Gennaio-Marzo 2010 n.1
Anno XXIV
Quaderni di Minimondo
Rivista culturale Braille
Periodico trimestrale
Fascicolo III
Direzione Redazione Amministrazione
Biblioteca Italiana per i Ciechi
20052 Monza - Casella postale 285
c.c.p. 853200 - tel. 039/28.32.71
e-mail: [email protected]
Dir. Resp. Pietro Piscitelli
Comitato di redazione:
Massimiliano Cattani,
Antonietta Fiore,
Luigia Ricciardone,
Pietro Piscitelli (Responsabile)
Copia in omaggio
Stampato in Braille a cura della
Biblioteca Italiana per i Ciechi
«Regina Margherita» onlus
via G. Ferrari, 5/a
20052 Monza
Sommario
Lucia Jandolo:
Musica per il cervello
(Psicologia contemporanea» n. 217/10)
Chiara Beretta Mazzotta:
Santissima Fiction
(«Meridiani» n. 184/09)
Giuliana Rotondi:
Suonala ancora Sam
(«Focus Storia» n. 39)
Mauro Novelli:
Emilio Lussu: a schiena dritta per la democrazia
(«Letture» n. 656/09)
Comunicato:
Modalità utilizzo Corriere per recapito testi
Musica per il cervello
- È dimostrato che la musica stimola il
cervello. Svariate ricerche forniscono importanti
fondamenti scientifici alle sue applicazioni
terapeutiche. Finalmente si schiudono. Al Dipartimento di
Anatomia dell'All India Institute for Medical
Sciences di Nuova Delhi, i giovani polli fanno
capolino nel mondo e hanno già una certa
esperienza in fatto di musica. Dal decimo giorno
del loro stadio embrionale, infatti, ogni giorno
per 15 minuti, ogni ora per 24 ore al giorno, le
uova fertilizzate hanno «ascoltato» il suono del
sitar, oltre ad alcuni suoni caratteristici della
loro specie. Ovviamente, nessuno dei ricercatori
si aspetta di poter allevare dei virtuosi del
sitar pennuti! Sperano piuttosto di poter
confermare l'ipotesi che la stimolazione uditiva
prenatale influenzi lo sviluppo del sistema
nervoso dell'embrione di pollo.
Musica e intelligenza
Da dove nasce una supposizione così
apparentemente curiosa? Facciamo un passo
indietro. Il 14 ottobre 1993 la rivista
scientifica Nature pubblicò una sintesi di un
singolare esperimento svolto da Rauscher, Shaw e
Ky, i quali avevano indagato la possibile
influenza della musica sulle capacità di
ragionamento spaziale. I ricercatori testarono un
gruppo di 36 studenti universitari, divisi a loro
volta in 3 sottogruppi: il primo ascoltò la
«Sonata per due pianoforti in Re maggiore» di
Mozart (K 448) per 10 minuti, il secondo ascoltò
musica rilassante per altrettanto tempo e il terzo
gruppo non ricevette alcuna stimolazione sonora.
In seguito, tutti gli studenti furono sottoposti
ad un test per misurare appunto la capacità di
ragionamento spaziale astratto. Il test prevedeva
che gli studenti ricomponessero mentalmente un
foglio di carta che era stato piegato molte volte
e poi tagliato: dovevano cioè essere in grado di
riconoscere, scegliendola tra 5 proposte, la forma
di partenza del foglio di carta. Quelli che
avevano ascoltato Mozart ottennero dei risultati
significativamente migliori, ma tale presunto
«effetto Mozart» si dimostrò transitorio (durò per
10-15 minuti, il tempo necessario a svolgere il
test).
Rauscher e colleghi ipotizzarono comunque che la
musica di Mozart, in particolare, possa avere un
effetto sull'intelligenza, grazie all'analogia,
riscontrata da Shaw, Leng e Wright qualche anno
prima, tra le onde cerebrali e l'andamento ritmico
proprio della musica del famoso artista.
L'effetto Mozart
Questo studio suscitò grande interesse e provocò
reazioni inaspettate: molti studenti statunitensi
cominciarono addirittura ad ascoltare la musica di
Mozart durante le lezioni e diverse nuove ricerche
furono condotte per tentare di riprodurre i
risultati di Rauscher e colleghi. In realtà,
nessuna di esse è fino ad ora riuscita a ottenere
le stesse conclusioni dell'ormai celebre studio
del 1993, ancorché nel 1999 Steele, Bass e Crook
abbiano tentato di replicarlo fedelmente con un
maggior numero di studenti.
Le ricerche di Rauscher e colleghi hanno
comunque avuto il merito di far rivolgere
l'attenzione di molti studiosi ai rapporti tra
musica e cervello, compresi i possibili effetti
terapeutici dell'ascolto e della pratica della
musica sulle malattie del sistema nervoso.
Nel 2001 John Jenkins, membro del Royal College
of Physicians, fece ascoltare per 10 minuti
proprio la Sonata K 448 ad un gruppo di pazienti
con epilessia e osservò una diminuzione degli
attacchi epilettici. Lo stesso Jenkins ha poi
ipotizzato che altri brani musicali con
caratteristiche simili alla Sonata di Mozart (ad
esempio del repertorio di Bach) possano avere un
effetto paragonabile sul sistema nervoso, ma ha
anche aggiunto che, affinché la musicoterapia
possa effettivamente rivelarsi utile nella cura
dell'epilessia, sono necessarie ulteriori
ricerche.
Nel complesso, tenendo in considerazione le
prove a favore e quelle contro, non sembra sia
possibile confermare scientificamente l'esistenza
di un «effetto Mozart». Tuttavia, l'elaborazione e
la produzione della musica sono senza dubbio
attività molto complesse che stimolano il cervello
a diversi livelli. Questa stimolazione si
concretizza nel propagarsi delle sinapsi tra i
neuroni, un processo che migliora la conduzione
del segnale nervoso. Anzi, un'adeguata
stimolazione sensoriale sembra proprio essere
necessaria affinché vengano conservati intatti i
«corridoi neurali» attraverso i quali viaggiano le
informazioni che vengono processate a livello
cerebrale.
Le basi della musicoterapia
Da un punto di vista terapeutico è molto
interessante ciò che avviene nel nostro cervello
quando reagiamo emotivamente alla musica. A tutti
noi è capitato senz'altro di avere la pelle d'oca
o di sentire un nodo in gola nell'ascoltare un
brano musicale particolarmente emozionante: in uno
studio del 2001, Blood e Zatorre hanno dimostrato
che la musica, infatti, stimola i medesimi sistemi
neurali che vengono attivati dal cibo, dal sesso e
dalle droghe. Non solo, gli stessi ricercatori
hanno anche osservato che la musica può inibire le
strutture del sistema nervoso centrale
responsabili dell'ansia e attivare invece quelle
che determinano la capacità di attenzione.
Queste e altre ricerche forniscono un importante
fondamento scientifico alle terapie basate sulla
musica, suffragato in molti casi dalle stesse
risposte dei pazienti intervistati a proposito
dell'utilità di tali procedure. Un recente studio
di Rose e Weis (2008), che hanno intervistato
pazienti oncologici, ha fornito una prova in tal
senso, mostrando come una musica particolarmente
ripetitiva e ricca di armonici, ad esempio suonata
col monocordo, venga percepita come estremamente
rilassante, anche senza che i pazienti abbiano
acquisito una specifica tecnica di ascolto.
I pazienti particolarmente gravi, invece,
traggono grande sollievo dall'imparare a comporre
musica. Alcune metodologie musicoterapeutiche,
infatti, si basano proprio sulla stimolazione
della creatività, allo scopo di facilitare
l'elaborazione dei traumi dovuti alla malattia e
di aiutare a esprimere liberamente le emozioni.
Persino una patologia neurodegenerativa
inguaribile, ad oggi, quale la demenza senile, può
essere trattata con l'ausilio della musicoterapia.
