ad ogni singolo
periodo in cui viene suddiviso l’esercizio. Il calcolo viene fatto tenendo conto del
fabbisogno, delle rimanenze iniziali di materie prime previste e delle rimanenze finali
di materie prime che l’imprenditore desidera avere. La quantità di materie prime che
deve essere acquistata infatti si ottiene sommando, per ogni materia prima, i consumi
previsti e le rimanenze finali di materia prima desiderate e sottraendo quindi le
rimanenze iniziali previste. Uno schema fatto bene che rappresenta come si fa a
determinare la quantità di materie prime da acquistare in un certo periodo lo abbiamo
a pag. 495 del nostro libro.
Il budget della manodopera diretta ha lo scopo di definire per ogni prodotto la
quantità di ore di lavoro necessarie per la sua fabbricazione, il costo orario dell’operaio
che si occupa della fabbricazione del prodotto e quindi con una semplice
moltiplicazione il costo della manodopera diretta necessaria per la produzione del bene
che prendo in considerazione. Questo ovviamente va fatto per tutti i beni e sommando
tra loro i totali si arriva al costo annuo complessivamente previsto per la manodopera.
Tra l’altro questo budget permette anche di stabilire di quanti operai ho bisogno
perché una volta stabilito il numero di ore annualmente necessarie per produrre la
quantità desiderata di un certo bene, posso sapere quanti operai mi servono
semplicemente dividendo il numero di ore necessario per 1820 che è un numero fisso
che indica in media quante ore annualmente un operaio lavora in azienda.
Infine il budget dei costi industriali riassume semplicemente i valori che abbiamo già
trovato nelle altre parti del budget della produzione. Esso si divide infatti in due parti,
il budget dei costi variabili industriali e il budget dei costi fissi industriali. Il budget dei
costi variabili industriali è mira a determinare il costo totale di un certo prodotto con
riferimento a un sottoperiodo dell’anno (di solito, come già detto, ogni mese),
comprensivo di materie prime dirette, manodopera diretta, utenze e eventuali
lavorazioni esterne. Uno schema che rende bene l’idea lo abbiamo a pag. 449, quello
sopra. Quello sotto della stessa pagina invece è il budget dei costi fissi industriali che
come si vede vengono suddivisi a seconda che siano strettamente legati all’attività
produttiva intesa proprio come trasformazione fisico-tecnica (ammortamenti
macchinari, stipendi del personale che dirige i reparti di produzione, etc.) o che siano
invece attinenti all’area produttiva ma non strettamente legati alla trasformazione
fisico-tecnica dei beni (stipendi della dirigenza dell’area produttiva, stipendi degli
addetti alla manutenzione degli impianti, costo dei materiali per le manutenzioni,
spese generali dello stabilimento come telefono, acqua, luce, gas, etc.). Volendo poi il
budget dei costi fissi e quello dei costi variabili possono essere riassunti in un unico
prospetto sintetico di cui abbiamo un esempio a pag. 500.
Finora ci siamo occupati dell’area commerciale e produttiva, che sono in realtà le aree
più importanti per un’impresa industriale, ma non dobbiamo dimenticare che se
vogliamo arrivare a fare il budget economico, finanziario e patrimoniale d’esercizio
dobbiamo necessariamente tenere conto anche delle altre aree dell’azienda, come
l’area direzionale, quella amministrativa, quella finanziaria, quella di ricerca e
sviluppo, quella dei rapporti con il personale e così via. Per ognuna di queste aree
deve essere redatto il budget. Sul nostro libro non abbiamo indicazioni precise su
come debbano essere fatti i budget delle aree di minore importanza; c’è un paragrafo
di una pagina intitolato Budget delle altre aree funzionali dove viene detto in
pratica che per ogni area vanno stimate le risorse umane e materiali necessarie con il
relativo costo. Nulla di più, quindi ampio spazio alla nostra immaginazione nel definire
per ogni area le attrezzature, i costi per il personale, i costi per le utenze e tutto
quanto necessario ad arrivare a definire alla fine il costo sostenuto per ogni singola
area.
Un altro budget importante che deve essere fatto è quello degli investimenti. Infatti la
pianificazione dell’attività deve avvenire sia con riferimento al breve periodo, che con
riferimento al lungo periodo e la differenza sta proprio nel fatto che nei budget di
breve visti finora non sono analizzati gli investimenti in beni durevoli, che invece
vengono analizzati nel budget degli investimenti. Come struttura il budget degli
investimenti è semplice: si tratta si stabilire, per ognuno degli anni compresi nel piano
pluriennale, quali beni strumentali devono essere acquistati o costruiti e quali sono i
relativi costi che dovranno essere sostenuti. Ovviamente esiste uno stretto
collegamento sia con la programmazione di breve che con il budget finanziario che
vedremo tra poco, infatti è dai vari budget di breve delle varie aree dell’impresa che
emerge l’eventuale necessità di costruire nuovi impianti o di acquistare nuovi
macchinari o di attuare campagne pubblicitarie, etc. mentre d’altra parte è dal budget
finanziario che si capisce se si avranno a disposizione le risorse necessarie per far
fronte al costo che la costruzione di impianti, l’acquisto di macchinari, la campagna
pubblicitaria o quant’altro comporta. Il prospetto del budget degli investimenti lo
troviamo a pag. 504, dove troviamo in realtà due prospetti distinti, uno tecnico in cui
sono indicate le azioni che vengono intraprese e l’altro finanziario che riporta invece i
costi che si dovranno sostenere per porre in essere le azioni programmate.
Andiamo ora a vedere il budget finanziario e poi possiamo dire di avere
sostanzialmente finito visto che i due che restano, ovvero il budget economico e quello
patrimoniale, non sono altro che il riassunto dei valori che abbiamo determinato mano
a mano che abbiamo fatto i budget settoriali fin qui analizzati.
Prima di tutto va detto che il budget finanziario è quel budget che serve a individuare
le variazioni nelle grandezze finanziarie conseguenti alle operazioni che abbiamo
previsto di svolgere ed è di particolare importanza perché ci permette di verificare la
fattibilità delle operazioni previste dal punto di vista finanziario, tenuto conto che c’è
un limite alla possibilità di ricorrere all’indebitamento e che soprattutto un eccessivo
indebitamento compromette l’equilibrio economico dell’impresa (eccessivi oneri
finanziari pesano in maniera determinante sull’utile d’esercizio).
Il budget finanziario si divide in due parti tra loro collegate: il budget delle fonti e degli
impieghi, che serve a verificare in linea generale la presenza di un’adeguata copertura
finanziaria alle operazioni previste e il budget di cassa che mira a verificare mese dopo
mese la disponibilità o meno della necessaria liquidità.
Il budget finanziario delle fonti e degli impieghi si presenta come un prospetto in cui
compaiono a sinistra le fonti e a destra gli impieghi. Le fonti finanziarie sono il flusso
di cassa (cash flow) dato dai ricavi monetari meno i costi monetari (oppure con
metodo indiretto, dall’utile d’esercizio meno i ricavi non monetari più i costi non
monetari), la vendita di immobilizzazioni, l’accensione di debiti, la riscossione di crediti
concessi e gli aumenti di capitale proprio mentre invece gli impieghi sono gli acquisti
di immobilizzazioni, i rimborsi di debiti, i crediti concessi e i rimborsi di capitale
proprio. Ricordiamo, e questo è importante, che dal budget finanziario delle fonti e
degli impieghi evidenziamo l’entità dei debiti verso istituti di credito e di questi debiti
dobbiamo tenere conto quando andiamo a fare il budget economico, ovvero il conto
economico preventivo, perché comportano di certo degli oneri finanziari di cui
dobbiamo tenere conto.
