Mario Perniola (Asti 1941) ha pubblicato II metaromanzo (Milano 1967), L'alienazione artistica (Milano 1971 e Parigi 1977), Bataille e il negativo (Milano 1977), La società dei simulacri (Bologna 1980). È professore ordinario di estetica all'università di Salerno. Vive a Roma. Mario Perniola Dopo Heidegger Filosofia e organizzazione della cultura Feltrinelli Prima edizione: settembre 1982 Copyright by © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Copertina di: Bob Noorda Premessa Il nome del pensatore, cui questo libro è dedicato, è rimasto non scritto. Valga come infedele obbedienza al suo invito di pensare la cosa stessa. In altri tempi, in altri luoghi. M. P. Rio de Janeiro, maggio 1982 7 Introduzione Non sempre la noncuranza dello statuto sociale e istituzionale di una forma di pensiero costituisce un ostacolo allo sviluppo di questa, né sempre la noncuranza delle premesse teoriche di una organizzazione costituisce un limite alla sua affermazione. Lo statuto socio-istituzionale della metafisica, dell'umanismo, della scienza è rimasto non pensato per secoli senza che ciò abbia costituito uno ostacolo al pensiero metafisico, alla formazione umanistica, alla ricerca scientifica e viceversa si è potuto operare all'edificazione di chiese, di partiti, di università senza interrogarsi sui presupposti filosofici che tali istituzioni implicano. Filosofia ed organizzazione della cultura, sapere e potere, hanno potuto credersi relativamente indipendenti l'uno dall'altro; e tale vicendevole incuria è stata sotto molti aspetti proficua ad entrambi. Pensare l'essere senza nel contempo pensare la chiesa, pensare l'uomo senza nel contempo pensare il partito, pensare il sapere senza nel contempo pensare l'università e la professione, e reciprocamente essere uomini di chiesa, esponenti di partito, ordinatori di sapere universitario e professionale senza sentirsi coinvolti nell'interrogazione sull'essenza della metafisica, dell'umanismo e della scienza, questa divisione di competenze e di compiti ha permesso a generazioni di metafisici, di ideologi e di scienziati, di preti, di politici e di professionisti una eccezionale concentrazione di energie intellettuali e l'esercizio di una operatività senza pari. Ma oggi la trascuratezza del rapporto tra filosofia ed organizzazione della cultura è esiziale per entrambe. Infatti è venuta meno la certezza non detta, anzi nemmeno pensata, ma saldissima nella sua implicitezza, che un popolo di Dio raccolga e conservi il messaggio proveniente da una vita interamente dedicata all'ascolto dell'essere, che una società di individui raziocinanti 8 consenta e convenga intorno a un progetto riguardante l'avvenire dell'uomo, che una comunità di dotti trasmetta e sviluppi il contributo recato dal singolo studioso al progresso della conoscenza. Reciprocamente è venuta meno la certezza, anch'essa non detta, anzi nemmeno pensata, ma saldissima nella sua implicitezza, che al concetto di chiesa sia essenzialmente inerente un patrimonio dottrinale organico, che al concetto di partito sia strettamente congiunto un programma ideologico coerente, che al concetto di professione sia necessariamente legato un sapere scientifico sistematico. Ciò che è diventata problematica non è tanto la loro mera esistenza, quanto la corrispondenza, un tempo strettamente operante, anche se non pensata, tra forme di pensiero e forme di organizzazione culturale: il dubbio riguarda da un lato la socialità essenziale della filosofia, dall'altro la teoricità essenziale delle istituzioni. Per socialità essenziale della filosofia qui non s'intende il fatto che la vita collettiva, la società, la comunità, siano oggetto, materia, tema di riflessione filosofica, né ovviamente che il suo venir meno sia connesso con l'imporsi all'attenzione dei filosofi di altri oggetti, materie, temi attinenti alla vita individuale, al soggetto, al singolo; analogamente per teoricità essenziale delle istituzioni qui non s'intende il fatto che la formulazione esplicita di principi, di fondamenti', di idee generali, sia indispensabile alla nascita e alla prosperità delle istituzioni, né ovviamente che il suo venir meno sia congiunto col prevalere di un empirismo alieno dalla enunciazione di principi, di fondamenti, di idee generali e sollecito solo alla soluzione di problemi specifici e alla soddisfazione di esigenze particolari. La questione è più radicale e non riducibile al mero passaggio da interessi e problematiche politiche a interessi e problematiche morali, né dal razionalismo organizzativo all'empirismo organizzativo. La socialità essenziale della filosofia garantiva alle esperienze spirituali più eremitiche, alle avventure culturali più intimistiche e private, alle ricerche più specialistiche ed estranee ad ogni applicazione pratica, la stessa dimensione che riservava alle teorie generali dell'essere, dell'uomo, del sapere: il filosofo monastico e il filosofo politico partecipavano ad uno stesso io mondo, il mondo dello spirito, della cultura, della conoscenza, che mediava il loro rapporto col mondo empirico, col mondo di tutti. Non c'era bisogno perciò che il singolo studioso si preoccupasse di riflettere sullo statuto organizzativoistituzionale del suo pensiero, perché esso era già garantito in partenza, per quanto solitario fosse il suo cammino: la sua filosofia non era mai esposta direttamente al rapporto col mondo empirico, alla mancanza di presupposti e di punti di riferimento sicuri, al cinismo, alla corruzione, alla contraffazione, alla superficialità arrogante, al fraintendimento interessato, all'ignoranza presuntuosa, e per quanto tutti questi aspetti si manifestassero anche nelle organizzazioni culturali, nella chiesa, nel