Le ricerche di Götell, Brown e Ekman (2008) hanno
dimostrato, in particolare, il valore del canto
come attività da associare alle cure quotidiane di
questo tipo di pazienti. Se l'infermiere,
nell'aiutare il paziente con demenza a lavarsi e a
vestirsi, comincia a cantare, stimolando il
paziente stesso a fare altrettanto, le tensioni si
allentano, le emozioni positive aumentano e il
paziente acquisisce un maggiore controllo dei
propri movimenti e della propria postura, oltre ad
ottenere un miglioramento della propria competenza
ed espressività verbale.
Anche il ritmo può essere utilizzato come
strumento terapeutico, con lo scopo di migliorare
la capacità di movimento e la coordinazione.
Thaut, McIntosh e Rice (1997) hanno addirittura
potuto dimostrare che uno stimolo acustico ritmico
può migliorare il controllo dei movimenti nei
pazienti colpiti da morbo di Parkinson, così come
ascoltare un ritmo regolare può contribuire
significativamente a velocizzare le procedure
fisioterapeutiche necessarie per la riacquisizione
delle capacità motorie da parte di coloro che sono
rimasti vittime di incidenti.
Naturalmente non bisogna illudersi che la musica
sia la panacea di tutti i mali, neppure «soltanto»
di quelli che riguardano il sistema nervoso!
Tuttavia è ormai certo che possa essere sfruttata
con successo per ridurre lo stress e la sensazione
di dolore, oltre che per migliorare le capacità
espressive e la comunicazione interpersonale.
Forse gli studenti poco volenterosi non possono
sperare che basti ascoltare passivamente della
musica prima di sostenere un esame per poterlo
superare a pieni voti, ma, come dimostrato da
Bugos e colleghi (2007), giovani e meno giovani
possono trarre grande giovamento dallo studio e
dalla pratica della musica, soprattutto nelle
attività che richiedono memoria.
Alla luce di quanto detto, l'idea bizzarra dei
ricercatori di Nuova Delhi ci appare senz'altro
meno peregrina, tanto più che i giovani polli
sottoposti a stimolazione uditiva prenatale hanno
effettivamente mostrato un incremento dei fattori
responsabili della sopravvivenza e della
plasticità delle cellule nervose. Ciò non ci
autorizza ad aspettarci che uno di loro sia presto
in grado di incantare le platee col suono di un
sitar, ma può e deve invece indurci a non
sottovalutare il prezioso contributo che la
musica, ascoltata, suonata o cantata, può dare al
nostro sviluppo, alla nostra maturazione culturale
e, in definitiva, al nostro benessere, in tutte le
fasi della vita.
Glossario essenziale
Armonici: I suoni armonici corrispondono a tutti
i possibili modi di vibrazione di un corpo sonoro.
Ciò significa che un suono prodotto da un corpo
vibrante non è mai puro, bensì è costituito da un
amalgama in cui al suono principale si aggiungono
altri suoni più acuti e meno intensi (gli
armonici, appunto).
Demenza senile: Tipica della popolazione al di
sopra dei 65 anni, è un disturbo, con base
organica, delle funzioni intellettive, quali la
memoria, il pensiero astratto, la capacità
critica, il linguaggio, l'orientamento spaziotemporale.
Epilessia: È una condizione cronica neurologica,
caratterizzata da crisi violente e improvvise.
Tali crisi dipendono dalle scariche eccessive di
una popolazione di neuroni più o meno estesa,
facente parte della sostanza grigia dell'encefalo.
Monocordo: È uno strumento composto da una sola
corda, tesa sopra una cassa di risonanza tra due
ponticelli e posata su un terzo ponticello
intermedio che può essere spostato. Così facendo
si può dividere la corda a piacere per ottenere
suoni di altezza (frequenza) variabile.
Morbo di Parkinson: È una malattia dovuta alla
degenerazione cronica e progressiva di un nucleo
situato a livello del mesencefalo in cui viene
prodotta la dopamina, un neurotrasmettitore con
funzione inibitoria, essenziale per il controllo
dei movimenti corporei. Nell'organismo si crea
perciò uno squilibrio fra i meccanismi inibitori e
quelli eccitatori, a favore di questi ultimi. Ciò
provoca molti disturbi, tra i quali: tremore a
riposo, rigidità, instabilità posturale, disturbi
della parola e della scrittura, sintomi
ansiosodepressivi. Sebbene il deterioramento
intellettivo non rappresenti un elemento tipico
delle fasi precoci della malattia, la demenza
appare molto frequentemente nelle fasi tardive.
Sinapsi: È una struttura altamente specializzata
che consente la comunicazione tra le cellule del
tessuto nervoso, i neuroni. Attraverso la
trasmissione sinaptica, l'impulso nervoso può
viaggiare da un neurone all'altro o da un neurone
ad una fibra muscolare (giunzione neuromuscolare).
Lucia Jandolo
I vantaggi dell'insegnamento musicale in età
scolastica
Il talento musicale si manifesta spesso fino dai
primi anni di vita e per diventare musicisti
bisogna cominciare molto presto, non oltre i sette
anni. Ma a parte questa riconosciuta esigenza
professionale, quali effetti ha sul cervello la
pratica intensiva e precoce della musica?
È la domanda cui ha cercato di rispondere
l'équipe condotta dal neurologo Ernst Póppel e dal
musicologo Lorenz Welker in una ricerca presso la
Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di
Baviera.
Lo studio è stato condotto a Hof, perché in
questa città bavarese è in corso ormai da
trent'anni un'interessante esperienza didattica:
un migliaio di alunni delle scuole elementari e
medie hanno la possibilità di frequentare, oltre
alle normali lezioni, una scuola di musica dove
insegnano 100 professori della locale orchestra
sinfonica.
Questo modello didattico, unico in tutto il
territorio della Repubblica federale, ha permesso
ai ricercatori dell'Università di Monaco di
formare due campioni omogenei: un gruppo
sperimentale di 21 alunni che da circa 12 anni
avevano dedicato il tempo libero allo studio della
musica e un gruppo di controllo di 21 coetanei che
nel tempo libero avevano coltivato altri
interessi. Il confronto fra i due gruppi ha
prodotto alcuni risultati interessanti. Gli alunni
del gruppo sperimentale:
- tendevano a percepire le emozioni in maniera
più intensa e differenziata, in particolare la
gioia e il dolore;
- erano capaci di mantenere più a lungo la
concentrazione;
- soprattutto nei maschi c'era una maggiore
resistenza allo stress: esami e altre situazioni
difficili anziché inibirli li stimolavano a un
maggiore impegno;
- le femmine in particolare presentavano una
maggiore capacità di lavoro.
Per evidenziare i meccanismi neuronali
interessati, i soggetti dei due gruppi sono stati
sottoposti a uno scanning mediante risonanza
magnetica. Come reagiscono le strutture cerebrali
dei soggetti in presenza di uno stato d'animo
triste o felice, comunicato attraverso la musica o
parole espressive? Riferisce lo psicologo Evgeny
Gutyrchik: «Nei soggetti che praticano la musica,
in risposta a impressioni gioiose o tristi entrano
in gioco reti neuronali supplementari. Oltre ai
consueti centri di elaborazione degli stimoli
percettivi, sono coinvolti in particolare anche
centri, come la corteccia orbito-frontale, che
presiedono alle emozioni sociali».
Ma non è possibile che i bambini che scelgono la
musica siano in partenza quelli che presentano
queste caratteristiche più spiccate di emotività,
concentrazione e capacità di lavoro? Secondo Ernst
Póppel, i risultati della ricerca sul cervello
indicano che è proprio la pratica della musica a
suscitarle, in quanto contribuisce a rafforzare la
struttura stessa del tempo mentale: «Una più
solida strutturazione del tempo soggettivo
permette di ottimizzare certe funzioni cerebrali.
Ciò è molto importante ovviamente per suonare uno
strumento, ma c'è poi anche un transfer in ambiti
diversi, che permette di costruire una cornice
adeguata per altre attività». Ciò spiega a suo
avviso perché spesso i musicisti riescano bene
anche in matematica, nell'espressione verbale e
perfino nello sport. Póppel sottolinea però che
questi effetti positivi non si ottengono
lasciandosi semplicemente inondare dalla musica
riprodotta dall'iPod o dallo stereo:
«L'apprendimento è sempre legato a una
partecipazione attiva».