Il budget finanziario di cassa invece mira ad individuare la disponibilità o meno di
liquidità mese dopo mese, al contrario di quello per fonti e impieghi che faceva
riferimento all’intero esercizio. La struttura del budget di cassa è molto semplice: si
tratta di costruire una tabella in cui mese dopo mese si indicano le entrate monetarie,
ovvero le effettive riscossioni, e le uscite monetarie, ovvero gli effettivi pagamenti e
alla fine si fa la somma algebrica e si vede per ogni mese se avremo o meno la
necessaria liquidità. Uno schema semplice ma fatto bene del budget di cassa lo
abbiamo a pag. 508 del nostro libro. Le imprese di maggiori dimensioni redigono tre
budget di cassa separati: uno per le entrate, uno per le uscite e uno che riassume i
due precedenti. Da notare che nel prospetto riassuntivo di pag. 510, che riassume i
budget delle entrate e delle uscite di una grande impresa:
 il saldo di cassa minimo necessario indica la quantità di liquidità che deve
restare materialmente in cassa per i pagamenti e le operazioni correnti in
contanti di poco conto;
 si parte dal presupposto che il conto corrente bancario sia aperto in deficit di
2180, ma non è detto, noi possiamo anche sostituire quella voce con “c/c
bancario attivo” ad esempio, se vogliamo fare il caso di un’impresa che non è
sotto con il conto corrente. Ovviamente cambierebbe anche la voce 10, che
diventerebbe “Saldo finale attivo di c/c bancario” o qualcosa di simile.
Infine, il budget economico e il budget patrimoniale, come già detto, non sono
altro che un conto economico e uno stato patrimoniale redatti a preventivo inserendo i
valori che derivano dagli altri budget che abbiamo visto finora. Sia il budget
economico che quello patrimoniale possono essere redatti seguendo la struttura
civilistica, ma anche riclassificandoli secondo il criterio che ci appare più opportuno e
che scegliamo noi a nostra discrezione, le informazioni che questi documenti
contengono sono infatti destinate a restare all’interno dell’azienda e quindi è la
dirigenza che sceglie quale struttura adottare in base alle informazioni che desidera
mettere in evidenza. Il consiglio è quello di redigere i due budget secondo la struttura
civilistica e poi riclassificarli, se lo si ritiene opportuno, oppure semplicemente lasciarli
così come sono.
IL BILANCIO E L’ANALISI DI BILANCIO
CONCETTI FONDAMENTALI
Postulati di bilancio
Le regole generali che devono essere seguite nella redazione del bilancio d’esercizio
sono chiamate “postulati di bilancio” e sono indicate nel codice civile a partire dall’art.
2423.
L’art. 2423 comma I C.C. stabilisce che “Gli amministratori devono redigere il bilancio
d’esercizio, costituito dallo Stato Patrimoniale, dal Conto Economico e dalla Nota
Integrativa”.
L’art. 2423 comma II C.C. stabilisce inoltre che “Il bilancio deve essere redatto con
chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale
e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio”. In questo comma
compaiono due principi fondamentali, che sono detti “clausole generali dei postulati di
bilancio”, e cioè:
 il postulato della chiarezza, che va inteso come:
o obbligo di rispettare gli schemi di bilancio indicati nei successivi articoli
del codice civile;
o divieto di raggruppamento di voci che possano danneggiare la chiarezza
e la comprensibilità del bilancio, le voci possono essere raggruppate solo
quando i loro importi sono irrilevanti al fine di rendere più chiara e
immediata la lettura del bilancio ma in questo caso bisogna comunque
indicare nella nota integrativa i vari importi separati;
o divieto di compensi di partite, nel senso che non vanno fatte
compensazioni tra valori di bilancio di segno opposto a meno che questo
non sia esplicitamente consentito dalla legge;
 La clausola della rappresentazione veritiera e corretta, che non va intesa come
obbligo di riportare i valori in modo oggettivamente e assolutamente preciso,
ma semplicemente come l’obbligo di rispettare le disposizioni di legge nel
momento in cui si vanno ad effettuare le stime delle varie voci di bilancio.
Tra i postulati di bilancio non ci sono però soltanto le clausole generali, ma anche i
principi di redazione, cioè:
 principio della prudenza e dell’iscrizione degli utili realmente conseguiti: devono
essere considerate le perdite presunte, mentre non devono essere presi in
considerazione gli utili previsti ma non ancora realizzati, per evitare di
distribuire degli utili che poi magari non verranno neppure realizzati;
 principio della continuazione dell’attività aziendale: le valutazioni dei vari
elementi del bilancio devono essere compiute partendo dal presupposto che
l’attività dell’impresa continui regolarmente oltre la chiusura dell’esercizio;
 principio della competenza economica: devono essere iscritti in bilancio i costi e
i ricavi maturati nel corso dell’esercizio indipendentemente dal momento in cui
avverrà il reale pagamento o la reale riscossione del debito o del credito;
 considerazione dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se
conosciuti dopo la chiusura dello stesso ma prima dell’approvazione del
bilancio;


principio della separatezza: i differenti elementi che sommati tra loro portano
alla determinazione del valore di ogni voce di bilancio devono essere valutati
separatamente e quindi sommati tra loro, per evitare che una valutazione
complessiva possa causare la somma di perdite presunte e utili sperati che
come sappiamo invece non devono essere considerati;
principio della costanza: il criterio seguito per la stima delle diverse voci del
bilancio deve restare lo stesso da un anno a un altro, quando esso viene
cambiato la motivazione del cambiamento deve essere spiegata nella nota
integrativa.
Composizione del fascicolo di bilancio, contenuto del bilancio d’esercizio,
criteri di valutazione e procedura di approvazione e pubblicazione
E’ tutto scritto nella parte del codice civile dedicata al bilancio, cioè la sezione IX del
libro del lavoro, artt. 2423 e sgg.
RICLASSIFICAZIONE E ANALISI DEL BILANCIO PER INDICI E PER FLUSSI
Ho evitato di schematizzarli perché il tempo necessario sarebbe stato enorme e alla fin
fine si sarebbe trattato di riscrivere pari pari degli schemi che sono già chiari sul libro
e di fornire informazioni aggiuntive che siccome si sono già viste tante volte,
sicuramente già ve le siete appuntate per conto vostro.
BILANCI STRAORDINARI
Caratteristiche generali dei bilanci straordinari
I bilanci straordinari sono così definiti perché non vengono fatti con cadenza annuale
come quelli ordinari, ma solo in corrispondenza di fatti eccezionali che richiedono la
redazione di un bilancio aggiuntivo.
