ECONOMIA AZIENDALE INDICE DEGLI ARGOMENTI Le imprese bancarie Il mercato dei capitali e l’intermediazione creditizia Funzioni delle banche La funzione di prestazione dei servizi La funzione di trasmissione della politica monetaria La gestione delle imprese bancarie La legislazione bancaria e il sistema bancario italiano Le operazioni di raccolta L’affidamento e le aperture di credito La contabilità analitica Concetti fondamentali Determinazione del costo di prodotto Diagramma di reddività Pianificazione strategica e budget Il bilancio e l’analisi di bilancio Concetti fondamentali Riclassificazione e analisi del bilancio per indici e per flussi Bilanci straordinari Aspetto fiscale Economia delle aziende di erogazione Le aziende di erogazione Stato ed enti territoriali minori LE IMPRESE BANCARIE IL MERCATO DEI CAPITALI E L’INTERMEDIAZIONE CREDITIZIA Soggetti in surplus e in deficit Lo svolgimento dell’attività economica origina costantemente il trasferimento di somme monetarie tra i soggetti in surplus e quelli in deficit. I soggetti coinvolti nei trasferimenti di denaro sono le famiglie, le imprese e la pubblica amministrazione, che a seconda delle circostanze possono chiedere ma anche offrire risorse monetarie con l’eccezione dello Stato che è sempre in deficit. Trasferimento diretto e indiretto Il trasferimento di risorse monetarie può essere diretto o indiretto. Il trasferimento diretto si ha quando i due soggetti interessati contrattano personalmente le condizioni del credito. Il trasferimento indiretto si ha quando nel trasferimento delle risorse monetarie si inserisce la figura dell’intermediario che da un lato raccoglie le somme versate dai soggetti in surplus e dall’altro concede finanziamenti ai soggetti in deficit usando quelle stesse somme. L’attività di intermediazione rende molto più agevole l’accesso al credito e l’investimento delle somme in surplus perché in questo modo viene eliminato il collegamento tra chi chiede e chi offre, collegamento che considerate le diverse esigenze dei due soggetti sarebbe spesso la causa del fallimento del trasferimento (pensiamo a una famiglia che mette i soldi in banca per avere un po’ di interessi ma soprattutto con la certezza di poterli riavere in ogni momento e pensiamo all’impresa che ha bisogno del finanziamento a lungo da rimborsare in un lungo periodo, pensiamo poi agli importi necessari all’impresa che essendo elevati difficilmente potrebbero essere concessi da una singola famiglia, si capisce quindi che se non ci fosse l’intermediario difficilmente la famiglia potrebbe investire i proprio risparmi e altrettanto difficilmente l’impresa potrebbe avere i soldi che le servono proprio per le diverse esigenze che i due soggetti hanno). Il principale intermediario del credito è, come ben sappiamo, la banca, che ha come compito fondamentale appunto quello di raccogliere somme di denaro dai risparmiatori per cederle ai soggetti che necessitano di finanziamenti. L’attività della banca però è cambiata negli ultimi tempi a causa di molti fattori esterni (cambiamenti nel mercato del credito, maggior livello tecnologico, mutate esigenze della clientela, ingresso nell’Unione Europea sono solo alcuni dei principali elementi di novità) tanto che attualmente vengono affiancati ai tradizionali servizi di gestione della liquidità anche molti servizi più evoluti e atipici per una banca come il leasing, il factoring, l’elaborazione automatica dei dati, etc. Il mercato dei capitali Il mercato in cui avviene il trasferimento delle somme di denaro dai risparmiatori ai soggetti bisognosi di finanziamenti è il mercato dei capitali. Esso viene suddiviso in mercato diretto e mercato aperto, dove il mercato diretto è quello in cui i soggetti contrattano personalmente le condizioni di concessione del credito, mentre invece il mercato aperto è regolato da norme precise che sovrintendono al trasferimento delle somme di denaro e a tutti gli aspetti connessi al trasferimento stesso. Il mercato aperto è a sua volta suddiviso in mercato monetario, finanziario e dei cambi. La differenza tra i primi due è temporale: nel mercato monetario vengono concessi e ottenuti finanziamenti per durate non superiori a un anno (alcuni esempi sono lo sconto di pagherò diretto, l’accettazione bancaria e il pronti contro termine) mentre invece nel mercato finanziario si hanno finanziamenti a medio-lungo termine (dove per medio termine si intende una durata compresa tra un anno e cinque anni, mentre per lungo termine si intendono finanziamenti con scadenza oltre i cinque anni). Il mercato dei cambi invece è quello in cui si ha lo scambio tra i diversi mezzi di pagamento internazionali ed è stato fortemente ridimensionato dopo la nascita dell’UEM visto che a questo punto restano l’Euro e le valute extra-UEM soltanto. Una sezione a parte del mercato dei capitali è costituita dal mercato mobiliare. In esso il trasferimento delle somme di denaro avviene attraverso la sottoscrizione di titoli (azioni, obbligazioni e titoli del debito pubblico). La differenza con gli altri mercati sta quindi nel mezzo impiegato per il trasferimento e l’investimento delle somme in surplus. FUNZIONI DELLE BANCHE Funzioni delle banche Le principali funzioni delle banche sono: Funzione di intermediazione creditizia, ovvero raccolta di somme di denaro dai risparmiatori e successiva concessione delle stesse per finanziare i soggetti in deficit; Funzione monetaria, ovvero predisposizione di strumenti in grado di sostituire la moneta legale nei pagamenti, come la moneta cartolare (assegni bancari e circolari) e la moneta scritturale ed elettronica (bonifici, pagamenti con carte di credito e bancomat, etc.); Funzione di prestazione di servizi, ovvero fornitura di servizi alla clientela che non sono strettamente collegati all’intermediazione creditizia ma che svolgono l’importante funzione di migliorare l’immagine dell’istituto di credito e la situazione economica dell’impresa; Funzione di trasmissione della politica economica e monetaria, infatti spesso le politiche in materia economica vengono realizzate imponendo alle banche la variazione del limite di riserva obbligatoria o l’effettuazione di operazioni di mercato aperto che avremo modo di vedere meglio in seguito. Ovviamente ognuna delle funzioni fondamentali sopra indicate comprende un gran numero di attività, che possono essere ritrovate a pag. 27 del nostro libro. Non è fondamentale impararle tutte a memoria, però avere un’idea un po’ più precisa dell’attività della banca potrebbe essere importante, fosse altro per fare qualche esempio un po’ meno banale nel caso ci toccasse di parlare delle funzioni delle banche. A pag. 27 non sono indicate ovviamente le attività di trasmissione della politica economica e monetaria in quanto non sono vere e proprie attività bancarie. Alla funzione di trasmissione della politica economica e monetaria è dedicato però un intero capitolo, “La politica monetaria”, che trovate in seguito. LA FUNZIONE DI PRESTAZIONE DI SERVIZI Come abbiamo visto, una delle principali funzioni delle banche di oggi è quella della fornitura di servizi, che si associa alla tradizionale attività di intermediazione finanziaria e spesso assume una grande importanza per gli istituti di credito. Negli ultimi anni in particolare, abbiamo assistito a una crescita notevole dell’importanza dei servizi bancari, il che può essere spiegato con: il ridimensionamento dei depositi bancari, ovvero quel fenomeno che è andato sotto il nome di disintermediazione creditizia, che ha costretto le banche a creare nuovi strumenti per attirare e fidelizzare la clientela; l’innovazione finanziaria, con la comparsa di molte società che fornivano servizi di finanziamento alternativi a quelli offerti dalle banche, con la conseguenza che le banche si sono aggiornate ed hanno iniziato a fornire esse stesse quei servizi per non correre il rischio di perdere clienti; l’aumento del livello tecnologico, che ha permesso di fornire alcuni servizi che prima parevano particolarmente complessi e onerosi in modo immediato, efficiente e meno oneroso per gli istituti di credito; l’aumento delle esigenze della clientela, che ha iniziato a richiedere alle banche servizi sempre più sofisticati da associare al tradizionale conto corrente di corrispondenza; l’entrata in vigore, particolarmente importante, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, che ha permesso alle banche di compiere una lunga lista di attività anche non strettamente collegate con l’intermediazione finanziaria. La fornitura dei servizi è particolarmente importante per le banche perché permette loro di ottenere due tipi di vantaggi allo stesso tempo, cioè: vantaggi diretti, collegati al fatto che i servizi offerti sono a titolo oneroso e quindi sono all’origine di entrate per la banca, il che contribuisce a migliorare sia la redditività dell’impresa che la situazione finanziaria; vantaggi indiretti, consistenti nel miglioramento dell’immagine dell’impresa bancaria e nella fidelizzazione della clientela. Parlando di servizi bancari, una fondamentale distinzione che deve essere fatta è quella tra: servizi complementari, detti anche tradizionali, che sono strettamente legati all’attività di intermediazione nel credito. Ne costituiscono alcuni esempi i bonifici, gli assegni, i bancomat, le carte di credito, le cassette di sicurezza e così via; servizi collaterali, detti anche innovativi, ovvero i nuovi servizi che le banche hanno iniziato ad offrire solo di recente direttamente o attraverso società collegate. Ne costituiscono esempi significativi il leasing e il factoring. Un altro tipo di classificazione importante che possiamo fare dei servizi bancari è quella che divide i servizi a seconda delle esigenze della clientela che essi tendono a soddisfare. Abbiamo così: servizi di pagamento; servizi di incasso; servizi di custodia; servizi di natura finanziaria; attività di acquisizione e gestione del risparmio; altri servizi. I servizi di pagamento Parlando dei servizi di pagamento, dobbiamo ricordare tra i più importanti: il rilascio di assegni circolari; le carte di credito; le carte di debito; il remote banking; il cash menagement; altri servizi di pagamento. A proposito degli assegni circolari, come ben sappiamo sono quegli assegni che vengono consegnati dalla banca dietro versamento allo sportello del relativo ammontare oppure, se il richiedente è un correntista della banca, dietro addebitamento del conto corrente del richiedente. Si caratterizzano per il fatto che non richiedono un rapporto di conto corrente con l’ente creditizio a cui ci si rivolge per ottenerli (basta pagare il relativo importo in contanti al momento della richiesta dell’assegno allo sportello) e sono uno strumento di pagamento ben accettato in quanto costituiscono l’impegno formale della banca di corrispondere al possessore dell’assegno l’importo su di esso indicato, quindi chi riceve l’assegno circolare ha la certezza assoluta che recandosi presso un qualsiasi sportello della banca emittente potrà ottenere il pagamento dell’assegno. Va ricordato però che non tutte le banche sono autorizzate ad emettere assegni circolari, infatti per farlo occorre una particolare autorizzazione rilasciata dal CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio). Le banche prive di tale autorizzazione stipulano solitamente degli accordi con altri istituti di credito muniti della necessarie autorizzazione ed emettono assegni circolari pagabili presso l’istituto di credito convenzionato. Per la banca, questo tipo di operazione è anche un’operazione di approvvigionamento a breve termine, infatti la banca ha a disposizione l’importo dell’assegno circolare emesso dal momento in cui esso viene richiesto fino al momento in cui il beneficiario dell’assegno non si presenterà allo sportello della banca per richiederne il pagamento. Si tratta tra l’altro di un’operazione di approvvigionamento che, se da un lato ha lo svantaggio di essere a brevissimo termine, dall’altro ha il grande vantaggio di non comportare per l’impresa bancaria il sostenimento di alcun onere, anzi semmai la riscossione delle relative commissioni. Per quanto attiene alle carte di credito, come sappiamo sono tessere magnetiche emesse dalle banche ma anche da altre grandi organizzazioni internazionali, che permettono al possessore di regolare le prestazioni ottenute senza corrispondere moneta legale. Il soggetto che riceve il pagamento tramite carta di credito si presenta poi presso l’istituto emittente per ottenere il pagamento del relativo importo. Periodicamente infine l’istituto che ha rilasciato la carta di credito addebita il conto corrente del possessore se si tratta di una banca oppure richiede al possessore il pagamento con contanti o con assegni se si tratta di una diversa organizzazione. Le carte di debito invece sono delle carte che permettono di pagare senza utilizzare moneta legale con addebito immediato sul conto corrente. La differenza quindi sta nel tempo dell’operazione: con la carta di credito il possessore paga e poi periodicamente regola la sua posizione nei confronti dell’istituto emittente, con le carte di debito invece il possessore paga e il suo conto viene immediatamente addebitato del relativo importo. Le carte di debito più comuni sono le carte bancomat e PagoBancomat. Il remote banking è il servizio che la banca offre a chi dispone di un collegamento a internet e in taluni casi anche di un cellulare permettendo la gestione del conto corrente a distanza, impartendo ordini attraverso la rete oppure mediante l’uso del cellulare. E’ un servizio ad alto contenuto tecnologico che permette ovviamente oltre agli atti dispositivi (giroconti, bonifici, etc) anche la visualizzazione dell’estratto conto e del saldo in tempo reale. Il cash menagement costituisce un’evoluzione del remote banking permettendo soprattutto alle grandi imprese di tenere sotto controllo costantemente i movimenti e i saldi dei vari conti correnti aperti presso i vari istituti di credito con cui l’impresa ha un rapporto di clientela. Questo permette ad esempio di effettuare non solo operazioni dispositive, ma anche giroconti da un conto all’altro della stessa impresa in modo da evitare ad esempio che un conto vada scoperto e che un altro sia ampiamente attivo, perché questo significherebbe pagare inutilmente degli alti interessi passivi e quindi peggiorare senza motivo la situazione economica dell’impresa. Altri servizi di pagamento sempre più diffusi sono le domiciliazioni delle utenze, il pagamento delle imposte realizzato in via automatica tramite l’istituto di credito, la disposizione di bonifici permanenti (ad esempio per il pagamento di periodici che impongono un pagamento rateale) e i servizi di tesoreria effettuati per conto degli enti pubblici. I servizi di incasso I servizi di incasso sono i servizi in cui la banca agisce come mandatario riscuotendo per conto del cliente mandante i crediti che quest’ultimo ha nei confronti di terzi. La fornitura di questo tipo di servizi comporta per la banca notevoli vantaggi, cioè: permette il miglioramento della situazione economica visto che la banca richiede per lo svolgimento del servizio delle commissioni e talvolta anche dei rimborsi spese, soprattutto nel caso di effetti insoluti per i quali l’istituto di credito abbia avviato la procedura per il protesto; trattandosi di riscossioni dei correntisti, consente alla banca di avere a disposizione una maggiore quantità di disponibilità liquide da impiegare per la concessione di finanziamenti o per altri tipi di investimenti; il fatto che le posizioni creditorie debbano essere ovviamente comprovate dall’esistenza di titoli di credito cartacei (cambiali, fatture) o elettronici (RiBa, MAV, RID) è importante per la banca soprattutto quando il correntista che ordina la riscossione ha ottenuto un affidamento, infatti da questi documenti la banca trae importanti informazioni circa l’evoluzione della situazione del cliente affidato. Come detto, i servizi di incasso vengono eseguiti ovviamente dietro presentazione di titoli di credito che comprovino l’esistenza di una situazione creditoria del correntista nei confronti di terzi. Questi titoli di credito possono essere di diversa natura, ad ogni modo essi possono essere innanzi tutto classificati in: cartacei, come ad esempio le cambiali e le fatture; elettronici, come le Ri.Ba., i MAV e i RID. Il funzionamento dell’accreditamento delle cambiali e delle fatture lo conosciamo bene. Sappiamo che possono essere accreditate con valuta immediata e allora si tratta di un anticipo (vedi apposita sezione) oppure al dopo incasso, cioè la banca accredita il relativo importo solo dopo che lo ha riscosso. In ogni caso, la banca chiede delle commissioni e nel caso in cui gli effetti non vadano a buon fine addebita le spese di protesto. Nel caso degli anticipi inoltre, se gli effetti non vanno a buon fine, viene ovviamente riaddebitato anche l’importo inizialmente anticipato. Il funzionamento degli anticipi su Ri.Ba. è sostanzialmente lo stesso. Cambia il comportamento della banca nel momento in cui va a registrare le operazioni sul conto corrente, ma per il resto si tratta comunque di titoli di credito che possono essere accreditati dalla banca con valuta immediata (anticipo su Ri.Ba.) o al dopo incasso esattamente come per gli altri titoli. Esattamente uguali sono le conseguenze nel caso in cui le Ri.Ba. vadano insolute, con l’ovvia differenza che non essendo titoli esecutivi, non ci potranno mai essere chiesti rimborsi di spese di protesto. Più interessanti, anche perché almeno io non ne avevo mai sentito parlare, sono i servizi di riscossione elettronici MAV e RID. Il servizio MAV, acronimo di “Mediante Avviso”, consiste nel fatto che la banca, ricevute le fatture dal suo correntista, trasmette per via telematica ai debitori gli avvisi di scadenza. Essi possono quindi recarsi in qualunque filiale di qualunque banca per effettuare il pagamento, sarà poi la banca presso cui il debitore si è recato che accrediterà l’importo del versamento alla banca presso cui il creditore ha aperto il suo conto corrente. Il vantaggio sta ovviamente nell’immediatezza e nella semplicità dell’operazione, oltre al fatto che il cliente che ha portato le fatture da riscuotere alla banca può sapere in ogni momento se sono state pagate o no. Il servizio RID, acronimo di “Rapporti Interbancari Diretti”, è particolarmente utile a quei soggetti che devono corrispondere periodicamente piccole somme di denaro. Essi possono andare in banca una sola volta e ordinare che la banca corrisponda automaticamente l’importo da versare in corrispondenza delle varie scadenze. Ovviamente sia l’entità degli importi che la periodicità del versamento sono indicati dal cliente, il quale indica anche il beneficiario del versamento stesso. Il vantaggio sta nel fatto che in questo modo il debitore si mette al riparo da possibili dimenticanze e evita di andare ogni volta in banca per disporre il pagamento. I servizi di custodia I servizi di custodia consistono nella locazione di cassette di sicurezza e nei depositi a custodia. La locazione di cassette di sicurezza è molto richiesta dai clienti delle banche che hanno spesso necessità di tenere in un luogo sicuro documenti importanti, titoli di credito, oggetti di valore e così via. Il problema è che per tenere le cassette di sicurezza la banca deve avere un caveau sotterraneo blindato che non tutte le filiali hanno. La locazione delle cassette di sicurezza ha una durata di sei mesi o di un anno ed è automaticamente rinnovata salva comunicazione contraria del cliente almeno 15 giorni prima della scadenza. Per la locazione delle cassette di sicurezza è necessario corrispondere un canone semestrale o annuale a seconda della durata del contratto. La tutela della riservatezza del cliente è garantita sia dalla segretezza assoluta del contenuto della cassetta, che non è noto neppure alla banca, sia dalla particolare procedura che deve essere seguita ogni volta che il cliente desidera aprire la cassetta per immettere o prelevare materiale. L’altro servizio di deposito come detto è il deposito a custodia. Esistono depositi a custodia aperti, in cui la banca è a conoscenza della merce depositata che figura da un’apposita distinta e si assume tutte le responsabilità relative alla sua conservazione, ma esistono anche depositi a custodia chiusi in cui il materiale da conservare è contenuto in un bauletto blindato che la banca si deve limitare a conservare assicurandone l’integrità esteriore. Ovviamente anche in questo caso la banca richiede un canone che viene corrisposto in genere con cadenza semestrale. I servizi finanziari I principali servizi finanziari sono il leasing e il factoring. Un imprenditore fa ricorso al leasing quando deve acquistare delle immobilizzazioni materiali aventi un costo tanto elevato da rendere impossibile per l’imprenditore l’acquisto tradizionale. In questo caso, l’impresa si rivolge a una società di leasing o a una banca la quale acquista il bene per conto dell’impresa richiedente e quindi lo cede all’impresa la quale da parte sua corrisponde un certo numero di canoni periodici, la cui quantità e il cui ammontare sono ovviamente determinati preventivamente al momento della stipulazione del contratto. Una volta che l’impresa ha terminato il pagamento dei canoni di leasing, può decidere di riscattare il bene versando alla società di leasing o alla banca che ha offerto il servizio un’ulteriore somma anch’essa determinata alla stipulazione del contratto e che di solito è piuttosto bassa visto che la banca o la società che ha offerto il servizio non ha assolutamente alcun interesse a vedersi restituire un macchinario che non ha niente a che vedere con la sua attività tipica, quindi di solito la banca preferisce stabilire un riscatto basso in modo che l’impresa richiedente decida di pagarlo e di tenersi il bene piuttosto che di restituire il bene alla banca che poi non se ne farebbe di nulla. Il factoring invece è il contratto mediante il quale un’impresa trasferisce alla banca i crediti verso clienti risultanti dalle fatture di vendita e la banca corrisponde l’ammontare delle fatture dopo aver sottratto una percentuale variabile tra il 20 e il 30% per tutelarsi da eventuali resi e abbuoni. I soggetti coinvolti sono quindi: l’impresa cedente, che ha dei crediti verso clienti risultanti da fattura e che li cede al factor, in questo caso alla banca, dietro riscossione del relativo ammontare; l’impresa cessionaria, chiamata factor, che acquisisce i crediti dell’impresa cedente e mette in atto tutte le procedure necessarie alla loro successiva riscossione; le aziende clienti, che hanno dei debiti di fornitura nei confronti dell’impresa cedente e che quindi non devono più pagare all’impresa cedente bensì al factor. La banca considera questo servizio come un vero e proprio affidamento, in quanto assume su di sé il rischio di insolvenza dei clienti di un correntista. Per questo motivo prima di stipulare il contratto, esegue tutte le indagini necessarie per accertare la solvibilità dei clienti ceduti e anche della stessa impresa cedente e alla fine definisce l’importo massimo che è risposta globalmente a rischiare e definisce anche il rischio massimo che è disposta a sopportare per ogni cliente ceduto. La stipula del contratto prevede per la banca i seguenti doveri: deve dare informazioni commerciali inerenti la solvibilità dei clienti dell’impresa cedente, in modo che anche l’impresa cedente possa fruire delle informazioni raccolte dalla banca riducendo o prevenendo così il rischio di perdite su crediti; deve gestire e amministrare i crediti acquistati, tenendo le necessarie relazioni con i clienti ceduti e facendo tutto quanto è necessario per ottenere il pagamento del credito acquistato. A proposito della garanzia del buon esito dell’operazione, è necessario distinguere tra: factoring pro-solvendo, detto anche con rivalsa, quando il factor non garantisce il buon esito dell’operazione e si rivale sull’impresa cedente nel caso in cui il cliente ceduto sia insolvente; factoring pro-soluto, detto anche senza rivalsa, quando il factor assume su di sé i rischi connessi all’eventuale insolvenza dei clienti ceduti e quindi rinuncia a rivalersi sull’impresa cedente in caso di insolvenza. In taluni casi possiamo trovare da parte del factor anche una funzione di finanziamento, infatti esistono: factoring con accredito a scadenza, in cui il factor accredita all’impresa l’ammontare dei crediti ceduti soltanto al momento della loro scadenza; factoring con accredito anticipato, quando il factor accredita l’ammontare dei crediti al momento della presentazione degli stessi, quindi in via anticipata. In questo secondo caso si ha appunto un’operazione di finanziamento eseguita dal factor nei confronti dell’impresa cedente. Il costo che l’impresa cedente deve sostenere per la fruizione del servizio di factoring è dato dalla somma di: spese di istruttoria, ovvero il rimborso delle spese che la banca deve sostenere per accertare la solvibilità dei clienti ceduti; commissione di factoring, che la banca chiede all’impresa cedente come rimborso per le spese collegate alla gestione dei crediti e, eventualmente, all’assunzione del rischio di insolvenza. Si tratta di una percentuale calcolata sul totale delle fatture cedute che va dallo 0,5% nel caso di factoring con rivalsa fino al 3% nel caso di factoring senza rivalsa; un diritto fisso richiesto a titolo di rimborso spese generale che varia tra 5 € e 15 € per ogni fattura ceduta; le spese di tenuta conto richieste in misura fissa e addebitate ad ogni liquidazione delle competenze alla fine quindi di ogni periodo di capitalizzazione; in caso di accreditamento anticipato, gli interessi che vanno dal momento dell’accreditamento fino alla scadenza del credito. Il principale svantaggio per l’impresa ceduta in rapporto ad esempio al normale anticipo su fatture è costituito dal costo notevolmente più alto, i principali vantaggi invece sono: l’impresa cedente può impiegare il personale e le risorse che prima impiegava nella funzione di riscossione dei crediti in altre funzioni, visto che con il factoring è il factor che si occupa della gestione e della riscossione dei crediti; l’impresa cedente può valutare la qualità dei suoi clienti sulla base delle informazioni commerciali fornite dal factor che fa le sue indagini per valutare l’affidabilità dei clienti ceduti ed è poi tenuto a comunicare le informazioni raccolte anche all’impresa cedente; non compromette la possibilità di ricorrere ad altri finanziatori e non riduce l’importo di fido disponibile presso la banca che offre il servizio di factoring, mentre invece l’anticipo su fatture è una vera e propria apertura di credito, il che vuol dire che riduce l’ammontare del fido disponibile e rende molto complesso riuscire ad ottenere finanziamenti da altri istituti (come sappiamo, l’esistenza di un affidamento presso una banca, costituisce un fattore di grande importanza per un finanziatore che debba decidere se accordare o no un finanziamento ad un’impresa); i corrispettivi pagati al factor sono completamente deducibili fiscalmente. Altri servizi Altri servizi di minore importanza offerti dalle banche sono: i servizi resi a società ed enti emittenti di valori mobiliari; l’assistenza nel commercio con l’estero; le attività in campo assicurativo; le attività di acquisizione di partecipazioni; le attività di revisione e di elaborazione dati. LA FUNZIONE DI TRASMISSIONE DELLA POLITICA MONETARIA Finalità della politica economica La politica economica è l’insieme di tutti i provvedimenti che possono essere presi per perseguire le seguenti finalità: sviluppo dell’economia; piena occupazione; contenimento del tasso di inflazione; equilibrio dei cambi; contenimento del deficit di bilancio. Essa è attualmente affidata in larga misura alla Banca Centrale Europea, che in quanto vertice del SEBC (Sistema Europeo delle Banche Centrali) ha il compito di definire la politica economica dell’area Euro. La BCE e il SEBC La BCE, con sede a Francoforte, acquista personalità giuridica nel 1999 e viene posta a capo del SEBC, organo incaricato della definizione della politica economica in tutta l’area Euro. La BCE si compone di tre organi: il comitato direttivo, formato da tutti i governatori delle banche centrali nazionali dei Paesi dell’area Euro, che ha il compito di formulare una politica monetaria comune a tutti gli Stati membri; il consiglio esecutivo, formato da 6 membri scelti tra i maggiori esperti del settore, con il compito di assicurarsi che venga data concreta attuazione nei vari Stati dell’area Euro alle disposizioni inerenti la politica economica e monetaria che vengono prese a livello centrale; il consiglio generale, con funzione consultiva. La BCE è l’unico organo che può autorizzare l’emissione di moneta nell’area Euro ed è anche incaricata della raccolta dei dati statistici inerenti il mercato creditizio e mobiliare nell’area Euro. Svolge inoltre un ruolo determinante, in qualità di presidente del SEBC, nella definizione della politica economica e monetaria comune all’area Euro. Il SEBC è costituito dall’insieme delle banche centrali dei Paesi dell’area Euro e anche dalle banche centrali dei Paesi europei non aderenti (Gran Bretagna, Danimarca e Svezia che però hanno un ruolo meno importante all’interno dell’organo e non sono obbligate a dare esecuzione alle delibere in materia di politica economica) ed è presieduto dalla BCE. E’ un organo del tutto indipendente dal potere politico che ha come compito principale, come già più volte ripetuto, quello di definire la politica economica e monetaria in tutta l’area Euro. La politica monetaria come strumento di politica economica Gli strumenti a disposizione del SEBC per perseguire questi scopi sono molteplici. Uno di questi strumenti è la politica monetaria, che consiste nell’espansione o nella riduzione della cosiddetta base monetaria, costituita dalla somma della moneta bancaria, delle riserve legali depositate dalle banche presso la Banca d’Italia e dai crediti inutilizzati concessi dalla Banca d’Italia alle varie banche. Le finalità della politica monetaria La politica espansiva della base monetaria viene realizzata con lo scopo di aumentare la quantità di moneta in circolazione e di conseguenza il volume degli scambi e degli investimenti. Al contrario, la politica monetaria restrittiva viene attuata per ridurre la quantità di moneta in circolazione con lo scopo di frenare la spinta inflazionistica. Gli strumenti utilizzati per realizzare la politica monetaria Sia la politica monetaria espansiva che quella restrittiva vengono realizzate nel concreto: utilizzando strumenti di mercato (ovvero regolando le operazioni di mercato aperto effettuate dalle banche); ridefinendo di volta in volta l’ammontare minimo della riserva obbligatoria che ogni istituto di credito deve depositare presso la Banca d’Italia; eseguendo operazioni su iniziativa delle controparti. Non può più essere utilizzato lo strumento della manovra del tasso ufficiale di sconto (ovvero il tasso di interesse che veniva richiesto agli istituti di credito nazionali quando si rivolgevano alla banca centrale del proprio Paese per chiedere un finanziamento), che ha cessato completamente di esistere con la nascita dell’Euro. Le operazioni di mercato aperto Le operazioni di mercato aperto sono classificate in: operazioni di rifinanziamento, che consistono nella stipulazione di contratti pronti contro termine tra i vari istituti di credito nazionali e le rispettive banche centrali. Possono essere effettuati pronti contro termine di due diversi tipi a seconda dello scopo per cui sono fatti: o pronti contro termine di impiego, in cui l’istituto di credito acquista titoli mobiliari dalla banca centrale del suo Paese per poi rivendere a scadenza i titoli stessi a un prezzo maggiorato. Questa operazione, che per gli istituti di credito privati è conveniente in quanto il prezzo a termine come sappiamo è sempre maggiore del prezzo a pronti, serve per eseguire una politica economica restrittiva, infatti se le varie banche private investono nei pronti contro termine emessi dalla banca centrale del loro Paese, vuol dire che avranno meno risorse da impiegare altrimenti e quindi si riduce seppure temporaneamente la quantità di moneta in circolazione e quindi si ha anche una riduzione della base monetaria; o pronti contro termine di finanziamento, che hanno esattamente lo scopo opposto. In questo caso infatti è la banca centrale che acquista dalle banche private i titoli mobiliari e pronti per poi rivenderli a termine a un prezzo maggiorato. In questo caso quindi le banche private hanno un costo di finanziamento costituito dalla differenza tra il prezzo a termine e quello a pronti e soprattutto però hanno momentaneamente una maggiore disponibilità di moneta da impiegare, quindi si ha un aumento della quantità di moneta in circolazione e quindi un’espansione della base monetaria; Esistono operazioni di rifinanziamento principali in cui la durata dei P/T è di due settimane, ma esistono anche operazioni di rifinanziamento a più lungo termine in cui la durata dei P/T è di 3 mesi. certificati di debito della BCE, la cui remuneratività è data dalla differenza tra il prezzo di emissione sotto la pari e il valore nominale rimborsato a scadenza, la cui durata massima è di 1 anno. In tutte queste operazioni è di fatto la Banca Centrale Europea a influenzare il comportamento delle banche private, manovrando i tassi dei pronti contro termine. Infatti se la banca centrale vuole realizzare una politica espansiva della base monetaria, farà in modo che per le banche sia conveniente indebitarsi presso le rispettive banche nazionali e quindi definirà dei tassi bassi per i pronti contro termine