Beatrice Wagner
(«Psicologia contemporanea» n. 217/10)
Santissima Fiction
- La Città del Vaticano possiede uno
straordinario fascino letterario, e in pochi
luoghi al mondo sono state ambientate così tante
storie. Quasi tutte - ma non tutte - legate ad
atmosfere mystery, thriller e noir. Ecco un
parziale catalogo di tanta produzione... Quante storie in Vaticano! Anzi quante storie
noir. L'ultima è arrivata in libreria nell'ottobre
scorso, l'ha scritta Ugo Barbàra, palermitano
trasferito a Roma, redattore all'Agenzia Italia:
si intitola In terra consacrata e costruisce un
intreccio da quasi cinquecento pagine intorno alla
scomparsa di Emanuela Orlandi, la giovane
(cittadina vaticana) scomparsa a Roma nel giugno
1983. Il romanzo di Barbàra è in effetti l'ultimo
di una lunga serie, che è culminata - almeno come
copie vendute - nel noto Angeli e demoni, di Dan
Brown. In effetti ci sono pochi luoghi al mondo ad
avere una pari capacità di stimolare l'interesse
dei narratori e la curiosità dei lettori, cui
spesso il Vaticano appare, in certa misura, un
posto insondabile e quindi misterioso. «Il turista
qui entra in contatto con religione, arte, storia,
che stanno a monte di tanti capolavori», dice
Claudio Rendina, scrittore e storiografo. «E
spesso subentra, nel visitatore, il desiderio di
approfondire le origini remote di certa
ispirazione, o comunque di viverle in modo nuovo,
diverso, appassionante. E nascono così testi di
storia alternativa, racconti, romanzi ambientati
in questo suggestivo scrigno di misteri».
La narrativa, in effetti, continua a giocare
sull'idea che la Chiesa sia depositaria di oscuri
segreti da difendere a ogni costo, e non è un caso
che i romanzi ambientati tra le mura leonine
siano, appunto, per lo più thriller, gialli e
noir. Non mancano certo i saggi anche se la
fiction - rispetto alla saggistica, che vive di
teorie e dati certi - permette allo scrittore di
valicare il limite del «vero e dimostrato» e di
manipolare la realtà con la fantasia, per creare
una trama che sappia avvincere. Che si tratti
dunque di una «ricostruzione romanzata» o di un
romanzo storico, il Vaticano è terreno fertile per
far germogliare l'ispirazione. «L'importante è
trovare una buona trama», dice la giallista
Elisabetta Bucciarelli. «L'ambientazione poi fa il
resto. Il Vaticano ha le sue leggi e i suoi
misteri. È un mondo piccolo, ma con ramificazioni
ovunque. È chiuso, invalicabile, ricco:
manoscritti, opere d'arte, enigmi e quesiti
esistenziali. È un luogo musicale e altamente
evocativo: canti gregoriani, musiche d'organo,
odore di incensi... Non ci vuol molto a entrare in
clima, ancora meno per sentirsi piccoli di fronte
a tanta grandezza».. Di opere di narrativa
ambientate fra le mura vaticane ce ne sono
tantissime. In un immaginario scaffale, eccone
alcune significative.
Il tredicesimo apostolo di Michel Benoît
Benoît è stato monaco benedettino per vent'anni,
dunque conosce la Chiesa dall'interno. Oggi è
scrittore, saggista e storico (si interessa
soprattutto della Chiesa delle origini). E non a
caso il suo romanzo inizia con un delitto che ha,
come vittima, padre Andrei, studioso di testi
antichi ucciso sul treno che lo riportava a
Parigi, dal Vaticano. Il caso è archiviato come
suicidio. Ma padre Nil, amico e compagno di studi,
decide di indagare. La sua ricerca lo porta
indietro nel tempo, ai giorni precedenti la morte
di Gesù, all'ultima cena con gli apostoli, a un
tradimento che forse non era tale e alla presenza
di un tredicesimo apostolo. Una figura scomparsa
dalle testimonianze ufficiali, ignorata dai
Vangeli, ma che in realtà sarebbe il seguace
prediletto del Nazareno, il successore
predestinato, che avrebbe consegnato a una lettera
la propria testimonianza. E Nil vuole a tutti i
costi ritrovare quella lettera, che nessuno
vorrebbe veder rivelata, né il Vaticano, né
Gerusalemme e neppure la Mecca...
La chiave del Vaticano di Clara Spada
Nella frenesia del maggio 1999, mentre il
Giubileo è alle porte, alcune stranezze si
verificano nella vita quotidiana di diversi
religiosi. In particolare monsignor Philbey americano trasferitosi a Roma - un giorno ascolta
in confessione lo sfogo di un giovane, in
apparenza farneticante. Seguiranno morti sospette,
legate in qualche modo a quella confessione. Una
semplice coincidenza? Oltre alla polizia, a
indagare sarà ovviamente monsignor Philbey, che si
muoverà tra le nebbie degli infiniti segreti
vaticani, che porteranno infine a un'associazione
segreta che punta ai piani alti dello Stato
pontificio. Clara Spada, l'autrice, vive fra Roma
e la Sardegna, sua terra natale, ed è laureata in
teologia.
L'ultimo Catone di Matilde Asensi
Suor Ottavia Salina, massima autorità
dell'Archivio segreto del Vaticano in fatto di
paleografia, ha un compito difficile e soprattutto
segreto: decifrare un tatuaggio - sette croci e
sette lettere in greco antico che formano la
parola stauros, ossia croce - inciso sul cadavere
di un etiope, ritrovato sui monti della Grecia
accanto a tre frammenti di legno che potrebbero
anche essere schegge della Croce. Aiutata da
archeologi e guardie svizzere, suor Ottavia
scoprirà l'esistenza di una setta misteriosa: gli
Staurophylakes, i guardiani della croce,
intenzionati a trafugarne i frammenti dalle
principali chiese del mondo. Come scovarli?
Cercando significati reconditi nei versi del
«Purgatorio» di Dante, superando pericolose prove
iniziatiche e passando attraverso le sette città
simbolo dei peccati capitali: Roma, Ravenna,
Gerusalemme, Atene, Costantinopoli, Alessandria e
Antiochia. Matilde Asensi, prima di dedicarsi alla
narrativa, ha lavorato per molte radio spagnole.
Oggi i suoi romanzi di avventure storicoarcheologiche hanno un grande successo.
Il papa e la ragazzina di Robert Schneider
Loredana ha solo nove anni e vive a Roma con la
madre separata. Un giorno, durante una gita
scolastica nella Città del Vaticano, si perde nei
meandri del Palazzo apostolico fino a ritrovarsi
nello studio privato del papa, Silvestro IV (una
figura immaginaria, che l'autore, 48 anni,
notissimo autore di lingua tedesca, ha creato
fondendo tratti di Roncalli, Montim, Luciani e
Wojtyla). Tra l'anziano e stanco pontefice e la
ragazzina scocca la scintilla: una profonda
empatia che genera fiducia e confidenza. Dopo
essersi informato sulla vita della giovane e
inaspettata visitatrice, Silvestro IV la rende
partecipe della propria infanzia, le svela le
radici della propria vocazione religiosa e persino
un tenero idillio amoroso vissuto prima
dell'ordinazione sacerdotale. Quella sera,
Loredana ritornerà rasserenata a casa mentre il
Papa, in prossimità del Natale, riprenderà a
caricarsi delle sue immani responsabilità. Ma solo
per breve tempo.
Il mistero del candelabro di André Soussan
Un prelato vaticano, cinquantacinquenne, muore
nella propria stanza per un attacco cardiaco. Il
caso dunque non sembra richiedere alcuna indagine,
ma l'intuito di un commissario di polizia, e della
sua assistente, va oltre. Si scoprirà che il
defunto, impiegato come giardiniere, in realtà era
il custode delle chiavi dell'ingresso di alcuni
sotterranei, all'interno del cimitero teutonico,
che davano accesso a un luogo noto soltanto al
Sommo Pontefice e al camerlengo. L'indagine si
complicherà quando andrà a intrecciarsi con
un'operazione dei servizi segreti israeliani
intesa a ritrovare la Menorah - il mitico
candelabro d'oro a sette bracci sottratto a
Gerusalemme dai romani quasi duemila anni fa - che
si troverebbe proprio nei sotterranei del
cimitero. Soussan è morto nel 2005: era marocchino
di origine, poi emigrato in Israele e infine
trasferito in Danimarca.