I bilanci ordinari sono notevolmente diversi da quelli straordinari, le principali
differenze sono:
 il bilancio ordinario si redige alla fine si ogni esercizio amministrativo al
contrario di quello straordinario che si redige nel momento in cui si verificano
fatti eccezionali che lo richiedono;
 il bilancio ordinario è formato come sappiamo da Stato Patrimoniale, Conto
Economico e Nota Integrativa mentre il bilancio straordinario è formato solo
dallo Stato Patrimoniale;
 nel bilancio ordinario le varie voci sono valutate seguendo i criteri prudenziali
stabiliti dal codice civile all’art. 1426 mentre nel bilancio straordinario le voci
sono valutate in modo del tutto diverso, in generale possiamo dire che sono
valutate al valore corrente;
 il bilancio ordinario ha come scopo la determinazione del reddito d’esercizio e
del patrimonio di funzionamento mentre il bilancio straordinario ha scopi
diversi, in generale ha lo scopo di valutare il valore economico di un’impresa o
di una parte di essa;
 il bilancio ordinario è sempre redatto dagli amministratori al contrario di quello
straordinario che può essere redatto anche da soggetti esterni.
I principali eventi in corrispondenza dei quali si rende necessaria la redazione in un
bilancio straordinario sono:
 cessione;
 fusione;
 scorporazione;
 scissione;
 trasformazione;
 liquidazione.
Bilancio straordinario di CESSIONE
La cessione consiste nel trasferimento di un’azienda da un soggetto a un altro dietro
pagamento di un corrispettivo in denaro (cessione in senso stretto) o di quote o azioni
della società acquirente (cessione per apporto).
Quindi il pagamento di un’impresa ceduta può avvenire sia semplicemente con
versamento in denaro, ma anche ricevendo dalla società acquirente un certo numero
di azioni o di quote che varia in funzione del valore economico che viene attribuito
all’impresa ceduta.
Ovviamente la cessione non interessa soltanto le società di capitali, ma qualunque tipo
di impresa sotto forma societaria o di impresa individuale. In ogni caso comunque si
ha un’impresa che cessa di esistere e un’altra impresa che nasce o che comunque si
espande acquisendo la società venduta. Quindi sia il soggetto giuridico (ovvero quello
responsabile legalmente) sia il soggetto economico (ovvero quello che effettivamente
prende le decisioni) cambiano nel momento in cui un’impresa viene venduta.
La cosa più importante da fare nel momento in cui un’impresa viene ceduta è la
valutazione dell’impresa stessa per stabilire quanto deve pagare il compratore o
comunque quante azioni deve ricevere il proprietario o i proprietari dell’impresa che
viene venduta. Il bilancio straordinario di cessione ha proprio questo scopo: stabilire
quant’è il valore dell’impresa che viene venduta.
Per determinare il valore di cessione di un’impresa ci sono tre modi:
 metodo reddituale;
 metodo patrimoniale;
 metodo misto.
Se si decide di seguire il metodo reddituale, si segue il principio secondo cui
l’impresa viene vista come un qualcosa che è capace di rendere un certo capitale (che
per semplicità viene considerato costante nel tempo anche se nella realtà delle cose
non è mai così) per un numero illimitato, ma in taluni casi anche limitato di anni. Cioè
pensiamo all’impresa come a un titolo di credito che dà diritto a una rendita che può
essere illimitata ma anche limitata a seconda dei casi (è limitata quando sappiamo già
al momento della vendita che dopo un certo numero di anni l’impresa cesserà la sua
attività). Le rate della rendita ovviamente non sono altro che gli utili che si prevede
che l’impresa possa conseguire negli anni successivi a quello della vendita. Quindi per
valutare il valore dell’impresa, viene fatto il valore attuale della rendita le cui rate
sono costituite dagli utili previsti per gli anni successivi. Come si fa a stabilire quanto
sono gli utili previsti per gli anni successivi? Si calcola prima di tutto il reddito medio
normale, cioè il reddito medio ottenuto dall’impresa negli ultimi 3 o 5 anni, operando
però sui vari redditi le seguenti modifiche:
 i componenti di reddito straordinari non devono essere presi in considerazione;
 si deve tenere di conto dell’inflazione, quindi i vari redditi che concorrono alla
formazione della media devono essere prima rivalutati tenendo conto
dell’inflazione;
 l’opera direzionale dell’imprenditore, siccome verrà a mancare una volta ceduta
l’impresa, deve essere quantificata e sottratta dal reddito.
Una volta fatta la media tra i redditi così modificati, è necessario aggiungere una
percentuale da calcolarsi sul reddito medio normale partendo dal presupposto che i
redditi negli anni successivi saranno superiori a quelli ottenuti negli anni precedenti,
trovando così il reddito medio prospettico.
A questo punto, se si decide di calcolare il valore attuale considerando la durata
dell’impresa come illimitata, il reddito medio prospettico dovrà essere diviso per il
tasso di attualizzazione (non in percentuale, ma in valore assoluto, quindi se il tasso di
attualizzazione è del 6% il numero che dobbiamo mettere al denominatore è 0,06).
Nel caso in cui si presuma la durata dell’impresa come limitata, dovremo fare invece il
valore attuale della rendita limitata usando la formula che conosciamo per aver fatto
matematica finanziaria.
Il risultato di questa attualizzazione ci dà il valore di cessione dell’impresa determinato
con il metodo del reddito.
Se usiamo il metodo patrimoniale, consideriamo invece il valore di cessione
dell’impresa uguale al patrimonio netto dell’impresa stessa previe opportune rettifiche.
Dobbiamo quindi prendere il patrimonio netto iniziale e attuare prima di tutto le
seguenti revisioni:
 togliere i crediti inesigibili e una percentuale di svalutazione dei crediti esigibili
per rischi generici su crediti;
 calcolare la quota di TFR maturata dall’inizio dell’esercizio al momento della
cessione a aggiungerla al fondo per TFR rilevato nell’ultimo bilancio ordinario;
 rilevare i ratei e i risconti passivi maturati.
A questo punto siamo arrivati al patrimonio netto revisionato. Il patrimonio netto
revisionato deve essere sottoposto ad alcune rettifiche, cioè:
 le immobilizzazioni devono essere valutate al costo di sostituzione;
 le rimanenze di magazzino devono essere valutate al prezzo di presumibile
realizzo;
 i debiti devono essere valutati al costo di estinzione.
L’esecuzione di queste rettifiche comporta ovviamente variazioni in aumento o
diminuzione del patrimonio netto revisionato in quanto ad esempio se le
immobilizzazioni valutate al costo di sostituzione hanno un valore superiore al valore
contabile, c’è un aumento dell’attivo e di conseguenza anche del patrimonio netto.
D’altra parte, ad esempio, i debiti registrati contabilmente al valore nominale verranno
certamente ad avere un costo superiore se si considera il costo di estinzione (questo a
causa degli interessi che su di essi dovranno essere pagati) e quindi aumenta il
passivo e diminuisce il patrimonio netto.
Una volta eseguite sul patrimonio netto revisionato le rettifiche elencate sopra,
arriviamo al patrimonio netto rettificato che è esattamente il prezzo di cessione.