di finanziamento in maniera tale che le banche siano invogliate a ricorrere a questo strumento di finanziamento e quindi aumentino le loro disponibilità liquide espandendo così la base monetaria. Al contrario, se la BCE vuole fare una politica restrittiva, farò in modo che i tassi dei pronti contro termine di impiego siano alti, in modo da invogliare le banche private a impegnare le loro risorse monetarie investendole nei pronti contro termine di impiego. Se le banche investono le loro risorse nei P/T di impiego infatti, queste risorse vengono tolte dalla circolazione, diminuisce quindi temporaneamente la quantità di risorse monetarie in circolazione e si attua quindi una politica restrittiva della base monetaria. Per i certificati della BCE vale lo stesso discorso: se la BCE vuole fare una politica restrittiva, farà in modo che essi risultino convenienti per le banche private che in questo modo investono in questi certificati di debito riducendo temporaneamente la quantità di risorse a loro disposizione e riducendo quindi nel complesso la base monetaria. Le operazioni su iniziativa delle controparti Le operazioni su iniziativa delle controparti sono operazioni di brevissima durata (sono dette overnight, infatti durano dal pomeriggio di un giorno fino al mattino del giorno successivo) che vengono appunto proposte dagli istituti di credito privati alle rispettive banche centrali. Possono essere sia richieste di finanziamenti (e quindi indebitamenti delle banche private nei confronti delle banche centrali), sia depositi (e quindi si ha l’indebitamento della banca centrale nei confronti della banca privata che ha effettuato il deposito). Ovviamente anche in questo caso i tassi passivi e attivi su queste operazioni sono definiti dalla BCE, che metterà tassi bassi nel caso in cui desideri invogliare le banche private ad indebitarsi aumentando così le loro disponibilità monetarie ed espandendo quindi la base monetaria mentre al contrario metterà tassi alti nel caso in cui desideri che le banche private investano le loro disponibilità monetarie riducendo così momentaneamente la quantità di moneta a loro disposizione e riducendo quindi momentaneamente la base monetaria. La riserva obbligatoria La riserva obbligatoria è una riserva che le banche private nazionali sono obbligate a versare presso le rispettive banche centrali. E’ calcolata applicando il 2% alla cosiddetta base della riserva, ovvero al totale delle risorse monetarie soggette a riserva che la banca ha a disposizione. Non sono soggette a riserva, in generale: le operazioni pronti contro termine; i depositi con scadenza superiore a 2 anni; i fondi derivanti da finanziamenti ottenuti da altre banche dell’area Euro. La riserva obbligatoria è un semplice strumento di politica monetaria in quanto l’aumento del coefficiente di riserva obbligatoria (cioè la percentuale da applicare sulla base della riserva, che attualmente è fissata al 2%) comporta l’aumento della quantità di denaro che le varie banche devono depositare presso le rispettive banche nazionali e quindi comporta anche una diminuzione delle risorse a disposizione delle banche con conseguente riduzione della base monetaria. D’altra parte, una riduzione del coefficiente di riserva obbligatoria ha come conseguenza il fatto che le banche hanno maggiori risorse a loro disposizione e quindi anche la base monetaria (che è costituita appunto dall’insieme delle risorse monetarie a disposizione delle banche nelle varie forme) aumenta. LA GESTIONE DELLE IMPRESE BANCARIE Aspetti organizzativi delle aziende bancarie Per organizzazione di un’impresa si intende il modo in cui vengono coordinate le risorse umane e materiali disponibili in modo da riuscire ad ottenere la massima efficienza possibile. Andando a vedere come si organizza una banca, dobbiamo fare prima di tutto una distinzione, cioè dobbiamo vedere: la distribuzione sul territorio; l’organizzazione dell’impresa al suo interno dal punto di vista gerarchico e dei poteri. A proposito della distribuzione sul territorio, praticamente tutte le imprese bancarie sono imprese divise, cioè esse non operano in un solo luogo con un’unica sede, ma hanno una sede centrale e poi diverse sedi distaccate con poteri minori e raggi d’azione minori. A questo proposito, dobbiamo distinguere: sede centrale, in cui vengono prese le decisioni di orientamento generale dell’attività dell’impresa; sedi decentrate, o filiali, che sono le unità organizzative più importanti dopo la sede centrale. Esse sono situate generalmente nei grandi centri e sovrintendono all’attività delle succursali di tutta la provincia o di tutta la ragione a seconda dei casi; succursali, generalmente situate nei centri medio-piccoli, dotate di minore autonomia e soggette al controllo della filiale che ha competenza nell’area in cui esse si trovano. Esercitano il loro controllo sulle agenzie situate nell’area di propria competenza; agenzie, con autonomia molto limitata, operano alle strette dipendenze delle succursali. Si trovano nei vari quartieri di una stessa città o nei paesi di piccole dimensioni; uffici di rappresentanza, non svolgono attività di intermediazione finanziaria, ma hanno lo scopo di promuovere l’impresa bancaria e contattare potenziali clienti in aree marginali non ancora raggiunte dall’impresa con le sue agenzie. Servono quindi a trovare i clienti ancora prima di mettere l’agenzia, per evitare di mettere l’agenzia sostenendo i relativi costi per poi scoprire che non c’è nessuno che vi apre un conto. Se invece guardiamo all’organizzazione gerarchica interna all’impresa, possiamo trovare tre tipi diversi di organizzazione, cioè: struttura funzionale; struttura divisionale; struttura matriciale. La struttura funzionale può essere semplice o complessa. Nella struttura funzionale semplice c’è la direzione generale che ha alle sue dipendenze le varie direzioni delle diverse funzioni della banca, quindi ad esempio c’è la direzione generale e poi sotto, tutte sullo stesso livello, la direzione pianificazione e controllo, la direzione marketing, la direzione personale, la direzione tesoreria e così via per tutte le varie funzioni della banca. Tutte queste direzioni lavorano quindi alle dipendenze della direzione generale la quale impartisce poi direttamente gli ordini alle varie filiali le quali poi a loro volta trasmettono gli ordini alle varie dipendenze minori come abbiamo visto prima. Nella struttura funzionale complessa invece ci sono degli organi intermedi che in quella semplice non ci sono. Prima di tutto c’è la direzione coordinamento filiali che riceve gli ordini dalla direzione generale e li trasmette alle varie filiali, mentre prima era la direzione generale che impartiva direttamente gli ordini senza nessun intermediario. Poi le varie direzioni funzionali non sono direttamente alle dipendenze della direzione generale, ma ci sono degli organi intermedi, ad esempio le direzioni di contabilità, personale e controllo operativo non sono alle dirette dipendenze della direzione generale, ma sono invece alle dipendenze di un organo intermedio che sta tra la direzione generale e le varie direzioni minori che in questo caso si chiama direzione amministrazione. Vi consiglio comunque, e questo vale anche per le altre, di dare un’occhiata anche al libro, anche solo agli schemi, che forse vi restano in mente meglio dei discorsi. Un'altra raccomandazione: non vi fossilizzate su queste cose, io le metto perché sono cosine facili alla fin fine e se dovessero capitare sarebbe da coglioni lasciare pagina bianca per non aver fatto delle bischerate così, però non vi fasciate il capo se non vi ricordate tutti i nomi o tutti i particolari, chi se ne frega!!! Nella struttura divisionale, resta tutto uguale alla struttura funzionale, solo che le varie filiali non sono alle dirette dipendenze della direzione generale o della direzione coordinamento filiali, ma ci sono degli organi intermedi tra le direzioni e le filiali. Per fare questo, la banca prima di tutto sceglie su quale criterio vuole raggruppare le filiali e può scegliere di raggrupparle: per area geografica; per tipo di servizio offerto; per categoria di clienti. A questo punto, se ad esempio si è scelto di raggruppare le filiali per area geografica, si creano tanti organi intermedi tra la direzione e le filiali (che si chiamano “divisioni”), uno per ogni area geografica e quindi le varie filiali non saranno più alle dipendenze della direzione, ma saranno alle dipendenze della divisione che ha competenza nell’area geografica in cui si trovano. Lo stesso discorso vale per gli altri tipi possibili di raggruppamento, cambia solo che invece che esserci una divisione per ogni area geografica, ci sarà una divisione per ogni servizio o per ogni categoria di clienti (attenzione a questa qui perché è un po’ particolare, si avvicina di più all’organizzazione funzionale che a quella divisionale a dire la verità, però loro la mettono come struttura divisionale). Infine, nella struttura matriciale, non c’è un’unica direzione, ma tante direzioni diverse, ad esempio ci può essere una direzione per ogni area geografica, per ogni categoria di clienti, per ogni servizio bancario, per ogni funzione e così via. A questo punto i diversi organi di comando passano le direttive alla direzione generale la quale le trasmette alle varie filiali. Quindi la direzione generale c’è ma non ha il compito di coordinare il lavoro delle varie direzioni. Le varie direzioni sono indipendenti dalla direzione generale e hanno tutte lo stesso potere, la direzione generale raccoglie le indicazioni delle varie direzioni e le trasmette alle filiali senza esercitare nessun potere di controllo o di organizzazione. L’assenza di un potere centralizzato comporta però problemi legati all’assenza di un preciso indirizzo generale della gestione oltre al fatto che non essendo tra loro coordinate, le varie direzioni possono addirittura impartire ordini incompatibili tra loro. Consiglio personale: siccome questa roba ci potrebbe servire io credo solo se ci capitasse l’organigramma di un’impresa bancaria, non vi andate a beccare proprio quella matriciale o quella divisionale per clienti!!! C’è quella funzionale o quella divisionale per aree geografiche o per prodotti che sono tanto facili!!!! Equilibrio patrimoniale, economico e finanziario Nella gestione della propria attività la banca deve, come tutte le altre imprese del resto, porre particolare attenzione a realizzare l’equilibrio patrimoniale, economico e finanziari. Realizzare l’equilibrio patrimoniale significa: fare in modo che gli impieghi a lungo siano opportunamente finanziati dalle fonti a lungo (capitale di proprietà, che nelle imprese bancarie è sempre relativamente ridotto, e finanziamenti di terzi a lungo); fare in modo che l’attivo circolante sia superiore al passivo corrente in modo da realizzare l’equilibrio patrimoniale nel breve periodo. Realizzare l’equilibrio economico significa fare in modo che nel lungo periodo l’attività d’impresa sia in grado di produrre una redditività tale da remunerare opportunamente il capitale investito garantendo anche in una certa misura l’autofinanziamento della banca. Questo obiettivo viene ovviamente raggiunto se l’impresa riesce ad avere nel corso dei vari esercizi dei ricavi superiori ai costi e quindi un utile. I principali elementi che influiscono sulla gestione economica della banca sono: i tassi di interesse, che sono per le banche una fonte di reddito in quando ovviamente il tasso corrisposto ai risparmiatori è nettamente inferiore a quello richiesto ai soggetti che si rivolgono alla banca per ottenere un finanziamento. I tassi attivi per la banca sono influenzati da molteplici fattori, come ad esempio: o il livello dei tassi presenti sul mercato; o il rischio del finanziamento; o la durata del finanziamento; o la forma tecnica adottata; o la finalità per cui il finanziamento stesso è stato richiesto. Anche i tassi passivi per la banca sono influenzati da diversi fattori tra cui i più importanti sono: o la forma tecnica di approvvigionamento scelta dalla banca; o la durata dell’operazione di approvvigionamento; o l’entità della somma che il risparmiatore ha deciso di investire. i proventi derivanti dalla fornitura dei servizi accessori all’intermediazione creditizia, che come già accennato servono sia per migliorare la situazione economica dell’impresa sia per migliorare l’immagine e la notorietà di quest’ultima all’esterno; i costi extra-creditizi sono potremmo dire il corrispondente della fornitura dei servizi sul lato passivo però, nel senso che essi non hanno niente a che vedere con la funzione di intermediazione creditizia (come niente avevano a che vedere i servizi accessori) ma sono costi che devono comunque essere sostenuti perché l’impresa possa funzionare e generare reddito (impianti, personale, marketing, etc.). Infine l’equilibrio finanziario viene realizzato quando la banca riesce ad avere costantemente una quantità di risorse liquide sufficiente per soddisfare le richieste dei risparmiatori che in ogni momento possono rivolgersi all’istituto di credito per chiedere che venga loro restituita una parte delle somme disponibili sui c/c. L’equilibrio finanziario viene realizzato attraverso due tipi di gestioni: la gestione della liquidità (che consiste nel coordinamento delle entrate ed uscite monetarie nel medio-lungo periodo); la gestione della tesoreria (che consiste invece nella previsione delle entrate e delle uscite nel breve e nel brevissimo periodo e nel ricorso alla vendita dei titoli o al credito presso la Banca d’Italia nel caso in cui le previsioni evidenzino saldi negativi tali da rendere insufficiente anche il ricorso alle riserve di liquidità che le banche sempre accantonano proprio in previsione di possibili riduzioni delle risorse liquide disponibili). Il rischio d’impresa Come tutte le attività d’impresa poi, l’impresa bancaria è sottoposta al rischio d’impresa e anzi per certi aspetti lo è ancora di più rispetto ad altre attività imprenditoriali. I rischi per la banca possono essere di natura sia economica che finanziaria. I principali rischi di natura economica derivano da: possibile insolvenza dei soggetti a cui la banca concede i finanziamenti; andamento dei tassi (se la banca concede prestiti a tasso fisso e poi i tassi alzano la banca ha un guadagno minore rispetto a quello che avrebbe potuto avere, d’altra parte se la banca assume debiti a tasso fisso e poi i tassi abbassano gli oneri per la banca saranno maggiori di quelli che avrebbero potuto essere); andamento dei mercati finanziari, in quanto esiste il pericolo che i titoli del mercato mobiliare su cui la banca ha investito subiscano una svalutazione; inflazione, in quanto visto che la maggior parte delle attività della banca sono costituite da crediti, in caso di forte inflazione la somma nominale restituita a scadenza dal cliente alla banca avrebbe un valore reale molto inferiore a quello previsto. I rischi finanziari sono per lo più legati invece all’insolvenza dei soggetti a cui sono stati concessi dei finanziamenti visto che se questi soggetti non rimborsano i loro debiti nei tempi previsti alla banca vengono a mancare le risorse liquide necessarie in quanto viene a mancare la concordanza tra entrate e uscite che è il principale strumento che la banca ha per assicurarsi l’equilibrio finanziario. Il principale strumento di cui la banca dispone per ridurre il rischio d’impresa è il frazionamento dei rischi creditizi attraverso: diversificazione quantitativa, che consiste nell’evitare di concedere finanziamenti di ammontare eccessivamente elevato a un unico soggetto; diversificazione territoriale, che consiste nel concedere finanziamenti a imprese situate in diverse zone geografiche e non concentrate quindi in un’unica area; diversificazione settoriale, che consiste nel concedere finanziamenti a imprese operanti in settori diversi; diversificazione delle forme tecniche di concessione dei finanziamenti. Il marketing bancario Come tutte le imprese, anche le banche hanno bisogno di fare marketing per prendersi nuovi clienti o per fidelizzare quelli che già hanno. Il concetto di marketing parte dal presupposto che l’impresa è inserita in un ambiente e che ci sono dei flussi continui di informazioni oltre che di denaro che vanno dall’impresa all’ambiente e viceversa. I flussi che possiamo individuare sono: flusso di prodotti e servizi che va dalla banca all’esterno, visto che la banca fornisce prodotti e servizi a chi si trova nell’ambiente esterno; flusso di informazioni che va dalla banca all’esterno (pensiamo alle consulenze, alle indicazioni sull’apertura di credito da scegliere, alle indicazioni sulla solvibilità dei clienti nel caso in cui la banca funzioni da factor e così via); flusso di denaro e di informazioni allo stesso tempo che va dall’esterno alla banca nel momento in cui i clienti versano dei titoli di credito in conseguenza di transazioni commerciali (la banca riceve infatti informazioni su quali sono i maggiori soggetti economici, qual è il loro volume di acquisti e vendite, quali sono quelli insolventi, quali sono le attività economiche predominanti e così via); flusso di informazioni provenienti dall’ambiente esterno dirette alla banca che consistono semplicemente nell’analisi del comportamento dei soggetti di fronte all’introduzione di un nuovo servizio, ad esempio (è il cosiddetto feed-back, cioè la banca fa qualcosa e osserva cosa succede come conseguenza, prendendo così in modo indiretto delle informazioni dall’ambiente esterno). La banca quindi non può ignorare l’ambiente esterno, che è invece di vitale importanza per la sua attività. Deve riuscire a capire quali sono le tendenze, quali sono le esigenze e sulla base di questo deve fornire e presentare opportunamente i servizi che meglio possono soddisfare le esigenze dei potenziali clienti o dei clienti che già ha e che non vuole perdere (fidelizzazione dei clienti). Il primo passo che l’impresa deve fare sul lato del marketing è quello di porsi degli obiettivi da raggiungere. Gli obiettivi sono prima di tutto generali, ad esempio: la definizione del livello di redditività complessiva da raggiungere; l’individuazione delle aree geografiche o delle fasce di clientela in cui ci si vuole espandere; il totale delle entrate finanziarie che si vuole conseguire attraverso i depositi in conto corrente; altri che cambiano di volta in volta. Definiti gli obiettivi generali, bisogna definire i sotto-obiettivi che devono essere raggiunti per poter raggiungere gli obiettivi generali, ad esempio: il numero di nuovi clienti che si vogliono avere in un anno; il volume d’affari che si vuole realizzare per ogni servizio; i nuovi prodotti o servizi che si vogliono introdurre; il rilancio di prodotti già esistenti ma poco richiesti; altri. Fatto il primo passo con la definizione degli obiettivi, bisogna fare il secondo suddividendo la clientela in base ai criteri che si ritengono più opportuni. Lo scopo è quello di suddividere i clienti attuali e i potenziali clienti futuri in gruppi omogenei, che tengono cioè lo stesso comportamento di fronte alle varie iniziative che la banca può intraprendere. Il criterio che la banca può usare per fare la suddivisione può essere: geografico; demografico; sociale; economico; misto. Il criterio misto consiste semplicemente nel fare i raggruppamenti secondo due o più parametri tra quelli visti sopra, ad esempio unendo il criterio sociale e quello economico possiamo suddividere i clienti in questi gruppi: sposati e poveri; sposati e ricchi; celibi e poveri; celibi e ricchi; divorziati e poveri; divorziati e ricchi. Lo so che vi pare che stia bischereggiando, ma vi assicuro che non è così. Anche queste due cose sul marketing, se ci capita bancaria, ci potrebbero tornare utili e poi dai… mi direte mica che sono difficili!!! ;-) Una volta creati i gruppi omogenei, viene la parte più difficile, cioè bisogna capire quali sono, per ogni gruppo, le iniziative che hanno maggiore probabilità di avere successo, cioè bisogna capire che cosa vogliono dalla banca i soggetti appartenenti ai diversi gruppi che ci siamo fatti. E qui entra in gioco il marketing mix, cioè l’insieme delle azioni di marketing che la banca deve intraprendere con riferimento a ciascuna categoria di clienti per fare in modo che diventino clienti della banca o che si “affezionino” ancora di più alla banca. Queste azioni vengono chiamate leve di marketing e sono: la gamma dei prodotti/servizi: cioè per ogni categoria di soggetti si va ad individuare quali potrebbero essere i servizi che verrebbero accolti con maggior favore o quali sono i servizi che vengono maggiormente usati e che quindi devono essere potenziati, ad esempio ci saranno categorie di clienti che considerano più importanti i servizi di investimento, altri considerano invece più utili quelli di finanziamento, altri ancora quelli di incasso e pagamento e così via, quindi a seconda del soggetto a cui ci vogliamo rivolgere dobbiamo potenziare più gli uni o gli altri uniformandoci alle sue esigenze; il prezzo praticato, cioè il livello dei tassi e le altre condizioni: cioè dobbiamo prima di tutto cercare di offrire condizioni migliori di quelle della concorrenza a livello complessivo ma dobbiamo fare attenzione anche a come bilanciare gli interessi e le commissioni, ad esempio se ci rivolgiamo a persone con bassa cultura, se gli diamo tassi appetibili e poi recuperiamo con le commissioni va bene tanto non se ne accorgono, invece se ci rivolgiamo a gente che sa il fatto suo e pensiamo di prenderli in giro così quelli se ne accorgono, si offendono e ci salutano (ho banalizzato, e neanche poco, ma serve per rendere un po’ l’idea, almeno spero); la distribuzione sul territorio delle dipendenze minori: in generale cioè si tratta di capire quali sono i mezzi più idonei per permettere ai vari soggetti di entrare in contatto con la banca. Sappiamo ad esempio che ci sono modi tradizionali (sportelli) e i vari modi automatici (remote banking, sportelli bancomat, cash menagement, MAV, RID e così via) e la scelta ad esempio tra il potenziamento degli sportelli e il potenziamento dei mezzi informatici e automatici non è casuale, dipende dai soggetti a cui ci vogliamo rivolgere (se ad esempio vogliamo “conquistare” i vecchini di certo sarà più importante mettergli lo sportello sotto casa che potenziare il servizio con Internet visto che non sanno neanche cosa sia, mente invece se ci rivolgiamo ai giovani o agli uomini d’affari con poco tempo è probabile che sia maggiormente apprezzato il potenziamento dei mezzi telematici); la comunicazione, in particolare il personale addetto al pubblico, che deve sapersi regolare in base alle persone che ha di fronte (cioè ad esempio deve saper essere disponibile e semplice se ha a che fare con della gente che non se ne intende, mentre deve essere qualificato e preciso se si rivolge a degli addetti ai lavori), ma nella leva della comunicazione rientrano e hanno un’enorme importanza anche le campagne pubblicitarie, cioè a seconda dei soggetti a cui ci vogliamo rivolgere dobbiamo capire qual è lo strumento più idoneo (giornali, volantini, TV, radio, Internet, etc) e dobbiamo anche trovare il modo più adatto per passare il messaggio, cioè utilizzare gli strumenti di comunicazione di massa in modo che il nostro messaggio colpisca chi lo riceve. Il bilancio delle imprese bancarie I principi generali sulla redazione del bilancio e i criteri di valutazione sono indicati nel D. Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87 che è trascritto in maniera integrale come legge collegata nel codice civile 2002 di Elemond Scuola & Azienda che vi RACCOMANDO di prendere per gli esami, anche perché ci sono un macello di cose importanti per ragioneria (attenzione perché ce ne sono 2, non mi prendete quello specializzato sull’ambiente e il territorio!!!) Gli schemi di bilancio e le riclassificazioni dello Stato Patrimoniale e del Conto Economico sono indicate in modo chiarissimo sul libro. Si tratta semplicemente di schemi da imparare, che prenderemo in mano insieme al momento di studiare. E’ inutile che perda una mattinata a riscrivere pari pari le cose del libro. LA LEGISLAZIONE BANCARIA E IL SISTEMA BANCARIO ITALIANO La legislazione in materia bancaria è stata profondamente modificata in tempi relativamente recenti da due Testi Unici. Il primo, del 1993, venne chiamato “Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” e riunì una serie di leggi emanate nel corso degli anni ’90 per accogliere le direttive europee in materia bancaria. Il secondo, del 1998, ha in parte integrato e in parte anche modificato il T.U. del ’93 e che è stato chiamato “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”. Prima del ’93, l’attività bancaria era regolata da un insieme di disposizioni emanate nel corso di diversi anni che venivano riassunte sotto il nome di “Legge Bancaria”. Il punto di riferimento della cosiddetta Legge Bancaria era un regio decreto legge del ’36, poi a più riprese rivisto e modificato fino ad arrivare appunto alla revisione completa della normativa del ’93. La legge bancaria si basava su alcuni principi cardine che traevano la loro origine dalla grave crisi che interessò il settore bancario in corrispondenza della crisi del ’29, quando anche le banche risentirono pesantemente della crisi delle industrie visto che buona parte del capitale delle banche era detenuto dalle industrie sotto forma di partecipazioni e visto anche che le industrie non avevano le risorse necessarie per rimborsare i debiti che avevano verso gli istituti di credito i quali si trovarono quindi in grave carenza di liquidità e ottennero in quegli anni risultati economici oltre che finanziari catastrofici. Questi principi cardine erano, in particolare: la proprietà pubblica delle imprese bancarie, che finirono tutte per essere controllate dallo Stato e in particolare dall’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, che acquisì le partecipazioni in attività industriali che erano detenute dalle tre maggiori banche del tempo e acquisì anche la maggioranza del capitale delle banche stesse; la separazione netta tra le attività industriali e quelle di intermediazione creditizia; la specializzazione temporale, cioè una banca non poteva concedere finanziamenti a breve e a lungo allo stesso tempo, doveva decidere se specializzarsi nei finanziamenti a breve (e prendere quindi il nome di banca commerciale o istituto di credito ordinario) o nei finanziamenti a lungo (e prendere il nome di istituto di credito speciale); la specializzazione settoriale, cioè gli istituti di credito speciali (e solo quelli, quindi questo non vale per le banche commerciali) dovevano scegliere un settore in cui operare (si trattava di macro-settori, che comprendevano in realtà un numero piuttosto cospicuo di attività economiche) e potevano concedere finanziamenti solo alle imprese operanti in quel settore; il pluralismo degli istituti di credito, nel senso che essi potevano assumere la forma giuridica che meglio si adattava al tipo di attività e alla realtà locale in cui i vari istituti si trovavano ad operare, ma erano sottoposti a una diversa regolamentazione a seconda della forma giuridica adottata; l’istituzione della Banca d’Italia, unico istituto incaricato dell’emissione di moneta. A partire dal ’93 poi, come detto, c’è stato questo profondo rinnovamento, che ha avuto come principi cardine: la liberalizzazione dell’attività bancaria e il mutuo riconoscimento, con l’ingresso nel settore dell’intermediazione creditizia di molte imprese capaci di fare concorrenza ai colossi del credito che esistevano già a inizio secolo e con la possibilità offerta alle imprese bancarie straniere di installare le loro filiali in Italia (la stessa cosa ovviamente la possono fare le banche italiane, che possono quindi installare le loro filiali in ogni Paese dell’area Euro senza limitazioni, secondo appunto il principio del mutuo riconoscimento); l’accrescimento dell’efficienza delle aziende di credito italiane in modo da poter sostenere il confronto con gli istituti di credito europei, realizzato anche attraverso la privatizzazione degli istituti di credito che fino agli anni ’90 erano in gran parte controllati ancora dallo Stato; la despecializzazione temporale e settoriale delle banche, che così sono lasciate libere di concedere finanziamenti senza limiti temporali o di settore; la prudente gestione dell’attività creditizia e la ricerca della stabilità del sistema finanziario, in modo da tutelare il pubblico risparmio e evitare gravi crisi di settore come quella che si era verificata a inizio secolo; la possibilità di acquisire partecipazioni in imprese sia del settore creditizio che di altri settori, anche se in questo senso restano ancora alcuni limiti; la definizione tassativa della forma giuridica delle imprese bancarie, che devono necessariamente essere società per azioni o società in accomandita per azioni senza differenze di trattamento a seconda che venga assunta l’una o l’altra forma giuridica. Ovviamente la normativa bancaria non si esaurisce qui, ma si compone di un complesso di disposizioni che mi guardo bene dall’elencare nei particolari anche perché mi pare davvero improbabile che ci venga richiesto di esporre nei particolari la regolamentazione del settore bancario, molto più probabile invece che ci venga chiesta l’evoluzione storica della regolamentazione, cioè quello che ho messo fin qui. Non dimentichiamo tra l’altro che praticamente qualunque codice civile ha il T.U. delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, quindi questo mi pare davvero l’ultimo dei problemi. LE OPERAZIONI DI RACCOLTA Le operazioni di raccolta sono tutte quelle operazioni che vengono svolte dalla banca per raccogliere le risorse monetarie che vengono poi concesse sotto forma di finanziamenti ai soggetti in deficit. Esistono operazioni di raccolta originarie e derivate. Quelle originarie sono quelle maggiormente diffuse attualmente e possono essere così elencate: depositi a risparmio libero; depositi a risparmio vincolato; certificati di deposito; conti correnti di corrispondenza passivi; raccolta obbligazionaria; operazioni pronti contro termine. Quelle derivate invece sono le operazioni di approvvigionamento effettuate non con i privati cittadini, ma con le altre banche. Queste operazioni, molto diffuse in passato, sono ora molto meno utilizzate tanto che il testo le cita soltanto senza dilungarsi oltre. Alcuni esempi sono: i depositi interbancari; i risconti; le anticipazioni passive; i riporti passivi. I DEPOSITI BANCARI IN GENERALE Aspetto giuridico I depositi bancari, sia quelli liberi che quelli vincolati, sono regolati nel codice civile all’art. 1834, che recita testualmente: “nei depositi di una somma di denaro presso una banca, questa ne acquista la proprietà ed è obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria, alla scadenza del termine convenuto ovvero a richiesta del depositante, con l’osservanza di un periodo di preavviso stabilito dalle parti o dagli usi” Il contratto di deposito viene quindi inteso come un esempio di deposito irregolare, regolato anch’esso nel codice civile all’art. 1782 che recita testualmente: “Se il deposito ha per oggetto una quantità di denaro o altre cose fungibili, con facoltà per il depositario di servirsene, questi ne acquista la proprietà ed è tenuto a restituirne altrettante della stessa specie e qualità” Dal punto di vista giuridico quindi il contratto di deposito è: tipico, in quanto regolato dal codice civile; reale, in quanto si perfeziona (cioè si conclude) al momento della materiale consegna del denaro all’ente creditizio; non solenne, in quanto la legge non prevede che debbano essere rispettate precise regole formali nella sua stesura; in serie (o per adesione), in quanto il modulo con le condizioni contrattuali è già predisposto ed il cliente può solo accettarlo o rifiutarlo in toto. Aspetto economico Le ragioni per cui un privato cittadino o un’impresa possono decidere di depositare le proprie risorse monetarie presso un istituto di credito sono: la funzione di custodia, ovvero quella funzione svolta dalla banca la quale si incarica di predisporre tutte le misure necessarie affinché le risorse depositate non siano soggette a furti o smarrimenti assumendo su di sé ogni responsabilità nel caso questi eventi dovessero verificarsi; la funzione di investimento, che interessa ai risparmiatori che non avendo le capacità o la predisposizione ad investire i propri risparmi in altro modo, decidono di depositarli in banca con lo scopo di ottenere su di essi il pagamento degli interessi (va detto però che essendo gli interessi sui depositi molto bassi, sono pochi i risparmiatori che fanno ricorso al deposito bancario in quanto attirati dalla sua remuneratività); la funzione monetaria, ovvero la possibilità di usare il conto in alternativa alla moneta legale per il regolamento dei debiti e la riscossione dei crediti attraverso la moneta cartolare (gli assegni), ma anche la moneta scritturale ed elettronica (bonifici, giroconti, pagamenti e riscossioni con carte di credito e Bancomat, etc.). Aspetto tecnico Per venire incontro alle diverse esigenze della clientela, le banche mettono a disposizione depositi con caratteristiche diverse e ogni cliente sceglie quello che meglio soddisfa le due esigenze. Di particolare importanza a questo proposito è la distinzione che viene fatta tra depositi a vista e depositi vincolati. I depositi a vista, detti anche depositi liberi, sono i depositi in cui il cliente può in ogni momento senza necessità di alcun preavviso recarsi in banca e prelevare le somme precedentemente versate. Di solito vengono utilizzati dai risparmiatori che non hanno grandi somme da investire e che