partito, nella professione, restava tuttavia sempre possibile l'appello al principio logico che le fondava, ad una loro intima razionalità destinata prima o poi a prevalere. E sebbene i destinatari della metafisica, dell'ideologia e della scienza fossero in ultima analisi un numero relativamente piccolo di persone colte, era indiscutibile e indiscusso il fatto che la salvezza, l'educazione e il sapere riguardassero in linea di principio ed essenzialmente l'intera società. Perciò attraverso e grazie all'esistenza di organizzazioni e di istituzioni, di ambiti sociali ben individuabili e delimitati, l'esperienza, la voce e l'attività del filosofo era l'esperienza, la voce e l'attività della società stessa. La teoricità essenziale delle istituzioni garantiva agli organizzatori una piena indipendenza nei confronti delle discussioni teologiche, ideologiche e scientifiche che si svolgevano all'interno della chiesa, del partito e dell'università: essi in fondo erano i custodi dell'unità e della coerenza dell'istituzione e potevano mantenersi neutrali senza per questo cadere nel lassismo, nell'opportunismo, nella cialtroneria. Anzi, la molteplicità di interessi e di idee era essenziale allo stesso concetto di organizzazione culturale: il rispetto della pluralità delle vocazioni, delle strategie, delle scuole è proprio ciò che distingueva la chiesa, il partito, l'università dalla setta, dalla fazione, dalla conventicola. L'esistenza di un nucleo teorico intrinseco all'istituzione consentiva all'organizzatore un disimpegno e una irresponsabilità nei confronti della teoria che si 12 manifestavano altresì nell'uso meramente tattico del sapere, dettato da ragioni di opportunità contingente o di sagacia politica: non c'era bisogno che il singolo organizzatore si preoccupasse di riflettere sui fondamenti della conoscenza o sui presupposti su cui si fondava la sua organizzazione, giacché questi erano garantiti in partenza dal suo status di prete, di membro del partito, di professionista del sapere. Del resto se andava ad onore di un filosofo l'essere rimasto della stessa opinione o l'aver sviluppato coerentemente il suo pensiero senza influenze occasionali, si chiedeva al contrario ad un organizzatore una estrema duttilità e disponibilità a sostenere le tesi, le prospettive, le teorie via via prevalenti all'interno della chiesa, del partito, dell'università. Questi mutamenti erano in fondo imposti dalla razionalità del processo storico, cui innanzitutto l'organizzatore doveva obbedienza. Ma oggi questo equilibrio rassicurante ed armonico tra filosofia ed organizzazione della cultura, tra sapere e potere, che garantiva l'operosa e serena continuità del lavoro filosofico e tutelava la buona coscienza dell'indefessa attività organizzativa si è rotta. Il filosofo non può sottrarsi al dubbio che il lavoro filosofico sia paragonabile ad un innocente trastullo, se non ad una personale privata follia; né l'organizzatore al dubbio che quasi nulla distingua la sua organizzazione da una qualsiasi mafia, se non da una banda o da una organizzazione a delinquere. È come se all'improvviso la lotta contro l'isolamento e contro la barbarie, che da secoli la cultura conduce, fosse perduta per sempre e per tutti. Paradossalmente il filosofo si sente disperatamente isolato proprio nel momento in cui la filosofia diventa popolare come mai in passato, in cui si spezza la condizione di tradizionale separazione che aveva mantenuto il sapere in ambiti sociali, organizzativi ed istituzionali ben precisi. Il fatto che tali ambiti non riescano più a svolgere una effettiva mediazione culturale tra la filosofia e la società nel suo complesso può a prima vista sembrare una liberazione da forme di condizionamento e di costrizione talora particolarmente gravose e limitative: per esempio, la possibilità di rivolgersi direttamente attraverso la televisione a milioni di persone anziché a poche migliaia di 13 uomini di buona volontà, di persone colte o di ricercatori e scienziati, appare come la tanto attesa e tanto bramata realizzazione della vocazione universalistica della filosofia. In realtà parlando a tutti, il filosofo non parla più a nessuno: non tanto per la difficoltà di trovare un linguaggio accessibile ad uditori cosi sterminati, cosi vari ed eterogenei, quanto perché ormai dovrebbe porsi come un aspirante alla direzione della società, della chiesa, del governo, delle istituzioni internazionali, per poter avere l'impressione di soddisfare la domanda che proviene da un pubblico cosi immerso nel mondo empirico. E se egli non può o non vuole porsi come un candidato al potere, non gli resta che essere un membro della società dello spettacolo insieme a cantanti, sportivi, e saltimbanchi, tutte persone che esercitano mestieri degnissimi, ma non particolarmente affini alla filosofia, né particolarmente adatti a ricostituire il rapporto tra sapere e società. La possibilità che gli viene preclusa è proprio quella più semplice e più ovvia, la possibilità cioè di fare il mestiere che ha imparato, di essere semplicemente un teologo, un ideologo, uno scienziato. Paradossalmente l'organizzatore culturale si sente disperatamente impotente proprio nel momento in cui cadono i limiti che la razionalità intrinseca delle istituzioni ponevano alla sua attività, proprio nel momento in cui gli si aprono possibilità d'intervento estremamente più ampie ed articolate. A partire dal momento in cui la chiesa, il partito, la professione attenuano e rarefanno i presupposti dogmatici, ideologici e scientifici su cui si fondano, all'organizzatore è consentita una mobilità e una spregiudicatezza di interventi senza paragone più ampia che nel passato. Ciò avviene sia mediante la dilatazione dei