Infine, il metodo misto prevede la fusione del metodo del reddito e del metodo del
patrimonio. Ciò significa che dobbiamo determinare prima di tutto il patrimonio netto
rettificato seguendo il procedimento visto sopra e poi dobbiamo aggiungere il
soprareddito. Per trovare il soprareddito, dobbiamo prima di tutto trovare il reddito
medio di settore, che si trova moltiplicando il patrimonio netto rettificato per il tasso di
rendimento medio del capitale investito nel settore dove opera l’azienda. Quindi
dobbiamo trovare il reddito medio prospettico seguendo il procedimento che abbiamo
visto parlando del metodo reddituale. A questo punto togliamo dal reddito medio
prospettico il reddito medio di settore e troviamo l’avviamento. Trovato l’avviamento
dobbiamo attualizzarlo, cioè se pensiamo che l’impresa abbia durata illimitata
dobbiamo dividere l’avviamento per il tasso di attualizzazione mentre se pensiamo che
abbia durata limitata dobbiamo usare la formula per il valore attuale delle rendite che
conosciamo per aver fatto matematica finanziaria. Il risultato dell’attualizzazione è
appunto il soprareddito che va aggiunto al patrimonio netto revisionato per arrivare a
determinare il valore di cessione dell’impresa.
Al momento della cessione però non c’è solo da trovare il prezzo di cessione, ma va
anche fatto il bilancio straordinario di cessione, cioè lo Stato Patrimoniale revisionato,
ovvero lo Stato Patrimoniale tenendo conto di tutte le rettifiche e di tutte le revisioni
che abbiamo già trovato parlando del metodo patrimoniale per trovare il valore
dell’impresa. Le uniche voci del tutto nuove del patrimonio di cessione sono
l’avviamento, che va nell’attivo e il prezzo di cessione che va nel passivo.
Il bilancio straordinario di FUSIONE
La fusione è un caso di cessazione aziendale relativa (perché in realtà l’impresa non
cessa di esistere) attraverso cui due o più aziende stabiliscono di assumere il
medesimo soggetto giuridico (cioè scompaiono i diversi soggetti giuridici delle varie
imprese e se ne crea uno solo) e uniscono le proprie potenzialità produttive con
l’intento di migliorare la redditività globale.
Quindi in sostanza le imprese che si fondono spariscono giuridicamente, cioè cessano
di essere imprese autonome e diventano invece un’unica impresa con un unico
soggetto giuridico.
A proposito della fusione, va detto che essa può essere:
 per incorporazione, quando un’impresa si fonde con una già esistente e si ha la
perdita di un solo soggetto giuridico, in quando l’impresa che incorpora l’altra
continua ad esistere esattamente con lo stesso soggetto giuridico di prima;
 per unione, nel senso che scompaiono le imprese che si fondono e se ne crea
una del tutto nuova che è il risultato dell’unione delle varie imprese che si sono
fuse.
Inoltre, possiamo distinguere tra:
 fusioni orizzontali, quando le imprese che si fondono sono dello stesso settore
ed attuano la stessa attività all’interno di quel settore, quindi la fusione mira ad
eliminare la concorrenza e realizzare sinergie di costi;
 fusioni verticali, quando le due imprese appartengono allo stesso settore ma si
collocano in due fasi successive del processo produttivo, poste l’una di seguito
all’altra. Si tratta di solito di imprese che erano in precedenza l’una cliente
dell’altra e che hanno deciso di fondersi per ridurre i costi di
approvvigionamento e di distribuzione.
Le principali motivazioni per cui due o più imprese possono decidere di fondersi sono:
 riduzione della concorrenza;
 possibilità di unire le conoscenze tecnologiche in modo da creare prodotti
sempre più sofisticati in modo da guadagnare nuovi settori del mercato;
 integrazione dei cicli produttivi;
 possibilità di offrire maggiori garanzie ai finanziatori;
 in generale, ridurre i costi o aumentare i ricavi per migliorare la redditività
complessiva.
Al momento della fusione il primo passo da fare a livello contabile è la predisposizione,
per ogni impresa coinvolta, del bilancio straordinario di fusione, che ha una
grandissima importanza perché da esso dipende l’importanza che le varie imprese che
partecipano alla fusione avranno dopo che essa sarà avvenuta.
Proprio per l’importanza che il bilancio straordinario di fusione assume nei rapporti di
forza della nascente impresa, spesso la valutazione delle varie imprese è affidata a dei
professionisti che godono della fiducia di tutte le imprese interessate. In generale, si
seguono i seguenti criteri:
 le immobilizzazioni materiali sono valutate al netto degli ammortamenti;
 le immobilizzazioni immateriali sono valutate al netto degli ammortamenti e
solo nel caso in cui la loro esistenza possa comportare qualche vantaggio per
l’impresa risultato della fusione (ad esempio, niente costi di impianto);
 devono essere considerati i ratei e i risconti maturati dall’ultimo bilancio al
momento della fusione;
 i crediti devono essere valutati al valore di realizzo (togliendo quindi quelli
inesigibili e svalutando gli altri in misura più o meno accentuata a seconda dei
casi);
 i debiti devono essere valutati al costo di estinzione.
Una volta trovato il valore economico di ogni impresa, esso viene usato:
 nel caso di fusione per incorporazione, per determinare l’aumento di capitale
della società che incorpora le altre e per determinare anche quante azioni della
società incorporante devono essere date ai soci delle società incorporate;
 nel caso di fusione per unione, per stabilire quante azioni della nuova società
dovranno essere date ai soci delle varie società che hanno preso parte alla
fusione.
I calcoli relativi sono pratici e si faranno al momento opportuno.
Il bilancio straordinario di SCORPORAZIONE
La scorporazione è un’operazione in cui una società conferisce un ramo della sua
attività in una nuova società oppure in una società pre-esistente ottenendo in cambio
le azioni della società scorporata.
Quindi nel caso di creazione di una nuova società, è vero che si crea una società
distinta, ma è vero anche che questa società è tutta di proprietà della scorporante, la
quale possiede tutte le azioni della nuova società che è nata in seguito allo scorporo.
Nel caso di conferimento del ramo scorporato in una società pre-esistente invece
accade che la società pre-esistente che riceve il ramo d’impresa scorporato ha un
aumento di capitale e le nuove azioni che vengono emesse in conseguenza di questo
aumento di capitale sono tutte consegnate alla società scorporante, che quindi diviene
azionista della società che ha ricevuto il ramo d’azienda scorporato. Quindi la società
scorporante non perde il controllo sul ramo d’impresa scorporato, che in un modo o
nell’altro resta sempre di sua proprietà, anche se il soggetto giuridico cambia in
quanto il ramo d’impresa va a finire o in una nuova società o comunque in una società
diversa dalla scorporante.
Dopo la scorporazione, il valore economico della società scorporante può essere
maggiore, minore o uguale a quello antecedente alla scorporazione. Nel caso in cui i
due valori siano diversi, l’impresa scorporante registrerà una plusvalenza o una
minusvalenza di scorporazione.
In corrispondenza della scorporazione, per determinare appunto se vi è stata una
plusvalenza o una minusvalenza, è necessario eseguire il bilancio straordinario, ovvero
semplicemente lo Stato patrimoniale a valori correnti dei vari rami d’impresa
scorporati, rilevando le differenze tra il valore economico e il valore contabile delle
componenti del patrimonio che sono state sottratte dal patrimonio della scorporante
per andare a formare quello della scorporata. I criteri da usare per redigere lo stato
patrimoniale a valori correnti sono quelli già visti, quindi in generale:
 immobilizzazioni valutate al valore di sostituzione;
 rimanenze di magazzino valutate al valore di presumibile realizzo;
 crediti valutati al valore di presumibile realizzo, quindi diminuiti degli stralci e
delle svalutazioni per rischi su crediti;
 debiti valutati al costo di estinzione;
 rilevata la quota di TFR, i ratei e i risconti maturati dall’ultimo bilancio alla data
di scorporazione.