ricorrono al deposito bancario soprattutto per i servizi ad esso connessi. I depositi liberi sono a loro volta classificati in: depositi a risparmio libero, in cui le operazioni sono svolte quasi esclusivamente in contanti e i servizi connessi sono molto limitati; conti correnti di corrispondenza passivi, che noi chiamiamo semplicemente conti correnti e che si caratterizzano per il gran numero di servizi connessi e per la molteplicità degli strumenti che possono essere impiegati per regolare le posizioni debitorie e ottenere i pagamenti; I depositi vincolati invece si caratterizzano per il fatto che le somme versate non sono a completa disposizione del cliente che quindi non può recarsi in banca e chiedere il rimborso in qualunque momento, o meglio, può farlo ma la redditività dell’investimento diverrebbe a quel punto molto bassa. Ricordiamo comunque che in nessun caso la banca può restituire al cliente una somma inferiore a quella inizialmente versata. Ci sono tre tipi di depositi vincolati: depositi a risparmio vincolati a scadenza fissa, in cui al momento del versamento viene fissata una data esatta prima della quale per il cliente non è affatto conveniente richiedere la restituzione della somma depositata; depositi a risparmio vincolati a scadenza indeterminata, in cui il cliente è tenuto a dare un preavviso di un certo numero di giorni (che cambia a seconda della banca) prima di poter ritirare la somma depositata; certificati di deposito, ovvero documenti semplicissimi che vengono emessi dalle banche e che vengono comprati dai risparmiatori corrispondendo il relativo valore nominale, poi a scadenza ovviamente la banca accredita il conto del cliente del valore nominale e degli interessi che sono ovviamente più alti di quelli corrisposti dalla banca sui depositi semplici. Elementi caratteristici dei depositi La banca di solito calcola su ogni deposito alcuni valori che sono importanti per le scelte di gestione dell’istituto di credito, ad esempio per stabilire il tasso di interesse da applicare (sia attivo che passivo), per realizzare l’equilibrio finanziario, per determinare l’ammontare massimo dei finanziamenti che possono essere concessi e per molte altre scelte di gestione. Questi valori importanti che vengono determinati sono: la consistenza media; la giacenza media; la velocità di circolazione; la movimentazione. La consistenza media è un valore che indica l’ammontare medio delle risorse monetarie presenti sul conto corrente con riferimento a un certo periodo di tempo. Quindi, detto semplicemente, quanti soldi ci sono in media sul conto. Esso si ottiene dividendo la somma dei numeri (quelli che si trovano dallo scalare interessi) per i giorni (cioè quanti giorni ci sono nel periodo di riferimento, che coincide quasi sempre con il periodo di capitalizzazione). Il calcolo deriva dal fatto che i numeri derivano dal prodotto dei saldi per i giorni, quindi se dividiamo per i giorni ci rimane il saldo medio al numeratore. La giacenza media invece ci dice per quanto tempo mediamente 1 Euro resta sul conto e questo è importante per la banca perché se la giacenza è lunga, cioè se i soldi depositati sul conto ci restano per molto, vuol dire che la banca può utilizzare quei soldi per degli investimenti di medio-lungo periodo con una certa tranquillità mentre se in un deposito i soldi versati vengono prelevati spesso e in modo imprevedibile la banca non può fare grande affidamento su quel deposito. La giacenza media si trova con una formula che trovate a pag. 77 del nostro libro. La velocità di circolazione va invece a misurare una grandezza del tutto opposta alla giacenza media, cioè va a vedere quante volte il conto si rinnova completamente durante il periodo di riferimento. La velocità di circolazione può essere calcolata facendo l’inverso della giacenza media, quindi saputa la giacenza media, sappiamo anche la velocità di circolazione. La movimentazione invece non è un vero e proprio valore, ma piuttosto un grafico che evidenzia l’andamento del conto durante il periodo di riferimento o durante l’intero anno. Aspetto computistico L’aspetto computistico è l’aspetto pratico della trattazione dei depositi, quindi non mi ci soffermo più di tanto perché avremo modo di parlarne in modo approfondito in seguito prendendo in mano i vari depositi separatamente. Per il momento ci basti sapere che l’aspetto più importante dal punto di vista computistico è, com’è facile immaginare, la determinazione delle competenze. A questo scopo assumono particolare rilevanza come sappiamo tre elementi: le valute delle operazioni; il tasso di interesse applicato; le spese generali e di tenuta conto. Il tasso di interesse applicato è generalmente non reciproco, nel senso che i tassi di interesse attivi per la banca sono maggiori, talvolta anche di molto, rispetto ai tassi di interesse attivi per il cliente (e quindi passivi per la banca). L’entità dei tassi di interesse passivi dipende da molti fattori tra cui: il rischio del finanziamento; l’entità della somma richiesta; la forma tecnica di concessione del finanziamento; i tassi presenti sul mercato ma anche i tassi attivi per il cliente sono variabili e cambiano soprattutto in funzione dell’entità del deposito, cioè capita spesso che al crescere della consistenza media, cresca anche il tasso di interesse che la banca corrisponde al cliente. Sulla base di queste informazioni vengono redatti i due documenti fondamentali, ovvero l’estratto conto (che contiene l’elenco delle operazioni in ordine cronologico) e lo scalare interessi (detto anche staffa, che contiene l’elenco delle operazioni in ordine di valuta). A questo punto operiamo sullo scalare interessi e determiniamo gli interessi sulla base del procedimento amburghese, che consiste nel moltiplicare i vari saldi che si sono presentati nel periodo di riferimento per i giorni in cui questi saldi sono rimasti sul conto. Il risultato di questa moltiplicazione è scritto nella colonna dei numeri, che poi vengono sommati tra loro, moltiplicati per il tasso di interesse e divisi per 36500 per trovare l’importo degli interessi. Dagli interessi lordi andrà poi sottratta la ritenuta del 27% e andranno anche sottratte le varie spese bancarie per arrivare a determinare le competenze nette da accreditare sul conto del cliente (o da addebitare, a seconda dei casi). I DEPOSITI A RISPAMIO LIBERO IN PARTICOLARE I depositi a risparmio libero sono stati per tanto tempo la più comune forma di investimento per i piccoli risparmiatori e quindi anche il principale strumento di approvvigionamento per le banche. Attualmente essi sono meno utilizzati perché ci sono altri strumenti per investire i propri risparmi che garantiscono una maggiore redditività o un maggior numero di servizi collegati. Osservati dal punto di vista della banca, questi depositi sono operazioni di provvista caratterizzate da un’elevata giacenza media, il che vuol dire che le somme depositate sono in genere destinate a restare nel deposito per lunghi periodi in quanto si tratta spesso di risparmi delle famiglie durevolmente sottratti al consumo e depositati in banca affinché possano fruttare nel tempo degli interessi. D’altra parte però c’è anche un aspetto negativo, cioè gli interessi che la banca deve corrispondere su questi depositi sono più elevati di quelli che vengono corrisposti su altri depositi oggi maggiormente utilizzati, come ad esempio i conti correnti di corrispondenza passivi. Osservati dal punto di vista del risparmiatore, sono operazioni di impiego del risparmio che garantiscono la disponibilità immediata delle somme depositate e un discreto tasso di interesse, ma presentano il grande svantaggio della scomodità: tutti i versamenti devono essere effettuati in contanti o con assegni emessi dalla banca presso cui è aperto il deposito a risparmio libero e tutti i prelevamenti devono essere effettuati in contanti, quindi non ci sono i servizi di domiciliazione delle utenze, i bonifici, le carte di credito, i bancomat, gli assegni, insomma tutti quegli strumenti che vengono offerti con i conti correnti di corrispondenza e che al giorno d’oggi sono largamente usati. Al momento dell’apertura del deposito, l’incaricato della banca prende ovviamente le generalità del depositante il quale provvede al compimento della prima operazione che deve essere necessariamente un versamento (ricordiamo infatti che un’altra caratteristica fondamentale di questi depositi è che essi devono essere sempre attivi e, limitatamente ai libretti al portatore, non possono eccedere il saldo attivo di 20 milioni di lire, ovvero 10.329 € ). Al cliente viene quindi consegnato il libretto di risparmio sul quale verranno di volta in volta annotate tutte le operazioni di versamento e prelevamento compiute sul conto. I libretti possono essere nominativi o al portatore. Se sono nominativi significa che solo il cliente o un suo delegato può procedere ai prelevamenti mentre chiunque ovviamente può procedere a versamenti. In caso di smarrimento di un libretto nominativo, il cliente ne da comunicazione alla banca che mette un avviso nella filiale in cui invita il possessore a riconsegnarlo. Se questo non avviene, dopo 90 giorni il vecchio libretto diviene inutilizzabile e ne viene emesso un duplicato. Se sono al portatore significa che chi ne ha possesso può procedere al compimento di prelevamenti e versamenti in tutta libertà. La banca non è tenuta a verificare che il soggetto che presenta il libretto ne sia il legittimo possessore, quindi c’è il grande problema che se il libretto viene rubato o perso il soggetto che ne entra in possesso può prosciugare il conto senza difficoltà. Anche la procedura di ammortamento in questo caso è più complessa. Infatti la denuncia va fatta sia alla banca che all’autorità giudiziaria, la quale eseguite le necessarie indagini dichiara nullo il libretto al portatore perso o rubato (decreto di ammortamento) e invita la banca a rilasciare un duplicato non prima che siano trascorsi 90 giorni e non oltre i 180 giorni dalla pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale. La ragione del termine minimo sta nel fatto che è previsto il reclamo da parte del possessore del libretto al momento dell’emissione del decreto di ammortamento (ovviamente se si tratta di un ladro il reclamo è piuttosto improbabile, ma se si trattasse invece di un legittimo proprietario che aveva ricevuto il libretto come mezzo di pagamento e poi se lo vede annullare, beh allora a quel punto il reclamo è il minimo che possa fare). Per quanto attiene alla movimentazione del deposito a risparmio libero, va detto che tutti i prelevamenti devono essere effettuati in contanti (niente bonifici, assegni, carte di credito, bancomat e quant’altro) mentre invece per i versamenti si può usare denaro contante, ma anche assegni bancari emessi da un correntista della stessa banca su cui si trova il deposito a risparmio libero e anche assegni circolari ma solo se emessi dalla banca su cui si trova il deposito a risparmio libero. Tutti gli altri titoli di credito bancari possono essere riscossi a discrezione del dipendente della filiale presso cui è aperto il deposito e solo se il libretto del deposito è nominativo e di solito la valuta dell’accreditamento è di qualche giorno successiva al versamento (unico caso in cui la valuta e la data dell’operazione non coincidono). L’aspetto pratico non ha senso trattarlo qui perché mi porterebbe via un casino di tempo e fatto in questo modo servirebbe anche a poco. Studierò io il modo più opportuno per perdere il minor tempo possibile e avere comunque la massima efficacia. In questo documento mi limito a trattare la parte teorica. I DEPOSITI VINCOLATI IN PARTICOLARE Così come avveniva per i depositi a risparmio libero, anche per quelli vincolati la prima operazione è un versamento in corrispondenza del quale la banca rilascia al cliente un libretto di deposito diverso da quello utilizzato per i depositi a risparmio libero, su cui vengono registrate le varie operazioni effettuate sul conto vincolato. Anche questi libretti possono essere nominativi o al portatore con le stesse differenze che abbiamo visto sopra. Come già detto, si tratta di depositi in cui il cliente, dopo aver effettuato il versamento, è sottoposto a dei limiti per il prelevamento della somma versata, che possono consistere nella determinazione di una data di scadenza precisa prima della quale è del tutto sconveniente per il cliente procedere al ritiro della somma oppure nella determinazione di un certo numero di giorni di preavviso obbligatori prima di poter procedere al ritiro delle somme versate. I rimborsi anticipati vengono effettuati dalla banca ma a condizioni particolarmente sfavorevoli per il cliente. L’importo che viene consegnato infatti è uguale al montante che sarebbe stato consegnato a scadenza sottratti però gli interessi che avrebbero dovuto maturare dalla data del ritiro anticipato a quella di scadenza del vincolo applicando però un tasso di interesse più elevato di quello che è stato applicato per calcolare le competenze a favore del cliente relative al periodo precedente al ritiro, quindi di fatto la redditività per il cliente diviene bassissima, anche se dobbiamo ricordare che mai la banca può restituire al cliente una somma inferiore a quella originariamente versata. Per quanto attiene ai calcoli, ricordiamo che gli interessi vengono accreditati sul conto del cliente al 31/12 di ogni anno e alla scadenza del vincolo per la parte di competenza e che sono determinati sempre con lo stesso procedimento. I CERTIFICATI DI DEPOSITO IN PARTICOLARE I certificati di deposito sono documenti di credito del valore nominale di 1000 o multiplo di 1000 emessi dalle banche per reperire risorse finanziarie dai risparmiatori. Possono essere a breve (massimo 18 mesi) oppure a medio-lungo termine e anche per questi titoli possiamo trovare sia certificati di credito nominali che al portatore. I certificati di deposito a breve sono a rendimento fisso, quindi c’è un tasso di interesse fisso pre-determinato che viene applicato al valore nominale del titolo corrisposto dal cliente, ottenendo così il montante che la banca dovrà accreditare al cliente alla scadenza. I certificati di deposito a lungo possono essere anche: zero coupon: cioè non ci sono gli interessi ma solo il guadagno di capitale tra il prezzo che il cliente deve corrispondere a pronti per l’acquisto del titolo e il valore nominale del titolo che la banca accrediterà al cliente a scadenza; indicizzati: cioè con tassi di interesse che variano al variare di certe condizioni e di certi indici; con interessi legati all’andamento degli indici di borsa e del cambio. Dal punto di vista dei calcoli, non ci sono grandi difficoltà, si tratta semplicemente di calcolare gli interessi con la formula tradizionale per trovare gli interessi da sommare al valore nominale del titolo per trovare il prezzo a termine. Ovviamente se il tasso è indicizzato e quindi varia con il passare del tempo, alla scadenza andranno calcolati più interessi parziali con i vari tassi che si sono succeduti e l’interesse totale sarà dato semplicemente dalla somma dei vari interessi parziali. Ricordiamo sempre che dagli interessi va sottratta la ritenuta fiscale del 27% (prima era il 12,50 ma a partire dal ’96 è stata cambiata con la conseguenza che i risparmiatori hanno ridotto sensibilmente l’acquisto di certificati di deposito costringendo le banche a trovare altri metodi di approvvigionamento e a ricorrere in particolare alle obbligazioni). Potrebbe essere interessante un confronto con i BOT, titoli molto simili ai certificati di deposito come principio. Le principali differenze sono costituite dal fatto che: sui BOT viene calcolata un’imposta sostitutiva del 12,50% mentre sui certificati di deposito come detto viene applicata un’imposta pari al 27% degli interessi; all’acquisto dei BOT è necessario pagare all’intermediario una commissione che invece non viene richiesta se acquistiamo i certificati di deposito; i BOT possono essere smobilizzati facilmente prima della scadenza perché sono negoziati in borsa al contrario dei certificati di deposito il cui smobilizzo prima della scadenza risulta difficoltoso. LA RACCOLTA OBBLIGAZIONARIA NEI PARTICOLARI Che cosa siano le obbligazioni penso che a questo punto lo sappiamo, quindi direi di andare oltre e vedere l’evoluzione e l’importanza di questo strumento sia per i risparmiatori che per le banche. A partire dal ’93, quando la nuova legge bancaria ha stabilito la despecializzazione temporale delle imprese bancarie, le banche hanno la possibilità di emettere obbligazioni per reperire le risorse finanziarie di cui necessitano. L’importanza delle obbligazione come mezzo di approvvigionamento è però notevolmente aumentata solo a partire dal ’96, quando cioè i certificati di deposito sono divenuti meno remunerativi a causa della più elevata tassazione e quindi le banche per garantirsi comunque l’afflusso di capitali dai risparmiatori hanno dovuto sperimentare nuove tecniche e la principale di queste tecniche è appunto l’emissione di obbligazioni, che sono soggette a una tassazione meno gravosa (per quelle oltre i 18 mesi è del 12,50% mentre per quelle entro i 18 mesi è al 27% esattamente come per i certificati di deposito). La raccolta obbligazionaria presenta dal punto di vista delle banche numerosi vantaggi, cioè: sono debiti da rimborsare a lungo, il che significa che le somme ottenute possono essere investite anche per concedere finanziamenti a lungo questo senza compromettere l’equilibrio finanziario; possono essere usate per favorire il rafforzamento patrimoniale dell’impresa attraverso un aumento di capitale, infatti esistono anche obbligazioni convertibili e con warrant che alla scadenza possono essere convertite in azioni con conseguente incremento del capitale sociale; se la durata dei titoli emessi è superiore a 3 anni, la somma ricevuta non è soggetta a riserva obbligatoria. Il principale svantaggio invece è costituito dal costo del finanziamento, infatti l’emissione di obbligazioni comporta un onere per interessi superiore rispetto a quello che deve essere sostenuto dalla banca per le altre forme di approvvigionamento, anche in considerazione del fatto che per invogliare i risparmiatori a sottoscrivere le obbligazioni la banca è costretta a offrire dei tassi di interesse relativamente elevati. LA RACCOLTA PRONTI CONTRO TERMINE NEI PARTICOLARI Nella raccolta pronti contro termine (P/T) con un unico contratto il cliente si impegna a comprare alla banca a pronti una certa quantità di titoli e la banca si impegna a riacquistarli a termine pagando un ammontare superiore a quello corrisposto dal cliente, applicando un tasso di interesse passivo per la banca la cui entità è variabile e viene di volta in volta contrattata dalle parti in considerazione della durata e dell’entità dell’operazione, al contrario di quanto avviene ad esempio per i BOT o per altri titoli di Stato in cui il tasso di interesse è fisso e immodificabile. Di solito l’ammontare minimo che il cliente deve versare a pronti è piuttosto elevato (50.000 € circa) ma alcune banche prevedono anche versamenti minori per consentire l’accesso alla raccolta P/T anche ai piccoli risparmiatori. Fiscalmente, gli interessi che il cliente percepisce per queste operazioni non sono tassati nel caso in cui i titoli oggetto della negoziazione siano già di per sé soggetti ad imposta sostitutiva oppure se il cliente è un imprenditore e i proventi dell’operazione concorrono alla formazione dell’utile lordo d’esercizio per evitare che ci sia una doppia tassazione. In tutti gli altri casi i proventi dell’operazione sono soggetti ad imposta sostitutiva del 12,50%. Inoltre, se c’è stato un guadagno di capitale (cioè se il corso secco a termine è maggiore di quello a pronti), sul guadagno di capitale deve essere applicata la ritenuta fiscale del 12,50%. La raccolta P/T presenta per la banca numerosi vantaggi, cioè: si tratta di una raccolta vincolata, quindi il cliente non può chiedere lo smobilizzo della somma investita prima della scadenza convenuta; è uno strumento alternativo ai BOT che permette alle banche di ottenere almeno una parte dei risparmi dei piccoli risparmiatori che altrimenti si indirizzerebbero tutti sui BOT causando una perdita di importanza e una riduzione delle possibilità di azione delle banche; il costo dell’operazione è in genere abbastanza contenuto; è un valido strumento di marketing. Per il risparmiatore invece i principali vantaggi sono: la possibilità di concordare con la banca la scadenza dell’operazione; il rendimento è di solito superiore rispetto a quello garantito dai depositi sia liberi che vincolati e dai BOT, anche grazie al fatto che la banca non applica nessuna commissione ma solo un rimborso spese di modesta entità; l’operazione non presenta rischi visto che l’eventuale variazione del corso dei titoli andrebbe a ripercuotersi sulla banca e non sul risparmiatore che in ogni caso è certo di vedersi corrispondere l’importo a termine determinato alla stipulazione del contratto; I CONTI CORRENTI BANCARI NEI PARTICOLARI I conti correnti di corrispondenza costituiscono al momento attuale il principale strumento utilizzato dalle banche per reperire le risorse di cui necessitano, visto che al momento attuale sono molti i soggetti, imprenditori ma anche famiglie, che ricorrono a questo strumento sia per la sua remuneratività (comunque bassa) sia soprattutto per il gran numero di servizi che ad esso sono collegati. Dal punto di vista giuridico si tratta di un contratto atipico, cioè non regolamentato dal codice civile, che comprende in realtà molti altri contratti legati alle operazioni di approvvigionamento e finanziamento di volta in volta compiute dalla banca. Sul codice civile vengono regolate solo alcune delle operazioni che possono essere svolte dai correntisti, nella sezione V “delle operazioni bancarie in conto corrente”, artt. 1852 e sgg. L’apertura del conto avviene per iniziativa di un privato, singolo cittadino o impresa, che chiedono di poter aprire il conto corrente. La banca, fatte le dovute indagini sulla moralità, correttezza e solvibilità del potenziale cliente, se ritiene che ve ne siano i presupposti consegna al cliente la lettera-contratto con riportate le clausole generali stabilite dall’ABI e le clausole specifiche applicate al conto corrente dalla banca. Questo contratto può solo essere accettato in toto dal cliente, non è prevista nessuna modifica. Contestualmente all’apertura del conto, la banca rilascia anche un libretto degli assegni, previa dichiarazione del cliente secondo cui egli non è interdetto all’emissione di assegni e non è stato condannato per aver emesso assegni scoperti nel semestre precedente. Durante il rapporto di conto corrente la banca registra tutte le operazioni compiute e redige due documenti distinti, l’estratto conto e lo scalare interessi che vengono periodicamente inviati ai correntisti (di solito in corrispondenza della fine di ogni periodo di capitalizzazione, ma il correntista può richiedere che l’invio della documentazione avvenga con maggior frequenza sostenendo ovviamente le relative spese). Il conto può essere estinto in ogni momento su iniziativa di ognuna delle due parti (di solito su iniziativa del cliente) con preavviso di un giorno. La chiusura del conto comporta la determinazione delle competenze fino a quel momento maturate e il versamento da parte della banca del saldo creditore (per mezzo di assegno circolare o di bonifico a un c/c indicato dal cliente) oppure il versamento da parte del correntista del saldo debitore. Una caratteristica fondamentale dei conti correnti di corrispondenza, che li differenzia dal punto di vista computistico dai depositi a risparmio, è che nei conti correnti di corrispondenza la valuta delle operazioni molto raramente coincide con la data in cui l’operazione viene effettuata. Questo ha una notevole rilevanza ai fini del calcolo delle competenze visto che le operazioni, al momento della redazione dello scalare interessi, vengono ovviamente messe in ordine di valuta, quindi la valuta che viene considerata per la determinazione degli interessi e non la data reale in cui è stata effettuata l’operazione. Ricordiamo comunque che ci sono alcune operazioni che devono essere registrate obbligatoriamente con valuta in giornata, cioè: prelevamenti in contanti; versamenti in contanti; versamenti di assegni bancari emessi da correntisti della stessa banca; versamenti di assegni circolari emessi dalla stessa banca. Proprio in virtù di questa divergenza tra le valute e le date di svolgimento delle operazioni, può capitare che un’operazione svolta in un certo periodo di capitalizzazione non venga contabilizzata in quel periodo perché ha valuta nel periodo di capitalizzazione successivo (postergate) oppure perché ha valuta nel periodo di capitalizzazione precedente (antergata). Nel caso di postergate, l’operazione figura nell’estratto conto del periodo in cui essa viene effettuata ma non figura nello scalare interessi, figurerà quindi nello scalare interessi del periodo successivo. Nel caso di antergata, l’operazione figura sia nell’estratto conto che nello scalare interessi del periodo in cui essa viene effettuata, ma la registrazione nello scalare interessi viene effettuata con una tecnica particolare che permette di rettificare le competenze corrisposte relativamente al periodo precedente. Sempre a causa della discordanza tra data dell’operazione e valuta, abbiamo sul conto due saldi distinti, quello contabile e quello liquido. Quello contabile deriva dall’estratto conto, quello liquido dallo scalare interessi. Cioè se mettiamo le operazioni in ordine di data, troviamo dopo ogni operazione un saldo che è però il saldo contabile. Se invece mettiamo le operazioni in ordine di valuta dopo ogni operazione troviamo un saldo che è il saldo liquido. Le competenze vengono liquidate periodicamente con cadenza variabile a seconda delle banche, ma in ogni caso le cadenze devono essere le stesse sia per i conti attivi che per quelli passivi. Per la determinazione delle competenze è necessario innanzi tutto determinare gli interessi moltiplicando la somma dei numeri dello scalare interessi per il tasso e dividendo per 36500 (o per 36,5 se i numeri erano stati divisi per 1000). A questo punto se ci sono stati degli scoperti la banca addebita la commissione di massimo scoperto, una percentuale che viene calcolata su importi diversi a seconda della tecnica scelta. Le tre tecniche possibili sono: assoluta, cioè la percentuale è calcolata sul massimo saldo negativo del periodo senza tenere in alcuna considerazione la durata; relativa, cioè non si considerano gli scoperti che hanno avuto durata inferiore a 10 giorni e tra quelli che restano si calcola la percentuale sul massimo saldo debitore; mista, cioè non si addebita nessuna commissione se non ci sono stati saldi debitori di durata superiore a 10 giorni mentre invece se ci sono stati saldi debitori di durata superiore a 10 giorni si addebita la commissione di massimo scoperto calcolando la percentuale sul massimo saldo debitore del periodo senza considerare la sua durata. Oltre alla commissione di massimo scoperto la banca addebita spesso spese generali che di solito hanno ammontare fisso e vengono addebitate al momento della liquidazione delle competenze alla fine di ogni periodo di capitalizzazione e addebita anche spese di tenuta conto, sempre al momento della liquidazione delle competenze, che sono date dal prodotto tra un valore fisso di solito di modesta entità e il numero di scritture che sono state eseguite sull’estratto conto nel periodo di riferimento. L’AFFIDAMENTO E LE APERTURE DI CREDITO L’AFFIDAMENTO La domanda Il primo passo che un privato cittadino o un’impresa devono compiere quando necessitano di un finanziamento da parte di un istituto di credito è la richiesta di affidamento, ovvero una domanda scritta firmata dal richiedente in cui sono indicati l’ammontare del fido richiesto, la durata, la motivazione e le eventuali garanzie che il richiedente è in grado di offrire alla banca. A seconda delle circostanze, la banca può chiedere anche che vengano fornite informazioni specifiche come ad esempio l’eventuale esistenza di altre posizioni debitorie per quanto riguarda le persone fisiche oppure una copia dell’ultimo bilancio approvato per quanto attiene alle imprese. Questi ultimi sono solo due dei più frequenti esempi di richieste specifiche della banca, il che non toglie però che vengano richiesti anche altri documenti e informazioni ritenuti importanti per determinare la situazione del cliente e quindi arrivare a prendere una decisione in merito al fido richiesto. L’istruttoria Una volta che il cliente ha fornito tutte le informazioni richieste, la banca procede all’istruttoria, ovvero svolge tutte le indagini e tutte le analisi ritenute necessarie per accertare il grado di affidabilità e solvibilità del richiedente, da cui dipenderà poi la scelta finale. In particolare si tende ad accertare: capacità reddituale, ovvero capacità di produrre redditi da impiegare per adempiere al pagamento dei debiti; consistenza patrimoniale, ovvero l’entità dei beni su cui la banca potrebbe eventualmente rifarsi in caso di insolvenza; le caratteristiche personali del richiedente (abilità imprenditoriale, competenza, professionalità, correttezza commerciale, etc.). Le indagini che vengono svolte per accertare quanto appena detto sono sia interne che esterne. Le indagini interne consistono nell’analisi dei documenti forniti dal cliente o comunque in possesso della banca relativi al cliente (ad esempio se il cliente è un correntista della banca, questa ha già gli estratti conti dell’ultimo periodo a sua disposizione e da questi può trarre importanti informazioni). Tra le indagini interne, assume particolare rilevanza l’analisi del bilancio. Dalla riclassificazione dello stato patrimoniale e dalla redazione del conto economico a valore aggiunto, la banca trae infatti importanti informazioni sull’equilibrio patrimoniale e finanziario dell’impresa e sulla sua capacità di produrre redditi. Specialmente per le grandi imprese poi può assumere importanza anche l’analisi per flussi, sia di capitale circolante netto che di cassa, che evidenzia la situazione finanziaria dell’impresa. Le indagini esterne consistono nella richiesta di informazioni ritenute di rilievo a organismi pubblici e privati esterni alla banca come le Camere di Commercio o la Centrale Rischi per vedere se il cliente ha affidamenti in corso presso altre banche. Tra le indagini esterne, assumono particolare importanza le informazioni che giungono dal Bollettino dei protesti che evidenzia i soggetti che non hanno adempiuto agli obblighi derivanti dalle cambiali commerciali e la centrale dei rischi, dove sono registrati tutti gli affidamenti concessi dalle banche ai vari soggetti. Importante è anche il sopralluogo che può essere fatto dal settorista competente, ovvero dal funzionario dell’ufficio fidi che si occupa della richiesta di affidamento in quanto esperto del settore a cui appartiene l’impresa che ha concesso l’affidamento. La delibera La procedura di affidamento si conclude con la delibera. Essa può essere eseguita direttamente dal dipendente dell’ufficio fidi della filiale presso cui la domanda è stata presentata oppure da organismi dirigenziali superiori, a seconda dell’importo richiesto. Nel deliberare in merito all’affidamento, la banca determina l’ammontare massimo del fido concesso, che non necessariamente coincide con quello richiesto dal cliente e determina anche la forma tecnica di concessione del fido (apertura di credito). In alcuni casi la banca può però decidere di non indicare una forma tecnica precisa e lasciare il cliente libero di scegliere quella che + più adatta alle sue esigenze. I controlli successivi Una volta concesso il finanziamento, fino a che questo non viene completamente estinto dal cliente, la banca controlla la situazione del correntista richiedendo periodicamente i documenti contabili e tutte le informazioni ritenute importanti per percepire in anticipo eventuali sintomi di difficoltà e predisporre le azioni necessarie al recupero del credito. LE APERTURE DI CREDITO Considerazioni generali Sotto il profilo giuridico l’apertura di credito bancario è “il contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato”, come recita l’art. 1842 del codice civile, primo di una serie di quattro articoli in cui sono trattati gli aspetti fondamentali del contratto di apertura di credito, che quindi può essere definito: tipico, in quanto regolato dal codice civile; consensuale, in quanto si perfeziona nel momento dell’accettazione della banca, anche se il cliente non fa immediatamente uso dell’affidamento; bilaterale, in quanto comporta obblighi per entrambe le parti; per adesione, in quanto il contratto sottoscritto dall’affidato è redatto dall’ente creditizio sulla base della delibera di affidamento e il cliente può solo decidere di accettarlo o rifiutarlo in toto. Delle aperture di credito possiamo fare diverse classificazioni, cioè: in base alla scadenza, l’apertura di credito può essere a scadenza fissa o a scadenza indeterminata; in base alle garanzie, l’apertura di credito può essere in bianco (ovvero non garantita) oppure coperta da garanzie. Nel caso di apertura di credito in bianco, la banca chiede di solito al cliente di sottoscrivere un pagherò in bianco (ovvero senza che vi sia riportato l’importo da pagare) su cui viene pagata e addebitata al cliente un’imposta di bollo sufficiente a coprire l’importo dell’intero finanziamento comprensivo di spese e interessi. Questo pagherò, che viene chiamato effetto di smobilizzo, è destinato essenzialmente a garantire la banca in merito all’adempimento