La casa di Dedalo di Kai Meyer
Kai Meyer è uno scrittore e sceneggiatore
tedesco assai prolifico (già 45 romanzi
pubblicati). In questo libro racconta le vicende
di Coralina, giovane restauratrice che, durante un
lavoro presso la chiesa di Santa Maria del
Priorato a Roma, effettua un sensazionale
ritrovamento: una serie di tavole dell'incisore
settecentesco Giovanni Battista Piranesi, e il
frammento di un antico recipiente d'argilla.
Coralina decide di chiedere l'aiuto dell'amico
Jupiter, un detective specializzato in opere
d'arte. Inizia così una ricerca appassionata che -
nonostante omicidi misteriosi, l'incontro con un
monaco folle e sinistre apparizioni - conduce a
una porta che, secondo una leggenda,
corrisponderebbe all'entrata dell'inferno. E
invece, al di là di questo uscio, si apre la casa
di Dedalo, un labirinto che si snoda sotto la
Città del Vaticano e che era in origine una
necropoli etrusca. Ma anche altri stanno cercando
di penetrare in questo mondo oscuro: sono gli
adepti di una setta segreta che agisce per conto
della Chiesa...
Cabala di Michael Dibdin
Giallista inglese, Dibdin ha vissuto in Italia
dal 1979 al 1984 e qui ha inventato il personaggio
dell'investigatore Aurelio Zen, che esordisce
proprio in Cabala. Durante un pomeriggio invernale
fedeli e turisti riempiono la basilica di San
Pietro dove si celebra una messa. Il raccoglimento
è rotto da un grido: il principe Ludovico Raspanti
è precipitato dal balcone interno della cupola.
Omicidio o suicidio? E perché l'uomo si era
rifugiato in Vaticano ed era tenuto sotto
sorveglianza? Per far chiarezza sulla vicenda
viene convocato Aurelio Zen, che si trova
coinvolto in un caso di difficile soluzione. Le
autorità vaticane infatti premono affinché il caso
venga chiuso al più presto, con il verdetto di
suicidio. Ma l'investigatore, di fronte ai troppi
interrogativi irrisolti, sente invece di essere
soltanto all'inizio di un'indagine complessa e
delicata, che lo porterà sempre più a fondo nei
misteri del Vaticano, fino a una società segreta
legata ai Cavalieri di Malta.
I sotterranei del Vaticano di André Gide
Scritto nel 1914, è forse il più citato dei
romanzi riferiti al Vaticano. André Gide (18691951; l'autore ha ricevuto il premio Nobel per la
letteratura nel 1947) ha diviso l'opera in cinque
grandi capitoli, dedicati ad altrettanti
personaggi, da Anthime (lo scienziato ateo e
massone convertito per interesse alla fede
cristiana) a Lafcadio (l'uomo innamorato di sé,
autore di delitti immotivati, compiuti solo in
nome dell'estetica del gesto). Al centro del
romanzo la famiglia parigina de Baraglioul, di
fervente fede cristiana e appartenente alla colta
nobiltà della città, e una colossale truffa ai
danni dei fedeli basata sulla falsa notizia che il
Papa era stato imprigionato nei sotterranei del
Vaticano e sostituito da un impostore.
Una spia in Vaticano di Branko Bokun
Nel 1941 Branko Bokun, 21 anni, è inviato a Roma
dal capo del servizio di controspionaggio
dell'esercito iugoslavo come funzionario della
Croce Rossa. Lo scopo è ottenere l'intervento del
Vaticano a favore dei serbi di religione
ortodossa, degli ebrei e degli zingari; che
vengono sterminati da gruppi di fanatici cattolici
croati. Bokun si ritrova così a vivere il lato
oscuro della Roma del fascismo che sta crollando,
un mondo popolato da avventurieri, spie,
disertori, prigionieri di guerra in fuga,
criminali, belle donne dell'aristocrazia. Il serbo
Bokun oggi vive in Inghilterra.
La spia di Dio di Juan Gómez Jurado
Nell'aprile del 2005, quando il mondo cattolico
è scosso per la morte di Giovanni Paolo II,
vengono ritrovati fra le mura vaticane i cadaveri
di due cardinali brutalmente uccisi. A occuparsi
del caso sarà una criminologa, Paola Dicanti,
profiler formata alla scuola dell'Fbi. Ad
affiancarla ci sarà anche Anthony Fowler,
sacerdote ma già agente della Cia, richiamato in
servizio per collaborare alla caccia all'assassino
(che lui sembra conoscere bene). È il romanzo
d'esordio di Juan Gòmez Jurado, 32 anni, spagnolo
di Madrid.
Un lungo e misterioso intreccio
Già «Il quinto evangelio» (1975) di Mario
Pomilio, ben prima del famoso «Angeli e demoni»,
ci trasportava nei misteri celati oltre le mura
vaticane, svelando l'esistenza di un Vangelo
nascosto. Di certo, però, sull'onda del successo
di Dan Brown sono arrivate in libreria moltissime
storie che giocano sul medesimo tema. In «La mappa
di pietra», di James Rollins, il Vaticano deve
risolvere il furto delle reliquie dei Re Magi e
affida le indagini a un agente segreto della Santa
Sede. Tutt'altre atmosfere per «Il nemico» di
Michael O'Brien, che vede protagonista il
carmelitano Elijha, ebreo polacco convertitosi al
cristianesimo, chiamato dal Papa per una complessa
opera di mediazione con il mondo politico. Il
Pontefice è invece la vittima designata di un
complotto in «L'ultima messa» di Kenneth Moore. Si
parla sempre di misteri da svelare ne «Il terzo
segreto», in cui Steve Berry mette al centro della
narrazione l'Archivio vaticano e il terzo segreto
di Fatima. Con «Enigma in Vaticano» si torna a
Roma durante il pontificato di Wojtyla: l'autore
Tristan Frédérick «svela» l'esistenza di un
manoscritto dell'XI secolo, la «Vita di
Silvestro». C'è posto anche per il poliziesco di
Ben Pastor (pseudonimo di Maria Verbena Volpi),
che in «Kaputt Mundi» spedisce Martin Bora,
tormentato ufficiale e investigatore tedesco
ispirato alla figura di Claus von Stauffenberg,
l'attentatore di Hitler nel 1944, a indagare sul
suicidio di un cardinale e sulla morte
«accidentale» di una segretaria dell'ambasciata
tedesca.
Chiara Beretta Mazzotta
(«Meridiani» n. 184/10)
Suonala ancora Sam
- Nel 1942, mentre Parigi era occupata dai
nazisti, nacque Casablanca: un classico di
Hollywood (e della propaganda). «Ilsa, le cose da eroe non mi piacciono, ma tu
sai bene che i problemi di tre piccole persone
come noi non contano in questa immensa
tragedia...». È il dicembre del 1941. Rick Blaine
(Humphrey Bogart) nel nebbioso aeroporto di
Casablanca, in Marocco, sta dando il suo addio a
Ilsa (Ingrid Bergman), la donna amata tempo prima
e incontrata inaspettatamente nel suo night club
di Casablanca. Lei lo ascolta piangendo.
L'illusione di essersi ritrovati per sempre
svanisce davanti all'avanzare della Storia.
«Felice il Paese che non ha bisogno di eroi»
scrisse in quegli anni il drammaturgo tedesco
Bertolt Brecht. E i protagonisti del film
Casablanca (del 1942) a loro modo eroi lo sono. O
lo diventano: così almeno vollero gli studios
americani, che, riadattando per il grande schermo
il dramma Everybody comes to Rick's di Murray
Burnett e Joan Alison, si affidarono al regista
Michael Curtiz: un ungherese emigrato nel 1926
negli Stati Uniti, come uno dei protagonisti,
Victor Laszlo.