Il bilancio straordinario di SCISSIONE
La scissione è l’operazione con cui un’impresa conferisce uno o più rami della sua
attività in altre imprese che vengono create da nuovo o che sono già esistenti. Anche
questa quindi è un’operazione di ristrutturazione delle grandi società che serve per
razionalizzare la gestione realizzando maggiore efficienza e redditività.
La fusione può essere:
 totale, se l’impresa che attua la scissione cessa completamente di esistere e si
creano diverse imprese distinte che nel complesso hanno il patrimonio che
aveva la società che ha attuato la scissione;
 parziale, se la società che attua la scissione continua ad esistere anche se
ridimensionata in quanto non tutti i rami di attività sono stati conferiti in nuove
società, ma solo una parte di essi.
Nella sostanza, la scissione assomiglia alla scorporazione, ma ci sono delle importanti
differenze:
 nella scorporazione, la società scorporante ha il possesso delle azioni delle
nuove società scorporate che accolgono i vari rami di attività scorporati, mentre
invece nella scissione le azioni delle nuove società che si formano (o le azioni
derivanti dagli aumenti di capitale delle società pre-esistenti che accolgono un

ramo dell’impresa che si scinde) sono conferite direttamente ai soci della
società che attua la scissione. Questo perché mentre nella scorporazione
sicuramente la società scorporante continua ad esistere, nella scissione la
società scorporante può anche sparire del tutto (scissione completa) e quindi
non sarebbe in grado di ricevere le azioni delle varie imprese che si originano
dalla scissione.
Nella scorporazione, la società scorporante riceve le azioni delle società
scorporate, quindi il suo patrimonio si modifica ma rimane inalterato nel suo
valore complessivo (quelle che prima erano immobilizzazioni, crediti, etc.
diventano partecipazioni, ma il totale rimane lo stesso) mentre invece nella
scissione la società che attua la scissione perde una parte del suo patrimonio
che va a finire in delle società diverse, quindi subisce una riduzione o un totale
annullamento (scissione totale) del suo patrimonio.
La realizzazione della scissione prevede la creazione e la consegna presso la camera di
commercio di tutta una serie di atti per cui si rimanda al codice civile. Tra questi atti
c’è lo Stato Patrimoniale straordinario redatto secondo le regole che si seguono per la
compilazione dello stato patrimoniale ordinario.
Il bilancio straordinario di TRASFORMAZIONE
Si ha una trasformazione aziendale quando un’impresa cambia forma giuridica. Non
sono considerate però trasformazioni:
 il passaggio da impresa individuale a società di persone;
 il passaggio da società di persone a impresa individuale.
Sono considerate invece trasformazioni:
 il passaggio da un tipo di società di persone a un altro tipo di società di
persone;
 il passaggio da un tipo di società di capitali a un altro tipo di società di capitali;
 il passaggio da un tipo di società di persone a un tipo di società di capitali;
 il passaggio da un tipo di società di capitali a un tipo di società di persone.
Il bilancio straordinario di trasformazione al contrario di quelli precedenti deve essere
redatto seguendo i principi del bilancio ordinario, anche se possono essere modificati i
criteri di valutazione delle rimanenze e in generale di tutti gli elementi patrimoniali e
di reddito soggetti a stima. La trasformazione quindi costituisce una valida occasione
per rivedere e modificare i criteri di valutazione, cosa che come sappiamo non può
essere fatta con un bilancio ordinario visto che come principio generale i criteri di
valutazione non devono essere modificati da un esercizio all’altro.
Nel caso in cui una società passi da società di persone a società di capitali, è previsto
che la valutazione del patrimonio venga fatta da un perito nominato dal tribunale. In
questo caso quindi, possono verificarsi due casi:
 le valutazioni del perito sono maggiori di quelle che risultano dalla contabilità,
quindi il perito stabilisce che il patrimonio effettivo dell’impresa è superiore a
quello che risulta dalla contabilità e quindi l’impresa ha una plusvalenza da
trasformazione e può rivalutare i vari componenti patrimoniali fino a
raggiungere la valutazione data dal perito;

le valutazioni del perito sono inferiori a quelle che risultano dalla contabilità, in
questo caso l’impresa ha una minusvalenza da trasformazione ed è obbligata a
svalutare il proprio patrimonio fino a raggiungere i limiti indicati dalla stima del
perito.
Generalmente comunque i valori che risultano dalla contabilità sono inferiori a quelli
stabiliti dal perito, quindi la società che attua una trasformazione ha di solito una
plusvalenza.
Per quanto riguarda le procedure, nessuna procedura particolare è prevista nel caso di
passaggio da società di capitali a società di persone, mentre è prevista una procedura
precisa per il passaggio da società di persone a società di capitali, cioè:
 delibera di trasformazione, che deve essere eseguita dai soci all’unanimità;
 relazione di stima di un esperto nominato dal tribunale;
 presentazione della delibera al registro delle imprese entro 30 giorni dalla sua
attuazione;
 assegnazione ai soci delle azioni o delle quote della società trasformata
mantenendo invariati i rapporti di forza.
Il bilancio straordinario di liquidazione
L’operazione di liquidazione consiste nella totale cessazione dell’attività d’impresa. Si
ha quindi la vendita delle immobilizzazioni, la riscossione dei crediti e con i proventi
realizzati il pagamento dei debiti contratti.
L’effetto quindi è del tutto equivalente a quello della cessione, anche nella cessione
infatti il cessionario di fatto terminava l’attività d’impresa, con la differenza che in quel
caso essa veniva prelevata da un altro soggetto mentre nel caso della liquidazione
l’attività cessa completamente.
Quando è possibile, viene sempre preferita la cessione alla liquidazione semplicemente
perché il patrimonio netto di cessione risente positivamente dell’influenza
dell’avviamento e quindi il valore che si percepisce cedendo l’impresa nel suo
complesso è in genere maggiore rispetto al valore che si percepisce vendendo le
singole attività patrimoniali singolarmente.
L’impresa quindi viene liquidata solo quando sia impossibile trovare un acquirente a
causa delle cattive condizioni in cui versa l’impresa e degli alti costi che l’acquirente
dovrebbe sostenere per la ristrutturazione.
Le fasi della liquidazione sono:
 redazione del conto della gestione, ovvero del bilancio relativo al periodo che va
dalla chiusura dell’ultimo esercizio fino alla liquidazione, che è importante per
l’accertamento degli eventuali utili conseguiti ai fini fiscali.
 apertura della liquidazione, in cui si manifesta la volontà di chiudere l’azienda
accertando le motivazioni che stanno all’origine della decisione e si nominano i
liquidatori con lo scopo di redigere l’inventario iniziale;
 gestione della liquidazione, in cui si vendono i beni dell’attivo e con quello che si
ricava si saldano i debiti;
 chiusura della liquidazione, con l’accertamento di ciò che è rimasto e la
distribuzione ai soci;

redazione del bilancio finale di liquidazione.