ruoli, per cui il prete diventa operatore pastorale, il politico operatore culturale, il professore consigliere scientifico, sia mediante la loro estensione, per cui le figure tradizionali si trasformano in managers di faccende spirituali, culturali e scientifiche, sia mediante il loro intrecciarsi e sommarsi per cui cadono molte incompatibilità strutturali, sicché, per esempio, par quasi ovvio che un professore di successo possa essere anche contemporaneamente giornalista, direttore di collane editoriali, 14 libero professionista, membro influente di un partito e cosi via, sia infine soprattutto mediante le pressioni, le sollecitazioni e le seduzioni che gli strumenti di comunicazione di massa esercitano sulle funzioni organizzative tradizionali. Sempre più appare evidente che condizione fondamentale della penetrazione dell'organizzazione culturale è la trasversalità, cioè la sua capacità di stabilire connessioni e legami tra ambiti disparati e lontani. Ma cosi va perduta completamente la ragion d'essere stessa dell'organizzazione culturale: l'apostolato, la propaganda, la divulgazione di una verità scientifica sono sostituite dall'intrecciarsi di trame prive di specifici connotati religiosi, politici o culturali, proprio perché devono attraversare tutti questi ambiti. Le istituzioni culturali tradizionali diventano forme vuote suscettibili di essere riempite di qualsiasi contenuto. L'organizzatore culturale è costretto ad assimilarsi e confondersi con faccendieri e mestatori d'affari, il suo potere diventa paragonabile a quello di un boss mafioso. E se egli non vuole o non può rassegnarsi all'impotenza della chiesa, del partito e dell'università intese come forze culturali autonome, non gli resta che diventare filosofo, cioè di cercare da solo un senso alla propria attività. La possibilità che anche a lui viene preclusa è proprio quella più semplice e più ovvia, di fare cioè il mestiere che ha imparato, di essere semplicemente un prete, un politico, un professionista. Certo si possono individuare con profitto le cause di questo profondo sovvertimento, che toglie alla filosofia la sua socialità intrinseca, costringendola a scegliere tra lo spettacolo, la ricerca di strumenti di potere e uno estremo isolamento, e che toglie all'organizzazione della cultura la sua razionalità intrinseca, costringendola a scegliere tra la mafia, la ricerca di fondamenti teorici e un'estrema impotenza, nelle profonde trasformazioni storiche in atto, negli odierni radicali mutamenti sociali, nell'avvento e nella diffusione capillare degli strumenti di comunicazione di massa. Ma attribuendo esclusivamente a fenomeni storici, sociali, tecnici, la causa di tale sovvertimento, da un lato non ci si rende conto pienamente del significato essenziale che essi hanno, dall'altro non si spiega la profondità del turbamento che ha investito il mondo del sapere e 15 dell'organizzazione culturale. Nasce allora il sospetto che la situazione presente abbia origini antiche e radici profonde, che l'attuale trionfo della decorazione e della barbarie sia il punto di arrivo di processi secolari, se non millenari, che il filosofo sia sempre stato isolato, nonostante i suoi discepoli, seguaci ed allievi, che l'organizzatore di cultura sia sempre stato impotente nei confronti della violenza, della corruzione e della falsificazione, infine che metafisica, umanismo e scienza siano sempre state forme di pensiero incapaci di garantire la socialità del sapere, che chiesa, partito e professione siano sempre state organizzazioni troppo deboli per garantire la razionalità della società. Questo sospetto si fa strada nonostante e contro inveterate abitudini mentali che vedono nella metafisica, nell'umanismo e nella scienza, forme di pensiero antitetiche tra loro: la storia del pensiero filosofico sembra infatti essere stata segnata dal conflitto tra la metafisica e l'umanismo, tra la metafisica e la scienza, tra l'umanismo e la scienza. La causa dell'essere, la causa dell'uomo, la causa del sapere sono lungamente apparse incompatibili tra loro e il loro contrasto ha condizionato lo svolgimento e determinato il senso stesso dell'attività filosofica. Nel superamento di tali opposizioni sta la grandezza della dialettica, la quale ha costituito il più superbo e inaudito tentativo di affermazione della socialità intrinseca della filosofia: l'identificazione tra sostanza, autocoscienza e sapere nello spirito assoluto e nel suo divenire storico, la definizione della storia del mondo come lo svolgimento dell'idea universale dello spirito nella sua realtà costituiscono il punto culminante della metafisica, dell'umanismo e della scienza finalmente conciliate tra loro nel sapere assoluto. Eppure benché il filosofo dialettico non sia la mera somma dei ruoli tradizionali di sacerdote, guida e sapiente, ma costituisca un fatto nuovo di enorme rilevanza nella storia dei rapporti tra sapere e potere, il suo statuto non è tuttavia in ultima analisi separabile dalle premesse da cui sono nate e su cui si sono sviluppate la metafisica, l'umanismo e la scienza: di queste forme di pensiero egli costituisce piuttosto il coronamento e il compimento ed è grazie ad esse che egli può essere 16 riconosciuto come l'autocoscienza della storia universale. Perciò a partire dal momento in cui tali premesse vengono meno, il suo isolamento è infinito tanto quanto lo era la sua perenta pretesa alla centralità storico-sociale. Non diversamente l'importanza e il rilievo che in passato hanno avuto i conflitti tra l'organizzazione ecclesiastica, l'organizzazione laica e l'organizzazione professionale, i contrasti tra gruppi turcimanni ed interpreti della razionalità teocratica, della razionalità democratica e della