dell’obbligazione, infatti se il cliente non rimborsa il finanziamento la banca compila il pagherò con l’importo dovuto ed ha in mano un titolo esecutivo da presentare all’autorità giudiziaria per chiedere l’adempimento forzato. Se invece vengono presentate delle garanzie, va ricordato che esse possono essere reali (pegno o ipoteca, rispettivamente su beni mobili e immobili) o personali (fidejussione e avallo da parte di terzi); a seconda del beneficiario, l’apertura di credito può essere a favore del richiedente (ed è il caso largamente più comune) oppure a favore di terzi (è il caso ad esempio della richiesta di apertura di credito a favore dell’esportatore nel caso di pagamento con apertura di credito documentaria, largamente usata nel commercio internazionale); in base alle modalità di utilizzo, l’apertura di credito può essere per cassa (quando viene messa a disposizione una somma di denaro) oppure per firma (quando la banca non mette a disposizione denaro ma funziona da garante nei confronti dei creditori dell’affidato). L’apertura di credito in conto corrente Si ha un’apertura di credito in conto corrente quando la banca permette al cliente correntista di prelevare somme di denaro dal proprio conto corrente in misura maggiore rispetto a quelle presenti su di esso. E’ quello che comunemente viene chiamato scoperto di conto corrente. Attualmente questa è l’apertura di credito maggiormente utilizzata e quindi è a questo tipo di finanziamenti che è indirizzata la maggior parte delle risorse raccolte dalla banca. Si possono avere aperture di credito ordinarie, quando il conto dell’affidato è costantemente negativo, oppure aperture di credito per elasticità di cassa, quando il conto dell’affidato presenta saldi positivi e negativi che si alternano. Il ricorso a questo tipo di apertura di credito presenta vantaggi sia per il cliente affidato che per la banca. I principali vantaggi per il cliente affidato sono: la possibilità di disporre di una forma di credito elastica, che possa essere impiegata in misura maggiore o minore a seconda della necessità, entro i limiti ovviamente del fido concesso dalla banca; il costo del finanziamento è proporzionato alla parte utilizzata dal correntista, quindi se il correntista ha ottenuto l’apertura di credito ma non va scoperto sul conto (per assurdo) non paga interessi debitori, o comunque se va scoperto paga gli interessi debitori solo sull’importo dello scoperto e sulla sua durata. Questo aspetto differenzia le aperture di credito in conto corrente da quelle semplici a scadenza fissa ed è un grande vantaggio, perché in quelle a scadenza fissa il cliente paga gli interessi su tutto il finanziamento richiesto e per tutta la sua durata, anche se in pratica la parte effettivamente utilizzata è minore. I principali vantaggi per la banca invece sono: la possibilità di rivedere periodicamente le condizioni applicate al finanziamento, ad esempio in corrispondenza di significative variazioni dei tassi presenti sul mercato; la possibilità di ottenere importanti informazioni dall’andamento del conto corrente del cliente affidato, che costituisce già di per sé un importante strumento di controllo della banca sul comportamento del cliente e sulle sue possibilità di rimborsare il debito contratto. Alcune informazioni che può essere utile conoscere relativamente alle aperture di credito in conto corrente sono l’effettivo grado di utilizzo e il costo effettivo dell’indebitamento, che però attengono alla parte pratica e verranno visti in separata sede. Le aperture di credito semplici Le aperture di credito semplici invece sono aperture di credito che consistono nel versamento da parte della banca di un determinato importo e del rimborso dello stesso da parte del cliente a scadenza, con la maggiorazione degli interessi e delle varie spese. Al contrario di quanto avviene nelle aperture di credito in c/c, in questi casi i versamenti eventualmente operati dal cliente durante la durata del finanziamento non comportano variazioni nell’ammontare del costo da sostenere per l’indebitamento, infatti questo viene determinato al momento della concessione del finanziamento sul totale del finanziamento e per l’intera durata dello stesso, senza tenere in considerazione il fatto che il cliente utilizzi completamente il finanziamento ottenuto. A questo tipo di finanziamenti ricorrono soprattutto le imprese con attività stagionale, che hanno necessità di finanziamenti per finanziare il ciclo produttivo e sono poi in grado di rimborsare i finanziamenti stessi al momento della vendita di quanto prodotto. Un esempio importante di apertura di credito semplice diretta alle imprese è la sovvenzione cambiaria, detta anche sconto di pagherò diretto che vediamo ora nei particolari. La sovvenzione cambiaria Si tratta di un pagherò che il cliente che richiede il finanziamento emette a favore della banca presso cui il finanziamento è richiesto come garanzia del suo adempimento. Dietro presentazione del pagherò, la banca accredita al cliente il valore nominale del pagherò, sottratto lo sconto, le commissioni e il rimborso delle spese per il bollo cambiario. A scadenza il cliente rimborsa il valore nominale del pagherò. Il costo del finanziamento quindi è dato dalla differenza tra il netto ricavo accreditato al cliente a pronti e l’importo che il cliente rimborsa alla banca alla scadenza. Trattandosi di una cambiale non commerciale, il rischio per la banca è più elevato in quanto l’adempimento da parte del cliente dipende esclusivamente dalla sua solvibilità. Per questo motivo il costo del finanziamento è generalmente più elevato rispetto al costo che il cliente sosterrebbe se scontasse una cambiale commerciale e inoltre vengono spesso richieste delle garanzie di firma da parte di terzi. Le aperture di credito per firma Le aperture di credito per firma sono degli impegni che la banca assume nei confronti di un cliente senza erogare somme monetarie, ma fungendo invece da garante in modo che il cliente possa chiedere un finanziamento presso altre fonti godendo della garanzia importante di una banca. Il costo del finanziamento è dato da una commissione applicata in via anticipata al momento della concessione della garanzia e da eventuali rimborsi spese. I motivi principali per cui un’impresa può aver bisogno di un’apertura di credito per firma sono: evitare il deposito di cauzioni di denaro, frequentemente richieste alle imprese che partecipano ad esempio alle gare d’appalto per l’edilizia; rendere più agevole la conclusione di un acquisto con regolamento differito, soprattutto quando il venditore, non conoscendo il compratore, non concederebbe la dilazione di pagamento senza le necessarie garanzie; ottenere un finanziamento di cassa presso un altro istituto bancario a condizioni più vantaggiose in quanto coperto dalla garanzia fornita dall’istituto di credito che ha concesso l’apertura di credito per firma. Le tre tipologie di apertura di credito per firma sono: avallo, cioè la banca diviene obbligato cambiario, garantendo che se il cliente non adempirà al pagamento previsto nella cambiale sarà la banca stessa ad adempiere; fidejussione, in questo caso non ci sono cambiali di mezzo, ma semplicemente obbligazioni, cioè impegni presi da un soggetto con la stipula di un contratto a titolo oneroso e la banca funziona da garante nel senso che se il cliente non adempie all’obbligazione prevista nel contratto la banca adempie al suo posto; accettazione bancaria, che vediamo ora nei particolari. L’accettazione bancaria Le fasi dell’accettazione bancaria sono le seguenti: 1. il cliente spicca tratta a suo favore nei confronti della banca sulla base di un precedente accordo; 2. la banca accetta la tratta spiccata dal cliente e diventa così obbligato cambiario nei confronti del cliente che ha spiccato la tratta, in cambio dell’accettazione però richiede il versamento di una commissione di accettazione; 3. il cliente a questo punto ha in mano la tratta accettata dalla banca e la cede a una società finanziaria la quale corrisponde al cliente il valore attuale della tratta applicando lo sconto secondo un tasso che viene detto tasso Denaro, in questo modo il cliente entra in possesso della somma di cui ha bisogno, seppure decurtata della commissione bancaria e dello sconto applicato dalla società finanziaria; 4. la società finanziaria colloca la tratta presso un risparmiatore il quale corrisponde il valore attuale della stessa applicando lo sconto con un tasso che viene detto tasso Lettera e che è inferiore rispetto al tasso denaro, la differenza tra il tasso denaro e il tasso lettera costituisce il guadagno per la società finanziaria; 5. il risparmiatore alla scadenza della cambiale va presso la banca che l’ha accettata in origine e riscuote il valore nominale della cambiale, da cui viene sottratta però l’imposta del 27% calcolata sulla differenza tra il valore nominale del titolo e il prezzo corrisposto dalla società finanziaria al cliente della banca che aveva chiesto il finanziamento; 6. la banca, dopo aver corrisposto al risparmiatore quanto dovuto, addebita il conto del cliente che aveva emesso la tratta di un importo corrispondente al valore nominale della tratta stessa. Per il cliente quindi il costo di questo finanziamento è dato dalla somma di: commissione di accettazione richiesta dalla banca nel momento in cui accetta la tratta spiccata dal cliente; sconto applicato dalla società finanziaria nel momento in cui il cliente cede la tratta alla società finanziaria per ottenere le risorse monetarie di cui ha bisogno; bollo cambiario nella misura dello 0,01% del valore nominale della tratta. Le aperture di credito documentarie Le aperture di credito documentarie costituiscono il principale esempio di apertura di credito in cui il beneficiario non è il cliente che chiede l’apertura di credito ma un terzo soggetto. Esse sono ampiamente impiegate nel commercio internazionale come metodo di pagamento sicuro effettuato tramite gli istituti di credito dei due soggetti interessati. Le fasi dell’apertura di credito documentaria sono: 1. l’importatore si reca presso la sua banca e chiede che venga effettuata un’apertura di credito nei confronti dell’esportatore; 2. la banca dell’importatore invia alla banca dell’esportatore la lettera di credito con cui la informa dell’apertura di credito effettuata nei confronti dell’esportatore, cioè in sostanza la banca dell’importatore si impegna a corrispondere alla banca dell’esportatore e quindi in sostanza all’esportatore l’importo relativo alla transazione commerciale che è avvenuta tra i due soggetti; 3. appena ricevuta la lettera di credito, la banca dell’esportatore invia una lettera di notifica all’esportatore con cui lo avvisa dell’apertura di credito effettuata nei suoi confronti e lo invita a consegnare i documenti relativi alla transazione commerciale; 4. ricevuti i documenti relativi alla transazione commerciale, la banca dell’esportatore provvede a inviarli alla banca dell’importatore; 5. la banca dell’importatore, controllata la corrispondenza dei documenti ricevuti con l’apertura di credito richiesta dall’importatore, provvede ad inviare i documenti all’importatore suo cliente e versa l’importo dovuto alla banca dell’esportatore che quindi lo accrediterà sul conto dell’esportatore; 6. una volta effettuato il pagamento, la banca dell’importatore addebita il conto corrente dell’importatore suo cliente dell’importo della transazione commerciale. Le anticipazioni Il contratto di anticipazione è un contratto regolato dal codice civile che deriva dall’unione di due diversi contratti: il contratto di prestito e il contratto di pegno su titoli o su merci. In esso la banca si impegna a mettere a disposizione dell’affidato la somma richiesta dietro la garanzia costituita dal pegno di beni o di titoli. Sui beni o i titoli messi in pegno, la banca ha i seguenti diritti: di ritenzione, cioè la banca acquisisce il possesso dei beni o dei titoli messi in pegno fino alla scadenza del finanziamento con il relativo rimborso, quindi la banca è autorizzata a trattenere i beni o i titoli messi in pegno fino all’adempimento da parte dell’affidato; il diritto di far vendere i beni al pubblico incanto in caso di inadempimento, cioè di far mettere i beni o i titoli all’asta e prendersi il ricavato fino alla totale copertura del debito assunto dal soggetto insolvente; il diritto di privilegio, cioè la banca è il primo creditore, il che significa che con il ricavato della vendita dei beni dell’inadempiente bisogna prima di tutto che sia soddisfatto il credito della banca, poi con quello che resta verranno soddisfatti i crediti di tutti gli altri soggetti. Caratteristica fondamentale di questa apertura di credito è che l’ammontare del finanziamento concesso è soggetto a variazioni in caso di svalutazione dei beni dei titoli dati in pegno dall’affidato. In particolare, se i beni o i titoli in pegno subiscono una svalutazione superiore a 1/10 del loro valore iniziale, la banca può chiedere che vengano messi in pegno altri beni oppure che venga rimborsata una parte del finanziamento inizialmente concesso. Come detto, si tratta di un contratto tipico (cioè regolato nel codice civile, artt. 1846 e sgg.) denominato e il documento che attesta la sua stipulazione è chiamato polizza di anticipazione. L’anticipazione può essere classificata in base all’oggetto del pegno in anticipazione su titoli e anticipazione su merci. Le anticipazioni su titoli, oggi meno diffuse che in passato a causa del maggior utilizzo delle aperture di credito in conto corrente garantite, sono appunto le anticipazioni concesse dietro messa in pegno di titoli da parte del cliente. Sono preferibili alle anticipazioni su merci perché richiedono minori spese in quanto il valore dei titoli è determinato sulla base della quotazione della Borsa valori e quindi non è necessaria la stima del perito e di conseguenza il finanziamento risulta meno oneroso per il richiedente. Per quanto riguarda i diritti accessori sui titoli messi in pegno, va ricordato che mentre i titoli sono in pegno, le cedole e i dividendi ad essi collegati vengono comunque percepiti dal cliente proprietario e non dalla banca, mentre invece il diritto di voto nelle assemblee, salvo patto contrario, spetta alla banca. Le anticipazioni su merci possono essere fatte solo se le merci messe in pegno non sono deteriorabili, hanno un ampio mercato e sono quotate ufficialmente. Le merci oggetto dell’anticipazione possono essere depositate direttamente presso la banca che ha concesso l’anticipazione oppure essere depositate presso i magazzini generali i quali rilasciano due documenti: la fede di deposito, che resta in mano al proprietario delle merci, e la nota di pegno, documento esecutivo che viene dato dal proprietario delle merci alla banca come garanzia e che attribuisce alla banca il possesso dei beni e quindi tutti i diritti che abbiamo visto all’inizio. Nel caso in cui il proprietario delle merci depositi le merci presso i MM.GG. e quindi dia la nota di pegno alla banca, si parla di sconto di nota di pegno. Questo tipo di anticipazione è più onerosa per il cliente perché deve sostenere anche le spese per la perizia che mira a determinare il valore delle merci messe in pegno. In base alle modalità di utilizzo del finanziamento, possiamo distinguere tra anticipazioni a scadenza fissa e anticipazioni in conto corrente. In caso di anticipazione a scadenza fissa, la banca mette a disposizione del cliente a pronti un importo uguale al valore delle merci o dei titoli messi in pegno diminuito però dello scarto di garanzia (che mira a tutelare la banca dalla possibile svalutazione dei beni messi in pegno), degli interessi e del bollo da apporre sulla nota di pegno (in caso di anticipazione su merci). Alla scadenza dell’anticipazione, il cliente dovrà rimborsare alla banca un importo pari al valore dei beni messi in pegno sottratto lo scarto di garanzia. Il costo per il cliente è quindi costituito dagli interessi, dal bollo e dalle eventuali spese di perizia. In caso di anticipazione in conto corrente invece al cliente viene concessa la possibilità di andare scoperto sul conto corrente per un importo corrispondente al valore delle merci o dei titoli messi in pegno sottratto come sempre lo scarto di garanzia. Gli interessi passivi sullo scoperto saranno ovviamente inferiori rispetto a quelli di uno scoperto privo di garanzie. Il riporto Il riporto è il contratto con cui un soggetto (detto riportato) si impegna a vendere a pronti a un altro soggetto (detto riportatore) una certa quantità di titoli con l’obbligo da parte del riportatore di rivendere i titoli al riportato a una scadenza prestabilita. E’ regolato nel codice civile agli art. 1548 e sgg. Quindi abbiamo due soggetti: il riportato, che cede a pronti i titoli ed ottiene la temporanea disponibilità di una somma di denaro; il riportatore, che acquista a pronti i titoli in cambio ovviamente di denaro e che poi rivende gli stessi titoli al riportato alla scadenza dell’operazione. Nel caso del riporto finanziario (esiste anche un riporto di Borsa che serve per scopi speculativi sui titoli e che non ha niente a che vedere con le aperture di credito) il riportato è il cliente che necessita del finanziamento e il riportatore è l’istituto di credito che concede il finanziamento. Ovviamente quindi il prezzo a termine è più alto del prezzo a pronti, cioè il prezzo che il cliente deve corrispondere alla banca alla scadenza dell’operazione per riprendere la proprietà dei titoli è superiore rispetto al prezzo che la banca ha corrisposto al cliente al momento della concessione del finanziamento e la differenza tra i due prezzi costituisce il costo del finanziamento per il cliente. Ovviamente anche in questo caso viene applicato lo scarto di garanzia, il che significa che dal valore di mercato dei titoli viene sottratta una percentuale variabile in funzione del tipo di titolo oggetto del riporto e quello che si ottiene è il prezzo a termine, cioè il prezzo che il cliente dovrà corrispondere alla banca alla scadenza dell’operazione per riprendere la proprietà dei titoli venduti a pronti. Se poi dal prezzo a termine togliamo gli interessi che la banca chiede al cliente per la concessione del finanziamento, troviamo il prezzo a pronti, cioè il prezzo che la banca corrisponde a pronti al cliente in cambio dei titoli. Anche in questo caso inoltre restano al cliente i diritti accessori sui titoli, ad eccezione del diritto di voto in assemblea che passa alla banca per tutta la durata del finanziamento. Confronto tra anticipazioni e riporti Le principali differenze tra anticipazioni e riporti sono: il riporto è giuridicamente un contratto unico e indivisibile, anche se dà luogo a due operazioni tra loro collegate, eseguite in tempi diversi mentre invece l’anticipazione è giuridicamente l’abbinamento di un contratto di prestito e di un contratto di pegno; il riporto è un contratto traslativo della proprietà, per cui la banca può disporre dei titoli ricevuti a riporto mentre invece nell’anticipazione la banca non acquisisce la proprietà dei titoli per cui, salvo patto contrario, deve restituire gli stessi titoli sottoposti a pegno, senza poterli utilizzare; il riporto è documentato da una nota contabile mentre l’anticipazione risulta dalla polizza di anticipazione; nel riporto le variazioni di valore dei titoli non influiscono sull’operazione mentre nell’anticipazione in caso di diminuzione del valore dei titoli di almeno il 10%, la banca può chiedere un supplemento di garanzia o la decurtazione del finanziamento; nel riporto non è prevista l’estinzione anticipata dell’operazione mentre nell’anticipazione il sovvenzionato può in ogni momento estinguere l’operazione; nel riporto la banca eroga il prezzo a pronti in un’unica soluzione mentre nell’anticipazione la somma può essere erogata in un’unica soluzione oppure messa a garanzia dello scoperto di conto corrente; nel riporto, in caso di insolvenza del cliente riportato, la banca può trattenere i titoli presi a riporto mentre nell’anticipazione in caso di insolvenza del cliente la banca deve far vendere i titoli, rivalendosi sulla somma ricavata. I mutui ipotecari I mutui ipotecari sono finanziamenti concessi in un’unica soluzione e rimborsati in un lungo periodo variabile tra i 5 e i 30 anni mediante il versamento di rate che possono essere costanti ma anche variabili aventi cadenza semestrale, trimestrale o mensile. La garanzia per la banca che concede il prestito è costituita come dice il nome dall’ipoteca su beni immobili. Essi vengono contratti dalle famiglie o dalle imprese per finanziare investimenti destinati a dare utilità per molti anni (la famiglia che acquista o ristruttura la casa, l’impresa che costruisce il capannone industriale, etc.). Vengono classificati a seconda che siano a tasso fisso, variabile o in valuta. I mutui a tasso fisso vengono a loro volta classificati a seconda che l’ammontare delle rate del rimborso sia costante, crescente o decrescente. In caso di rate costanti, siccome ogni rata comprende una parte di capitale e una parte di interessi, si vedrà che all’inizio, siccome il valore da rimborsare è ancora alto, gli interessi da pagare sono alti e quindi la parte di prestito rimborsata è relativamente bassa mentre con il passare del tempo, diminuendo l’entità del debito da rimborsare, diminuiscono anche gli interessi e quindi aumenta in proporzione la parte di mutuo che viene rimborsata. Per capire bene questo discorso date un’occhiata al piano di ammortamento di pag. 240 che esemplifica proprio il caso che vi ho appena detto. I mutui a tasso fisso come già detto possono essere anche a rate crescenti (cosa che capita ad esempio nelle imprese che presumono di realizzare le entrate connesse all’investimento dopo un certo numero di anni e quindi preferiscono ritardare per quanto possibile il rimborso del prestito) o anche a rate decrescenti, quando si presume che l’investimento fatto dia la sua massima utilità nell’immediato e diminuisca invece la sua utilità con il passare del tempo. I mutui a tasso variabile hanno appunto un tasso che varia al variare di un indice determinato al momento della concessione del finanziamento. Anche in questo caso le rate possono essere costanti o variabili. Il caso più normale è quello delle rate variabili, in cui resta costante la quota di mutuo rimborsata ma variano invece gli interessi passivi che il cliente deve corrispondere. Può però capitare anche il caso in cui le rate siano costanti, a quel punto però non è possibile prevedere il momento esatto in cui il rimborso del mutuo verrà portato a termine, infatti se l’importo di ogni rata è predeterminato e non può variare, significa che se gli interessi da corrispondere saranno bassi verrà rimborsato più velocemente il mutuo e di conseguenza il rimborso finirà prima, mentre invece se gli interessi saranno alti il rimborso del mutuo avverrà più lentamente (il concetto è lo stesso del caso di tasso fisso e rate costanti). Essendo il tasso di interesse indicizzato, non è possibile sapere a priori se gli interessi saranno alti o bassi e di conseguenza non è possibile neanche prevedere la data esatta in cui il rimborso verrà completato. Esistono poi come caso eccezionale i mutui in valuta, contratti per godere di tassi di interesse passivi più bassi, in linea con quelli in vigore nel paese di cui si sceglie di adottare la valuta. Il rischio però è che la moneta nazionale si svaluti nei confronti della moneta estera in cui si è deciso di contrarre il mutuo con la conseguenza che il costo del finanziamento diverrebbe maggiore di quello previsto. D’altra parte però può anche essere che la moneta nazionale si apprezzi su quella del paese straniero e che di conseguenza il costo finale del finanziamento sia più basso del previsto. Esistono infine, come casi eccezionali, dei mutui concessi a condizioni agevolate per favorire lo sviluppo di alcune aree geografiche o di alcuni settori produttivi. In questi casi possiamo avere mutui a tasso agevolato, ma anche mutui parzialmente a fondo perduto, in cui cioè gli interessi vengono corrisposti soltanto su una parte del finanziamento. In entrambi i casi, è l’ente pubblico che ha promosso il finanziamento agevolato o il mutuo a fondo perduto che assume su di sé l’onere di corrispondere all’istituto di credito il costo che non è stato corrisposto dall’impresa che ha goduto del finanziamento agevolato. Dal punto di vista computistico, la situazione è abbastanza complicata. Oltre agli interessi sul mutuo infatti, il cliente deve sostenere tutta una serie di costi aggiuntivi che alla fine aumentano in modo sensibile il costo del finanziamento. Questi costi sono: gli interessi di pre-ammortamento, cioè gli interessi che maturano dal momento in cui viene concesso il mutuo fino all’inizio del piano di ammortamento (ricordiamo infatti che se contraggo un mutuo semestrale in data 1/5 il piano di ammortamento inizia comunque in data 1/7 e le date di scadenza saranno 1/7 e 1/1 di ogni anno, così come se il mutuo è trimestrale le date di scadenza sono 1/1, 1 aprile, 1/7 e 1/10 dal che deriva che gli interessi compresi tra l’1/5 e l’1/7 non sono compresi nel piano di ammortamento ma devono comunque essere corrisposti e vengono chiamati interessi di pre-ammortamento proprio perché sono relativi al periodo che precede l’inizio dell’ammortamento del mutuo, cioè il rimborso del mutuo che viene chiamato ammortamento perché viene fatto a rate); le spese per la perizia tecnica che mira a determinare il valore commerciale dell’immobile ipotecato; gli oneri fiscali, ovvero l’imposta di bollo sui contratti bancari di 10,33 € e l’imposta sostitutiva dello 0,25% da calcolare sull’ammontare del finanziamento; le spese notarili, necessarie per la stipulazione del contratto di mutuo e per la registrazione dell’ipoteca dei pubblici registri immobiliari. Lo sconto cambiario Lo sconto cambiario è un’operazione di smobilizzo di crediti commerciali che risultano da cambiali pagherò o tratte che il cliente, avendo necessità finanziarie immediate, desidera riscuotere prima che giungano a scadenza. E’ un finanziamento che viene utilizzato con sempre minor frequenza per vari motivi, in particolare: le cambiali vengono sempre meno utilizzate come metodo di pagamento; il costo del finanziamento è più elevato rispetto a quello da sostenere per altri finanziamenti simili; è un finanziamento poco flessibile, che si adatta male alle mutevoli esigenze finanziarie dell’impresa, come tutti i finanziamenti a scadenza fissa del resto, quindi si tende a privilegiare ad esempio l’apertura di credito in conto corrente piuttosto che lo smobilizzo di cambiali commerciali. Si compone di tre fasi: la presentazione delle cambiali commerciali alla banca e la richiesta di smobilizzo delle stesse, che viene eseguita girando le cambiali alla banca e presentando la relativa “distinta di presentazione di cambiali allo sconto”; l’analisi del castelletto (cioè dell’importo totale delle cambiali che il richiedente è autorizzato a portare allo sconto, che dipende direttamente dall’importo accordato nella delibera di fido) e delle caratteristiche delle cambiali presentate; l’ammissione allo sconto delle cambiali con i necessari requisiti e l’accreditamento salvo buon fine del netto ricavo (salvo buon fine vuol dire che se a scadenza la cambiale presentata allo sconto risulta insoluta, la banca esegue l’azione cambiaria addebitando al cliente che aveva presentato la cambiale sia il valore nominale della stessa che era stato anticipato al momento dell’ammissione allo sconto, sia le spese per il protesto). Soffermiamoci sulla seconda fase. Abbiamo parlato prima di tutto del castelletto. Il castelletto è un valore monetario. Quando il soggetto che ha bisogno di un finanziamento va in banca, come sappiamo, la banca nella delibera di affidamento decide l’importo totale del fido e spesso decide anche la forma tecnica in cui esso deve essere utilizzato. Il castelletto è il valore monetario della parte di fido che deve essere utilizzata per scontare cambiali commerciali. Quindi se nella delibera di affidamento, la banca dice che concede fido per 100.000 € e che 20.000 € sono adibiti allo sconto di cambiali commerciali, vuol dire che il castelletto è di 20.000 €. Ovviamente ogni volta che viene presentata una cambiale allo sconto, l’importo del castelletto è ridotto del valore nominale della cambiale e ogni volta che una cambiale scontata giunge a scadenza, l’importo del castelletto aumenta nuovamente del valore nominale della cambiale che è stata riscossa dalla banca. Quindi potremmo dire che il castelletto è il valore monetario che indica quanto la banca è disposta a rischiare con il suo cliente in un certo momento relativamente allo sconto di cambiali commerciali. Poi abbiamo parlato di caratteristiche che le cambiali devono avere per poter essere accettate dalla banca. Queste caratteristiche, in particolare, sono: la natura commerciale della cambiale, cioè la cambiale portata allo sconto deve essere una cambiale emessa da un cliente di colui che la presenta a regolamento di un debito di fornitura; l’affidabilità del cliente che ha portato le cambiali allo sconto; la qualità delle firme dell’obbligato principale e degli altri eventuali obbligati in via di regresso, cioè si va a controllare che l’obbligato principale o comunque uno degli avallanti abbia una solidità economica tale da costituire una certezza in merito al buon esito della cambiale; la regolarità del bollo apposto sulla cambiale, in quanto è proprio dalla presenza e dalla regolarità del bollo che dipende la possibilità o meno per chi possiede la cambiale (e quindi in questo caso per la banca) di procedere con l’azione esecutiva per ottenere il pagamento della cambiale. Non parlo qui delle modalità di determinazione del netto ricavo perché è una parte pratica e come tutte le parti pratiche verranno prese in mano in separata sede per i motivi che ho già avuto modo di dire. L’anticipo su effetti L’anticipo su effetti è un’altra operazione di smobilizzo di crediti commerciali in cui però gli effetti presentati possono essere sia cambiali che ricevute bancarie, molto più diffuse al giorno d’oggi come mezzo di pagamento. Giuridicamente, non viene considerata una cessione del credito, ma un mandato che l’impresa creditrice (ovvero il cliente che porta gli effetti allo sconto) attribuisce alla banca di riscuotere per suo conto gli effetti presentati. L’anticipo su effetti può essere fatto: al dopo incasso, in questo caso non si tratta di un finanziamento ma semplicemente di un servizio che la banca offre al cliente, prendendo in consegna la cambiale e procedendo all’accreditamento della stessa sul conto del cliente soltanto dopo che il debitore ha pagato alla banca l’importo dovuto; con disponibilità a valuta maturata, in questo caso viene fatta la valuta adeguata degli effetti presentati e in quella data viene effettuato l’accreditamento. E’ una via di mezzo tra la presentazione al dopo incasso e la presentazione con disponibilità immediata; con disponibilità immediata, in questo caso si ha il finanziamento in quanto la banca mette immediatamente a disposizione del cliente il valore nominale degli effetti presentati salvo poi ovviamente addebitare gli interessi per il periodo che va dalla presentazione alla scadenza degli effetti. Prendiamo in esame l’ultimo tipo di accreditamento, che costituisce alla fin fine l’unico caso in cui si ha un vero e proprio finanziamento richiesto dal cliente che presenta gli effetti alla banca. In questo caso, il cliente porta le Ri.Ba. o le cambiali alla banca e chiede che gli venga accreditato il valore nominale delle stesse compilando un’apposita distinta. La differenza fondamentale tra lo sconto cambiario e l’anticipo su effetti è proprio qui: nello sconto cambiario viene accreditato il netto ricavo, mentre nell’anticipo viene accreditato il valore nominale degli effetti presentati togliendo soltanto le commissioni sull’operazione. Se il cliente dispone di un affidamento sufficiente a coprire il valore nominale degli effetti presentati e se gli effetti presentati posseggono tutti i requisiti necessari per poter essere accettati, la banca accredita sul conto corrente del cliente il valore nominale dei titoli presentati e allo stesso tempo apre un altro conto, il conto anticipi su effetti, su cui vengono registrate due scritture: una scrittura, con data nel giorno della presentazione e valuta immediata, ha descrizione “giroconto a c/c” e ospita in DARE il valore nominale degli effetti presentati; l’altra scrittura, con data nel giorno della presentazione e valuta nel giorno di scadenza adeguata dei titoli presentati, ha descrizione “Presentazione effetti” e ospita in AVERE il valore nominale degli effetti presentati. Quindi sul conto corrente abbiamo un accreditamento, ma il conto anticipi va scoperto per valuta e alla fine del periodo di capitalizzazione la banca addebiterà sul conto corrente gli interessi passivi di competenza maturati sul conto anticipi. Anche questi effetti vengono accreditati salvo buon fine, quindi se a scadenza vanno insoluti la banca ne addebita il valore nominale e le spese di protesto sul conto corrente del cliente che li aveva presentati all’anticipo. Gli anticipi su fatture L’anticipo su fatture consiste nella presentazione da parte del cliente di fatture che provano l’esistenza di un credito verso un terzo soggetto derivante appunto da una transazione commerciale. La banca, ricevute le fatture, ne controlla i requisiti e, se il cliente dispone di un affidamento sufficiente, accredita l’importo delle fatture sul conto del cliente. In questo caso, al contrario del precedente, si ha dal punto di vista giuridico la cessione del credito così come