A fare da scenario alla vicenda del film sono le
vie di Casablanca. Il Marocco, dal 1912
protettorato francese, dopo lo scoppio della
Seconda guerra mondiale era diventato un punto di
transito per molti oppositori di fascismo e
nazismo che volevano abbandonare l'Europa: da qui
facevano scalo nel neutrale Portogallo per
imbarcarsi verso l'America (fuori dal conflitto
fino al dicembre del 1942).
È questa anche la storia di Ilsa, che giunge a
Casablanca con il marito Laszlo (Paul Henreid) nel
dicembre del 1941, quando la città era un
brulicare di contrabbandieri, spie naziste,
inglesi e francesi, avventurieri e sciacalli.
Benché il Marocco non fosse formalmente una
colonia, Parigi ne controllava di fatto gli affari
esteri, la difesa e anche la politica interna.
Evidente quindi che con l'occupazione nazista
della capitale francese (giugno 1940) e con la
nascita del governo collaborazionista di Vichy lo
status del Paese nordafricano si facesse ancora
più ambiguo.
In una delle prime scene del film si vede un
manifesto con il volto del maresciallo Pétain. Già
eroe della Grande guerra, Philippe Pétain guidò il
governo fantoccio insediatosi a Vichy, nella
cosiddetta «zona libera», la parte meridionale
della Francia. E se da un lato la mantenne
estranea ad azioni belliche, limitandosi a fornire
milizie alle potenze dell'Asse durante
l'operazione Barbarossa in Russia, dall'altro
sostituì il motto repubblicano «fraternità,
libertà e uguaglianza» con il più fascista
«famiglia, patria e lavoro». E sciolse partiti e
sindacati.
Anche Laszlo, il marito di Ilsa, appartiene alla
schiera degli antifascisti europei. Prima di
ritrovarlo a Parigi, e credendolo morto nei campi
di prigionia, la donna aveva avuto una storia
d'amore con il tenebroso Rick, un americano. Nel
frattempo l'avanzata tedesca aveva travolto i
Paesi Bassi e il Belgio e dopo aver sfondato il
fronte alleato a Sedan (Francia), era dilagata
fino alla Manica. Parigi fu dichiarata «città
aperta» (e ceduta senza combattimenti) l'11 giugno
1940. «Mentre il mondo crolla, scegliamo proprio
questo momento per innamorarci» si erano detti
Ilsa e Rick durante la loro breve avventura. «Sono
colpi di cannone o è il mio cuore che batte?»
aveva chiesto lei. «È il nuovo cannone tedesco.
Sono a meno di 35 miglia e si avvicinano sempre
più» le aveva risposto lui. Avevano così deciso di
abbandonare la Francia, ma il giorno della
partenza Ilsa era sparita nel nulla, avendo saputo
che Laszlo era vivo.
Il 14 giugno del 1940 veniva dichiarata la resa
francese. Il Corriere della Sera titolava: «La
bandiera del Reich sventola sull'Eliseo e sulla
Tour Eiffel». Quattro giorni dopo il generale
Charles de Gaulle lanciava da Londra un appello a
tutti i francesi a unirsi nella resistenza
all'occupazione.
È in questo clima cupo che Rick, Ilsa e Laszlo
si incrociano di nuovo a Casablanca, un anno dopo
quegli eventi. Rick ha aperto un night club che è
diventato ritrovo della varia umanità di esuli e
spie in attesa di un passaggio verso la libertà.
Quando Ilsa, entrando nel locale, vede Sam (il
pianista amico di Rick che aveva già conosciuto a
Parigi) gli chiede: «Suonala, Sam». Vuole
risentire la «loro» canzone d'amore, As time goes
by («Mentre il tempo passa»). La battuta divenne
così celebre (seppure nella versione impropria
«Suonala ancora, Sam») da ispirare anni dopo il
titolo di un film di Woody Allen.
Ilsa non è in quel club per caso. Solo
l'americano, apparentemente un cinico senza
ideali, è in grado di procurare due visti di
transito che garantirebbero a Ilsa e al marito di
raggiungere il Portogallo. Laszlo, come i veri
antifascisti del tempo, è infatti ricercato dalle
autorità, ma pur di salvare la moglie è disposto a
lasciarla fuggire con il rivale. Rick, colpito dal
gesto, si riscatta arrivando a uccidere un
ufficiale tedesco (omidicio per il quale sarà
coperto dal capitano Renault, simbolo della
resistenza invocata da de Gaulle) e obbligando la
donna a partire con il marito, che potrà così
continuare a combattere per la libertà: «Un giorno
capirai. Buona fortuna, bambina...» le dice. Rick
non poteva immaginare che, due anni dopo, la
Storia sarebbe davvero passata da Casablanca. Dal
14 al 24 gennaio 1943 Roosevelt, Churchill e de
Gaulle pianificheranno qui lo sbarco in Italia che
segnerà l'inizio della fine dei nazisti.
Bogart: una vita da duro
Duri, onesti, incapaci di compromessi. Poco
inclini ai sentimentalismi. E quasi sempre con una
sigaretta tra le labbra e un trench
(l'impermeabile in stile militare) sulle spalle.
Humphrey Bogart (o Bogey come veniva chiamato da
fan e colleghi) è entrato nel mito con questi
ruoli. E rimanendo fedele a quest'immagine è
diventato un'icona del cinema statunitense.
Nato a New York il giorno di Natale del 1899,
morì a Hollywood nel gennaio di 58 anni dopo.
Interpretò alcuni dei grandi classici del cinema
americano degli Anni '40, da Il mistero del falco
(1941), tra i primi noir del cinema, a Il grande
sonno (1946) di Howard Hawks, ispirato a un giallo
di Raymond Chandler. Memorabile nella commedia di
Billy Wilder Sabrina (1954), al fianco di Audrey
Hepburn, Bogart ebbe una vita sentimentale
travagliata anche fuori dal set: ebbe tre mogli,
ma la più famosa fu Lauren Bacall, che conobbe
quando lei aveva 19 anni e lui 44.
E con Woody Allen Casablanca si fece parodia
Nelle sale americane uscì nel 1972 con il titolo
Play it again, Sam («Suonala ancora, Sam»). Nella
versione italiana divenne Provaci ancora, Sam
tradendo il riferimento alle parole di Ingrid
Bergman nel film. Il protagonista della commedia è
Woody Allen, al quale appare Bogart stesso, che
gli dà consigli su come conquistare le donne.
Grazie alle sue dritte Sam sedurrà Linda (Diane
Keaton), moglie di un amico. Ma sarà una relazione
senza futuro, come per Rick e Ilsa. Il film
termina con una parodia di Casablanca, con tanto
di aereo pronto a partire e Woody Allen in
impermeabile alla Bogart che sfodera la stessa
fermezza nel rinunciare a lei, dicendole che è
meglio così per tutti.
Giuliana Rotondi
(«Focus Storia» n. 39/10)
Emilio Lussu: a schiena dritta per la democrazia
- Ottant'anni dopo la leggendaria evasione da
Lipari, la sua figura e le sue opere continuano a
brillare, splendide e inattuali, indicando una via
di coraggio, coerenza e rigore a quanti si
ostinano a confidare nei valori civili. «Mi era sempre sembrato che, per un uomo
d'onore, richiedesse maggior coraggio la
diserzione che l'eroismo di guerra». Non è la
provocatoria uscita di un anarchico, ma il fermo
parere di Emilio Lussu, valoroso capitano della
Brigata Sassari, al petto quattro medaglie
guadagnate nel fuoco della Grande guerra. Non
occorre altro per comprendere le difficoltà che si
parano dinanzi a chi voglia inquadrare un
personaggio eccezionale, che parrebbe sortito da
un romanzo di Salgari. Dalle imprese in divisa
all'attività antifascista, dalla clamorosa fuga da
Lipari all'esilio francese, dalla guerra di Spagna
alla Resistenza. E nel contempo,
dall'interventismo democratico all'autonomismo
sardo, da Giustizia e libertà al Partito d'Azione,
dal Psi al Psiup, lungo un percorso quanto mai
accidentato, nel quale brilla la cristallina
coerenza di uno spirito inflessibilmente
democratico. Uno spirito che si ritrova nei
discorsi conservati negli Atti del Parlamento
(dove sedette dal 1921 al 1926, e dal 1945 al
1968), ma anche nella sferzante ironia che accende
le pagine scritte durante l'esilio, tra le quali
spiccano due vette della memorialistica
novecentesca, come Marcia su Roma e dintorni,
lucidissima analisi della maniera in cui la
malapianta fascista attecchì; e Un anno
sull'Altipiano, semplicemente il più bel libro
italiano sulla Prima guerra mondiale, come ha
scritto Mario Rigoni Stern.