razionalità scientifica che paiono ancora in varie parti della terra contendersi il potere in asprissime lotte, sembrano meno essenziali e più regionali, a partire dal momento in cui s'impone la razionalità intrinseca dello stato, che ingloba e supera in se stesso le istituzioni particolari, ponendosi come l'ingresso di Dio nel mondo, come la totalità garante dell'esistenza razionale degli individui, come la potenza della ragione realizzan- tesi in quanto volontà. Non vi è dubbio che lo stato, cosi inteso, rappresenti la più alta e comprensiva affermazione della teoricità essenziale dell'istituzione culturale, il coronamento e il compimento delle premesse implicite nel concetto di chiesa, di partito e di professione. Ma proprio perciò il dubbio che corrode le fondamenta su cui si regge il potere di queste istituzioni è nei suoi confronti tanto più forte e tanto più insinuante: clamorosa infatti appare la sproporzione tra la pretesa di avere il monopolio di tutta la razionalità effettuale e la carenza di organicità, di coerenza e di sistematicità che mette in mostra. Sicché l'enormità stessa della sfida che 10 stato inteso come massima e assoluta organizzazione culturale rivolge alla barbarie della violenza, della corruzione e dell'ignoranza favorisce la sua resa incondizionata a questi suoi antagonisti storici. 11processo che trasforma il filosofo dialettico nell'uomo più isolato e il capo dello stato centralistico nell'uomo più impotente a garantire la razionalità della storia non lascia scampo nemmeno al filosofo eclettico e al capo dello stato pluralistico. È infatti illusorio credere che le opposizioni tra metafisica, umanismo e scienza possano essere conciliate in un eclettismo compiacente e bonario, il quale opina di pacificare tutto e tutti in nome di qual- 17 che ideale cosi ampio da comprendere ed assimilare essere, uomo e sapere. Al contrario metafisica, umanismo e scienza appaiono oggi essenzialmente affini tra loro, perché emerge un conflitto più ampio e più profondo di tutti quelli conosciuti finora, perché s'impone una differenza che il concetto metafisico di essere, il concetto umanistico di uomo, il concetto scientifico di sapere non riescono a pensare, né tantomeno a contenere, perché compare un'opposizione più radicale della contraddizione dialettica. L'eclettismo non è un rimedio alla perdita della socialità essenziale del filosofare: non si tratta affatto di stringere i ranghi nella difesa della filosofia occidentale prescindendo dalla diversità dei suoi orientamenti e delle sue tendenze, bensì di differenziarsi e di separarsi da un modo di pensare che, nonostante la diversità dei suoi orientamenti e delle sue tendenze, ha presupposto come ovvia la propria socialità. Parimenti illusorio è opinare che laddove fallisce lo stato centralistico, il quale assomma in se stesso le funzioni della chiesa, del partito e della professione, riesca lo stato pluralistico, il quale presuppone l'emergere di una razionalità sociale dalla concorrenza di molte organizzazioni religiose, politiche ed editoriali, scientifiche e professionali. Infatti tali organizzazioni solo ad una considerazione molto superficiale possono apparire come effettive unità culturali: il vero confronto, incontro o scontro non avviene tra loro in modo palese e trasparente secondo il riferimento ai principi su cui pretendono di fondarsi, ma tra aggruppamenti occulti, che, creando complicità e connivenze, le attraversano tutte secondo una logica inespressa e inconfessabile. Il pluralismo non è un rimedio alla perdita della teoricità essenziale delle organizzazioni: se nulla di essenzialmente teorico fonda più la loro esistenza, nulla di essenzialmente teorico può saltar fuori dalla loro concorrenza e articolazione nello stato pluralistico. Non si tratta perciò evidentemente di moltiplicare le organizzazioni ecclesiastiche, partitiche o professionali, ma proprio al contrario di dar voce e corpo a quell'unica logica inespressa e inconfessabile che le attraversa tutte. 18 La dialettica e l'eclettismo sono le ultime filosofie essenzialmente sociali, cosi come lo stato centralistico e quello pluralistico sono le ultime organizzazioni culturali essenzialmente teoriche. Essi segnano la prima fase del compimento delle premesse implicite nel concetto di metafisica e di chiesa. A questa succede una seconda fase che segna il passaggio dalla dialettica al nichilismo, dallo stato al populismo. In questa seconda fase di compimento della metafisica e della chiesa il rapporto tra la filosofia e l'organizzazione della cultura si pone in termini completamente differenti dal modo in cui si poneva nella prima fase. Mentre nella prima fase da un lato la filosofia era realizzata nello stato e dall'altro lo stato aveva acquisito la consapevolezza della propria razionalità, sicché esisteva un rapporto di corrispondenza reciproca tra sapere e potere, tra forme del filosofare e forme del governare, per quanto non privo di ambiguità e di doppiezze, nella seconda fase tale rapporto viene completamente meno, perché la filosofia e l'organizzazione della cultura conoscono un compimento più profondo e radicale che rende inutile la loro prosecuzione nelle forme tradizionali di sapere organico, coerente, sistematico, di potere comunitario, prospettante, competente. Certo si continua a parlare di filosofia e di stato, e segnatamente di filosofia della volontà di potenza e dell'eterno ritorno, di stato totalitario e di stato debole. Ma, se esiste un rapporto di profonda connessione reciproca tra dialettica e stato centralistico, tra eclettismo e stato pluralistico, nessun legame verticale sussiste più tra la nuova sedicente filosofia e il nuovo sedicente stato. Ognuno dei due