regolamentata agli artt. 1260 e sgg. del codice civile. Le fasi di questa operazione sono già state sinteticamente esposte, comunque abbiamo: 1. presentazione delle fatture alla banca; 2. verifica dei requisiti delle fatture e del valore dell’affidamento concesso al cliente che le ha presentate; 3. se tutto è in regola, accreditamento delle fatture sul conto corrente del cliente (detratte le commissioni e eventualmente lo scarto di garanzia) e addebitamento delle stesse sul conto anticipi su fatture; 4. a scadenza, il conto anticipi su fatture viene riaccreditato in ogni caso, mentre sul conto corrente se la fattura viene pagata non accade niente (oppure viene accreditata la parte mancante se l’anticipo non aveva interessato l’intero importo della fattura, ma il caso non è frequente) mentre se la fattura va insoluta la banca riaddebita l’importo della fattura e eventualmente il rimborso spese. LA CONTABILITA’ ANALITICA CONCETTI FONDAMENTALI Finalità della Contabilità Analitica I motivi per cui un imprenditore può decidere di affiancare alla Contabilità Generale anche la Contabilità Analitica che consente, detto brevemente, di determinare i costi e i ricavi con riferimento a una specifica area aziendale, o a uno specifico reparto produttivo o anche a un singolo prodotto sono molteplici. Tra questi, i più importanti sono: Orientamento dei prezzi di vendita, perché la Co.An. permette di determinare il costo del prodotto e di conseguenza anche il prezzo a cui esso deve essere messo sul mercato affinché la produzione stessa sia economicamente conveniente; Valutazione delle rimanenze di magazzino di materie prime, semilavorati e prodotti finiti; Controllo dei costi delle varie aree e dei vari reparti per riuscire a realizzare una maggiore efficienza; Preparazione di programmi economici e finanziari a preventivo, validi per gli anni successivi a quello in cui sono preparati (budget); Esecuzione di calcoli di convenienza economica comparata, cioè ad esempio confrontare la redditività di una certa produzione rispetto a un’altra per scegliere ad esempio quale delle due debba essere interrotta; Altre finalità che cambiano da impresa a impresa. Caratteristiche della Contabilità Analitica La contabilità analitica deve possedere tre caratteristiche fondamentali: Analiticità, nel senso che si devono ricercare i costi e i ricavi non a livello generale aziendale ma con maggiore precisione, con riferimento a uno specifico prodotto o a uno specifico reparto; Tempestività, nel senso che è necessario predisporre un sistema informativo tale da permetterci di avere le informazioni necessarie in tempi brevi, anche durante l’anno e non soltanto a consuntivo, in modo da prendere le misure necessarie in tempo se qualcosa non dovesse andare; Forma semplice, nel senso che siccome le informazioni raccolte sono poi analizzate da un soggetto diverso da quello che le ha raccolte, la forma in cui esse sono esposte deve essere chiara e semplice in modo che non ci siano difficoltà per i vertici dell’impresa nell’interpretare e nel comprendere i dati forniti. Confronto tra Contabilità Generale e Contabilità Analitica Confrontando la CO.GE. con la CO.AN. possiamo individuare diverse differenze in relazione a: l’Oggetto, cioè nella CO.GE. si considera l’intero complesso aziendale sotto l’aspetto economico e patrimoniale mentre nella CO.AN. si analizza solo una parte ristretta del complesso aziendale e solo dal punto di vista economico; La Forma, cioè la CO.GE. deve essere tenuta mediante le scritture contabili registrate in partita doppia seguendo regole precise formali e sostanziali mentre non c’è nessuna legge che obblighi a tenere la CO.AN. in un certo modo piuttosto che in un altro; La Tenuta, cioè la CO.GE. deve necessariamente essere tenuta con il metodo della partita doppia mentre la CO.AN può essere tenuta sia con il metodo della partita doppia che con un insieme di scritture elementari, a scelta dell’impresa (vedi anche “Sistemi di tenuta della Contabilità Analitica”); I Dati, cioè nella CO.GE. si analizzano i dati al 31/12 e sono quindi dati consuntivi, mentre invece in CO.AN. si svolgono analisi consuntive, ma anche contestuali e preventive (budget); La Classificazione dei costi, cioè nella CO.GE. i costi sono raggruppati per natura, cioè a seconda del tipo di costo, mentre invece in CO.AN. i costi sono raggruppati per funzione perché non ci interessa il tipo di costo ma ci interessa dove, in quale area o in conseguenza di quale produzione questo costo si è generato. Il livello di analiticità Come detto, la Co.An. si distingue dalla Co.Ge. proprio per il diverso livello di analiticità della prima rispetto alla seconda. Per capire però fino a dove va spinta l’analiticità, cioè fino a che punto conviene scendere nei particolari nell’analisi dei costi (e anche dei ricavi) vanno presi in considerazione due elementi: la Precisione, perché è ovvio che più restringiamo l’oggetto della nostra analisi, minori saranno i costi specifici direttamente imputabili a quell’oggetto e tutti gli altri andranno ripartiti, ma facendo i riparti dei costi tra più oggetti noi sappiamo che perdiamo in precisione nel determinare i costi; il Costo gestionale, perché più informazioni vogliamo avere e più ampio deve essere il sistema informativo (l’insieme di tutte le risorse umane e materiali destinate alla raccolta delle informazioni necessarie per la Co.An.) e quindi si hanno costi sempre maggiori. Sistemi di tenuta della Contabilità Analitica Come sappiamo, non ci sono leggi che stabiliscono come debba essere tenuta la contabilità analitica e questo molto semplicemente perché non ci sono neppure leggi che impongano di tenerla, è l’imprenditore che a sua discrezione può decidere di tenerla o meno. Ad ogni modo, pur non essendovi regole codificate, esistono dei metodi, tre per la precisione, che di solito vengono adottati per tenere la Co.An. e cioè: Metodo Unico Contabile, usato prima del 1973 quando non era ancora obbligatoria la redazione del reddito d’esercizio, questo metodo consisteva nel tenere una contabilità che fosse tutta finalizzata alla determinazione del patrimonio tenendo conto ovviamente sia dei fatti interni che di quelli esterni di gestione. Il reddito d’esercizio veniva determinato per differenza tra il patrimonio netto iniziale e quello finale. Metodo Duplice Contabile, che consiste nella predisposizione di un piano dei conti molto esteso in cui sono inclusi i conti tradizionali della Co.Ge., i conti speciali necessari per poter avere informazioni particolareggiate tipiche della Co.An. e i conti che permettono di collegare tra loro i due tipi di contabilità, che vengono quindi tutti tenuti con il metodo della partita doppia; Metodo Duplice Misto, che consiste nella tenuta delle scritture contabili di Co.Ge. con il metodo della partita doppia mentre invece le informazioni necessarie alla Co.An. vengono tenute distinte con una serie di scritture elementari. DETERMINAZIONE DEL COSTO DI PRODOTTO Determinazione del costo: le scelte necessarie Per poter determinare il costo di un’area ristretta della nostra impresa, ad esempio soltanto l’area industriale, oppure un singolo reparto dell’area industriale o addirittura un singolo prodotto, dobbiamo operare una serie di scelte, cioè: 1. Determinare l’Oggetto (cioè decidere se vogliamo trovare il costo totale dell’area industriale, o di uno specifico reparto o di un solo prodotto e nel caso in cui vogliamo trovare il costo di prodotto, decidere se vogliamo farlo per commessa, per processo o per lotti, a questo proposito vedi anche “L’Oggetto di calcolo dei costi”); 2. Determinare lo Scopo, cioè definire per quale motivo vogliamo conoscere il costo dell’oggetto della nostra analisi, perché da questo dipendono tante altre scelte quali ad esempio l’includere o meno i costi indiretti (vedi anche “Full Costing e Direct Costing”) e in quale misura includerli (vedi anche “Configurazioni di Costo”); 3. Determinare il tempo di riferimento, cioè definire se vogliamo svolgere un’analisi preventiva (vedi anche “Determinazione preventiva del costo di prodotto”), contestuale o consuntiva; 4. Determinare gli Elementi del costo, cioè definire quali sono i costi che, tenuto conto dell’oggetto dell’analisi, possono essere definiti diretti, quali indiretti (che quindi poi vanno ripartiti, a questo proposito vedi anche “Metodi di imputazione delle Spese Generali di Produzione”) e quali del tutto trascurabili (a seconda dello scopo dell’analisi visto al punto 2, infatti, può anche capitare che ci siano dei costi che non mi interessano per niente, come capita spesso per i costi dell’area amministrativa e commerciale o per gli oneri finanziari di lungo). L’oggetto di calcolo dei costi L’oggetto di calcolo dei costi dipende in larga misura dal tipo di prodotto che l’impresa produce e commercializza. Ci sono infatti delle attività che prevedono la produzione di diversi prodotti ben distinguibili l’uno dall’altro ognuno dei quali ha una sua fisionomia e un suo costo di produzione che può essere anche notevolmente diverso da quello degli altri prodotti della stessa impresa. Pensiamo ad esempio ad un cantiere navale che produce sia le barchette da diporto per i pescatori che le navi da crociera, beni che sono molto diversi tra loro e che hanno anche costi di produzione tanto diversi da rendere assurdo calcolare il costo di prodotto semplicemente facendo la media tra i vari prodotti. In casi come questo il costo del prodotto viene quindi calcolato per commessa, cioè per ogni singolo bene prodotto. Poi ci sono invece delle attività che prevedono la produzione di tante varietà di beni, che però possono essere raggruppati in gruppi omogenei composti da prodotti simili tra loro. E’ il caso ad esempio delle industrie automobilistiche: le autovetture prodotte sono molte e tra loro diverse, ma possono essere raggruppate a seconda del modello in gruppi omogenei i cui elementi differiscono soltanto per gli accessori installati all’interno. In questo caso il costo del prodotto viene ricercato per lotti, ovvero per gruppi omogenei di prodotti. Ad esempio la FIAT ricercherebbe il costo totale sostenuto per le Punto, poi a parte il costo totale sostenuto per le Stilo, poi ancora il costo totale per le Barchetta e così via. Le Punto, le Stilo, le Barchetta sono i lotti, cioè gruppi omogenei di prodotti che differiscono tra loro solo per qualche particolare di poco rilievo, nel caso specifico per un accessorio in più o in meno o cose di questo tipo. Infine ci sono alcune imprese che attuano delle produzioni in cui non è possibile distinguere con esattezza un bene da un altro. Pensiamo ad esempio ad un mulino, o anche a un cementificio, tutte attività in cui non è affatto semplice determinare durante il processo di produzione dove finisce un bene e dove inizia l’altro perché i beni non escono dalla produzione divisi ma formano tutto un insieme continuo di materia che solo in seguito verrà divisa per essere commercializzata. In casi come questo, in cui non è possibile distinguere un bene da un altro, il costo del prodotto viene ricercato con riferimento a un certo periodo di tempo, ad esempio si va a vedere quanto ci è costata la produzione di farina o di cemento realizzata nell’arco di una giornata o di una settimana o di un mese a nostra scelta. In questo caso si dice che il costo del prodotto viene ricercato per processo. Le configurazioni di costo Come abbiamo già visto, quando andiamo a determinare il costo di un prodotto dobbiamo fare una serie di scelte e tra queste la più importante in assoluto è quella dello scopo: perché vogliamo conoscere il costo di un certo oggetto (ricordiamo sempre che oggetto non è necessariamente sinonimo di prodotto, un oggetto d’analisi può benissimo essere un reparto di produzione, un ciclo di lavorazione, un’area aziendale e così via). Uno dei motivi per cui lo scopo è particolarmente importante lo vediamo nei particolari ora: a seconda dell’obiettivo che mi pongo, ci sono dei costi che definisco specifici, dei costi che definisco generali e che poi devo ripartire e dei costi che non mi interessano per niente. A seconda quindi dello scopo, possiamo decidere di trovare: 1. il costo Primo, che è dato semplicemente dalla somma dei costi diretti per la manodopera (retribuzioni del personale che lavora solo nel reparto che analizziamo o che produce solo il prodotto che analizziamo), dei costi diretti per le materie prime (costo delle materie necessarie per la produzione del reparto o per produrre il singolo prodotto) e di altri costi speciali (modelli, stampi, forme e così via); 2. il costo Industriale, che è dato dal costo primo a cui vanno sommati però i costi generali industriali (utenze, materiali di consumo vari utilizzati per la produzione, manutenzioni alle attrezzature industriali, ammortamenti delle attrezzature industriali, manodopera indiretta che lavora nell’area industriale ma che non si occupa di un solo reparto o di un solo prodotto ma di tutta la produzione e così via) che ovviamente devono essere ripartiti tra i vari reparti o tra i vari prodotti seguendo uno dei modi indicati nella parte “metodi di imputazione delle spese generali di produzione”; 3. il costo Complessivo, che si ottiene sommando al costo industriale i costi che non hanno nessuna attinenza con l’attività di produzione, ad esempio i costi dell’area amministrativa e commerciale, gli oneri finanziari, gli oneri tributari e così via; 4. il costo Economico Tecnico, che si ottiene sommando al costo complessivo gli oneri figurativi, cioè gli interessi di computo (ovvero gli interessi che si sarebbero ottenuti se si fosse scelto di investire il proprio capitale invece che in azienda in un’altra forma di investimento sicura come i titoli di Stato o il conto corrente bancario), lo stipendio direzionale (ovvero la retribuzione che spetta di diritto al proprietario dell’impresa per aver lavorato all’interno dell’impresa in qualità di massimo dirigente) e i fitti figurativi (presenti solo nel caso in cui gli immobili utilizzati per lo svolgimento dell’attività d’impresa siano di proprietà dell’imprenditore, essi consistono nell’ammontare degli affitti che l’imprenditore avrebbe potuto percepire se avesse deciso di mettere in affitto gli immobili invece di utilizzarli per svolgere l’attività d’impresa). Full Costing e Direct Costing A seconda dell’obiettivo che ci poniamo, possiamo decidere di determinare il costo del nostro oggetto di analisi a costi pieni (Full Costing) che comprende sia i costi speciali direttamente imputabili all’oggetto che i costi generali da ripartire, ma possiamo anche decidere di tenere la contabilità a costi diretti (Direct Costing), considerando cioè soltanto i costi speciali direttamente imputabili all’oggetto d’analisi senza prendere in considerazione le spese generali di produzione e menché meno i costi che non hanno attinenza con la produzione. La scelta tra un metodo e l’altro non è senza conseguenze, infatti: la contabilità a costi pieni molto imprecisa e soggettiva perché considera anche i costi generali che devono essere ripartiti tra i vari oggetti in base a dei criteri soggettivi che comunque non potranno mai essere precisi come nell’analisi a costi diretti; la contabilità a costi pieni permette di conoscere il costo complessivo di un singolo prodotto, sia pure con un certo margine di approssimazione, e questo è un dato particolarmente importante perché permette all’impresa di definire il prezzo di vendita del prodotto stesso, cosa che con la contabilità a costi diretti non si può fare perché non tiene conto di tutti i costi generali che pure ci sono e incidono talvolta anche molto pesantemente sul reddito d’esercizio; la contabilità a costi diretti permette, al contrario di quella a costi pieni, di determinare il margine lordo di contribuzione, ovvero la differenza tra ricavi e costi diretti e quindi la capacità del singolo prodotto di contribuire alla copertura dei costi fissi, informazione questa di particolare importanza quando si vanno a fare scelte tra prodotti diversi per decidere quale debba essere eliminato oppure quale produzione debba essere potenziata e così via; scegliere un metodo o l’altro ha influenza sulla valutazione delle rimanenze finali, in quanto essendo le rimanenze finali di prodotti valutate generalmente secondo il criterio del costo (eccetto il caso piuttosto raro che il prezzo di mercato del prodotto sia inferiore al costo di produzione), è ovvio che se l’imprenditore utilizza il criterio del costo pieno, le rimanenze finali avranno un valore comprensivo sia dei costi diretti che delle quote di quelli indiretti e quindi sarà superiore rispetto a quello che sarebbe stato se fosse stato usato il metodo dei costi diretti che non comprendono come sappiamo le quote di spese generali. Questo ha influenza sul reddito d’esercizio in quanto come sappiamo le rimanenze finali sono una componente positiva del reddito e quindi se l’imprenditore usa la contabilità a costi pieni avrà un reddito superiore rispetto a quello di un altro imprenditore che nelle stesse condizioni decida però di usare la contabilità a costi diretti. L’imprenditore che sceglie la contabilità a costi diretti quindi ha valori più prudenziali e un maggiore autofinanziamento rispetto a un imprenditore che scelga invece di tenere la contabilità a costi pieni. Qualunque sia il metodo che decidiamo di usare, dobbiamo sempre fare attenzione al fatto che non tutti i costi sono completamente fissi oppure completamente variabili. Ci sono costi (l’esempio tipico è quello delle utenze) che si compongono di una parte fissa indipendente dai consumi e quindi dalla produzione e di una parte variabile che varia appunto in funzione dei consumi e quindi della produzione. Ci sono vari modi per trattare questi costi, che vengono detti semi-fissi o semi-variabili a seconda che prevalga in essi, rispettivamente, la parte fissa o quella variabile. I metodi più comunemente utilizzati sono: considerare completamente fissi i costi semi-fissi e completamente variabili i costi semi-variabili; usare la retta di regressione, ovvero, se ad esempio parliamo di utenze, creare un diagramma cartesiano in cui riportiamo in ascissa i consumi e in ordinata i costi, quindi indichiamo con dei punti l’andamento dei costi in relazione all’aumentare dei consumi e usiamo infine l’interpolazione lineare con il metodo dei minimi quadrati per disegnare una retta che si avvicini quanto più possibile ai vari punti. A questo punto consideriamo il termine noto dell’equazione della retta interpolante (ovvero il punto di intersezione tra la retta e l’ordinata) come componente fissa del costo dell’utenza e la parte che eccede tale valore come componente variabile. Metodi di imputazione delle Spese Generali di Produzione Come già visto, quando andiamo a determinare il costo di un oggetto troviamo sempre dei costi che sono tipici di quell’oggetto, che si producono soltanto lì e che quindi sono speciali (o diretti) e non pongono nessun problema perché basta sommarli, ma troviamo anche dei costi che si originano anche in quell’oggetto, ma non solo. In questo caso bisogna dividere il costo tra i vari oggetti che lo originano per capire quanta parte di quel costo deve essere imputata all’oggetto che stiamo analizzando. Per fare questo abbiamo a disposizione tre metodi tradizionali e uno di più recente introduzione (ABC). I metodi tradizionali sono: metodo della Base Unica, cioè tutte le spese generali che vogliamo comprendere nella nostra analisi vengono sommate e tra loro e poi vengono distribuite tra i vari oggetti facendo un riparto semplice diretto in base a un certo valore che riteniamo significativo (ad esempio, decidiamo di sommare tutte le spese generali di produzione e di suddividerle con un semplice riparto tra i vari reparti usando come criterio il numero di pezzi prodotti in un anno in quel reparto). I valori che vengono ritenuti significativi per questo tipo di suddivisione in genere sono valori fisici come le ore macchina, la quantità prodotta e la manodopera diretta oppure valori in senso stretto come il costo delle materie dirette, il costo della manodopera diretta, il costo primo il ricavo di vendita (quest’ultimo caso però costituisce un’eccezione); metodo della Base Multipla, cioè le spese generali che vogliamo comprendere nella nostra analisi vengono raggruppate in diversi gruppi omogenei e per ogni gruppo viene scelto un criterio in base al quale le spese stesse vengono ripartite (ad esempio possiamo dividere le spese generali in spese per manutenzioni da un parte e altre spese generali di produzione dall’altra e possiamo decidere che le spese per manutenzioni le ripartiamo tra i vari reparti in base al numero di ore di funzionamento dei macchinari in un anno e invece le altre spese generali le ripartiamo in base al numero di prodotti che vengono fatti sempre in un anno). In genere quando si adotta questo metodo si dividono le spese generali in tre gruppi omogenei e si adottano come criteri per la suddivisione le materie dirette (a quantità o a valori) per il primo, la manodopera diretta (a quantità o a valori) per il secondo e le ore macchina per il terzo; metodo dei Centri di Costo. In base a questo metodo, si individuano diverse unità organizzative aziendali alle quali vengono attribuiti i costi generali di produzione operando un riparto in base ai criteri ritenuti di volta in volta più adeguati. Dopo aver distribuito le spese generali di produzione tra le varie unità organizzative, si procede all’ulteriore distribuzione dei costi di ogni unità organizzativa che vengono quindi imputati ai vari prodotti. Si tratta quindi di un passaggio intermedio: invece di imputare i costi generali di produzione direttamente ai prodotti, essi vengono imputati prima alle unità organizzative (che chiamiamo centri di costo) e poi ai prodotti. Tra l’altro dobbiamo ricordare che non sempre le unità organizzative sono reali, infatti possono essere fatti anche dei centri di costo fittizi, che servono solo per motivi di calcolo o per controllare ad esempio l’operato di un certo team di dipendenti e così via. Un’altra classificazione che può essere fatta distingue i centri di costo a seconda della loro funzione, cioè: o centri principali, dove si svolge l’attività produttiva vera e propria; o centri ausiliari, cioè delle unità organizzative dove non vengono prodotti dei beni, ma vengono invece forniti beni e servizi materialmente quantificabili che servono nei centri principali per produrre i beni destinati alla vendita (ad esempio le centrali elettriche, le centrali di produzione di vapore, etc.); o centri comuni, che hanno lo stesso scopo dei centri ausiliari solo che i beni e servizi prodotti non sono materialmente quantificabili (ad esempio i centri di controllo di qualità, l’officina di manutenzione, i trasporti interni, etc.); o centri funzionali, che hanno lo scopo di fornire servizi all’impresa nel suo complesso e non soltanto all’area produttiva (ad esempio centri di sorveglianza, servizio personale, servizio marketing, ufficio ragioneria, etc). Il metodo introdotto in tempi relativamente recenti per l’imputazione delle spese generali di produzione ai vari prodotti è l’Activity Based Costing che si pone quindi come alternativa ai tre modi appena visti. Il concetto che sta alla base di questo metodo è diverso da quello che sovrintende a quelli appena visti. Se si decide di imputare le spese generali ai prodotti usando questo metodo, bisogna prima di tutto individuare quelli che vengono chiamati “Cost Driver”, cioè quali sono gli elementi che causano l’insorgere dei costi generali di produzione. In generale, possiamo dire che i Cost Driver più comuni sono le Ore-Macchina, gli Attrezzaggi, i Trasferimenti, i Controlli di Qualità, i Tempi morti (anche stare senza far nulla in certe situazioni costa). Ovviamente non è detto che siano solo questi, ci possono essere volendo anche altre “origini” dei costi generali di produzione che sono diverse da caso a caso, così come non è detto che ci siano tutti quelli elencati, che sono infatti riportati solo a titolo indicativo. Una volta individuati i “Cost Drivers” bisogna stabilire quant’è il costo di ogni attività transazionale, cioè quanto mi costa una singola unità del Cost Driver. Ad esempio, per le Ore-Macchina, dovrò determinare quanto mi costa tenere accesa la macchina per un’ora; per gli attrezzaggi dovrò vedere quanto mi costa un singolo attrezzaggio; per i trasferimenti dovrò vedere quanto mi costa un singolo trasferimento e così via. A questo punto dovremo determinare quante attività transazionali di ogni Cost Driver mi servono per ogni singolo prodotto (o lotto di prodotti, o processo a seconda del tipo di oggetto che prendo in considerazione). Fatto questo direi che abbiamo finito, nel senso che per trovare il costo del nostro prodotto basterà prendere il costo unitario dei vari Cost Driver e moltiplicarlo per il numero di unità che mi servono di quel cost driver per fare il mio prodotto. A questo ovviamente vanno aggiunti i costi diretti, cioè i costi per le materie prime, per il personale e per gli altri costi speciali; l’ABC infatti serve solo per distribuire le spese generali di produzione tra i prodotti ma noi sappiamo benissimo che il costo del prodotto è dato sia dalle spese generali che da quelle specifiche. Un esempio fatto piuttosto bene di applicazione dell’ABC, nel caso (molto probabile) non mi fosse riuscito di spiegarmi, lo trovate anche a pag. 459 del libro. Situazioni particolari per il calcolo del costo di prodotto Quando l’oggetto della nostra analisi è il costo di un singolo prodotto, possono verificarsi alcune situazioni particolari che devono essere trattate separatamente in quando non rientrano esattamente all’interno di quanto detto finora. Si tratta del caso delle produzioni congiunte e delle produzioni in corso di lavorazione alla chiusura dell’esercizio o comunque al termine del periodo preso come riferimento. Per quanto riguarda le produzioni congiunte, esse si hanno quando all’interno di un certo reparto produttivo, abbiamo la produzione di un certo numero di beni per così dire principali da cui deriva però anche la produzione di materiale di scarto, gli scarti di lavorazione appunto. Se questi scarti di lavorazione non possono essere utilizzati in alcuna maniera e non possono essere commercializzati, il loro costo va inteso uguale a zero. Nel caso in cui, invece, gli scarti di lavorazione possano essere comunque commercializzati, il loro costo potrà essere determinato semplicemente ponendolo uguale al valore che si prevede di realizzare dalla vendita degli scarti stessi. In questo secondo caso quindi, per trovare il costo dei prodotti principali, dovremo prima togliere dal costo totale del reparto il valore che si prevede di realizzare dalla vendita degli scarti di produzione e poi potremo ripartire quel che resta tra i prodotti principali seguendo uno dei metodi di cui abbiamo già parlato. Per quanto riguarda invece il caso in cui vi siano prodotti in corso di lavorazione alla chiusura dell’esercizio o del periodo di riferimento, dobbiamo possedere innanzi tutto: la percentuale di completamento dei prodotti (che nel nostro caso è detta anche percentuale di assorbimento costi) che erano in lavorazione all’inizio del periodo e che sono stati completati; la percentuale di completamento dei prodotti che sono in lavorazione alla chiusura del periodo e che verranno completati nel periodo successivo; il totale dei prodotti portati a termine nel periodo considerato. Il nostro obiettivo è determinare la quantità prodotta per poi determinare il costo unitario con una semplice divisione. Per trovare la quantità prodotta, dobbiamo sommare tra loro: la quantità totale di prodotti che sono stati terminati nel periodo di riferimento; la quantità di prodotti che sono in lavorazione alla fine del periodo, moltiplicati però per la percentuale di completamento e poi dalla somma dobbiamo togliere la quantità dei prodotti che erano in lavorazione all’inizio del periodo moltiplicati però per il complemento a 100 della percentuale di completamento. Un altro metodo che possiamo seguire, che rispecchia anche più chiaramente il ragionamento che sta dietro al calcolo, è quello che prevede la somma di: quantità di prodotti in corso di lavorazione all’inizio del periodo moltiplicata per il complemento a 100 della percentuale di completamento; quantità di prodotti iniziati e terminati all’interno del periodo di riferimento; quantità di prodotti in corso di lavorazione alla fine del periodo moltiplicata per la percentuale di completamento. Una volta determinata la quantità totale prodotta nel periodo di riferimento usando uno dei due metodi appena indicati, si potrà trovare il costo unitario di prodotto semplicemente dividendo il costo complessivo di reparto per la quantità totale prodotta. Determinazione preventiva del costo di prodotto Le procedure fin qui illustrate per determinare il costo dei prodotti sono procedure consuntive, che ci permettono cioè di rilevare il costo della produzione dopo che essa è stata ottenuta. Per poter formulare delle previsioni per il futuro (budget), è però importante essere in grado di determinare il costo di prodotto non a consuntivo, ma a preventivo (e tra l’altro questa è una delle grandi opportunità che ci offre la Co.An. al contrario della Co.Ge.). In genere per determinare i costi a preventivo, cioè per formulare delle previsioni in merito al costo che sosterremo per produrre un certo bene, si usano due metodi: metodo del riferimento a dati storici; metodo dei costi standard. Il metodo del riferimento a dati storici viene attuato prendendo come punto di partenza i costi di prodotto rilevati a consuntivo nel periodo precedente a quello per cui si vuole fare la previsione. Quindi ad esempio se si vuole prevedere il costo per la produzione di un certo bene in un certo anno, si prende come riferimento il costo che si è sostenuto per produrre quel bene nell’anno precedente. A consuntivo poi si vede se effettivamente il costo sostenuto è stato maggiore, minore o corrispondente a quello previsto. Il problema quando si sceglie questo metodo è che il costo che noi avevamo previsto non è il migliore possibile, ma è semplicemente il costo che avevamo sostenuto nell’anno precedente e quindi è poco indicativo, cioè ci dice solo se siamo andati meglio o peggio dell’anno precedente ma non ci dice se siamo effettivamente efficienti in termini assoluti. Questo problema viene risolto determinando i costi a preventivo non facendo riferimento ai costi del periodo precedente, ma facendo riferimento ai cosiddetti costi standard. I costi standard possiedono le seguenti caratteristiche: predeterminati, infatti non sono definiti a consuntivo, ma a preventivo, cioè prima della produzione; obiettivi, nel senso che costituiscono un obiettivo, sono cioè i costi che l’impresa dovrebbe riuscire a raggiungere per potersi definire efficiente; parametrici, in quanto vengono usati a consuntivo come parametro di riferimento per stabilire se l’impresa è stata efficiente o meno; ipotetici, in quanto ovviamente essendo a preventivo sono delle ipotesi che vengono formulate tenendo conto di tutta una serie di elementi come la capacità produttiva, la modernità delle macchine, la competenza del personale e così via. Ci sono vari tipi di costi standard, suddivisi a seconda del livello di efficienza a cui corrispondono. Esistono quindi: 1. costi standard di base, cioè dei costi che si sosterranno se riusciremo a mantenere l’impresa su dei livelli di efficienza normali. Di solito quando un’impresa introduce per la prima volta il criterio dei costi standard, adotta i costi standard di base, che non sono destinati ad essere modificati entro breve tempo; 2. costi standard attesi, cioè dei costi che si potrebbero ottenere in condizioni di efficienza buone. Si tratta quindi di previsioni di costo più ottimistiche rispetto a quelle dei costi standard di base, ma comunque possibili da ottenere con le condizioni attuali, senza dover fare grandi cambiamenti o stravolgimenti, semplicemente adottando delle opportune misure nell’organizzazione dell’area produttiva. Siccome in questo caso si punta alla massima efficienza possibile, è molto probabile che anche un minimo cambiamento nelle condizioni costringa a cambiare anche le previsioni di costo, quindi i costi standard attesi sono molto più suscettibili di variazioni rispetto ai costi standard di base; 3. costi standard ideali, cioè i costi che si avrebbero se ci trovassimo in condizioni di efficienza ottime, che non è detto tra l’altro che siano materialmente raggiungibili dalla nostra imprese nelle condizioni attuali, anzi spesso queste previsioni sono fatte non per essere effettivamente raggiunte, cosa ritenuta impossibile, ma semplicemente per vedere quanto l’impresa riuscirà ad avvicinarsi alle previsioni stesse. Da cosa dipende la scelta del tipo di costo standard da adottare? Beh, potremmo dire che dipende semplicemente dall’imprenditore, nel senso che è lui che decide se si accontenta di avere un’impresa in condizioni di efficienza normale, o se invece vuole puntare ad avere un’impresa che raggiunge sempre il massimo dell’efficienza possibile o se invece si pone degli obiettivi che materialmente non possono nemmeno essere raggiunti e che vengono posti semplicemente per vedere quanto l’impresa è distante dalla massima efficienza ottenibile in assoluto. Il sistema dei costi standard si rivela efficace soprattutto se viene applicato a tutti i prodotti, cioè se per tutte le produzioni di stabilisce un costo ideale (che può essere, l’abbiamo visto ora, più o meno ideale) che poi si confronta con l’effettivo costo sostenuto a consuntivo. E’ importante inoltre che ci sia un costante controllo dei risultati