L’inventario di liquidazione è lo stato patrimoniale redatto a valori correnti, cioè
l’attivo al valore di presumibile realizzo e il passivo al costo di estinzione. Si trova così
lo stato patrimoniale di estinzione che è diverso dallo stato patrimoniale di
funzionamento che viene redatto nell’ambito della redazione del conto della gestione.
In particolare potremmo dire che per trovare lo stato patrimoniale di estinzione, si
parte da quello di funzionamento redatto nell’ambito del conto della gestione e si
apportano le seguenti modifiche:
 gli elementi dell’attivo e del passivo non monetari, a cui non corrisponde cioè
un pagamento o una riscossione, vengono eliminati;
 le altre voci patrimoniali, quelle cioè a cui corrisponderà un pagamento o una
riscossione, sono indicate al valore di realizzo (attività) o di estinzione
(passività);
 devono essere aggiunte nuove voci come il Fondo per le spese di liquidazione
che raccoglie tutti gli oneri che l’impresa deve sostenere per la liquidazione.
A proposito del bilancio finale di liquidazione, esso si compone di:
 Stato Patrimoniale, dove nell’attivo troviamo il denaro in cassa, i crediti verso le
banche per i depositi in conto corrente e le eventuali immobilizzazioni che non
si è riusciti a vendere mentre nel passivo troviamo i debiti verso i liquidatori e il
patrimonio netto finale di liquidazione;
 Conto economico, in cui tra i costi troviamo le rimanenze iniziali di magazzino,
le eventuali minusvalenze da alienazione, le eventuali sopravvenienze passive
(ad esempio crediti non riscossi), i costi per servizi, gli oneri diversi di
liquidazione e soprattutto i compensi per i liquidatori mentre invece nell’attivo
troviamo i ricavi di vendita e le eventuali plusvalenze da alienazione e
sopravvenienze attive, oltre a eventuali interessi attivi riscossi su crediti;
 Il piano di riparto, che evidenzia la distribuzione ai soci degli eventuali fondi
rimasti dopo la liquidazione dell’impresa;
 La relazione dei liquidatori, in cui vengono indicate le procedure seguite per la
liquidazione e tutte le informazioni ritenute di particolare interesse.
Quando la liquidazione dura a lungo e interessa diversi esercizi, alla fine di ogni
esercizio i liquidatori provvederanno a redigere lo stato patrimoniale e il conto
economico evidenziando così le variazioni intervenute nel patrimonio in conseguenza
della liquidazione e i costi e i ricavi derivanti dall’esecuzione delle operazioni connesse
alla liquidazione (vendita delle immobilizzazioni, riscossione dei crediti, pagamento dei
debiti e così via).
ASPETTO FISCALE
E’ assolutamente IMPOSSIBILE imparare a memoria tutti i criteri di valutazione del
reddito e del patrimonio ai fini fiscali. Semplicemente, si tratta di prendere il codice e
di andare al TUIR, una delle leggi collegate della sezione tributaria e lì nella parte sul
reddito d’impresa si trovano le valutazioni.
Certamente è una parte da evitare, ma se non si potesse, l’unica cosa da fare è
mettere mano al codice. Qualunque altro mezzo sarebbe assurdo anche solo pensarlo.
ECONOMIA DELLE AZIENDE DI EROGAZIONE
LE AZIENDE DI EROGAZIONE
Classificazione delle aziende
Le aziende possono essere suddivise a seconda del loro scopo in:
 aziende di produzione, ovvero le aziende che perseguono la realizzazione del
profitto (obiettivo predominante) attraverso il soddisfacimento dei bisogni
umani (strumento attraverso cui realizzare il vero obiettivo);
 aziende di erogazione, ovvero le aziende che perseguono il soddisfacimento dei
bisogni umani attraverso il reperimento e il successivo impiego delle risorse
necessarie. Economicamente, esse non perseguono il guadagno, ma il pareggio
di bilancio, per questo si dice che non hanno scopo di lucro;
 aziende composte, ovvero le aziende in cui si perseguono allo stesso tempo sia
l’obiettivo di soddisfare i bisogni umani (che è predominante) sia quello di
perseguire un utile (un esempio è costituito dagli enti pubblici).
Un caso a parte sono gli enti non profit, che operano in quei settori che non
interessano alle aziende di produzione in quanto non remunerativi e che non
interessano neppure allo Stato nella più ampia accezione del termine per mancanza di
fondi e risorse oppure per scelta. I fondi che consentono a questi enti di sopravvivere
raramente provengono dai soggetti che fruiscono dei beni o dei servizi offerti dall’ente
e comunque i compensi richiesti sarebbero largamente insufficienti a coprire i costi.
Per questo motivo i principali finanziamenti giungono dallo Stato o dai privati cittadini
che condividendo le finalità dell’ente decidono di finanziarlo. La principale differenza
che c’è tra gli enti non profit e le imprese di erogazione sta nel fatto che nelle imprese
di erogazione le risorse raccolte vengono utilizzate per soddisfare i bisogni dei soci
dell’impresa mentre negli enti non profit di solito sono soggetti esterni all’ente a trarre
i maggiori vantaggi dalla sua attività.
Le aziende di erogazione possono essere ulteriormente classificate in base al loro
soggetto giuridico in:
 aziende pubbliche, ovvero appartenenti a enti pubblici territoriali o istituzionali;
 aziende private, ovvero aziende familiari o associazioni private.
Un ulteriore classificazione può essere fatta guardando invece alle modalità di
reperimento delle risorse necessarie allo svolgimento dell’attività. A tale proposito
distinguiamo:
 corporazioni, costituite dall’insieme di più soggetti che hanno gli stessi interessi
e che dopo aver determinato l’entità delle risorse necessarie per lo svolgimento
dell’attività provvedono ad apportare i fondi necessari attraverso versamenti
che possono essere volontari ma anche obbligatori;
 fondazioni, in cui si ha un insieme di soggetti che decidono di creare la
fondazione apportando un certo patrimonio e poi, sulle basi dei frutti presunti di
questo patrimonio apportato, fissano gli obiettivi che possono essere raggiunti
dalla fondazione.
La differenza quindi è sostanziale: nelle corporazioni prima vengono fissati gli obiettivi
e in seguito vengono apportati i mezzi monetari necessari attraverso i versamenti dei
soci, nelle fondazioni al contrario prima vengono apportati i capitali e poi sulla base
dei capitali raccolti si valuta quali possono essere gli obiettivi raggiungibili.
L’aspetto patrimoniale della gestione
Come sappiamo, il patrimonio è l’insieme dei beni e delle fonti di finanziamento che
rendono possibile lo svolgimento dell’attività dell’impresa.