procede per proprio conto mirando ad una estensione orizzontale del proprio ambito che copra anche e soprattutto ciò che tradizionalmente apparteneva all'altro. Volontà di potenza ed eterno ritorno sembrano a prima vista orientamenti opposti, in realtà sono due diverse accentuazioni di uno stesso fenomeno: infatti la prima può esercitarsi senza ostacoli solo quando si è raggiunta una completa indifferenza al significato intrinseco del pensare e viceversa il secondo procede ad un completo livellamento di tutte le forme del filosofare sotto la spinta di una volontà di affermazione incontenibile. Stato 19 totalitario e stato debole sembrano a prima vista forme sociali opposte, in realtà sono due diversi aspetti di uno stesso fenomeno: il fatto che una singola mafia si appropri delle strutture istituzionali disponendone a proprio piacimento implica già il completo decadimento della razionalità intrinseca di queste e viceversa la debolezza delle strutture istituzionali dipende appunto dall'esistenza di una lotta tra mafie nessuna delle quali è certa della vittoria. In questo secondo compimento non c'è più bisogno di una filosofia tradizionalmente intesa come riflessione coerente ed originale sull'essere, sull'uomo, sul sapere, né di una organizzazione culturale, tradizionalmente intesa come istituzione che ha in se stessa la propria legittimità e razionalità. Il nichilismo presume di possedere già una sua socialità intrinseca che gli consenta di dare o togliere legittimità indifferentemente a qualsiasi potere, ma proprio questo opportunismo e qualunquismo lo spoglia di ogni teoricità essenziale: va perduta non solo l'incompatibilità originaria tra metafisica, umanismo e scienza, ma anche il superamento dialettico delle loro contraddizioni e perfino l'armonizzazione eclettica delle loro diversità. Pensiero dell'essere, pensiero dell'uomo e pensiero del sapere diventano intercambiabili tra loro, non già perché si fa valere la possibilità di un pensiero differente, nei confronti del quale le loro distinzioni perdono rilievo, né tantomeno perché si sostiene la loro sintesi dialettica o la loro conciliazione eclettica, bensì perché sciolta da tutti i legami che possono ancorarla ad una qualsivoglia razionalità, confondendo tutto con tutto, la garrula voce di una sedicente filosofia possa aggiungersi al valore o al fatto che dà maggiore garanzia di forza, di stabilità, di successo. Il ruolo della sedicente filosofia non è nemmeno più quello della legittimazione della forza, ma soltanto dello spettacolo e dell'ornamento. Analogamente il populismo presume di possedere già una sua teoricità intrinseca che gli consenta di incorporare qualsiasi componente favorisca la sua espansione; questo cinismo e questa indifferenza teorica lo spoglia altresì di ogni socialità essenziale: va perduta non solo l'incompatibilità originaria tra chiesa, partito e professione, ma anche il superamento dialettico delle loro 20 contraddizioni come avviene nello stato centralistico, nonché l'armonizzazione eclettica delle loro diversità come avviene nello stato pluralistico. Chiesa, partito e professione sono assimilati tra loro non perché emerga la possibilità di una istituzione differente, nei confronti della quale le loro distinzioni perdono rilievo, né tantomeno perché appaia all'orizzonte la loro sintesi dialettica o la loro conciliazione eclettica, bensì perché sciolta da ogni organicità, da ogni coerenza, da ogni rigore, la sedicente organizzazione culturale possa essere libera di fare e di disfare, di tessere e di spezzare, di congiungere e di disgiungere tutte le trame religiose, politiche e scientifiche che l'opportunità momentanea le suggerisce. È evidente che una aggregazione simile è incapace di creare e di mantenere una qualsiasi socialità: la sua logica non è nemmeno più quella della mafia tradizionale, in cui tanta importanza aveva la fedeltà, ma soltanto quella della macchinazione e della banda. Ovviamente la filosofia dello spettacolo è una delle tante pseudo-filosofie in cui si compie il nichilismo. Esso si compie altrettanto bene in una riproposizione della scolastica medioevale, dell'antropologia o del positivismo: nessuna filosofia tradizionale è immune dal pericolo di un simile trattamento riattualizzante che la riduce ad ornamento. Perfino la dialettica può essere riciclata dal nichilismo. Analogamente l'organizzazione della macchinazione può riproporsi come comunità, come unità ideologica, come gruppo professionale, oltre che ovviamente spacciarsi per stato centralistico o stato pluralistico, senza perciò perdere il proprio carattere essenziale di banda. Anzi tutte le organizzazioni culturali tradizionali possono essere riciclate in un contesto che toglie ad esse ogni razionalità ed ogni socialità. Errori politico-filosofici fatali derivano appunto dal presupporre che quella connessione essenziale tra filosofia ed organizzazione della cultura che è esistita nel rapporto metafisica-chiesa, umanismo-partito, scienza- professione, prosegua anche in questa ultima fase. Essa però annuncia un nuovo legame tra cultura e società che è di tutt'altra natura di quello esistente tra una filosofia ed un'organizzazione della cultura: nella scomparsa della filosofia e 21 dell'organizzazione della cultura, distinte e separate, appare la possibilità di un pensiero effettivo e di una effettività pensante. Se perciò in nessuna età filosofia ed organizzazione della cultura sono state cosi inutili ed insensate come oggi, nessuna età è stata tanto profondamente filosofica e culturale quanto la presente. 