Peraltro, vale la pena di osservare come - prima
di trovare posto nello scaffale che ospita i
capolavori europei del disincanto, accanto a Il
fuoco e Niente di nuovo sul fronte occidentale Un anno sull'Altipiano sia rimasto nella penombra
fino agli anni Sessanta, quando le ristampe, prima
nei «Coralli» Einaudi, poi negli «Oscar»
Mondadori, trovarono lettori indisponibili ad
accettare l'accusa di disfattismo che troppo a
lungo un malinteso amor patrio aveva rivolto al
libro. Di lì a poco fiorirono le edizioni
scolastiche, nonostante le perplessità di Lussu,
che riteneva le sue rievocazioni troppo scioccanti
per un pubblico giovanile, ma - per una volta rinunciò all'isolana caparbietà che ne
contraddistingueva il carattere.
L'importanza della Sardegna per Lussu, in
effetti, va ben oltre il mero dato anagrafico, che
lo vuole nato nel 1890 in una casa del piccolo
borgo di Armungia. Come scrisse in vecchiaia, tra
le irsute vallate del Gerrei, solcate dal
Flumendosa, ebbe modo di conoscere «gli ultimi
avanzi di una comunità patriarcale, senza classi e
senza stato», nella quale l'ordine pubblico era
garantito da anziani pastori-contadini. Da essi,
insieme alla tradizionale balentìa, apprese i
valori di egualitarismo e libertà cui rimase
sempre fedele, facendone la bussola che guidò le
idee politiche maturate durante gli studi, a Roma
e Cagliari, dove si distinse nelle manifestazioni
a sostegno dell'intervento italiano contro gli
Imperi centrali. Ad accenderlo non erano soltanto
astratti furori irredentisti, ma la volontà di
estendere la democrazia in terra germanica, come
rivendicò in un vibrante intervento pronunciato
alla Camera, il 24 maggio del 1922: «Non tanto per
un palmo di più lontana frontiera abbiamo gettato
al vento la nostra giovinezza, ma per uno
sconfinato senso e desiderio di libertà e di
giustizia».
Quell'anno sull'Altipiano
In qualità di ufficiale di complemento, nella
Grande guerra Lussu aveva offerto numerose prove
di abilità e coraggio sui principali fronti
italiani: dal Carso all'Altopiano dei Sette
Comuni, dalla Bainsizza al Piave. Inquadrato nella
strenua Brigata Sassari, costituita per lo più da
contadini e pastori sardi, dovette tuttavia
confrontarsi con una realtà assai distante dagli
slogan che avevano infiammato il «maggio radioso»
del 1915. La sostanziale estraneità dei fanti agli
ideali nazionalisti, e d'altra parte l'assoluto
sprezzo manifestato dai comandi nei confronti
delle loro vite, suscitarono in Lussu una dolorosa
presa di coscienza. Fu questa a indurlo vent'anni più tardi - a redigere una testimonianza
palpitante, del tutto estranea alle ricostruzioni
enfatiche e scioviniste accreditate nel frattempo
dal fascismo. Si trattava piuttosto di
demistificare, di considerare la guerra di trincea
per ciò che in primo luogo fu: un immane massacro,
a monte di ogni speculazione sulla sua presunta
utilità. Un anno sull'Altipiano nacque per
un'esigenza di verità, nell'intento di accendere
in Italia un barlume della consapevolezza da tempo
diffusa tra le opinioni pubbliche degli altri
Paesi che avevano pagato un altissimo tributo di
sangue.
Nel 1936, quando si pose all'opera, Lussu si
trovava in un sanatorio svizzero, in attesa di una
difficile operazione ai polmoni, sgomento dinanzi
ai trionfi delle dittature in Italia, Germania e
Spagna. Nel libro (uscito nel 1938 a Parigi,
preceduto dalla traduzione in spagnolo, apparsa a
Buenos Aires nel 1937) la fermezza della sua
opposizione si coglie innanzitutto sul piano dello
stile, indifferente ai pennacchi della retorica
bellica allora dilagante, e teso piuttosto a dare
un'impressione di asciutto decoro, sorretto da una
sintassi lineare, cui Lussu non rinuncia neppure
nei momenti più drammatici, sottolineati da
efficaci anticipazioni. «Io ho dimenticato molte
cose della guerra, ma non dimenticherò mai quel
momento», scrive ad esempio con semplicità prima
di narrare la morte di un amico durante un momento
di riposo, fulminato da un cecchino. All'episodio,
accaduto dinanzi ai suoi occhi, non fa seguito
alcun commento. Allergico al patetismo, Lussu
lascia che la tragedia si sprigioni dai fatti,
orchestrando magistralmente l'intollerabile
alternanza di stati d'animo che logorò i
combattenti, sospesi tra angoscia e stupore di
essere ancora vivi.
Allo stesso modo, per restituire al lettore
l'incubo della durata immensa di una guerra che
era parsa senza fine, scelse di concentrarsi su un
anno o poco più, ritagliando il periodo che va dal
giugno del 1916 all'estate del 1917. Al
trasferimento iniziale dal Carso all'Altopiano di
Asiago, dove gli asburgici avevano scatenato la
Strafexpedition, fa dunque riscontro nell'ultima
pagina l'ordine impartito ai «diavoli rossi» della
Sassari di recarsi sul fronte orientale, in
previsione della cruenta offensiva della
Bainsizza. Di fatto, Un anno sull'Altipiano non si
legge per sapere «come va a finire». Tiene più
dell'epica e della memorialistica che del romanzo
(non a caso Lussu si inalberò, quando alla
traduzione tedesca venne apposta la dicitura
Roman). D'altra parte alcuni episodi furono
condensati o rielaborati, mentre altri nella
realtà avvennero prima, o altrove, come hanno
fatto notare alcuni storici militari. Ma non è
solo per questo che il capolavoro di Lussu
andrebbe considerato un ibrido, come del resto
suggerisce l'epigrafe, dedicata sì al tema della
memoria, ma levata a Baudelaire: «J'ai plus de
souvenirs que si j'avais mille ans». Ad avvicinare
questa storia di fango e trincee alla narrativa,
in particolare, è il diffuso ricorso ai dialoghi,
nel corso dei quali le contrapposizioni
ideologiche emergono vigorosamente. Accade ad
esempio nei confronti tra ufficiali, divisi tra
quanti trattano i soldati come ascari e quanti li
ritengono cittadini tout court. Tra questi ultimi
è il comandante della decima Compagnia, ovvero il
medesimo Lussu, che nel capitolo XXV difende contro un collega incline alla sovversione - le
ragioni dell'intervento, al di là della stanchezza
e degli orrori: «Perché se così non fosse, alcuni
briganti ci avrebbero perennemente in loro
arbitrio impunemente solo perché noi abbiamo paura
della strage. Che ne sarebbe della civiltà del
mondo, se ingiusta violenza si potesse sempre
imporre senza resistenza?». Una questione
cruciale, e tanto più ai tempi in cui comparve
l'opera.
Dai discorsi diretti, inoltre, si comprende
quanto l'arroganza, l'impreparazione, il cinismo
dei superiori fossero la miccia di una carica
dissacrante che può trovare un degno corrispettivo
solo in certe pagine del Giornale di guerra e di
prigionia redatto da Carlo Emilio Gadda. A
demolire le folli pretese del generale Leone, o le
grottesche pignolerie del generale Piccolomini, è
il veleno di un'ironia amara e corrosiva, almeno
quanto l'alcol che scorre a fiumi dalla prima
all'ultima pagina. Sia nelle bottiglie cercate con
ansia dagli ufficiali sconvolti, o nelle botti
recate alle truppe prima degli assalti, è il
cognac la vera benzina della guerra. Lo sanno bene
i fanti, come si coglie dai loro concitati
discorsi, ascoltati da Lussu in silenzio
(«Ingrassano bene il porco prima di ammazzarlo».