Nelle aziende di erogazione, l’attivo dello stato patrimoniale si compone delle seguenti
voci:
 BENI DA REDDITO, ovvero le immobilizzazioni materiali che sono in grado di
produrre delle entrate monetarie, ad esempio gli immobili concessi in affitto
oppure i terreni da cui si ricavano delle rendite. Questi beni, se sono stati
acquistati, vengono valutati al valore contabile (cioè al costo d’acquisto
aumentato degli oneri accessori d’acquisto diminuito degli ammortamenti)
mentre se sono stati ricevuti in donazione o in eredità vengono valutati al
valore corrente d’acquisto oppure al valore attuale della rendita che sono in
grado di assicurare;
 BENI DI USO DUREVOLE, sono le immobilizzazioni materiali destinate ad essere
utilizzate dall’azienda per lo svolgimento della sua attività e non per trarre delle
rendite. Sono valutati come i beni da reddito;
 PARTECIPAZIONI, ovvero quote di altre imprese di proprietà dell’azienda di
erogazione. Sono valutate al costo d’acquisizione oppure in proporzione al
patrimonio netto dichiarato dall’impresa in cui si ha la partecipazione nell’ultimo
bilancio ordinario;
 CREDITI DI FINANZIAMENTO, ovvero crediti concessi a lungo, mutui attivi.
Sono valutati al valore nominale residuo, ovvero al valore nominale diminuito
delle quote di finanziamento che sono state già rimborsate;
 BENI DI CONSUMO IMMEDIATO, ovvero i beni acquistati dall’azienda di
erogazione e destinati ad essere utilizzati entro breve termine. Sono valutati al
costo d’acquisto o al prezzo di mercato corrente;
 RESIDUI ATTIVI, ovvero i crediti verso terzi esigibili a breve. Sono valutati al
valore di presumibile realizzo;
 RATEI E RISCONTI, sappiamo cosa sono e come si determinano, qui non ci sono
novità;
 ALTRE ATTIVITA’, costituite dal valore attuale delle rendite originate dai beni da
reddito e dal valore attuale dei diritti di usufrutto concessi.
Il passivo dello Stato Patrimoniale si compone invece delle seguenti voci:
 DEBITI DI FINANZIAMENTO, valutati al valore nominale residuo come i crediti
di finanziamento;
 RESIDUI PASSIVI, cioè i debiti a breve, valutati al valore nominale;
 FONDI PER RISCHI E ONERI, determinati in percentuale sui crediti a breve;
 FONDO PER TFR, tutto uguale alle imprese di produzione;
 RATEI E RISCONTI PASSIVI, tutto uguale;
 ALTRE PASSIVITA’, costituite dal valore attuale dei fitti e delle rendite da
corrispondere e dal valore attuale dei diritti di usufrutto ottenuti da terzi.
Se l’attivo è maggiore del passivo, si mette nelle passività la voce “Patrimonio Netto”,
esattamente come nelle imprese di produzione e si dice che si ha un AVANZO
PATRIMONIALE. Al contrario, se il passivo è maggiore dell’attivo, si mette nelle attività
la voce DEFICIT PATRIMONIALE, che indica che l’impresa ha avuto un DISAVANZO
PATRIMONIALE.
Lo stato patrimoniale consuntivo, composto dalle voci che abbiamo visto, è il risultato
ovviamente di una serie di operazioni che sono avvenute durante l’anno e che lo
hanno modificato. Queste variazioni che sono intervenute nello stato patrimoniale
sono dette:
 variazioni elementari, se non hanno comportato nessuna variazione nel
patrimonio netto (ad esempio se compro un fabbricato l’attivo allo stesso tempo
mi aumenta del valore del fabbricato e mi diminuisce la disponibilità in cassa di
un valore equivalente, quindi non cambia nulla a livello di patrimonio netto);
 variazioni nette, se hanno comportato appunto una variazione nel patrimonio
netto (pensiamo al pagamento degli interessi, delle retribuzioni, delle rendite,
delle imposte, che sono tutti eventi che fanno diminuire le disponibilità di cassa
dell’attivo senza che vi sia nessun aumento di uguale importo, quindi si ha una
diminuzione del patrimonio netto).
I fatti di gestione, proprio in base al fatto che comportino o meno delle variazioni nel
patrimonio netto, sono detti:
 permutativi, quando non comportano nessuna variazione in quanto originano
due variazioni di segno opposto e di uguale ammontare;
 modificativi, quando comportano una variazione nel patrimonio netto in quanto
si ha un’unica variazione di segno positivo o negativo;
 misti, quando il fatto di gestione comporta il generarsi di due variazioni, una
attiva e una passiva che non hanno però uguale importo, dal che deriva una
modificazione attiva o passiva del patrimonio netto.
La somma algebrica di tutte le variazioni attive e passive del patrimonio netto che
sono avvenute durante un esercizio ci dà il valore di:
 avanzo patrimoniale, se le variazioni attive del patrimonio netto sono superiori
alle variazioni passive;
 disavanzo patrimoniale in caso contrario.
L’avanzo o il disavanzo patrimoniale può essere trovato anche con procedimento
sintetico facendo la differenza tra il patrimonio netto iniziale e il patrimonio netto
finale.
Aspetto finanziario
L’aspetto finanziario della gestione riguarda le entrate monetarie conseguite per il
finanziamento dell’attività e le uscite monetarie necessarie per la vita dell’azienda e
per il raggiungimento dei suoi scopi. Si tratta quindi di entrate e uscite destinate ad
avvenire realmente, quindi di veri e propri incassi e riscossioni, senza tenere di conto
invece dei fatti che non comportano entrate e uscite monetarie come gli
ammortamenti, gli accantonamenti, etc.
In base all’aspetto finanziario della gestione, i fatti di gestione sono classificati in:
 fatti effettivi;
 fatti per movimento di capitali;

fatti per partite di giro.
I fatti effettivi, cioè le entrate e le uscite monetarie definite come effettive, sono:
 le entrate e uscite monetarie ordinarie modificative, ovvero tutti quei fatti che
danno origine a entrate e uscite di denaro che rientrano nel normale
svolgimento dell’attività dell’azienda e che causano variazioni del patrimonio
netto (per questo sono chiamate modificative, vedi sopra per maggiori dettagli).
Alcuni esempi sono il pagamento e la riscossione di fitti e rendite, le spese per il
personale, le spese per le utenze, gli interessi e così via;
 le entrate e uscite monetarie straordinarie permutative destinate all’acquisto di
beni di uso durevole (quindi di immobilizzazioni materiali destinate ad essere
utilizzate dall’azienda per il raggiungimento dei suoi scopi e non per trarne una
rendita).
I fatti per movimento di capitali invece sono:
 l’accensione, l’estinzione, il parziale rimborso e la parziale riscossione di mutui
attivi e passivi;
 l’acquisto o la vendita di beni da reddito.
I fatti per partite di giro sono le entrate e le uscite monetarie relative ad operazioni
compiute per conto di terzi che non causano di fatto alcuna reale modificazione nella
situazione economica, finanziaria e patrimoniale dell’azienda. Pensiamo ad esempio ai
contributi previdenziali e alle imposte sul reddito sottratte dalle retribuzioni (rendita,
in quanto l’azienda ha un minor costo) ma poi versate agli istituti previdenziali e
all’Erario (spesa di importo esattamente uguale alla rendita). Un altro esempio può
essere la percezione di interessi su titoli di credito depositati da terzi in cauzione e al
successivo versamento degli stessi ai proprietari dei titoli.
La somma algebrica di tutte le entrate e uscite monetarie di competenza di un certo
esercizio ci dà come risultato l’AVANZO FINANZIARIO (oppure ovviamente se le uscite
sono maggiori delle entrate il DISAVANZO FINANZIARIO).