1. L'ordine metafisico-ecclesiastico Nel momento in cui da un lato i filosofi prendono le distanze dalla metafisica in nome di un pensiero più essenziale e comprensivo dell'essere, e dall'altro gli uomini di chi,esa prendono le distanze dalla nozione tradizionale di chiesa in nome di una dimensione più essenziale e comprensiva di questa, sembra che si metta in moto un processo di grande rilevanza filosofica e storica. Si scopre cosi che la metafisica ha potuto affermarsi come tale solo attraverso una limitazione dell'essere, che lo ha costituito come ente, separandolo dal nulla, dal divenire, dall'apparenza, dal pensare, dal dovere e facendo dipendere la sua necessità da un fondamento, da una causa che costituisce la sua ragion d'essere. Si scopre cosi anche che la chiesa ha potuto affermarsi come tale solo attraverso una limitazione della società umana, che la ha costituita come istituzione, separandola dall'umanità, determinandola come unica, infallibile, visibile, missionaria, ed ancorando la sua ragion d'essere ad una solida e perspicua struttura gerarchica. Tali considerazioni possono essere sviluppate col mettere in evidenza vuoi le implicazioni ecclesiastiche della metafisica, vuoi le implicazioni metafisiche della chiesa tradizionale. Se viene facilmente concesso che la struttura fondamentale della metafisica è stata stabilita da Platone attraverso la sua interpretazione dell'essere come idea, non altrettanto ovvio è il significato essenzialmente ecclesiastico della sua concezione della politica, che assegna ai filosofi il ruolo di reggitori della 22 città. L'importanza e l'originalità di Platone, rispetto a più antiche tradizioni indo-europee consiste tuttavia nell'assegnare tale ruolo ai filosofi non in quanto sacerdoti o eredi di una classe sacerdotale, bensì in quanto depositari di una verità che implica radicali innovazioni organizzative e profondi mutamenti sociali. Inoltre tale pretesa di forgiare l'intera società secondo un ordine metafisico non è privo di rapporto con la dimensione socio-organizzativa che la filosofia platonica assume nella fase della sua elaborazione più compiuta e della sua trasmissione. La scuola platonica, l'Accademia, è già la chiesa, non tanto perché è costituita giuridicamente nella forma del tiaso, dell'associazione religiosa greca, quanto perché è una società in espansione che esige da tutti i suoi aderenti una unità dottrinale, culturale e vitale indipendentemente dalle origini etniche e sociali di ciascuno. Si deve perciò arrivare a ritenere implicita alla metafisica e alla concezione dell'essere come ente, la nozione di una dimensione collettiva unitaria, alla cui partecipazione è essenziale l'apprendimento di verità fondamentali. Il fatto che solo il cristianesimo riuscì a realizzare compiutamente tale organizzazione è forse meno importante del fatto di avere posto le condizioni della sua possibilità. Reciprocamente s'impone all'attenzione il carattere essenzialmente metafisico della nozione tradizionale di chiesa, quale essa si è determinata dai primi tempi del cristianesimo fino al concilio Vaticano II: essa ha potuto organizzarsi come istituzione, costituita gerarchicamente, che si attribuisce pretese di dominio universale e sovratemporale unicamente sulla base di una concezione metafisico-teologica dell'essere, la quale è stata si pensata e sviluppata nel corso del Medioevo con la massima ampiezza e profondità, ma solo in una prospettiva teorica autonoma senza che emergesse il suo rapporto essenziale con la struttura organizzativa. Non basta comprendere che metafisica e teologia abbiano potuto nascere ed essere coltivate soltanto all'interno della chiesa, se rimane celato il fatto che la chiesa è possibile soltanto nell'ambito di un preesistente orizzonte metafisico-teologico. Il radicamento della metafisica e della teologia in seno alla società ecclesiastica non spiega ancora la di- 23 pendenza della società ecclesiastica da fondamenti metafisico-teologici. L'emancipazione della filosofia dalla metafisica, che avviene attraverso la scoperta della radicale differenza dell'essere rispetto all'ente, porta dunque al rifiuto della pretesa ecclesiastica latente in ogni metafisica, cosi come l'emancipazione dell'ecclesiologia dalla nozione tradizionale di chiesa, che avviene attraverso la scoperta dell'alterità ecumenica ed ecclesiale rispetto all'istituzione, porta al rifiuto del fondamento metafisico implicito in ogni istituzione ecclesiastica. Cosi è stato senza dubbio compiuto il primo passo verso la comprensione dei rapporti intrinseci esistenti tra filosofia ed organizzazione della cultura. Ma il legame tra metafisica e chiesa contiene aspetti più profondi ed essenziali di quanto l'ontologia e l'ecclesiologia contemporanee sospettino. C'è infatti nella pretesa tipica dell'ontologia contemporanea di pensare l'essere indipendentemente da ogni riferimento sociale visibile e nella pretesa tipica dell'ecclesiologia contemporanea di organizzare la chiesa indipendentemente da ogni fondamento filosofico costrittivo, una disattenzione al problema della socialità della filosofia e della razionalità dell'organizzazione culturale, la quale è connessa al misconoscimento dell'enorme rilevanza teorico-sociale del- 1 ' ordine metafisico-ecclesiastico. La convinzione che tale ordine appartenga irrevocabilmente al passato e non sia più in nessun modo riproponibile non dovrebbe escludere il riconoscimento della necessità con cui esso si è imposto dapprima nella filosofia greca e poi nella civiltà cristiana. Il fatto che la metafisica pensi l'essere come ente, e la chiesa organizzi la società in modo riduttivo e limitativo non è infatti derivato certo da una leggerezza teorica o da una incapacità organizzativa; tali riduzioni e limitazioni sono state le condizioni imprescindibili affinché fosse garantita la socialità del filosofare e