consuntivi che devono essere confrontati con i costi standard, in modo da poter prendere provvedimenti in tempi rapidi nel caso in cui ci si renda conto che i costi reali sono troppo superiori a quelli previsti. Per poter effettuare questo controllo particolareggiato è di solito necessario non solo programmare attentamente la produzione, ma anche prevedere la presenza di un responsabile per ogni produzione che si occupi appunto di verificare i risultati e provvedere eventualmente a mettere in atto le necessarie manovre correttive. DIAGRAMMA DI REDDITIVITA’ Il diagramma di redditività è una rappresentazione grafica in cui si riportano su un piano cartesiano le curve relative ai costi fissi, variabili e totali nonché la curva relativa ai ricavi con lo scopo di determinare visivamente, oltre che algebricamente, le seguenti grandezze: quantità di equilibrio, ovvero la quantità da produrre e vendere per non avere né utili né perdite; quantità di guadagno, ovvero determinare quanto bisogna produrre e vendere per conseguire un determinato guadagno che abbiamo stabilito di voler raggiungere; prezzo di vendita, ovvero determinare a quanto dobbiamo vendere i nostri prodotti per raggiungere il punto di equilibrio o superarlo di un valore definito da noi a priori. Inoltre, è uno strumento di particolare importanza perché permette all’imprenditore di vedere quali sono le variazioni che subiscono le diverse grandezze al variare di una di queste e in particolare al variare della quantità prodotta e venduta. Esso può quindi essere utilizzato efficacemente per programmare gli investimenti futuri. Vediamo ora come si determinano i valori a cui abbiamo fatto riferimento nell’elenco precedente. Prima di iniziare l’analisi nei particolari, ricordiamo sempre che: PV * Qtà = CF + CVu * Q.tà + Uu * Qtà E cioè che il prezzo di vendita (PV) per la quantità prodotta e venduta (Qtà) è sempre uguale alla somma dei costi fissi (CF), dei costi variabili (dati a loro volta dal prodotto tra il costo variabile unitario e la quantità prodotta e venduta: CVu * Q.tà) e dell’utile (dato a sua volta dal prodotto tra l’utile unitario e la quantità prodotta e venduta: Uu * Qtà). Partendo da questa equazione, comprendiamo facilmente che per trovare la quantità di equilibrio sarà sufficiente riscrivere l’equazione stessa inserendo la quantità prodotta e venduta come incognita e inserendo al posto del prezzo di vendita, del costo variabile unitario e dei costi fissi totali (che devono ovviamente essere tutti valori che conosciamo, se no non possiamo trovare il punto di equilibrio) i relativi valori. Ovviamente in questo caso dovremo eliminare dall’equazione la parte relativa all’utile perché se cerchiamo il punto di equilibrio, significa che cerchiamo appunto la produzione per cui l’utile è zero. Alla stessa maniera, se vogliamo determinare la quantità da produrre per ottenere un determinato utile, basterà nuovamente scrivere l’equazione mettendo la quantità prodotta e venduta come incognita e inserendo al posto del ricavo unitario di vendita, dei costi fissi totali, dei costi variabili unitari e dell’utile unitario che vogliamo conseguire (tutti valori che devono essere conosciuti) i relativi valori. Lo stesso ragionamento deve farsi nel caso in cui debba essere determinata non la quantità da produrre e vendere bensì il prezzo a cui bisogna vendere i prodotti per raggiungere il punto di equilibrio o per ottenere un certo utile. In questi casi, dovremo riscrivere l’equazione mettendo come incognita il prezzo di vendita e inserendo tutti gli altri valori che si dà per scontato che conosciamo. Per concludere l’argomento, vediamo i principali vantaggi e svantaggi di questo strumento. I principali svantaggi sono: non sempre i costi e i ricavi crescono in misura costante con l’aumentare della quantità prodotta e venduta, quindi a volte per rappresentare correttamente la situazione non ci vorrebbero le rette ma delle curve; è un diagramma statico, quindi deve essere rifatto ogni volta che il prezzo di vendita, i costi fissi o i costi variabili subiscono delle variazioni; vicino agli estremi, quindi vicino a quantità prodotte uguali a zero e per quantità particolarmente grandi, il diagramma non rappresenta la situazione in modo veritiero perché per quantità troppo basse è molto probabile che non ci sia interesse per l’imprenditore a produrre e vendere mentre per quantità particolarmente alte è probabile che l’imprenditore possa decidere di abbassare i prezzi per conquistare nuove aree di mercato oppure che possa ottenere degli sconti dai fornitori per la grande quantità di materie prime acquistata. L’area all’interno della quale il diagramma rappresenta in modo piuttosto veritiero la situazione, quella cioè compresa tra i due estremi, è detta “area di significatività”. Mentre invece i principali vantaggi sono: rappresenta in modo chiaro e immediato le relazioni esistenti tra volumi di produzione, costi di produzione, ricavi di vendita e utili; è uno strumento importante per la direzione aziendale perché permette di valutare le conseguenze delle variazioni che potrebbero intervenire sulle varie grandezze e consente anche di fare delle previsioni per il futuro. PIANIFICAZIONE STRATEGICA E BUDGET LA PIANIFICAZIONE STRATEGICA Per capire l’importanza della pianificazione strategica bisogna partire da un dato di fatto, e cioè che nei tempi moderni, molto di più che in passato, le condizioni in cui un imprenditore si trova ad operare sono in continuo cambiamento e inoltre ci sono moltissimi elementi che messi insieme determinano il successo o il fallimento di un’idea imprenditoriale. Per questo motivo, per gli imprenditori moderni è importante prima di tutto avere ben presente la situazione esterna all’impresa considerando tutte le varie componenti che possono essere determinanti per il successo dell’impresa e poi è importante anche essere capaci di prevedere come sarà la situazione nel futuro e sulla base delle previsioni per il futuro è importante che l’imprenditore faccia dei piani, cioè si ponga degli obiettivi da raggiungere nel lungo periodo e stabilisca in che modo questi obiettivi devono essere raggiunti e poi, per poter realizzare gli obiettivi di lungo periodo, è importante che l’imprenditore faccia dei programmi di breve, cioè si ponga degli obiettivi intermedi e stabilisca come raggiungere questi obiettivi intermedi, programmando nei particolari le varie azioni che dovranno essere intraprese nelle varie aree dell’impresa per arrivare a raggiungere nel complesso gli obiettivi prefissati. Poi è importante che l’imprenditore controlli costantemente che la situazione effettiva corrisponda ai piani e ai programmi, cioè l’imprenditore deve predisporre un sistema di controlli che permetta di capire subito se ci si sta allontanando troppo dagli obiettivi per poter prendere i necessari provvedimenti. Al controllo operativo-gestionale, cioè al controllo dei risultati, si deve però associare anche un altro controllo, che è detto controllo strategico, cioè bisogna che l’imprenditore non smetta mai di osservare bene la realtà in tutti i suoi aspetti in modo da cogliere eventuali cambiamenti e da adattare sia gli obiettivi che le azioni intraprese per raggiungerli in funzione dei cambiamenti, infatti come abbiamo già detto la realtà cambia e con essa devono cambiare anche gli obiettivi e i modi per raggiungerli. La pianificazione strategica quindi per definizione è l’insieme di tutte queste operazioni: studiare la situazione attuale in tutti i suoi aspetti e prevedere quella futura, quindi in base alla situazione attuale e a quella prevista fare dei piani di lungo periodo e dei programmi di breve periodo e predisporre dei controlli continui sia operativo-gestionali per verificare se stiamo raggiungendo o no i risultati, sia strategici, per verificare se ci sono stati nell’ambiente esterno dei cambiamenti che richiedono la revisione degli obiettivi o dei modi che avevamo stabilito di usare per raggiungere gli obiettivi stessi. Potremmo dire che quando un’impresa si costituisce, c’è un percorso preciso che l’imprenditore deve seguire per fare una buona pianificazione strategica. Questo percorso è costituito dai seguenti passaggi: 1. Analisi della situazione di partenza 2. Individuazione ed analisi dei punti di forza e di debolezza 3. Definizione degli obiettivi 4. Formulazione delle strategie 5. Predisposizione del piano 6. Approvazione, esecuzione e controllo del piano Analisi della situazione di partenza La situazione di partenza, come si è già detto, è composta da tanti elementi che concorrono tutti insieme al successo o al fallimento dell’impresa. Questi elementi che devono essere considerati dall’imprenditore prima di iniziare la propria attività sono: l’ambiente in generale; il settore economico-produttivo; la posizione che l’azienda occuperà nel settore; le condizioni interne di svolgimento dell’attività. Quando andiamo ad analizzare l’ambiente in generale, dobbiamo pensare allo Stato o all’insieme degli Stati (nel caso di multinazionali) in cui si svolgerà l’attività dell’impresa. All’interno dello Stato, l’imprenditore dovrà prendere in considerazione la situazione economica, sociale, politica, legislativa, tecnologica, fisico-geografica e culturale in modo da avere un quadro preciso della situazione complessiva presente nello Stato o negli Stati in cui si svolgerà l’attività economica. Tutti gli elementi appena detti, che formano nel loro insieme l’ambiente esterno generale, possono rimanere sempre gli stessi con il passare del tempo (ambiente stazionario), ma possono anche cambiare soltanto in senso quantitativo (ambiente ciclico-ripetitivo) oppure possono cambiare sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, cioè ci possono essere modificazioni sostanziali e quantitative contemporaneamente (ambiente dinamico). A seconda del tipo di ambiente, l’imprenditore dovrà tenere un comportamento diverso. Ad esempio se l’ambiente è statico l’imprenditore potrà esercitare l’attività tenendo sempre lo stesso comportamento e facendo sempre gli stessi piani anno dopo anno, mentre in un ambiente ciclico dovrà adattarsi introducendo delle piccole innovazioni operative, cioè nel modo di lavorare e di organizzare il lavoro, in modo da adattarsi alle modificazioni quantitative dei vari elementi mentre se l’ambiente è dinamico è necessario un controllo costante della situazione per poter prendere in anticipo i provvedimenti necessari e non essere mai indietro rispetto alle imprese concorrenti, cercando di anticipare anzi le innovazioni. Il secondo passo da compiere quando si analizza la situazione di partenza è quello di studiare il mercato dove si andrà ad operare. In questo senso, bisogna ricordare che ogni settore produttivo presenta delle caratteristiche diverse rispetto agli altri e che la conoscenza di queste caratteristiche è fondamentale per fare le scelte giuste. Quando studiamo un settore produttivo, dobbiamo tenere conto di diversi elementi caratterizzanti, tra cui i più importanti sono: il grado di maturità; la domanda globale; l’offerta globale; la concorrenza. Un settore, in base al grado di maturità, può essere: emergente, cioè i prodotti o servizi che si producono e vendono in quel settore produttivo sono di recente introduzione, innovativi e quindi destinati a conoscere un’espansione nella diffusione con il passare del tempo; sviluppato, cioè i prodotti o servizi prodotti e venduti non sono più una novità perché c’è già una buona domanda e un’altrettanto buona offerta, questo senza nulla togliere al fatto che possa esserci ancora una crescita nei consumi di questi beni e servizi e quindi un ulteriore sviluppo; maturo, significa che ormai tutti i soggetti interessati hanno fatto domanda del bene o servizio caratteristico del settore e quindi non è più prevedibile una grande espansione della domanda e quindi dell’offerta, ma piuttosto una fase di stagnazione, in cui cioè la domanda e l’offerta sono destinate a restare uguali a sé stesse anche per lunghi periodi; in declino, cioè i prodotti o servizi offerti sono stati superati da altri prodotti o servizi che svolgono la stessa funzione ma che hanno migliori prospettive per motivi di costo o di qualità, quindi si può ipotizzare che entro breve tempo i nuovi prodotti sostituiranno quelli vecchi e il settore che prima aveva conosciuto un grande sviluppo è destinato invece a subire un declino, cioè un calo della domanda e quindi della produzione. Quando andiamo ad analizzare la domanda globale, sono tanti gli elementi che possono essere importanti, ad esempio dovremo occuparci di conoscere quanto durano in media i prodotti, quanti ne vengono chiesti complessivamente con riferimento a un certo periodo di tempo e soprattutto qual è il tasso di crescita o di decremento della domanda. Fatto questo dovremo suddividere i soggetti che fanno domanda in gruppi omogenei, che possono essere costruiti tenendo conto a seconda dei casi di elementi anche molto diversi tra loro come la localizzazione geografica, l’età, il sesso, il livello culturale, etc. Una volta costruiti i gruppi omogenei faremo la stessa analisi fatta a livello generale anche per i singoli gruppi, quindi per ogni categoria di consumatori andremo a vedere la durata media di utilizzo, la quantità domandata in un certo periodo e la crescita o il decremento della domanda. Quando andiamo a studiare l’offerta globale di un certo settore invece dobbiamo tenere di conto ad esempio della durata media degli impianti, della capacità produttiva totale e del livello di utilizzo attuale della capacità produttiva degli impianti, delle difficoltà connesse all’approvvigionamento delle materie prime o comunque dei fattori della produzione (compresa anche ad esempio la forza lavoro) e anche delle modalità con cui i prodotti o servizi giungono ai potenziali consumatori. Quando andiamo a studiare la concorrenza invece ci dobbiamo occupare di conoscere i costi e i prezzi medi che vengono sostenuti e praticati dalle altre imprese, oltre che il livello tecnologico della loro produzione e la redditività media della loro attività. Queste informazioni sono importanti perché ovviamente per essere competitivi dovremo avere costi minori o livelli qualitativi maggiori, insomma qualcosa che ci differenzi e ci faccia essere migliori degli altri e per definire se siamo o meno migliori degli altri è ovvio che prima bisogna sapere come sono gli altri. Una volta che sappiamo qual è la situazione media delle imprese concorrenti e in particolare dell’impresa leader del settore dove vogliamo andare ad operare, dobbiamo pensare a quali potrebbero essere i cosiddetti fattori chiave, cioè quegli elementi che ci potrebbero permettere di essere migliori degli altri e di imporci sul mercato. Quindi dovremo studiare attentamente, ad esempio, come potremmo fare per: far sì che ad esempio i consumatori preferiscano i nostri prodotti a quelli della concorrenza (migliore qualità? Prezzo più basso? Stesso prezzo e qualità ma un diverso canale distributivo? Campagne pubblicitarie che facciano sembrare i nostri prodotti migliori anche se non lo sono? Localizzazione diversa per restare più comodi ai potenziali consumatori? Forme di pagamento agevolate? Assistenza post-vendita accurata?); far sì che i nostri costi siano minori di quelli degli altri (usare maggiore tecnologia? Comprare in quantità maggiore per ottenere sconti? Produrre su commessa invece che per il magazzino? Tenere la contabilità analitica? Ridurre gli organici e i fattori della produzione al minimo necessario?). Ovviamente per conseguire costi minori degli altri o per imporre il nostro prodotto anche se ha lo stesso costo degli altri, dobbiamo predisporre delle azioni opportune e avere il personale adatto, ad esempio per avere dei costi minori della concorrenza dobbiamo avere personale con competenze specifiche inerenti il dimensionamento degli impianti e le modalità di produzione, ma dovremo anche organizzare la produzione per centri di responsabilità e motivare opportunamente i relativi responsabili con incentivi di vario tipo. Se invece puntiamo alla differenziazione del nostro prodotto dagli altri, dovremo avere delle buone competenze in marketing, dovremo creare un’area apposita per la ricerca e lo sviluppo di nuove soluzioni, individuare dei centri di responsabilità e ancora una volta trovare il modo migliore per motivare il personale. Facciamo attenzione poi al fatto che le due azioni non sono l’una alternativa all’altra, ma devono essere intraprese insieme. Cioè, se un’impresa decide di concentrarsi sulla riduzione dei costi, non vuol dire che si debba disinteressare dell’immagine del prodotto, del canale distributivo, dell’innovazione tecnologica e così via e allo stesso modo se un’impresa decide di concentrarsi sull’innovazione tecnologica, sulla presentazione del prodotto, sul canale distributivo non vuol dire che debba lasciar perdere i costi ed essere inefficiente da questo punto di vista. I due obiettivi e le corrispondenti azioni devono essere intraprese contemporaneamente. Lo scopo di tutto questo lavoro è quello di avere quello che viene chiamato vantaggio competitivo, cioè appunto quel qualcosa in più e in meglio rispetto agli altri che ci permette di imporre la nostra impresa sul mercato. Quando andiamo a studiare la posizione che occuperà la nostra azienda nel settore in cui andremo ad operare, ci riferiamo in particolare all’importanza che arriverà ad avere la nostra impresa nel settore. Per svolgere questa analisi, bisogna: 1. prima di tutto fare un grafico dove si delinea la curva delle quantità potenzialmente vendibili sul mercato dal totale di tutti i soggetti che offrono i loro beni e servizi nel settore dove vogliamo andare ad operare; 2. quindi fare una curva che indica invece le quantità effettivamente vendute fino al momento attuale, in modo da avere un’idea dello scarto che c’è tra le massime vendite possibili e quelle realmente attuate prima dell’ingresso della nostra impresa (questo è importante perché ci permette di ipotizzare quale sarà la curva delle vendite effettive per il futuro, supponendo che lo scarto rimanga lo stesso); 3. fare la curva che indica le quantità potenzialmente vendibili della nostra impresa dal momento in cui inizierà ad esercitare la sua attività e sulla base di questo potremo anche ipotizzare momento per momento quanta parte di mercato sarà occupata dalla nostra impresa, sia in termini di quantità vendute in senso assoluto, sia soprattutto in termini di percentuale sul totale venduto. Un esempio di grafico dove sono indicate le vendite totali potenziali, le vendite totali reali e le previsioni di vendite della nostra impresa con il passare del tempo lo avete a pag. 386 del nostro libro. Quando andiamo ad analizzare le condizioni interne di svolgimento dell’attività produttiva, dobbiamo scomporre l’impresa nelle sue diverse aree funzionali e per ogni area vedere se siamo in condizioni di efficienza e a che livello di efficienza ci troviamo, anche facendo i confronti con le altre imprese concorrenti quando è possibile. Questa analisi interna ci permette di raggiungere il livello di efficienza migliore possibile ovviamente con riferimento alla nostra azienda, il che non significa che necessariamente avremo successo perché poi ci sono tutti i problemi legati al settore economico e alla concorrenza che però abbiamo già studiato. Certo è che l’impresa, di per sé, deve cercare di essere nelle condizioni migliori possibili perché se no le probabilità che si riveli incapace di reggere il confronto con concorrenza e di sopravvivere sul mercato aumentano notevolmente. Individuazione ed analisi dei punti di forza e di debolezza I punti di forza come si può ben capire sono quegli aspetti in cui la nostra impresa è migliore rispetto alle concorrenti, mentre i punti di debolezza sono gli aspetti in cui la concorrenza è migliore. L’analisi dei punti di forza e di debolezza diventa molto complessa se si prendono in considerazione molti elementi di confronto, il che di fatto però ne riduce la vera efficacia. Perché l’analisi dei punti di forza e di debolezza sia efficace bisogna che con essa riusciamo ad evidenziare gli aspetti fondamentali, che rivestono una grande importanza, in cui noi siamo migliori degli altri o gli altri migliori di noi. Per questo motivo di solito si prendono in considerazione solo i fattori chiave del prodotto e dell’impresa, tralasciando gli elementi di confronto secondari. Una lista di elementi chiave in cui dobbiamo vedere se siamo migliori o peggiori della concorrenza può essere, a titolo indicativo, la seguente: il costo di produzione il prezzo di vendita la qualità del prodotto l’immagine del prodotto e dell’impresa l’efficienza del canale distributivo la fidelizzazione del cliente la capacità di adattamento e di sviluppo tecnologico Ovviamente non sono solo questi, ma certamente questi sono tra i più importanti, che già ci permettono di individuare i punti di forza e di debolezza fondamentali e nel caso di punti di debolezza, di prendere i necessari provvedimenti per farli diventare punti di forza. Sempre a proposito dei punti di forza e di debolezza, un modo carino per rappresentare graficamente la situazione lo abbiamo nel grafico che c’è sul libro a pag. 388 che non dice molto di più rispetto a quello che uno dovrà spiegare per iscritto, ma che come tutti i grafici fa un gran bell’effetto, se accompagnato dalle necessarie informazioni. Definizione degli obiettivi Una volta che abbiamo studiato attentamente la situazione esterna ed esterna all’impresa e i punti di forza e di debolezza, dobbiamo iniziare a pensare agli obiettivi. Gli obiettivi, ricordiamolo fin d’ora, sono di lungo e di breve e gli obiettivi di breve devono essere intesi come degli obiettivi intermedi che devono essere raggiunti per conseguire l’obiettivo di lungo. Gli obiettivi del lungo periodo che tutte le imprese dovrebbero desiderare di raggiungere sono: massimizzazione della redditività del capitale investito (ROI); sopravvivenza sul mercato e massimizzazione della quota di mercato detenuta dall’impresa. Gli obiettivi di lungo periodo però non è detto che siano solo questi, infatti a seconda dell’imprenditore, può darsi ad esempio che un obiettivo di lungo periodo sia quello di creare una rete di dipendenti che siano motivati e legati alla direzione da rapporti di complicità e di stima, oppure di migliorare le condizioni di lavoro dei dipendenti o di diminuire le emissioni inquinanti della sua attività. D’altra parte, non è detto nemmeno che ci siano questi due obiettivi principali: un gruppo di persone può anche decidere di dare vita a un’attività con lo scopo di guadagnare quanto più possibile nel breve disinteressandosi dei dipendenti e delle strategie di lungo salvo poi capitolare di fronte alla maggiore efficienza di quelle imprese che rinunciando a dei grandi guadagni immediati sono riuscite a organizzare meglio la loro attività. Spesso gli obiettivi di lungo periodo vengono visti come un circolo vizioso positivo, cioè il raggiungimento di alcuni obiettivi in via automatica porta al raggiungimento degli altri. Ad esempio, se l’imprenditore riesce a soddisfare la clientela e quindi essere competitivo e allo stesso tempo riesce ad attirare forza lavoro e capitali (per la sua serietà, per le sue capacità umane e professionali), è molto probabile che dal raggiungimento di questi due obiettivi dipenda il benessere dell’azienda e quindi il suo sviluppo, ma un’azienda che si sviluppa a sua volta incrementa la sua competitività e attrae sia forza lavoro che capitali, ma attirando forza lavoro e capitali e aumentando la competitività si riesce a migliorare ancora la situazione dell’impresa che continua a svilupparsi e così via in un circolo che non finisce mai. Questo discorso si vede bene anche a pag. 390 nello schema che fa il libro. Come già accennato, gli obiettivi di lungo periodo vengono raggiunti ponendo degli obiettivi intermedi, che sono detti anche strumentali (perché sono lo strumento che permette di raggiungere l’obiettivo generale). Gli obiettivi intermedi sono elaborati con riferimento alla varie aree di gestione prese singolarmente. Quindi per definire gli obiettivi intermedi, si divide l’attività dell’impresa nelle sue diverse aree (produzione, commercializzazione, amministrazione, marketing, ricerca e sviluppo, etc.) e per ogni area si vanno a definire gli obiettivi specifici che si vogliono raggiungere che ovviamente cambiano da area ad area. Poi in genere si creano anche delle finte aree, cioè delle aree cosiddette sociali (“relazioni con il personale” e “relazioni con l’esterno” sono le più comuni) e anche per ognuna di queste si stabiliscono gli obiettivi che si vogliono raggiungere (incremento dell’occupazione, miglioramento delle condizioni di lavoro dei dipendenti, applicazione di dispositivi anti-inquinamento, etc.). Ovviamente anche qui sta alla discrezione dell’imprenditore: un’area come il marketing ad esempio se non gli si dà importanza la si può mettere sotto l’area amministrativa o commerciale e definire obiettivi comuni, oppure le aree sociali se non ci interessano le condizioni di lavoro dei dipendenti o l’inquinamento dell’ambiente le possiamo del tutto togliere e così abbiamo qualche obiettivo di meno da raggiungere. Soggettivo è anche, ovviamente, il numero e il tipo di obiettivi che si intende raggiungere all’interno di ogni area. Quello che è uguale per tutti, lo ricordiamo, è lo scopo: si divide l’attività in aree e si individuano obiettivi specifici area per area con il solo scopo di raggiungere l’obiettivo generale di lungo periodo attraverso il raggiungimento dei vari obiettivi intermedi nelle varie aree. La formulazione delle strategie Detto semplicemente, le strategie sono i provvedimenti attraverso i quali intendiamo raggiungere gli obiettivi. E’ naturale infatti che dopo aver stabilito quali sono gli obiettivi sia necessario stabilire anche come intendiamo raggiungerli. Così come per gli obiettivi c’erano obiettivi generali aziendali e obiettivi specifici che cambiavano da area ad area e che andavano raggiunti per poter raggiungere quelli generali, allo stesso modo ci sono strategie generali di lungo periodo e strategie specifiche che cambiano da area ad area. Trattare le strategie specifiche è praticamente impossibile. Il motivo è semplice: le aree in cui l’imprenditore decide di dividere l’impresa cambiano da soggetto a soggetto, così come cambiano gli obiettivi specifici che l’imprenditore si pone all’interno di ogni area, quindi sono talmente tante le variabili e sono talmente tanti i modi diversi che possono essere usati per risolvere un problema specifico di una singola area che una trattazione generale delle strategie specifiche risulta improponibile. In sede d’esame, se dovremo fare questo tipo di lavoro, individueremo noi a nostra scelta le aree e all’interno di queste gli obiettivi, e una volta scelti gli obiettivi proveremo ad ipotizzare delle strategie per raggiungerli a cui penseremo lì per lì. Quello che possiamo fare invece è trattare delle strategie di lungo periodo. Sappiamo infatti che la maggior parte delle imprese nasce per vivere, per essere redditizia nel lungo periodo e per espandersi, quindi l’obiettivo fondamentale dell’impresa è quello di guadagnare quote di mercato perché così può aumentare la redditività del capitale investito. L’obiettivo di guadagnare quote di mercato può essere raggiunto in vari modi, seguendo cioè varie strategie di lungo periodo. Queste strategie vengono divise in aggressive e difensive: quelle aggressive sono adottate dalle imprese nuove arrivate o che comunque non hanno una buona posizione sul mercato con lo scopo di guadagnare quote di mercato mentre quelle difensive ovviamente sono adottate dalle imprese leader di settore che vogliono mantenere la loro posizione difendendosi dalle imprese concorrenti. Le principali strategie aggressive, che sono tra loro alternative, sono: strategie basate sulla specializzazione, cioè sul tentativo di commercializzare prodotti “vecchi”, non innovativi, in un mercato dove questi prodotti sono già presenti (il che si può fare in presenza di un aumento spontaneo della domanda oppure cercando di causare un aumento della domanda con una politica di marketing opportuna) oppure di commercializzare sempre prodotti non innovativi in un mercato in cui però questi non ci sono ancora (ad esempio prodotti che qui sono ormai superati nel sud del mondo non esistono) oppure cercando di innovare dei prodotti già esistenti e commercializzarli negli stessi mercati dove esistevano già gli stessi prodotti ma nella versione precedente (è quello che hanno fatto le ditte di televisioni quando hanno messo le TV a colori dopo quelle in bianco e nero o quando hanno messo il televideo nelle TV a colori). Strategie basate sulla diversificazione, ovvero nell’inserimento dell’azienda in altri settori produttivi attraverso la produzione di altri beni, anche profondamente diversi da quelli prodotti fino a quel momento. Per fare questo occorre prima di tutto dotarsi dei necessari fattori produttivi (macchinari, personale competente, etc.) che ovviamente non possono essere gli stessi se si va da un settore a un altro e poi occorre anche avere una buona attività di marketing per pubblicizzare e commercializzare i nuovi prodotti, perché è ovvio che se cambiamo produzione o se associamo a quella precedente una nuova produzione la prima cosa da fare è quella di far sapere ai potenziali consumatori della nostra nuova produzione che ora ci siamo anche noi; Strategie basate sull’integrazione, cioè nell’esecuzione in proprio di un passaggio precedente o successivo nella catena distributiva. Sappiamo infatti che un’impresa non si occupa mai di un’intera fase di produzione, ma si colloca in un punto preciso della catena che va dall’estrazione o produzione delle materie prime necessarie per fare un prodotto fino al negozio che poi vende il prodotto finito. Per espandere la sua quota di mercato un’impresa può decidere di fare in proprio una fase precedente, ad esempio un’impresa di confezioni che fa i vestiti può decidere di fare anche i filati, cioè i fili che di solito gli arrivano già pronti per essere uniti per fare il vestito. In questo modo l’impresa di confezioni integra in sé la fase della filatura e quella della tessitura e aumenta la propria quota di mercato perché magari di tutti i filati che fa una parte li vende a imprese concorrenti, oppure riesce a produrre filati a un prezzo minore del precedente costo d’acquisto e quindi è più competitiva sul mercato e si espande. Lo stesso può essere fatto anche sul lato opposto, ad esempio la stessa impresa che fa i vestiti può decidere anche di venderli e quindi di aprire dei negozi essa stessa oppure si fare la vendita diretta in fabbrica: in questo modo l’impresa integra un passaggio successivo, quello della distribuzione del prodotto, che prima veniva affidato a un’impresa esterna. Le strategie difensive invece sono quelle, come già detto, attuate dall’impresa dominante che vuole mantenere la propria quota di mercato. Di solito queste imprese puntano all’efficienza produttiva, cioè al contenimento dei costi per essere in grado all’occorrenza di ridurre i prezzi, infatti queste imprese sono già molto conosciute sul mercato, non hanno bisogno di essere innovative o di cercare nuovi mercati, ma hanno solo bisogno di mantenere quello che già hanno. Piani, programmi e budget Sono la trasposizione sul piano economico, finanziario e patrimoniale delle strategie globali e specifiche. Cioè le strategie, sia quelle suddivise per area che quelle generali, sono la spiegazione discorsiva di che cosa bisogna fare per raggiungere un certo obiettivo. Ovviamente però nel momento in cui l’imprenditore fa una strategia che prevede assunzioni, acquisti di macchinari, attuazione di pubblicità con relative spese, assunzione di debiti con relativi oneri, questa strategia ha delle ripercussioni a livello economico, finanziario e patrimoniale ben precise. Queste ripercussioni sono indicate nei piani, nei programmi e nei budget. I piani corrispondono alle strategie generali dell’impresa e si riferiscono a un periodo medio-lungo che va di solito da 3 a 5 anni. Essi si dividono in piani di costituzione, di funzionamento e di cessazione. I piani di costituzione sono delle previsioni dei costi, dei ricavi, degli oneri e proventi finanziari e della situazione patrimoniale futura dell’impresa che vengono fatte prima di iniziare un’attività per determinare se è effettivamente redditizia o meno. I piani di funzionamento riportano anch’essi a preventivo, anno per anno per una durata che di solito va come detto da 3 a 5 anni, i costi e ricavi previsti, nonché la situazione della gestione finanziaria e gli stati patrimoniali previsti. I piani di cessazione vengono predisposti con la finalità di valutare la convenienza di cessare l’attività aziendale. Ai piani vengono affiancati i programmi. I programmi corrispondono alle strategie di ogni singola area dell’impresa. Abbiamo visto prima che per definire gli obiettivi intermedi e le conseguenti strategie l’impresa viene divisa in aree, ecco, nei programmi scriviamo i costi e ricavi previsti, nonché le variazioni finanziarie e patrimoniali previste che si rendono necessarie per poter realizzare gli obiettivi di ogni singola area mediante le strategie stabilite per ogni singola area. Sono come dei conti economici e degli stati patrimoniali preventivi che però non si riferiscono a tutta l’impresa ma solo a un particolare settore di essa, a una particolare area. L’insieme di tutti gli stati patrimoniali e conti economici specifici delle singole aree porta ad avere lo stato patrimoniale ed il conto economico preventivi dell’intera impresa. Talvolta, quando si vuole