«Lo ingrassano bene!». «C'ingrassano bene!»).
Stordirsi è l'unica alternativa all'insostenibile
consapevolezza della morte, quando non si scelga
il suicidio o la diserzione.
Proprio da ciò, tuttavia, scatta la volontà di
resistenza del narratore, deciso a conservare la
propria dignità in un universo claustrofobico,
nell'impatto con rumori, odori, visioni
insostenibili. Non è il coraggio o l'intelligenza
a renderlo eroico, ma questa tenace umanità, che
lo spinge a bere soltanto caffè, a leggere Ariosto
tra scoppi di granate e sibili di pallottole, a
conservare un aspetto decente, a vincere la
tentazione di abbandonarsi all'inerzia, alla
nostalgia, all'abbrutimento, all'ala della follia
che pure lo sfiora in mezzo ai cadaveri, quando
sente il «cervello sciaguattare nella scatola
cranica, come l'acqua agitata in una bottiglia».
La scrittura di Lussu nasce di fronte alla terra
di nessuno, al luogo in cui la violenza si fa
norma, ogni morale è sospesa, e l'avversario perde
individualità e diritti. Nasce di fronte al
versante più buio e scosceso della modernità, al
cospetto della natura: boschi e montagne
impassibili, da dove giunge di lontano «il guaito
della volpe, rauco e stridulo, simile a un riso
sarcastico».
Irriducibile
Le traumatiche esperienze vissute in divisa
determinarono in Lussu una progressiva presa di
responsabilità politica, dalla quale scaturì nel
1921 la scelta di fondare - insieme ad altri
reduci - il Partito Sardo d'Azione: un movimento
di matrice autonomista, teso a coinvolgere i ceti
popolari intorno all'obiettivo di sradicare i
residui feudali presenti sull'isola, in nome della
redistribuzione di terre e pascoli,
opportunisticamente promessa dai comandi in guerra
e presto finita nel dimenticatoio. Il vento della
sospirata riforma agraria, insieme alla fama di
audace combattente, spinsero Lussu tra i banchi
del Parlamento, appena trentenne. Qui tuttavia si
trovò a fare i conti con una situazione di stallo,
nella quale andava emergendo il fascismo. Dopo
un'iniziale sottovalutazione del fenomeno,
all'inizio del 1923 i dirigenti sardisti si
spinsero al punto di valutare un'eventuale
fusione, alla quale Lussu dopo qualche esitazione
preferì sottrarsi, ritenendo le due fazioni
incompatibili. Riconfermato deputato nel 1924, si
distinse anzi tra i più acerrimi nemici di
Mussolini, assumendo un ruolo di primo piano dopo
il delitto Matteotti, quando partecipò
all'Aventino.
Bersaglio di aggressioni e intimidazioni, Lussu
fu incarcerato nel 1926 e spedito al confino
l'anno successivo, a Lipari, dove non trovò certo
un'atmosfera di vacanza (come qualcuno oggi
vorrebbe far credere), ma condizioni durissime.
L'isolamento, le provocazioni dei sorveglianti, il
rischio di umilianti punizioni corporali non
valsero tuttavia a fiaccarne la tempra, tanto che
nell'estate del 1929 riuscì a evadere dalle Eolie
in motoscafo, per raggiungere Parigi, dove sfruttò
il clamore sollevato dalla fuga per riportare
sulle prime pagine della stampa europea la
disperante situazione politica italiana. I
precipizi del totalitarismo furono inoltre
denunciati da Lussu in un libello scritto e
pubblicato a caldo, La catena: classico esempio di
memorie dell'esule, pervase di sdegni danteschi,
appena velati dal sarcasmo di certe notazioni
sulfuree. Un solo esempio: grazie al duce, «il
Consiglio dei ministri avrebbe potuto tenere
seduta in una cabina telefonica, e sarebbe
avanzato dello spazio».
I medesimi toni pervadono Marcia su Roma e
dintorni, un lavoro ben più vasto e articolato,
pubblicato nel 1933 a Parigi, ma subito diffuso
clandestinamente in Italia grazie ai militanti di
Giustizia e Libertà, il movimento fondato da Lussu
con Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli. Per
raccontare il modo in cui il fascismo prese il
sopravvento, Lussu vi adotta una prospettiva
personale, lasciando sfilare gli eventi vissuti a
Roma e in Sardegna nel decennio che va dal 1919 al
1929, senza fingere un'obiettività inverosimile:
«Chi dà un colpo di sciabola, non proverà
evidentemente le stesse impressioni di chi lo
riceve. Non per tanto il colpo di sciabola sarà
sempre un colpo di sciabola». La metafora si
attaglia bene alla maniera coupé dell'opera, che
dà rilievo a intermezzi gnomici («La tragedia,
spesso, non è nel battersi ma nel non potersi
battere»), immagini icastiche (Mussolini, durante
il discorso del 25 giugno 1922, «così in alto,
sembrava un avvoltoio accovacciato su una rupe») e
stoccate impareggiabili. Come quella riservata a
D'Annunzio, venuto a conoscenza della mancata
concessione di Fiume all'Italia: «Debitore, poeta
e guerriero si fusero in uno: egli decise
l'impresa».
La brevità a effetto, ben più degli arzigogoli
retorici, era particolarmente adatta a colpire il
pubblico internazionale cui Lussu intendeva
rivolgersi nel libro (presto tradotto in francese,
inglese, portoghese), scritto in primo luogo per
mettere in guardia le democrazie sopravvissute
sino ad allora, perché non ripetessero gli errori
compiuti in Italia. Se il consolidarsi della
dittatura poteva apparire in qualche misura
inevitabile, in virtù dei saldi accordi stretti
con la monarchia, l'esercito e il Vaticano, non
così la presa del potere da parte delle camicie
nere, che avevano approfittato dell'eccessiva
confusione, debolezza, litigiosità che allignavano
negli apparati pubblici. Un discorso a parte è
riservato all'attitudine al trasformismo,
mascherato da «crisi di coscienza», e alle
responsabilità dei troppi che si rivelarono
inferiori ai compiti loro assegnati. A cominciare
dal re, protagonista di un momento memorabile,
allorché le associazioni dei combattenti gli
chiesero il ripristino delle libertà
costituzionali per sentirsi rispondere, dopo un
attimo di silenzio: «Mia figlia, stamattina, ha
ucciso due quaglie».
Il biasimo sarcastico, occorre notare,
oltrepassa la sfera delle autorità statali, per
dardeggiare quanti temevano i bolscevichi sino a
credere che avrebbero socializzato anche le donne;
e ancor più il rassegnato attendismo degli
aventiniani, speranzosi - alle voci sull'ulcera
del duce - che i microbi compissero l'opera da
loro temuta. Il Lussu degli anni Trenta si era
invece ormai convinto dell'improcrastinabile
necessità di combattere il fascismo con le armi.
Arrivò dunque a comporre un vero e proprio manuale
sull'argomento, Teoria dell'insurrezione
(pubblicato a Parigi nel 1936), nel quale passa in
rassegna i moti dell'Otto-Novecento, con
particolare attenzione all'Ottobre russo,
traendone spunti per le azioni da realizzarsi.
Scettico sull'ipotesi di una spontanea presa di
coscienza antifascista delle masse, Lussu crede
piuttosto nell'azione suscitatrice di
un'avanguardia risoluta, che a suo parere avrebbe
dovuto recuperare alla causa proletaria tanto
l'universo contadino quanto la piccola borghesia,
in nome dei diritti dell'individuo. È questo, in
effetti, il totem libertario per il quale Lussu si
batté sino all'ultimo, recisamente convinto che
«all'infuori della democrazia non v'è socialismo,
ma terrore permanente».