la razionalità dell'organizzazione. Possono l'ontologia e l'ecclesiologia contemporanee assicurare in modo diverso l'una e l'altra? E se sono in grado di rispondere a tale quesito solo con l'appello al mistero, non è troppo frettoloso e 24 disinvolto il loro rifiuto della metafisica e della chiesa istituzionale? Una volta ammesso che il processo attraverso cui l'essere è pensato come ente non è soltanto di natura teorica, ma contiene implicitamente anche una limitazione sociale non tanto perché sceglie e distingue coloro che vengono riconosciuti degni di essere membri della scuola filosofica da tutti gli altri, ma soprattutto perché si prefigge di allontanare e di escludere dalla città ideale coloro che come i poeti sono irriducibili ad una identità e si presentano sempre sotto nuove forme, occorre altresì sottolineare che la metafisica non prende la sua origine da conoscenze iniziatiche trasmesse occultamente, bensì nasce da un dialogo cui tutti possono partecipare. Certo questa partecipazione è ambigua: essa implica insieme la distinzione tra maestro ed allievo e il suo superamento nell'apprendimento di una verità unica, così come è ambiguo il rapporto di partecipazione che lega nella filosofia platonica la cosa sensibile all'idea. Ma la descrizione di una città alla quale la filosofia dà la misura e che costituisce perciò un criterio per ben giudicare le città realmente esistenti appare il cammino obbligato per legare strettamente filosofia e società, per fare della filosofia la più alta e degna attività che si possa svolgere nel consorzio umano. Analogamente una volta ammesso che il processo attraverso cui la società è organizzata come chiesa non è soltanto di natura sociale, ma contiene implicitamente anche una limitazione teorica, non tanto perché comporta l'enunciazione di proposizioni dogmatiche, la cui professione è obbligatoria, ma soprattutto perché implica la condanna di quanto è differente come eresia o apostasia, occorre tuttavia sottolineare che la chiesa è depositaria di una verità universale che testimonia apertamente, non di un segreto gelosamente custodito e amministrato da pochi. Per quanto la determinazione e la formulazione di tale verità sia poi compito più del magistero che dell'intero popolo di Dio, più del clero che della totalità dei fedeli ed implichi la distinzione e separazione tra una chiesa docente e una chiesa discente, tuttavia la chiesa resta essenzialmente differente dalla setta proprio per la pretesa di unicità e di 25 universalità della sua dottrina. La difesa intransigente e l'affermazione militante di una ortodossia appare perciò il cammino obbligato perché l'intera società sia investita da una fitta rete di coordinate culturali capaci di conferire valore e significato alla vita di ogni suo membro, qualsiasi sia il posto da lui occupato nella gerarchia sociale. A partire dall'avvento della metafisica il pensiero cessa di essere un affare privato; a partire dall'avvento della chiesa non esiste più vita umana culturalmente irrilevante: da un lato l'ecclesiasticità intrinseca della metafisica conferisce effettualità sociale al filosofare, in quanto pensiero che coinvolge tutti i membri della società ecclesiastica, dall'altro il presupposto metafisico implicito nella chiesa rende coloro che ne fanno parte culturalmente comparabili e perciò ordinabili gerarchicamente. La socializzazione della filosofia e la culturalizzazione della società introdotte dall'ordine metafisico-ecclesia- stico appaiono in tutta la loro evidenza se si riflette alla distinzione che esso pone tra essenza ed esistenza ed al rapporto di coappartenenza reciproca che sussiste tra questi due termini. Infatti la determinazione platonica dell'essenza dell'ente come idea, come l'uno che è comune ad una molteplicità di cose sensibili, trova la propria integrazione nella determinazione aristotelica dell'esistenza dell'ente come enérgheia, come realtà effettuale che si possiede nella semplice ed immediata presenza. Nondimeno la determinazione apostolica e subapostolica dell'essenza della chiesa come società di professanti trova la propria integrazione nella determinazione dell'esistenza della chiesa come istituzione reale che comprende tutti i battezzati: l'unità della prima risponde alla domanda su che cosa essa sia, l'operatività della seconda alla domanda sul fatto che essa sia oppure non sia. Non a caso lo sviluppo successivo della metafisica occidentale ha privilegiato il problema dell'essenza dell'ente rispetto al problema dell'esistenza di questo, mentre viceversa lo sviluppo successivo della chiesa si è preoccupato più dell'esistenza dell'istituzione che dell'essenza di questa. Cosi la filosofia e l'organizzazione della cultura si dividevano le parti, senza tuttavia smentire l'intima coappartenenza reciproca di essenza ed esistenza, ma rendendola 26 occulta, implicita, sottintesa. Questa divisione diventa cosi strutturale da essere individuabile addirittura nella stessa persona, a seconda che essa svolga l'attività di filosofo oppure l'ufficio di uomo di chiesa: l'Agostino pensatore è tutto teso a definire l'essenza della città di Dio nella sua radicale opposizione alla città terrena, mentre l'Agostino vescovo è cosi preoccupato di affermare l'esistenza della chiesa da sollecitare al potere pubblico l'esecuzione delle risoluzioni dell'autorità ecclesiastica. Né si può parlare di una contraddizione tra teoria e pratica, proprio perché in tal caso il filosofare è anche implicitamente pratico e l'organizzazione implicitamente teorica. Dal carattere implicito della coappartenenza di essenza ed esistenza emerge la grandezza della metafisica e della chiesa istituzionale. Infatti da un lato esso dispensa i filosofi