programmare l’attività di una certa area dell’impresa per un periodo medio-lungo, si fanno anche i piani settoriali, cioè dei documenti dove si prevedono costi, ricavi e variazioni finanziarie e patrimoniali che derivano dall’attività di una singola area in un periodo però più lungo di quello coperto dai programmi (ogni programma, o budget, copre un solo anno). Se per una singola area è stato redatto un piano settoriale, è ovvio che i programmi che si succederanno nei vari anni successivi saranno tutti orientati a raggiungere le previsioni che sono state fatte nel piano settoriale. Approvazione, esecuzione e il controllo dei piani I piani quinquennali o triennali sia generali che (se ci sono) settoriali vengono rifatti ogni anno e coprono sempre i cinque anni successivi (di cui quattro ci sono già e l’ultimo deve essere fatto), quindi sempre un anno in più rispetto al piano precedente. Per questo si dice che i piani sono scorrevoli, perché ogni anno viene aggiunto nel piano la previsione per un ulteriore anno, il quinto (o il terzo) a decorrere dall’anno in corso. Questa continua revisione e integrazione dei piani è importante anche perché oltre ad aggiungere la previsione per il quinto o terzo anno successivo a quello in corso, quando si riprende in mano il piano pluriennale si guarda anche che non ci siano state nel frattempo delle variazioni nelle condizioni ambientali o interne tali da giustificare un ridimensionamento degli obiettivi. Per essere utile, il piano deve indicare per ogni anno degli obiettivi raggiungibili, quindi se nella previsione fatta negli anni passati siamo stati troppo ottimisti oppure se sono cambiate le condizioni e ora quella previsione appare troppo ottimistica, il piano deve essere non solo integrato con l’aggiunta di un anno ma anche cambiato nelle parti che già erano state fatte. Prima di poter essere eseguiti devono avere ovviamente l’approvazione dell’alta dirigenza. Ottenuta questa, si passa alla fase esecutiva. L’esecuzione materiale dei piani, come già visto, si attua con i programmi, cioè con delle previsioni che hanno lo stesso contenuto dei piani, ma che si riferiscono a un solo anno e a una singola area dell’impresa. Come già detto, dalla somma dei programmi delle singole aree esce fuori il programma dell’intera impresa che è il passo intermedio per arrivare a realizzare il piano pluriennale generale. Ovviamente ogni anno si deve controllare che i dati rilevati a consuntivo siano conformi alle previsioni, perché se in un anno non raggiungiamo gli obiettivi del programma, poi non riusciamo neanche a raggiungere gli obiettivi finali del piano pluriennale. Per questo motivo esiste un controllo operativo-gestionale con lo scopo di rilevare gli scostamenti dalle previsioni e prendere i provvedimenti che permettano di raggiungere ogni anno gli obiettivi della programmazione annuale. I PROGRAMMI ANNUALI: LA REDAZIONE DEL BUDGET Il budget è il documento amministrativo dove sono riportati costi, ricavi, variazioni patrimoniali e variazioni finanziarie previste per l’esercizio successivo. Esiste infatti un budget economico, che non è altro che un conto economico preventivo, cioè si fa il conto economico ancora prima che cominci l’esercizio, in modo da poter fare poi il confronto con il conto economico reale, consuntivo. Esiste poi un budget patrimoniale che è uno stato patrimoniale preventivo e esiste infine un budget finanziario che riassume le variazioni previste nelle grandezze finanziarie durante l’esercizio a cui si riferisce il budget stesso. Questi sono i budget generali, che coinvolgono cioè tutta l’impresa, e che sono fatti partendo da alcuni obiettivi preventivamente definiti che sono espressi dai valori di alcuni indici importanti come il ROE, ROI, ROS, rotazione degli investimenti, liquidità, etc. Poi ci sono i budget settoriali, quelli cioè riferiti a una singola area dell’impresa, come l’area commerciale, produttiva, di ricerca e sviluppo, finanziaria, etc. che vengono redatti con lo scopo di definire gli obiettivi e le modalità di raggiungimento degli stessi area per area, in modo che l’insieme dei risultati di tutte le aree dia il risultato desiderato a livello aziendale. Non ci resta che andare a vedere nello specifico come si fanno i budget. Prima di tutto, dobbiamo dire che i budget più importanti per un’impresa sono quelli che si riferiscono all’area commerciale, a quella della produzione e a quella degli investimenti, dopodiché vengono tutti gli altri budget relativi alle varie aree in cui è stata suddivisa l’impresa. Per quanto riguarda il budget commerciale, che è il primo che viene fatto visto che poi da questo dipendono tutti gli altri, va detto che esso si compone di due parti: budget delle vendite e budget dei costi commerciali. Il budget delle vendite di solito viene fatto seguendo le seguenti fasi: 1. Fissazione da parte della direzione del prezzo di vendita di ogni prodotto o categoria di prodotti; 2. Invio dei prezzi ai responsabili delle vendite i quali formulano le previsioni di vendita suddivise per periodo infrannuale, prodotto, area geografica e categoria di cliente (grossisti, grande distribuzione, piccolo dettaglio, privati) basandosi sia sull’andamento storico delle vendite che sulle previsioni di andamento delle vendite; 3. Invio delle previsioni alla direzione, che le esamina, le discute insieme ai soggetti che le hanno formulate e infine fissa gli obiettivi di fatturato; 4. Approvazione del budget delle vendite che diventa vincolante per i venditori che hanno come obiettivo quello di realizzare nei periodi indicati il fatturato previsto. Solitamente le previsioni di vendite sia quantitative che monetarie vengono riportate in dei prospetti riassuntivi che possono assumere diverse forme, non c’è una regola precisa, l’importante è che vengano evidenziate bene per ogni prodotto le previsioni relative alle vendite nelle varie aree geografiche e all’interno di ogni area, le vendite previste per categoria di clienti. Alcuni esempi di prospetti che possono essere usati li avete a pag. 487 del nostro libro. Il budget dei costi commerciali invece riassume le previsioni di spesa relative all’area commerciale. Solitamente, queste spese vengono divise in variabili (cioè legate alla vendita dei prodotti, come possono essere gli sconti sui prodotti venduti, le spese di trasporto, le provvigioni date ai rappresentanti per ogni prodotto venduto, etc.) e fisse (strutture, costi per pubblicità, retribuzioni di base del personale dell’area commerciale, etc.). Per i costi variabili viene redatto un unico documento a sé stante che li riassume tutti, mentre invece per i costi fissi la cosa è un po’ più complicata. Alcune imprese fanno due documenti separati per i costi fissi: uno dove mettono i costi di struttura (immobili, retribuzioni di base del personale commerciale, etc) e l’altro dove mettono i costi di politica, detti anche discrezionali, che possono essere rimossi facilmente e in tempi brevi al contrario dei precedenti (alcuni esempi di costi di politica sono le spese per pubblicità, i costi per l’aggiornamento del personale, etc.). Altre imprese invece dividono i costi fissi in maniera diversa e invece di fare due documenti (uno per i costi di struttura e l’altro per quelli di politica) ne fanno quattro, e cioè: creazione e sviluppo della domanda, che contiene le spese per la pubblicità e per le ricerche di mercato; acquisizione degli ordini, che comprende le spese per le retribuzioni e per le attrezzature utilizzate per l’acquisizione degli ordini; evasione degli ordini, che comprende le spese per il personale addetto, per le strutture e per il trasporto; mantenimento del patrimonio commerciale acquisito, cioè le spese necessarie per non perdere i clienti che già si hanno, che comprende i costi per il personale e per le attrezzature impiegate per le relazioni con i clienti e l’assistenza alla clientela, oltre ai costi dell’area direzionale delle vendite (stipendi) e ai costi per i problemi nelle vendite tipo l’insolvenza dei clienti oppure la concessione di ribassi e abbuoni e così via. Dopo aver redatto il budget commerciale delle vendite, l’imprenditore può redigere il budget della produzione, che infatti dipende strettamente dal volume delle vendite che si prevede di realizzare nei vari periodi dell’anno. Anche il budget della produzione, come quello delle vendite, viene redatto con riferimento a periodi di tempo infrannuali, di solito con riferimento a ogni singolo mese dell’anno. Il budget della produzione viene articolato infatti per: periodo dell’anno; prodotto o insieme omogeneo di prodotti; centro di responsabilità (reparto produttivo). Il budget della produzione si compone di quattro parti distinte tra loro, cioè: budget delle quantità da produrre; budget del fabbisogno e degli approvvigionamenti di materie dirette; budget della manodopera diretta; budget dei costi industriali. Il budget delle quantità da produrre mira a definire, per ogni periodo di tempo in cui viene suddiviso l’esercizio (di solito, come detto, per ogni mese), la quantità da produrre per ogni prodotto e quindi la quantità da produrre per ogni stabilimento industriale, se l’impresa attua la produzione in più stabilimenti. Per definire quanto è necessario produrre bisogna tenere di conto delle rimanenze di magazzino, infatti la quantità da produrre è uguale alle vendite programmate a cui vanno aggiunte le esistenze iniziali previste a cui vanno tolte le esistenze finali previste. E’ l’imprenditore che decide quante sono le rimanenze di magazzino che desidera avere e sulla base di esse, delle vendite previste (budget commerciale) e delle rimanenze iniziali previste stabilisce quanto deve produrre nel periodo considerato. Un esempio di prospetto dove sono indicati i valori del budget delle quantità da produrre lo abbiamo a pag. 493 e poi anche a pag. 494 del nostro libro. Il budget del fabbisogno e degli approvvigionamenti di materie prime invece mira ad individuare quante materie prime devo comprare con riferimento ad ogni singolo periodo in cui viene suddiviso l’esercizio. Il calcolo viene fatto tenendo conto del fabbisogno, delle rimanenze iniziali di materie prime previste e delle rimanenze finali di materie prime che l’imprenditore desidera avere. La quantità di materie prime che deve essere acquistata infatti si ottiene sommando, per ogni materia prima, i consumi previsti e le rimanenze finali di materia prima desiderate e sottraendo quindi le rimanenze iniziali previste. Uno schema fatto bene che rappresenta come si fa a determinare la quantità di materie prime da acquistare in un certo periodo lo abbiamo a pag. 495 del nostro libro. Il budget della manodopera diretta ha lo scopo di definire per ogni prodotto la quantità di ore di lavoro necessarie per la sua fabbricazione, il costo orario dell’operaio che si occupa della fabbricazione del prodotto e quindi con una semplice moltiplicazione il costo della manodopera diretta necessaria per la produzione del bene che prendo in considerazione. Questo ovviamente va fatto per tutti i beni e sommando tra loro i totali si arriva al costo annuo complessivamente previsto per la manodopera. Tra l’altro questo budget permette anche di stabilire di quanti operai ho bisogno perché una volta stabilito il numero di ore annualmente necessarie per produrre la quantità desiderata di un certo bene, posso sapere quanti operai mi servono semplicemente dividendo il numero di ore necessario per 1820 che è un numero fisso che indica in media quante ore annualmente un operaio lavora in azienda. Infine il budget dei costi industriali riassume semplicemente i valori che abbiamo già trovato nelle altre parti del budget della produzione. Esso si divide infatti in due parti, il budget dei costi variabili industriali e il budget dei costi fissi industriali. Il budget dei costi variabili industriali è mira a determinare il costo totale di un certo prodotto con riferimento a un sottoperiodo dell’anno (di solito, come già detto, ogni mese), comprensivo di materie prime dirette, manodopera diretta, utenze e eventuali lavorazioni esterne. Uno schema che rende bene l’idea lo abbiamo a pag. 449, quello sopra. Quello sotto della stessa pagina invece è il budget dei costi fissi industriali che come si vede vengono suddivisi a seconda che siano strettamente legati all’attività produttiva intesa proprio come trasformazione fisico-tecnica (ammortamenti macchinari, stipendi del personale che dirige i reparti di produzione, etc.) o che siano invece attinenti all’area produttiva ma non strettamente legati alla trasformazione fisico-tecnica dei beni (stipendi della dirigenza dell’area produttiva, stipendi degli addetti alla manutenzione degli impianti, costo dei materiali per le manutenzioni, spese generali dello stabilimento come telefono, acqua, luce, gas, etc.). Volendo poi il budget dei costi fissi e quello dei costi variabili possono essere riassunti in un unico prospetto sintetico di cui abbiamo un esempio a pag. 500. Finora ci siamo occupati dell’area commerciale e produttiva, che sono in realtà le aree più importanti per un’impresa industriale, ma non dobbiamo dimenticare che se vogliamo arrivare a fare il budget economico, finanziario e patrimoniale d’esercizio dobbiamo necessariamente tenere conto anche delle altre aree dell’azienda, come l’area direzionale, quella amministrativa, quella finanziaria, quella di ricerca e sviluppo, quella dei rapporti con il personale e così via. Per ognuna di queste aree deve essere redatto il budget. Sul nostro libro non abbiamo indicazioni precise su come debbano essere fatti i budget delle aree di minore importanza; c’è un paragrafo di una pagina intitolato Budget delle altre aree funzionali dove viene detto in pratica che per ogni area vanno stimate le risorse umane e materiali necessarie con il relativo costo. Nulla di più, quindi ampio spazio alla nostra immaginazione nel definire per ogni area le attrezzature, i costi per il personale, i costi per le utenze e tutto quanto necessario ad arrivare a definire alla fine il costo sostenuto per ogni singola area. Un altro budget importante che deve essere fatto è quello degli investimenti. Infatti la pianificazione dell’attività deve avvenire sia con riferimento al breve periodo, che con riferimento al lungo periodo e la differenza sta proprio nel fatto che nei budget di breve visti finora non sono analizzati gli investimenti in beni durevoli, che invece vengono analizzati nel budget degli investimenti. Come struttura il budget degli investimenti è semplice: si tratta si stabilire, per ognuno degli anni compresi nel piano pluriennale, quali beni strumentali devono essere acquistati o costruiti e quali sono i relativi costi che dovranno essere sostenuti. Ovviamente esiste uno stretto collegamento sia con la programmazione di breve che con il budget finanziario che vedremo tra poco, infatti è dai vari budget di breve delle varie aree dell’impresa che emerge l’eventuale necessità di costruire nuovi impianti o di acquistare nuovi macchinari o di attuare campagne pubblicitarie, etc. mentre d’altra parte è dal budget finanziario che si capisce se si avranno a disposizione le risorse necessarie per far fronte al costo che la costruzione di impianti, l’acquisto di macchinari, la campagna pubblicitaria o quant’altro comporta. Il prospetto del budget degli investimenti lo troviamo a pag. 504, dove troviamo in realtà due prospetti distinti, uno tecnico in cui sono indicate le azioni che vengono intraprese e l’altro finanziario che riporta invece i costi che si dovranno sostenere per porre in essere le azioni programmate. Andiamo ora a vedere il budget finanziario e poi possiamo dire di avere sostanzialmente finito visto che i due che restano, ovvero il budget economico e quello patrimoniale, non sono altro che il riassunto dei valori che abbiamo determinato mano a mano che abbiamo fatto i budget settoriali fin qui analizzati. Prima di tutto va detto che il budget finanziario è quel budget che serve a individuare le variazioni nelle grandezze finanziarie conseguenti alle operazioni che abbiamo previsto di svolgere ed è di particolare importanza perché ci permette di verificare la fattibilità delle operazioni previste dal punto di vista finanziario, tenuto conto che c’è un limite alla possibilità di ricorrere all’indebitamento e che soprattutto un eccessivo indebitamento compromette l’equilibrio economico dell’impresa (eccessivi oneri finanziari pesano in maniera determinante sull’utile d’esercizio). Il budget finanziario si divide in due parti tra loro collegate: il budget delle fonti e degli impieghi, che serve a verificare in linea generale la presenza di un’adeguata copertura finanziaria alle operazioni previste e il budget di cassa che mira a verificare mese dopo mese la disponibilità o meno della necessaria liquidità. Il budget finanziario delle fonti e degli impieghi si presenta come un prospetto in cui compaiono a sinistra le fonti e a destra gli impieghi. Le fonti finanziarie sono il flusso di cassa (cash flow) dato dai ricavi monetari meno i costi monetari (oppure con metodo indiretto, dall’utile d’esercizio meno i ricavi non monetari più i costi non monetari), la vendita di immobilizzazioni, l’accensione di debiti, la riscossione di crediti concessi e gli aumenti di capitale proprio mentre invece gli impieghi sono gli acquisti di immobilizzazioni, i rimborsi di debiti, i crediti concessi e i rimborsi di capitale proprio. Ricordiamo, e questo è importante, che dal budget finanziario delle fonti e degli impieghi evidenziamo l’entità dei debiti verso istituti di credito e di questi debiti dobbiamo tenere conto quando andiamo a fare il budget economico, ovvero il conto economico preventivo, perché comportano di certo degli oneri finanziari di cui dobbiamo tenere conto. Il budget finanziario di cassa invece mira ad individuare la disponibilità o meno di liquidità mese dopo mese, al contrario di quello per fonti e impieghi che faceva riferimento all’intero esercizio. La struttura del budget di cassa è molto semplice: si tratta di costruire una tabella in cui mese dopo mese si indicano le entrate monetarie, ovvero le effettive riscossioni, e le uscite monetarie, ovvero gli effettivi pagamenti e alla fine si fa la somma algebrica e si vede per ogni mese se avremo o meno la necessaria liquidità. Uno schema semplice ma fatto bene del budget di cassa lo abbiamo a pag. 508 del nostro libro. Le imprese di maggiori dimensioni redigono tre budget di cassa separati: uno per le entrate, uno per le uscite e uno che riassume i due precedenti. Da notare che nel prospetto riassuntivo di pag. 510, che riassume i budget delle entrate e delle uscite di una grande impresa: il saldo di cassa minimo necessario indica la quantità di liquidità che deve restare materialmente in cassa per i pagamenti e le operazioni correnti in contanti di poco conto; si parte dal presupposto che il conto corrente bancario sia aperto in deficit di 2180, ma non è detto, noi possiamo anche sostituire quella voce con “c/c bancario attivo” ad esempio, se vogliamo fare il caso di un’impresa che non è sotto con il conto corrente. Ovviamente cambierebbe anche la voce 10, che diventerebbe “Saldo finale attivo di c/c bancario” o qualcosa di simile. Infine, il budget economico e il budget patrimoniale, come già detto, non sono altro che un conto economico e uno stato patrimoniale redatti a preventivo inserendo i valori che derivano dagli altri budget che abbiamo visto finora. Sia il budget economico che quello patrimoniale possono essere redatti seguendo la struttura civilistica, ma anche riclassificandoli secondo il criterio che ci appare più opportuno e che scegliamo noi a nostra discrezione, le informazioni che questi documenti contengono sono infatti destinate a restare all’interno dell’azienda e quindi è la dirigenza che sceglie quale struttura adottare in base alle informazioni che desidera mettere in evidenza. Il consiglio è quello di redigere i due budget secondo la struttura civilistica e poi riclassificarli, se lo si ritiene opportuno, oppure semplicemente lasciarli così come sono. IL BILANCIO E L’ANALISI DI BILANCIO CONCETTI FONDAMENTALI Postulati di bilancio Le regole generali che devono essere seguite nella redazione del bilancio d’esercizio sono chiamate “postulati di bilancio” e sono indicate nel codice civile a partire dall’art. 2423. L’art. 2423 comma I C.C. stabilisce che “Gli amministratori devono redigere il bilancio d’esercizio, costituito dallo Stato Patrimoniale, dal Conto Economico e dalla Nota Integrativa”. L’art. 2423 comma II C.C. stabilisce inoltre che “Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio”. In questo comma compaiono due principi fondamentali, che sono detti “clausole generali dei postulati di bilancio”, e cioè: il postulato della chiarezza, che va inteso come: o obbligo di rispettare gli schemi di bilancio indicati nei successivi articoli del codice civile; o divieto di raggruppamento di voci che possano danneggiare la chiarezza e la comprensibilità del bilancio, le voci possono essere raggruppate solo quando i loro importi sono irrilevanti al fine di rendere più chiara e immediata la lettura del bilancio ma in questo caso bisogna comunque indicare nella nota integrativa i vari importi separati; o divieto di compensi di partite, nel senso che non vanno fatte compensazioni tra valori di bilancio di segno opposto a meno che questo non sia esplicitamente consentito dalla legge; La clausola della rappresentazione veritiera e corretta, che non va intesa come obbligo di riportare i valori in modo oggettivamente e assolutamente preciso, ma semplicemente come l’obbligo di rispettare le disposizioni di legge nel momento in cui si vanno ad effettuare le stime delle varie voci di bilancio. Tra i postulati di bilancio non ci sono però soltanto le clausole generali, ma anche i principi di redazione, cioè: principio della prudenza e dell’iscrizione degli utili realmente conseguiti: devono essere considerate le perdite presunte, mentre non devono essere presi in considerazione gli utili previsti ma non ancora realizzati, per evitare di distribuire degli utili che poi magari non verranno neppure realizzati; principio della continuazione dell’attività aziendale: le valutazioni dei vari elementi del bilancio devono essere compiute partendo dal presupposto che l’attività dell’impresa continui regolarmente oltre la chiusura dell’esercizio; principio della competenza economica: devono essere iscritti in bilancio i costi e i ricavi maturati nel corso dell’esercizio indipendentemente dal momento in cui avverrà il reale pagamento o la reale riscossione del debito o del credito; considerazione dei rischi e delle perdite di competenza dell’esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura dello stesso ma prima dell’approvazione del bilancio; principio della separatezza: i differenti elementi che sommati tra loro portano alla determinazione del valore di ogni voce di bilancio devono essere valutati separatamente e quindi sommati tra loro, per evitare che una valutazione complessiva possa causare la somma di perdite presunte e utili sperati che come sappiamo invece non devono essere considerati; principio della costanza: il criterio seguito per la stima delle diverse voci del bilancio deve restare lo stesso da un anno a un altro, quando esso viene cambiato la motivazione del cambiamento deve essere spiegata nella nota integrativa. Composizione del fascicolo di bilancio, contenuto del bilancio d’esercizio, criteri di valutazione e procedura di approvazione e pubblicazione E’ tutto scritto nella parte del codice civile dedicata al bilancio, cioè la sezione IX del libro del lavoro, artt. 2423 e sgg. RICLASSIFICAZIONE E ANALISI DEL BILANCIO PER INDICI E PER FLUSSI Ho evitato di schematizzarli perché il tempo necessario sarebbe stato enorme e alla fin fine si sarebbe trattato di riscrivere pari pari degli schemi che sono già chiari sul libro e di fornire informazioni aggiuntive che siccome si sono già viste tante volte, sicuramente già ve le siete appuntate per conto vostro. BILANCI STRAORDINARI Caratteristiche generali dei bilanci straordinari I bilanci straordinari sono così definiti perché non vengono fatti con cadenza annuale come quelli ordinari, ma solo in corrispondenza di fatti eccezionali che richiedono la redazione di un bilancio aggiuntivo. I bilanci ordinari sono notevolmente diversi da quelli straordinari, le principali differenze sono: il bilancio ordinario si redige alla fine si ogni esercizio amministrativo al contrario di quello straordinario che si redige nel momento in cui si verificano fatti eccezionali che lo richiedono; il bilancio ordinario è formato come sappiamo da Stato Patrimoniale, Conto Economico e Nota Integrativa mentre il bilancio straordinario è formato solo dallo Stato Patrimoniale; nel bilancio ordinario le varie voci sono valutate seguendo i criteri prudenziali stabiliti dal codice civile all’art. 1426 mentre nel bilancio straordinario le voci sono valutate in modo del tutto diverso, in generale possiamo dire che sono valutate al valore corrente; il bilancio ordinario ha come scopo la determinazione del reddito d’esercizio e del patrimonio di funzionamento mentre il bilancio straordinario ha scopi diversi, in generale ha lo scopo di valutare il valore economico di un’impresa o di una parte di essa; il bilancio ordinario è sempre redatto dagli amministratori al contrario di quello straordinario che può essere redatto anche da soggetti esterni. I principali eventi in corrispondenza dei quali si rende necessaria la redazione in un bilancio straordinario sono: cessione; fusione; scorporazione; scissione; trasformazione; liquidazione. Bilancio straordinario di CESSIONE La cessione consiste nel trasferimento di un’azienda da un soggetto a un altro dietro pagamento di un corrispettivo in denaro (cessione in senso stretto) o di quote o azioni della società acquirente (cessione per apporto). Quindi il pagamento di un’impresa ceduta può avvenire sia semplicemente con versamento in denaro, ma anche ricevendo dalla società acquirente un certo numero di azioni o di quote che varia in funzione del valore economico che viene attribuito all’impresa ceduta. Ovviamente la cessione non interessa soltanto le società di capitali, ma qualunque tipo di impresa sotto forma societaria o di impresa individuale. In ogni caso comunque si ha un’impresa che cessa di esistere e un’altra impresa che nasce o che comunque si espande acquisendo la società venduta. Quindi sia il soggetto giuridico (ovvero quello responsabile legalmente) sia il soggetto economico (ovvero quello che effettivamente prende le decisioni) cambiano nel momento in cui un’impresa viene venduta. La cosa più importante da fare nel momento in cui un’impresa viene ceduta è la valutazione dell’impresa stessa per stabilire quanto deve pagare il compratore o comunque quante azioni deve ricevere il proprietario o i proprietari dell’impresa che viene venduta. Il bilancio straordinario di cessione ha proprio questo scopo: stabilire quant’è il valore dell’impresa che viene venduta. Per determinare il valore di cessione di un’impresa ci sono tre modi: metodo reddituale; metodo patrimoniale; metodo misto. Se si decide di seguire il metodo reddituale, si segue il principio secondo cui l’impresa viene vista come un qualcosa che è capace di rendere un certo capitale (che per semplicità viene considerato costante nel tempo anche se nella realtà delle cose non è mai così) per un numero illimitato, ma in taluni casi anche limitato di anni. Cioè pensiamo all’impresa come a un titolo di credito che dà diritto a una rendita che può essere illimitata ma anche limitata a seconda dei casi (è limitata quando sappiamo già al momento della vendita che dopo un certo numero di anni l’impresa cesserà la sua attività). Le rate della rendita ovviamente non sono altro che gli utili che si prevede che l’impresa possa conseguire negli anni successivi a quello della vendita. Quindi per valutare il valore dell’impresa, viene fatto il valore attuale della rendita le cui rate sono costituite dagli utili previsti per gli anni successivi. Come si fa a stabilire quanto sono gli utili previsti per gli anni successivi? Si calcola prima di tutto il reddito medio normale, cioè il reddito medio ottenuto dall’impresa negli ultimi 3 o 5 anni, operando però sui vari redditi le seguenti modifiche: i componenti di reddito straordinari non devono essere presi in considerazione; si deve tenere di conto dell’inflazione, quindi i vari redditi che concorrono alla formazione della media devono essere prima rivalutati tenendo conto dell’inflazione; l’opera direzionale dell’imprenditore, siccome verrà a mancare una volta ceduta l’impresa, deve essere quantificata e sottratta dal reddito. Una volta fatta la media tra i redditi così modificati, è necessario aggiungere una percentuale da calcolarsi sul reddito medio normale partendo dal presupposto che i redditi negli anni successivi saranno superiori a quelli ottenuti negli anni precedenti, trovando così il reddito medio prospettico. A questo punto, se si decide di calcolare il valore attuale considerando la durata dell’impresa come illimitata, il reddito medio prospettico dovrà essere diviso per il tasso di attualizzazione (non in percentuale, ma in valore assoluto, quindi se il tasso di attualizzazione è del 6% il numero che dobbiamo mettere al denominatore è 0,06). Nel caso in cui si presuma la durata dell’impresa come limitata, dovremo fare invece il valore attuale della rendita limitata usando la formula che conosciamo per aver fatto matematica finanziaria. Il risultato di questa attualizzazione ci dà il valore di cessione dell’impresa determinato con il metodo del reddito. Se usiamo il metodo patrimoniale, consideriamo invece il valore di cessione dell’impresa uguale al patrimonio netto dell’impresa stessa previe opportune rettifiche. Dobbiamo quindi prendere il patrimonio netto iniziale e attuare prima di tutto le seguenti revisioni: togliere i crediti inesigibili e una percentuale di svalutazione dei crediti esigibili per rischi generici su crediti; calcolare la quota di TFR maturata dall’inizio dell’esercizio al momento della cessione a aggiungerla al fondo per TFR rilevato nell’ultimo bilancio ordinario; rilevare i ratei e i risconti passivi maturati. A questo punto siamo arrivati al patrimonio netto revisionato. Il patrimonio netto revisionato deve essere sottoposto ad alcune rettifiche, cioè: le immobilizzazioni devono essere valutate al costo di sostituzione; le rimanenze di magazzino devono essere valutate al prezzo di presumibile realizzo; i debiti devono essere valutati al costo di estinzione. L’esecuzione di queste rettifiche comporta ovviamente variazioni in aumento o diminuzione del patrimonio netto revisionato in quanto ad esempio se le immobilizzazioni valutate al costo di sostituzione hanno un valore superiore al valore contabile, c’è un aumento dell’attivo e di conseguenza anche del patrimonio netto. D’altra parte, ad esempio, i debiti registrati contabilmente al valore nominale verranno certamente ad avere un costo superiore se si considera il costo di estinzione (questo a causa degli interessi che su di essi dovranno essere pagati) e quindi aumenta il passivo e diminuisce il patrimonio netto. Una volta eseguite sul patrimonio netto revisionato le rettifiche elencate sopra, arriviamo al patrimonio netto rettificato che è esattamente il prezzo di cessione. Infine, il metodo misto prevede la fusione del metodo del reddito e del metodo del patrimonio. Ciò significa che dobbiamo determinare prima di tutto il patrimonio netto rettificato seguendo il procedimento visto sopra e poi dobbiamo aggiungere il soprareddito. Per trovare il soprareddito, dobbiamo prima di tutto trovare il reddito medio di settore, che si trova moltiplicando il patrimonio netto rettificato per il tasso di rendimento medio del capitale investito nel settore dove opera l’azienda. Quindi dobbiamo trovare il reddito medio prospettico seguendo il procedimento che abbiamo visto parlando del metodo reddituale. A questo punto togliamo dal reddito medio prospettico il reddito medio di settore e troviamo l’avviamento. Trovato l’avviamento dobbiamo attualizzarlo, cioè se pensiamo che l’impresa abbia durata illimitata dobbiamo dividere l’avviamento per il tasso di attualizzazione mentre se pensiamo che abbia durata limitata dobbiamo usare la formula per il valore attuale delle rendite che conosciamo per aver fatto matematica finanziaria. Il risultato dell’attualizzazione è appunto il soprareddito che va aggiunto al patrimonio netto revisionato per arrivare a determinare il valore di cessione dell’impresa. Al momento della cessione però non c’è solo da trovare il prezzo di cessione, ma va anche fatto il bilancio straordinario di cessione, cioè lo Stato Patrimoniale revisionato, ovvero lo Stato Patrimoniale tenendo conto di tutte le rettifiche e di tutte le revisioni che abbiamo già trovato parlando del metodo patrimoniale per trovare il valore dell’impresa. Le uniche voci del tutto nuove del patrimonio di cessione sono l’avviamento, che va nell’attivo e il prezzo di cessione che va nel passivo. Il bilancio straordinario di FUSIONE La fusione è un caso di cessazione aziendale relativa (perché in realtà l’impresa non cessa di esistere) attraverso cui due o più aziende stabiliscono di assumere il medesimo soggetto giuridico (cioè scompaiono i diversi soggetti giuridici delle varie imprese e se ne crea uno solo) e uniscono le proprie potenzialità produttive con l’intento di migliorare la redditività globale. Quindi in sostanza le imprese che si fondono spariscono giuridicamente, cioè cessano di essere imprese autonome e diventano invece un’unica impresa con un unico soggetto giuridico. A