L’avanzo o il disavanzo finanziario però, come detto, non necessariamente
rispecchiano le reali variazioni del fondo di cassa, questo perché:
 sicuramente nell’anno precedente ci saranno state entrate e uscite monetarie
con competenza nell’anno precedente (quindi non comprese nell’avanzo o
disavanzo dell’anno in corso) ma con manifestazione finanziaria nell’anno in
corso (cioè realmente pagate e riscosse nell’anno in corso), da cui derivano
variazioni di cassa che non hanno nessun riscontro nella situazione finanziaria
di competenza dell’anno in corso;
 altrettanto sicuramente ci saranno state nell’anno in corso delle entrate e uscite
monetarie che non hanno ancora avuto manifestazione finanziaria, da cui deriva
che esse hanno influito nella determinazione del risultato finanziario di
competenza ma non hanno trovato riscontro nelle variazioni di cassa.
Quindi a fine anno viene trovato non solo il risultato finanziario di competenza
(relativo cioè alle entrate e uscite monetarie di competenza), ma anche il risultato
finanziario di cassa (relativo cioè alle variazioni realmente subite dal fondo cassa per
effetto di pagamenti e riscossioni). Il risultato finanziario di cassa può essere trovato
sommando tra loro:


entrate e uscite monetarie di competenza dell’esercizio precedente con
manifestazione finanziaria nell’esercizio in corso;
entrate e uscite monetarie di competenza dell’anno che hanno avuto
manifestazione finanziaria nell’anno.
A questo punto possiamo trovare anche le variazioni dei residui attivo e passivo dello
stato patrimoniale (cioè le variazioni nei crediti e debiti a breve). In particolare, il
nuovo valore dei residui attivi si trova prendendo il valore relativo all’esercizio
precedente, sottraendo i crediti di competenza dell’esercizio precedente che sono stati
riscossi quest’anno e sommando i crediti di competenza di quest’anno che non sono
stati ancora riscossi. D’altra parte, il nuovo valore dei residui passivi, si trova partendo
dal valore relativo all’anno precedente, sottraendo i debiti di competenza dell’esercizio
precedente che sono stati pagati quest’anno e sommando i debiti di competenza di
quest’anno che non sono stati ancora pagati.
Infine, facendo la somma algebrica delle disponibilità di cassa e dei residui attivo e
passivo troviamo l’avanzo o il disavanzo di amministrazione. Questo stesso valore,
può essere trovato anche sommando al fondo di amministrazione iniziale il risultato
finanziario di competenza.
Aspetto economico
L’aspetto economico della gestione va ad individuare i proventi e gli oneri di
competenza dell’esercizio a cui il bilancio si riferisce.
I proventi vengono classificati in:
 patrimoniali, quando derivano dal possesso di beni da reddito iscritti quindi
nell’attivo dello stato patrimoniale oppure da altre forme di investimento
presenti nell’attivo come le partecipazioni, i rimborsi dei crediti di
finanziamento, gli interessi attivi bancari e così via;
 non patrimoniali, sono i proventi che derivano da:
o prestazione di lavoro presso terzi;
o versamento da parte dei soci delle quote sociali;
o entrate derivanti dalla partecipazione agli utili di imprese in cui l’azienda
di erogazione ha delle partecipazioni.
Gli oneri vengono classificati in:
 patrimoniali, quando sono sostenuti per il mantenimento del patrimonio
dell’azienda, ad esempio le manutenzioni, riparazioni, imposte e tasse, spese di
assicurazione e così via;
 amministrativi, quando sono sostenuti per il normale svolgimento dell’attività
dell’impresa, ma non sono direttamente collegabili allo scopo dell’impresa, ad
esempio le utenze, le spese per il personale, le spese di cancelleria, gli affitti,
gli ammortamenti dei beni a uso durevole (cioè quelli che non danno reddito ma
sono utilizzati direttamente dall’azienda per lo svolgimento dell’attività) e così
via;
 per le finalità dell’ente, che ovviamente cambiano da azienda a azienda a
seconda dell’attività a cui essa si dedica;
 perdite derivanti da imprese in cui l’azienda di erogazione ha delle
partecipazioni.
A seconda che abbiano o meno manifestazione monetaria, gli oneri e i proventi
possono essere classificati anche (rispettivamente) in monetari e in natura.
La differenza tra i proventi e gli oneri da origine al risultato economico d’esercizio,
ovvero a quello che in un’impresa di produzione è semplicemente l’utile o la perdita.
Attività di previsione e preventivi
Così come nelle aziende di produzione, anche nelle aziende di erogazione possiamo
avere il budget, ovvero la redazione del conto economico, dello stato patrimoniale e
della situazione finanziaria a preventivo. In questo tipo di imprese anzi i preventivi
hanno un’importanza ancora maggiore in quanto essi costituiscono un vero e proprio
vincolo a cui l’amministratore deve strettamente attenersi non potendo ordinare spese
che non siano state previste a preventivo.
Si tratta in sostanza di redigere questi documenti nella stessa forma in cui essi sono
redatti a consuntivo con la differenza concettuale che quelli a consuntivo ospitano
valori storici mentre questi ospitano valori presunti.
Da notare soltanto che il preventivo finanziario deve essere fatto sia per le entrate e
uscite di competenza, sia per le variazioni effettive di cassa. La redazione del
preventivo finanziario di competenza ci permette anche di trovare ovviamente il
risultato amministrativo previsto, in quando è sufficiente prendere l’avanzo o il
disavanzo di amministrazione dell’anno precedente, aggiungere i proventi monetari di
competenza e togliere le spese monetarie di competenza.
Modalità di rilevazione e redazione del bilancio
Nelle aziende di erogazione difficilmente la contabilità viene tenuta a partita doppia.
Molto più spesso viene tenuta con scritture elementari, tenute in forma libera, che
evidenziano le variazioni intervenute nelle componenti patrimoniali, economiche e
finanziarie in conseguenza delle diverse operazioni che hanno avuto luogo durante
l’anno.
Alla fine dell’esercizio, le informazioni raccolte con le scritture elementari devono
essere come abbiamo visto sintetizzate in dei rendiconti che evidenzino l’aspetto
economico, patrimoniale e soprattutto finanziario della gestione. E’ richiesto agli
amministratori anche il “conto morale” che consiste in una relazione in cui vengono
fornite informazioni di rilievo inerenti le modalità di amministrazione dell’azienda nel
corso dell’esercizio a cui il conto morale si riferisce.
Da notare come i rendiconti consuntivi debbano sempre indicare per ogni voce non
soltanto il risultato consuntivo, ma anche il risultato previsto e lo scostamento
realizzato, in modo che risultino evidenti gli scostamenti dalle previsioni e che sia
quindi semplice formulare un giudizio di massima sull’operato degli amministratori.
STATO E ENTI TERRITORIALI MINORI
Ci sono indicazioni su:
 organi dello Stato e degli enti territoriali, che abbiamo sulla costituzione e sul
testo unico degli enti territoriali;
 indicazioni teoriche generali sul bilancio, che ci studiamo sul libro di finanza che
tanto va bene uguale e poi per quanto riguarda gli enti territoriali ci sono nel
testo unico;
 particolari sulle voci di bilancio che non sappiamo e che non possiamo sapere.
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