Uomini e cinghiali
Nella seconda metà degli anni Trenta Lussu prese
parte alla guerra civile spagnola, arruolandosi
nelle Brigate Internazionali nonostante la salute
malferma. Allo scoppio del conflitto mondiale andò
intensificando le attività cospirative, agendo col
nome in codice di Mister Mills in mille angoli
d'Europa, tra perquisizioni, inganni e sparizioni
rocambolesche, di cui scrisse più tardi in
Diplomazia clandestina (le medesime peripezie
furono narrate a caldo e con verve dalla moglie,
la scrittrice marchigiana Joyce Salvadori, in
Fronti e frontiere). Dopo avere sperato invano di
organizzare una rivolta popolare in Sardegna, con
la collaborazione degli inglesi, Lussu rientrò in
Italia nell'estate del 1943 per stabilirsi a Roma,
dove assistette all'ignominiosa fuga del re e
partecipò alla Resistenza nelle file di G.L., poi
confluita,nel Partito d'Azione, di cui divenne un
leader. Come tale, fu ministro con Parri e con De
Gasperi nell'immediato dopoguerra, quando
finalmente le sue opere principali furono stampate
in Italia, dove si guadagnarono l'ammirazione di
lettori del calibro di Benedetto Croce, Luigi
Russo, Eugenio Montale.
Non per questo negli anni successivi Lussu si
lasciò tentare dall'attività letteraria. Preferì
piuttosto concentrarsi nel ruolo di senatore del
Partito Socialista, guardando sempre con
attenzione alle vicende della sua regione,
perplesso dinanzi all'oblio sulla questione
sociale e alla deriva separatista del Partito
Sardo d'Azione, che lo ricambiò con un astio non
ancora spento. Ci fu persino chi giunse a
rimproverargli di non essere Grazia Deledda: di
non avere cioè posto i luoghi natii e il loro
patrimonio di abitudini e mentalità al centro
delle sue opere. Senonché si può rammentare un
testo breve, l'unico racconto d'invenzione
composto da Lussu, che fa eccezione. Alludo a Il
cinghiale del diavolo, scritto negli anni Trenta
ma pubblicato solo nel 1967, nel quale rievoca le
battute di caccia cui partecipò da ragazzo e le
storie di incanti udite nelle pause intorno al
fuoco. Certo sarebbe eccessivo legare a doppio
filo l'intera condotta di una vita alle regole
apprese nella società rurale ove Lussu ebbe la
ventura di crescere. Eppure resta difficile
sottrarsi alla suggestione del rimando, quando si
pensi alla scena più celebre di Un anno
sull'Altipiano. La scena del capitolo XIX in cui,
non visto, il capitano Lussu riesce ad avvicinarsi
alle trincee nemiche, abbastanza per sparare a
colpo sicuro a un nemico, ignaro. «Tirare così, a
pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale!».
Sarebbe un dovere. Ma ripone il fucile.
Vita di un capitano
1890: Lussu nasce ad Armungia, tra le colline
della Sardegna sudorientale, da Giuannicu,
proprietario terriero, e Lucia Mereu, figlia di
ambulanti cagliaritani, sposata contro il parere
della famiglia. Emilio cresce con il fratello
maggiore Peppino, tra scorribande all'ombra di un
nuraghe, storie di caccia e balentìas.
1902: Collegio salesiano a Lanusei.
1907-1910: Frequenta il liceo Mamiani di Roma,
con risultati alterni. Ottiene la licenza da
privatista al Dettori di Cagliari, per poi
iscriversi alla locale Facoltà di giurisprudenza.
1911-1912: A Torino, allievo del corso
ufficiali, presso il 92° reggimento di fanteria.
1915-1917: Fresco di laurea, nel maggio del 1915
parte per il fronte con la Brigata Sassari, da
poco costituita. Combatte sul Carso, sullo Zebio,
sulla Bainsizza, ottenendo svariate promozioni e
medaglie al valore.
1918: Il 28 gennaio è seriamente ferito al Col
del Rosso. Trascorre quattro mesi a Milano,
ricoverato in un ospedale militare. A fine maggio
torna in prima linea per difendere la linea del
Piave.
1919-1922: A settembre, congedato, rientra in
Sardegna, dove si impegna nelle associazioni di
combattenti, schierandosi con piglio giacobino
accanto a minatori, operai e contadini.
1921-1922: È tra i fondatori del Partito Sardo
d'Azione, con il quale entra in Parlamento,
sedendo all'estrema sinistra. Si spende per
l'autonomia e per i diritti del proletariato
rurale. Vota contro il governo Facta. Avverso al
fascismo, si salva per miracolo da un'aggressione,
rimediando una commozione cerebrale.
1923: Partecipa alle trattative in vista di
un'eventuale fusione tra sardisti e camicie nere,
attratto da una serie di concessioni abilmente
ventilate, ma deve presto ricredersi. In maggio a
Roma presenta le dimissioni da deputato, che
vengono respinte.
1924-1925: Rieletto a Montecitorio, dopo il
delitto Matteotti partecipa all'Aventino,
predicando invano forme di lotta più efficaci.
1926: Le pressioni dei fascisti si fanno
insostenibili. Il 31 ottobre rischia il
linciaggio, quando un gruppo di facinorosi tenta
di irrompere nella sua casa di Cagliari. Viene
arrestato per avere sparato a uno squadrista, che
muore.
1927: Trascorre lunghi mesi in una cella
malsana, dove si ammala ai polmoni. Al processo
contro ogni previsione gli si riconosce la
circostanza di legittima difesa. È assolto, ma
l'indomani viene condannato dal Tribunale speciale
per la difesa dello Stato a cinque anni di confino
a Lipari, in quanto reo di attività sovversive.
1929: In estate riesce a evadere in motoscafo
dall'isola, insieme a Carlo Rosselli e Francesco
Fausto Nitti. Raggiungono Tunisi e di qui la
Francia, dove danno vita a «Giustizia e Libertà».
A Parigi scrive di getto La catena.
1930-1934: Anni di esilio, tra viaggi in
incognito, complotti e mille difficoltà. Tra le
poche fonti di reddito, i diritti per Marcia su
Roma e dintorni, che esce nel 1933 a Parigi.
1935-1936: I malanni ai polmoni lo costringono a
ricoverarsi in un sanatorio svizzero, dove viene
operato. Durante la degenza scrive Teoria
dell'insurrezione e Un anno sull'Altipiano.
1937: Raggiunge la Spagna, per aggregarsi alla
Brigata Garibaldi. Rientra a Parigi alla notizia
dell'assassinio dei fratelli Rosselli.
1938: Rivede Joyce Salvadori, conosciuta nel
1933 a Ginevra. Diverrà la compagna di una vita.
1940: Poco prima dell'occupazione nazista lascia
Parigi per Marsiglia, dove si adopera per
organizzare la fuga di antifascisti e
perseguitati.
1941-1942: Viaggia clandestinamente in
Portogallo, a Malta, in Gran Bretagna, negli Stati
Uniti. Accarezza l'idea di predisporre
un'insurrezione popolare in Sardegna.
1943: In agosto rientra finalmente in Italia,
per partecipare alla Resistenza.
1944: Sposa Joyce a Roma. Nasce il figlio
Giovanni. In estate rimette piede in Sardegna,
dove destano sconcerto le sue posizioni
antiseparatiste.
1945: Ministro dell'Assistenza postbellica nel
governo Parri. Ministro per i Rapporti con la
Consulta nel successivo governo De Gasperi.
1946-1947: Nel Partito d'Azione difende
posizioni filosocialiste, che causano l'uscita del
gruppo liberalrepubblicano capitanato da Ugo La
Malfa. Si batte senza successo per orientare in
senso federalista la Costituzione.
1948-1968: Tramontato il Partito d'Azione, dà
vita al Partito Sardo d'Azione Socialista, con cui
entra nel Psi. Sotto le insegne dei socialisti
viene eletto più volte senatore. Ostile all'intesa
con la Dc, nel 1964 partecipa alla scissione da
cui nasce il Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria.
1972: Contrario alla confluenza del Psiup nel
Partito Comunista, si ritira definitivamente
dall'attività politica.
1975: Muore a Roma. Dispone che il corpo venga
cremato e le ceneri disperse nel Tirreno. Una
lapide oggi lo ricorda, insieme a Joyce, al
Cimitero degli Inglesi.
Mauro Novelli
(«Letture» n. 656/09)
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