proposito della fusione, va detto che essa può essere: per incorporazione, quando un’impresa si fonde con una già esistente e si ha la perdita di un solo soggetto giuridico, in quando l’impresa che incorpora l’altra continua ad esistere esattamente con lo stesso soggetto giuridico di prima; per unione, nel senso che scompaiono le imprese che si fondono e se ne crea una del tutto nuova che è il risultato dell’unione delle varie imprese che si sono fuse. Inoltre, possiamo distinguere tra: fusioni orizzontali, quando le imprese che si fondono sono dello stesso settore ed attuano la stessa attività all’interno di quel settore, quindi la fusione mira ad eliminare la concorrenza e realizzare sinergie di costi; fusioni verticali, quando le due imprese appartengono allo stesso settore ma si collocano in due fasi successive del processo produttivo, poste l’una di seguito all’altra. Si tratta di solito di imprese che erano in precedenza l’una cliente dell’altra e che hanno deciso di fondersi per ridurre i costi di approvvigionamento e di distribuzione. Le principali motivazioni per cui due o più imprese possono decidere di fondersi sono: riduzione della concorrenza; possibilità di unire le conoscenze tecnologiche in modo da creare prodotti sempre più sofisticati in modo da guadagnare nuovi settori del mercato; integrazione dei cicli produttivi; possibilità di offrire maggiori garanzie ai finanziatori; in generale, ridurre i costi o aumentare i ricavi per migliorare la redditività complessiva. Al momento della fusione il primo passo da fare a livello contabile è la predisposizione, per ogni impresa coinvolta, del bilancio straordinario di fusione, che ha una grandissima importanza perché da esso dipende l’importanza che le varie imprese che partecipano alla fusione avranno dopo che essa sarà avvenuta. Proprio per l’importanza che il bilancio straordinario di fusione assume nei rapporti di forza della nascente impresa, spesso la valutazione delle varie imprese è affidata a dei professionisti che godono della fiducia di tutte le imprese interessate. In generale, si seguono i seguenti criteri: le immobilizzazioni materiali sono valutate al netto degli ammortamenti; le immobilizzazioni immateriali sono valutate al netto degli ammortamenti e solo nel caso in cui la loro esistenza possa comportare qualche vantaggio per l’impresa risultato della fusione (ad esempio, niente costi di impianto); devono essere considerati i ratei e i risconti maturati dall’ultimo bilancio al momento della fusione; i crediti devono essere valutati al valore di realizzo (togliendo quindi quelli inesigibili e svalutando gli altri in misura più o meno accentuata a seconda dei casi); i debiti devono essere valutati al costo di estinzione. Una volta trovato il valore economico di ogni impresa, esso viene usato: nel caso di fusione per incorporazione, per determinare l’aumento di capitale della società che incorpora le altre e per determinare anche quante azioni della società incorporante devono essere date ai soci delle società incorporate; nel caso di fusione per unione, per stabilire quante azioni della nuova società dovranno essere date ai soci delle varie società che hanno preso parte alla fusione. I calcoli relativi sono pratici e si faranno al momento opportuno. Il bilancio straordinario di SCORPORAZIONE La scorporazione è un’operazione in cui una società conferisce un ramo della sua attività in una nuova società oppure in una società pre-esistente ottenendo in cambio le azioni della società scorporata. Quindi nel caso di creazione di una nuova società, è vero che si crea una società distinta, ma è vero anche che questa società è tutta di proprietà della scorporante, la quale possiede tutte le azioni della nuova società che è nata in seguito allo scorporo. Nel caso di conferimento del ramo scorporato in una società pre-esistente invece accade che la società pre-esistente che riceve il ramo d’impresa scorporato ha un aumento di capitale e le nuove azioni che vengono emesse in conseguenza di questo aumento di capitale sono tutte consegnate alla società scorporante, che quindi diviene azionista della società che ha ricevuto il ramo d’azienda scorporato. Quindi la società scorporante non perde il controllo sul ramo d’impresa scorporato, che in un modo o nell’altro resta sempre di sua proprietà, anche se il soggetto giuridico cambia in quanto il ramo d’impresa va a finire o in una nuova società o comunque in una società diversa dalla scorporante. Dopo la scorporazione, il valore economico della società scorporante può essere maggiore, minore o uguale a quello antecedente alla scorporazione. Nel caso in cui i due valori siano diversi, l’impresa scorporante registrerà una plusvalenza o una minusvalenza di scorporazione. In corrispondenza della scorporazione, per determinare appunto se vi è stata una plusvalenza o una minusvalenza, è necessario eseguire il bilancio straordinario, ovvero semplicemente lo Stato patrimoniale a valori correnti dei vari rami d’impresa scorporati, rilevando le differenze tra il valore economico e il valore contabile delle componenti del patrimonio che sono state sottratte dal patrimonio della scorporante per andare a formare quello della scorporata. I criteri da usare per redigere lo stato patrimoniale a valori correnti sono quelli già visti, quindi in generale: immobilizzazioni valutate al valore di sostituzione; rimanenze di magazzino valutate al valore di presumibile realizzo; crediti valutati al valore di presumibile realizzo, quindi diminuiti degli stralci e delle svalutazioni per rischi su crediti; debiti valutati al costo di estinzione; rilevata la quota di TFR, i ratei e i risconti maturati dall’ultimo bilancio alla data di scorporazione. Il bilancio straordinario di SCISSIONE La scissione è l’operazione con cui un’impresa conferisce uno o più rami della sua attività in altre imprese che vengono create da nuovo o che sono già esistenti. Anche questa quindi è un’operazione di ristrutturazione delle grandi società che serve per razionalizzare la gestione realizzando maggiore efficienza e redditività. La fusione può essere: totale, se l’impresa che attua la scissione cessa completamente di esistere e si creano diverse imprese distinte che nel complesso hanno il patrimonio che aveva la società che ha attuato la scissione; parziale, se la società che attua la scissione continua ad esistere anche se ridimensionata in quanto non tutti i rami di attività sono stati conferiti in nuove società, ma solo una parte di essi. Nella sostanza, la scissione assomiglia alla scorporazione, ma ci sono delle importanti differenze: nella scorporazione, la società scorporante ha il possesso delle azioni delle nuove società scorporate che accolgono i vari rami di attività scorporati, mentre invece nella scissione le azioni delle nuove società che si formano (o le azioni derivanti dagli aumenti di capitale delle società pre-esistenti che accolgono un ramo dell’impresa che si scinde) sono conferite direttamente ai soci della società che attua la scissione. Questo perché mentre nella scorporazione sicuramente la società scorporante continua ad esistere, nella scissione la società scorporante può anche sparire del tutto (scissione completa) e quindi non sarebbe in grado di ricevere le azioni delle varie imprese che si originano dalla scissione. Nella scorporazione, la società scorporante riceve le azioni delle società scorporate, quindi il suo patrimonio si modifica ma rimane inalterato nel suo valore complessivo (quelle che prima erano immobilizzazioni, crediti, etc. diventano partecipazioni, ma il totale rimane lo stesso) mentre invece nella scissione la società che attua la scissione perde una parte del suo patrimonio che va a finire in delle società diverse, quindi subisce una riduzione o un totale annullamento (scissione totale) del suo patrimonio. La realizzazione della scissione prevede la creazione e la consegna presso la camera di commercio di tutta una serie di atti per cui si rimanda al codice civile. Tra questi atti c’è lo Stato Patrimoniale straordinario redatto secondo le regole che si seguono per la compilazione dello stato patrimoniale ordinario. Il bilancio straordinario di TRASFORMAZIONE Si ha una trasformazione aziendale quando un’impresa cambia forma giuridica. Non sono considerate però trasformazioni: il passaggio da impresa individuale a società di persone; il passaggio da società di persone a impresa individuale. Sono considerate invece trasformazioni: il passaggio da un tipo di società di persone a un altro tipo di società di persone; il passaggio da un tipo di società di capitali a un altro tipo di società di capitali; il passaggio da un tipo di società di persone a un tipo di società di capitali; il passaggio da un tipo di società di capitali a un tipo di società di persone. Il bilancio straordinario di trasformazione al contrario di quelli precedenti deve essere redatto seguendo i principi del bilancio ordinario, anche se possono essere modificati i criteri di valutazione delle rimanenze e in generale di tutti gli elementi patrimoniali e di reddito soggetti a stima. La trasformazione quindi costituisce una valida occasione per rivedere e modificare i criteri di valutazione, cosa che come sappiamo non può essere fatta con un bilancio ordinario visto che come principio generale i criteri di valutazione non devono essere modificati da un esercizio all’altro. Nel caso in cui una società passi da società di persone a società di capitali, è previsto che la valutazione del patrimonio venga fatta da un perito nominato dal tribunale. In questo caso quindi, possono verificarsi due casi: le valutazioni del perito sono maggiori di quelle che risultano dalla contabilità, quindi il perito stabilisce che il patrimonio effettivo dell’impresa è superiore a quello che risulta dalla contabilità e quindi l’impresa ha una plusvalenza da trasformazione e può rivalutare i vari componenti patrimoniali fino a raggiungere la valutazione data dal perito; le valutazioni del perito sono inferiori a quelle che risultano dalla contabilità, in questo caso l’impresa ha una minusvalenza da trasformazione ed è obbligata a svalutare il proprio patrimonio fino a raggiungere i limiti indicati dalla stima del perito. Generalmente comunque i valori che risultano dalla contabilità sono inferiori a quelli stabiliti dal perito, quindi la società che attua una trasformazione ha di solito una plusvalenza. Per quanto riguarda le procedure, nessuna procedura particolare è prevista nel caso di passaggio da società di capitali a società di persone, mentre è prevista una procedura precisa per il passaggio da società di persone a società di capitali, cioè: delibera di trasformazione, che deve essere eseguita dai soci all’unanimità; relazione di stima di un esperto nominato dal tribunale; presentazione della delibera al registro delle imprese entro 30 giorni dalla sua attuazione; assegnazione ai soci delle azioni o delle quote della società trasformata mantenendo invariati i rapporti di forza. Il bilancio straordinario di liquidazione L’operazione di liquidazione consiste nella totale cessazione dell’attività d’impresa. Si ha quindi la vendita delle immobilizzazioni, la riscossione dei crediti e con i proventi realizzati il pagamento dei debiti contratti. L’effetto quindi è del tutto equivalente a quello della cessione, anche nella cessione infatti il cessionario di fatto terminava l’attività d’impresa, con la differenza che in quel caso essa veniva prelevata da un altro soggetto mentre nel caso della liquidazione l’attività cessa completamente. Quando è possibile, viene sempre preferita la cessione alla liquidazione semplicemente perché il patrimonio netto di cessione risente positivamente dell’influenza dell’avviamento e quindi il valore che si percepisce cedendo l’impresa nel suo complesso è in genere maggiore rispetto al valore che si percepisce vendendo le singole attività patrimoniali singolarmente. L’impresa quindi viene liquidata solo quando sia impossibile trovare un acquirente a causa delle cattive condizioni in cui versa l’impresa e degli alti costi che l’acquirente dovrebbe sostenere per la ristrutturazione. Le fasi della liquidazione sono: redazione del conto della gestione, ovvero del bilancio relativo al periodo che va dalla chiusura dell’ultimo esercizio fino alla liquidazione, che è importante per l’accertamento degli eventuali utili conseguiti ai fini fiscali. apertura della liquidazione, in cui si manifesta la volontà di chiudere l’azienda accertando le motivazioni che stanno all’origine della decisione e si nominano i liquidatori con lo scopo di redigere l’inventario iniziale; gestione della liquidazione, in cui si vendono i beni dell’attivo e con quello che si ricava si saldano i debiti; chiusura della liquidazione, con l’accertamento di ciò che è rimasto e la distribuzione ai soci; redazione del bilancio finale di liquidazione. L’inventario di liquidazione è lo stato patrimoniale redatto a valori correnti, cioè l’attivo al valore di presumibile realizzo e il passivo al costo di estinzione. Si trova così lo stato patrimoniale di estinzione che è diverso dallo stato patrimoniale di funzionamento che viene redatto nell’ambito della redazione del conto della gestione. In particolare potremmo dire che per trovare lo stato patrimoniale di estinzione, si parte da quello di funzionamento redatto nell’ambito del conto della gestione e si apportano le seguenti modifiche: gli elementi dell’attivo e del passivo non monetari, a cui non corrisponde cioè un pagamento o una riscossione, vengono eliminati; le altre voci patrimoniali, quelle cioè a cui corrisponderà un pagamento o una riscossione, sono indicate al valore di realizzo (attività) o di estinzione (passività); devono essere aggiunte nuove voci come il Fondo per le spese di liquidazione che raccoglie tutti gli oneri che l’impresa deve sostenere per la liquidazione. A proposito del bilancio finale di liquidazione, esso si compone di: Stato Patrimoniale, dove nell’attivo troviamo il denaro in cassa, i crediti verso le banche per i depositi in conto corrente e le eventuali immobilizzazioni che non si è riusciti a vendere mentre nel passivo troviamo i debiti verso i liquidatori e il patrimonio netto finale di liquidazione; Conto economico, in cui tra i costi troviamo le rimanenze iniziali di magazzino, le eventuali minusvalenze da alienazione, le eventuali sopravvenienze passive (ad esempio crediti non riscossi), i costi per servizi, gli oneri diversi di liquidazione e soprattutto i compensi per i liquidatori mentre invece nell’attivo troviamo i ricavi di vendita e le eventuali plusvalenze da alienazione e sopravvenienze attive, oltre a eventuali interessi attivi riscossi su crediti; Il piano di riparto, che evidenzia la distribuzione ai soci degli eventuali fondi rimasti dopo la liquidazione dell’impresa; La relazione dei liquidatori, in cui vengono indicate le procedure seguite per la liquidazione e tutte le informazioni ritenute di particolare interesse. Quando la liquidazione dura a lungo e interessa diversi esercizi, alla fine di ogni esercizio i liquidatori provvederanno a redigere lo stato patrimoniale e il conto economico evidenziando così le variazioni intervenute nel patrimonio in conseguenza della liquidazione e i costi e i ricavi derivanti dall’esecuzione delle operazioni connesse alla liquidazione (vendita delle immobilizzazioni, riscossione dei crediti, pagamento dei debiti e così via). ASPETTO FISCALE E’ assolutamente IMPOSSIBILE imparare a memoria tutti i criteri di valutazione del reddito e del patrimonio ai fini fiscali. Semplicemente, si tratta di prendere il codice e di andare al TUIR, una delle leggi collegate della sezione tributaria e lì nella parte sul reddito d’impresa si trovano le valutazioni. Certamente è una parte da evitare, ma se non si potesse, l’unica cosa da fare è mettere mano al codice. Qualunque altro mezzo sarebbe assurdo anche solo pensarlo. ECONOMIA DELLE AZIENDE DI EROGAZIONE LE AZIENDE DI EROGAZIONE Classificazione delle aziende Le aziende possono essere suddivise a seconda del loro scopo in: aziende di produzione, ovvero le aziende che perseguono la realizzazione del profitto (obiettivo predominante) attraverso il soddisfacimento dei bisogni umani (strumento attraverso cui realizzare il vero obiettivo); aziende di erogazione, ovvero le aziende che perseguono il soddisfacimento dei bisogni umani attraverso il reperimento e il successivo impiego delle risorse necessarie. Economicamente, esse non perseguono il guadagno, ma il pareggio di bilancio, per questo si dice che non hanno scopo di lucro; aziende composte, ovvero le aziende in cui si perseguono allo stesso tempo sia l’obiettivo di soddisfare i bisogni umani (che è predominante) sia quello di perseguire un utile (un esempio è costituito dagli enti pubblici). Un caso a parte sono gli enti non profit, che operano in quei settori che non interessano alle aziende di produzione in quanto non remunerativi e che non interessano neppure allo Stato nella più ampia accezione del termine per mancanza di fondi e risorse oppure per scelta. I fondi che consentono a questi enti di sopravvivere raramente provengono dai soggetti che fruiscono dei beni o dei servizi offerti dall’ente e comunque i compensi richiesti sarebbero largamente insufficienti a coprire i costi. Per questo motivo i principali finanziamenti giungono dallo Stato o dai privati cittadini che condividendo le finalità dell’ente decidono di finanziarlo. La principale differenza che c’è tra gli enti non profit e le imprese di erogazione sta nel fatto che nelle imprese di erogazione le risorse raccolte vengono utilizzate per soddisfare i bisogni dei soci dell’impresa mentre negli enti non profit di solito sono soggetti esterni all’ente a trarre i maggiori vantaggi dalla sua attività. Le aziende di erogazione possono essere ulteriormente classificate in base al loro soggetto giuridico in: aziende pubbliche, ovvero appartenenti a enti pubblici territoriali o istituzionali; aziende private, ovvero aziende familiari o associazioni private. Un ulteriore classificazione può essere fatta guardando invece alle modalità di reperimento delle risorse necessarie allo svolgimento dell’attività. A tale proposito distinguiamo: corporazioni, costituite dall’insieme di più soggetti che hanno gli stessi interessi e che dopo aver determinato l’entità delle risorse necessarie per lo svolgimento dell’attività provvedono ad apportare i fondi necessari attraverso versamenti che possono essere volontari ma anche obbligatori; fondazioni, in cui si ha un insieme di soggetti che decidono di creare la fondazione apportando un certo patrimonio e poi, sulle basi dei frutti presunti di questo patrimonio apportato, fissano gli obiettivi che possono essere raggiunti dalla fondazione. La differenza quindi è sostanziale: nelle corporazioni prima vengono fissati gli obiettivi e in seguito vengono apportati i mezzi monetari necessari attraverso i versamenti dei soci, nelle fondazioni al contrario prima vengono apportati i capitali e poi sulla base dei capitali raccolti si valuta quali possono essere gli obiettivi raggiungibili. L’aspetto patrimoniale della gestione Come sappiamo, il patrimonio è l’insieme dei beni e delle fonti di finanziamento che rendono possibile lo svolgimento dell’attività dell’impresa. Nelle aziende di erogazione, l’attivo dello stato patrimoniale si compone delle seguenti voci: BENI DA REDDITO, ovvero le immobilizzazioni materiali che sono in grado di produrre delle entrate monetarie, ad esempio gli immobili concessi in affitto oppure i terreni da cui si ricavano delle rendite. Questi beni, se sono stati acquistati, vengono valutati al valore contabile (cioè al costo d’acquisto aumentato degli oneri accessori d’acquisto diminuito degli ammortamenti) mentre se sono stati ricevuti in donazione o in eredità vengono valutati al valore corrente d’acquisto oppure al valore attuale della rendita che sono in grado di assicurare; BENI DI USO DUREVOLE, sono le immobilizzazioni materiali destinate ad essere utilizzate dall’azienda per lo svolgimento della sua attività e non per trarre delle rendite. Sono valutati come i beni da reddito; PARTECIPAZIONI, ovvero quote di altre imprese di proprietà dell’azienda di erogazione. Sono valutate al costo d’acquisizione oppure in proporzione al patrimonio netto dichiarato dall’impresa in cui si ha la partecipazione nell’ultimo bilancio ordinario; CREDITI DI FINANZIAMENTO, ovvero crediti concessi a lungo, mutui attivi. Sono valutati al valore nominale residuo, ovvero al valore nominale diminuito delle quote di finanziamento che sono state già rimborsate; BENI DI CONSUMO IMMEDIATO, ovvero i beni acquistati dall’azienda di erogazione e destinati ad essere utilizzati entro breve termine. Sono valutati al costo d’acquisto o al prezzo di mercato corrente; RESIDUI ATTIVI, ovvero i crediti verso terzi esigibili a breve. Sono valutati al valore di presumibile realizzo; RATEI E RISCONTI, sappiamo cosa sono e come si determinano, qui non ci sono novità; ALTRE ATTIVITA’, costituite dal valore attuale delle rendite originate dai beni da reddito e dal valore attuale dei diritti di usufrutto concessi. Il passivo dello Stato Patrimoniale si compone invece delle seguenti voci: DEBITI DI FINANZIAMENTO, valutati al valore nominale residuo come i crediti di finanziamento; RESIDUI PASSIVI, cioè i debiti a breve, valutati al valore nominale; FONDI PER RISCHI E ONERI, determinati in percentuale sui crediti a breve; FONDO PER TFR, tutto uguale alle imprese di produzione; RATEI E RISCONTI PASSIVI, tutto uguale; ALTRE PASSIVITA’, costituite dal valore attuale dei fitti e delle rendite da corrispondere e dal valore attuale dei diritti di usufrutto ottenuti da terzi. Se l’attivo è maggiore del passivo, si mette nelle passività la voce “Patrimonio Netto”, esattamente come nelle imprese di produzione e si dice che si ha un AVANZO PATRIMONIALE. Al contrario, se il passivo è maggiore dell’attivo, si mette nelle attività la voce DEFICIT PATRIMONIALE, che indica che l’impresa ha avuto un DISAVANZO PATRIMONIALE. Lo stato patrimoniale consuntivo, composto dalle voci che abbiamo visto, è il risultato ovviamente di una serie di operazioni che sono avvenute durante l’anno e che lo hanno modificato. Queste variazioni che sono intervenute nello stato patrimoniale sono dette: variazioni elementari, se non hanno comportato nessuna variazione nel patrimonio netto (ad esempio se compro un fabbricato l’attivo allo stesso tempo mi aumenta del valore del fabbricato e mi diminuisce la disponibilità in cassa di un valore equivalente, quindi non cambia nulla a livello di patrimonio netto); variazioni nette, se hanno comportato appunto una variazione nel patrimonio netto (pensiamo al pagamento degli interessi, delle retribuzioni, delle rendite, delle imposte, che sono tutti eventi che fanno diminuire le disponibilità di cassa dell’attivo senza che vi sia nessun aumento di uguale importo, quindi si ha una diminuzione del patrimonio netto). I fatti di gestione, proprio in base al fatto che comportino o meno delle variazioni nel patrimonio netto, sono detti: permutativi, quando non comportano nessuna variazione in quanto originano due variazioni di segno opposto e di uguale ammontare; modificativi, quando comportano una variazione nel patrimonio netto in quanto si ha un’unica variazione di segno positivo o negativo; misti, quando il fatto di gestione comporta il generarsi di due variazioni, una attiva e una passiva che non hanno però uguale importo, dal che deriva una modificazione attiva o passiva del patrimonio netto. La somma algebrica di tutte le variazioni attive e passive del patrimonio netto che sono avvenute durante un esercizio ci dà il valore di: avanzo patrimoniale, se le variazioni attive del patrimonio netto sono superiori alle variazioni passive; disavanzo patrimoniale in caso contrario. L’avanzo o il disavanzo patrimoniale può essere trovato anche con procedimento sintetico facendo la differenza tra il patrimonio netto iniziale e il patrimonio netto finale. Aspetto finanziario L’aspetto finanziario della gestione riguarda le entrate monetarie conseguite per il finanziamento dell’attività e le uscite monetarie necessarie per la vita dell’azienda e per il raggiungimento dei suoi scopi. Si tratta quindi di entrate e uscite destinate ad avvenire realmente, quindi di veri e propri incassi e riscossioni, senza tenere di conto invece dei fatti che non comportano entrate e uscite monetarie come gli ammortamenti, gli accantonamenti, etc. In base all’aspetto finanziario della gestione, i fatti di gestione sono classificati in: fatti effettivi; fatti per movimento di capitali; fatti per partite di giro. I fatti effettivi, cioè le entrate e le uscite monetarie definite come effettive, sono: le entrate e uscite monetarie ordinarie modificative, ovvero tutti quei fatti che danno origine a entrate e uscite di denaro che rientrano nel normale svolgimento dell’attività dell’azienda e che causano variazioni del patrimonio netto (per questo sono chiamate modificative, vedi sopra per maggiori dettagli). Alcuni esempi sono il pagamento e la riscossione di fitti e rendite, le spese per il personale, le spese per le utenze, gli interessi e così via; le entrate e uscite monetarie straordinarie permutative destinate all’acquisto di beni di uso durevole (quindi di immobilizzazioni materiali destinate ad essere utilizzate dall’azienda per il raggiungimento dei suoi scopi e non per trarne una rendita). I fatti per movimento di capitali invece sono: l’accensione, l’estinzione, il parziale rimborso e la parziale riscossione di mutui attivi e passivi; l’acquisto o la vendita di beni da reddito. I fatti per partite di giro sono le entrate e le uscite monetarie relative ad operazioni compiute per conto di terzi che non causano di fatto alcuna reale modificazione nella situazione economica, finanziaria e patrimoniale dell’azienda. Pensiamo ad esempio ai contributi previdenziali e alle imposte sul reddito sottratte dalle retribuzioni (rendita, in quanto l’azienda ha un minor costo) ma poi versate agli istituti previdenziali e all’Erario (spesa di importo esattamente uguale alla rendita). Un altro esempio può essere la percezione di interessi su titoli di credito depositati da terzi in cauzione e al successivo versamento degli stessi ai proprietari dei titoli. La somma algebrica di tutte le entrate e uscite monetarie di competenza di un certo esercizio ci dà come risultato l’AVANZO FINANZIARIO (oppure ovviamente se le uscite sono maggiori delle entrate il DISAVANZO FINANZIARIO). L’avanzo o il disavanzo finanziario però, come detto, non necessariamente rispecchiano le reali variazioni del fondo di cassa, questo perché: sicuramente nell’anno precedente ci saranno state entrate e uscite monetarie con competenza nell’anno precedente (quindi non comprese nell’avanzo o disavanzo dell’anno in corso) ma con manifestazione finanziaria nell’anno in corso (cioè realmente pagate e riscosse nell’anno in corso), da cui derivano variazioni di cassa che non hanno nessun riscontro nella situazione finanziaria di competenza dell’anno in corso; altrettanto sicuramente ci saranno state nell’anno in corso delle entrate e uscite monetarie che non hanno ancora avuto manifestazione finanziaria, da cui deriva che esse hanno influito nella determinazione del risultato finanziario di competenza ma non hanno trovato riscontro nelle variazioni di cassa. Quindi a fine anno viene trovato non solo il risultato finanziario di competenza (relativo cioè alle entrate e uscite monetarie di competenza), ma anche il risultato finanziario di cassa (relativo cioè alle variazioni realmente subite dal fondo cassa per effetto di pagamenti e riscossioni). Il risultato finanziario di cassa può essere trovato sommando tra loro: entrate e uscite monetarie di competenza dell’esercizio precedente con manifestazione finanziaria nell’esercizio in corso; entrate e uscite monetarie di competenza dell’anno che hanno avuto manifestazione finanziaria nell’anno. A questo punto possiamo trovare anche le variazioni dei residui attivo e passivo dello stato patrimoniale (cioè le variazioni nei crediti e debiti a breve). In particolare, il nuovo valore dei residui attivi si trova prendendo il valore relativo all’esercizio precedente, sottraendo i crediti di competenza dell’esercizio precedente che sono stati riscossi quest’anno e sommando i crediti di competenza di quest’anno che non sono stati ancora riscossi. D’altra parte, il nuovo valore dei residui passivi, si trova partendo dal valore relativo all’anno precedente, sottraendo i debiti di competenza dell’esercizio precedente che sono stati pagati quest’anno e sommando i debiti di competenza di quest’anno che non sono stati ancora pagati. Infine, facendo la somma algebrica delle disponibilità di cassa e dei residui attivo e passivo troviamo l’avanzo o il disavanzo di amministrazione. Questo stesso valore, può essere trovato anche sommando al fondo di amministrazione iniziale il risultato finanziario di competenza. Aspetto economico L’aspetto economico della gestione va ad individuare i proventi e gli oneri di competenza dell’esercizio a cui il bilancio si riferisce. I proventi vengono classificati in: patrimoniali, quando derivano dal possesso di beni da reddito iscritti quindi nell’attivo dello stato patrimoniale oppure da altre forme di investimento presenti nell’attivo come le partecipazioni, i rimborsi dei crediti di finanziamento, gli interessi attivi bancari e così via; non patrimoniali, sono i proventi che derivano da: o prestazione di lavoro presso terzi; o versamento da parte dei soci delle quote sociali; o entrate derivanti dalla partecipazione agli utili di imprese in cui l’azienda di erogazione ha delle partecipazioni. Gli oneri vengono classificati in: patrimoniali, quando sono sostenuti per il mantenimento del patrimonio dell’azienda, ad esempio le manutenzioni, riparazioni, imposte e tasse, spese di assicurazione e così via; amministrativi, quando sono sostenuti per il normale svolgimento dell’attività dell’impresa, ma non sono direttamente collegabili allo scopo dell’impresa, ad esempio le utenze, le spese per il personale, le spese di cancelleria, gli affitti, gli ammortamenti dei beni a uso durevole (cioè quelli che non danno reddito ma sono utilizzati direttamente dall’azienda per lo svolgimento dell’attività) e così via; per le finalità dell’ente, che ovviamente cambiano da azienda a azienda a seconda dell’attività a cui essa si dedica; perdite derivanti da imprese in cui l’azienda di erogazione ha delle partecipazioni. A seconda che abbiano o meno manifestazione monetaria, gli oneri e i proventi possono essere classificati anche (rispettivamente) in monetari e in natura. La differenza tra i proventi e gli oneri da origine al risultato economico d’esercizio, ovvero a quello che in un’impresa di produzione è semplicemente l’utile o la perdita. Attività di previsione e preventivi Così come nelle aziende di produzione, anche nelle aziende di erogazione possiamo avere il budget, ovvero la redazione del conto economico, dello stato patrimoniale e della situazione finanziaria a preventivo. In questo tipo di imprese anzi i preventivi hanno un’importanza ancora maggiore in quanto essi costituiscono un vero e proprio vincolo a cui l’amministratore deve strettamente attenersi non potendo ordinare spese che non siano state previste a preventivo. Si tratta in sostanza di redigere questi documenti nella stessa forma in cui essi sono redatti a consuntivo con la differenza concettuale che quelli a consuntivo ospitano valori storici mentre questi ospitano valori presunti. Da notare soltanto che il preventivo finanziario deve essere fatto sia per le entrate e uscite di competenza, sia per le variazioni effettive di cassa. La redazione del preventivo finanziario di competenza ci permette anche di trovare ovviamente il risultato amministrativo previsto, in quando è sufficiente prendere l’avanzo o il disavanzo di amministrazione dell’anno precedente, aggiungere i proventi monetari di competenza e togliere le spese monetarie di competenza. Modalità di rilevazione e redazione del bilancio Nelle aziende di erogazione difficilmente la contabilità viene tenuta a partita doppia. Molto più spesso viene tenuta con scritture elementari, tenute in forma libera, che evidenziano le variazioni intervenute nelle componenti patrimoniali, economiche e finanziarie in conseguenza delle diverse operazioni che hanno avuto luogo durante l’anno. Alla fine dell’esercizio, le informazioni raccolte con le scritture elementari devono essere come abbiamo visto sintetizzate in dei rendiconti che evidenzino l’aspetto economico, patrimoniale e soprattutto finanziario della gestione. E’ richiesto agli amministratori anche il “conto morale” che consiste in una relazione in cui vengono fornite informazioni di rilievo inerenti le modalità di amministrazione dell’azienda nel corso dell’esercizio a cui il conto morale si riferisce. Da notare come i rendiconti consuntivi debbano sempre indicare per ogni voce non soltanto il risultato consuntivo, ma anche il risultato previsto e lo scostamento realizzato, in modo che risultino evidenti gli scostamenti dalle previsioni e che sia quindi semplice formulare un giudizio di massima sull’operato degli amministratori. STATO E ENTI TERRITORIALI MINORI Ci sono indicazioni su: organi dello Stato e degli enti territoriali, che abbiamo sulla costituzione e sul testo unico degli enti territoriali; indicazioni teoriche generali sul bilancio, che ci studiamo sul libro di finanza che tanto va bene uguale e poi per quanto riguarda gli enti territoriali ci sono nel testo unico; particolari sulle voci di bilancio che non sappiamo e che non possiamo sapere.