da ogni dubbio sull'esistenza del loro pensare radicandoli nella società, dall'altro esime gli organizzatori da ogni interrogativo sull'essenza del loro operare, garantendoli dall'insensatezza. Ne deriva che il metafisico è vicario di una razionalità sociale che, pur non arrivando ad esprimersi come tale, è però sempre presupposta come esistente, mentre il prete è l'interprete di una ortoprassi che non ha bisogno di formularsi come tale perché la sua essenza ultima riposa sull'ortodossia: il primo può parlare al posto di tutti ed il secondo agire per la verità, perché c'è un unico ordine che autorizza e giustifica l'attività di entrambi. La condizione però dell'efficacia di tale ordine è che una delle due parti in cui si articola resti in ombra, sia taciuta, venga data per ovvia: è necessario che l'esistenza di una società razionale rimanga non pensata dalla metafisica e che viceversa l'essenza dell'essere rimanga non pensata dalla chiesa istituzionale. Dal carattere implicito della coappartenenza di essenza ed esistenza emerge perciò non solo la grandezza, ma altresì la miseria della metafisica e della chiesa istituzionale. Infatti una riflessione sull'essenza dell'essere che non sopporti l'interrogativo circa il suo statuto sociale è astratta, metastorica, tautologica: le sfugge tutto ciò che non può essere costretto nell'orizzonte delineatorz dai principi di identità, di non contraddizione, del te o escluso; cade al di fuori delle sue 27 possibilità di comprensione tutto ciò che non ha il modo di essere dell'ente, che non è riducibile al significato nominale del participio del verbo essere, vale a dire il nulla, l'altro, il differente. Analogamente una istituzione che non sopporti l'interrogativo circa il suo statuto teorico è autoritaria, legalistica, formalistica: le sfugge tutto ciò che non può essere costretto nell'orizzonte delineato dalla gerarchia, dalla legge, dai sacramenti; cade al di fuori delle sue possibilità di operare ciò che non è suscettibile di fissazione univoca e definitiva, come appunto l'immaginario, il quotidiano, l'indeterminato. Perciò il radicamento della metafisica nella società si rivela in ultima analisi assai debole; la razionalità della chiesa istituzionale assai superficiale. Paradossalmente miseria e grandezza, debolezza e forza della metafisica e della chiesa istituzionale sono tra loro strettamente connesse ed intrecciate. Infatti non bisogna dimenticare che la metafisica, a differenza dell'ontologia contemporanea, ha uno statuto sociale, anche se non può accedere mai alla sua comprensione, e parimenti la chiesa istituzionale, a differenza dell'ecclesiologia contemporanea, ha uno statuto teorico, anche se non arriva mai a coglierlo. Questa ambiguità spiega la potenza nella civiltà occidentale di tutto ciò che è sotterraneo e rimosso: secoli di signoria e di dominio sulla società dei sapienti e dei preti non riescono ad eliminare un'opposizione che è tanto più insidiosa e forte quanto più è occulta e repressa e che riemerge di tanto in tanto in forme teoriche e sociali sempre diverse. Perciò la metafisica e la chiesa istituzionale sono sempre caratterizzate da un atteggiamento reattivo e risentito: la metafisica è in fondo sempre teologia apologetica, o come anche significativamente veniva chiamata, teologia fondamentale, che determina se stessa giudicando e condannando le ragioni dell'altro; nello stesso modo la chiesa istituzionale è sempre in fondo anche chiesa militante che determina se stessa escludendo e allontanando da sé la condotta dell'altro. Metafisica e chiesa istituzionale sono costantemente sotto il peso di una minaccia la quale viene dal loro interno, dalla filosofia e dalla società che esse pensano di possedere in modo esclusivo. La struttura di occultamento su cui 28 si reggono produce incessantemente una opposizione occulta, che esse estirpano da se stesse e rigettano fuori, smentendo cosi l'unicità e l'universalità teorica e sociale che esse pretendono di avere. Perciò la metafisica e la chiesa sono rispettivamente una filosofia e una società incompiuta e interminabile: esse aspirano ad una totalità che non potranno mai raggiungere, perché essa implicherebbe il trionfo di ciò che pregiudica rispettivamente la loro socialità e la loro effettualità. Appartiene alla stessa struttura il fatto che il trionfo dell'opposto non possa mai avvenire, se non a condizione di cambiarsi in metafisica e in chiesa: il trionfo del negativo, dell'altro, del differente è nella storia della filosofia occidentale e nella storia del cristianesimo il suo capovolgersi in ente, il trionfo dell'immaginario, del quotidiano, dell'indeterminato il suo capovolgersi in istituzione. L'ontologia e l'ecclesiologia contemporanee pensano di poter risolvere l'ambiguità strutturale della metafisica e della chiesa istituzionale pronunciandosi a favore rispettivamente di una nozione di essere ora più ampia ora più ristretta dell'ente della metafisica, di una nozione di società ecclesiale ora più ampia ora più ristretta della società ecclesiastica. Ma questo ampliamento verso l'interezza dell'essere e verso l'ecumenicità della chiesa, questo restringimento verso la piccolezza, la semplicità e la povertà dell'essere e verso l'interpersonalità, la comunicazione e la comunione della comunità non costituiscono risposte adeguate alla radicalità e alla profondità della crisi che scuote l'ordine metafisico-ecclesiasti- co. Resta infatti non pensato, occultato, taciuto ciò che più importa: quella socialità della filosofia e quella teoricità dell'organizzazione culturale che l'ordine metafisico-ecclesiastico garantiva in modo insufficiente e troppo spesso inefficace, vengono completamente meno nell'ontologia e nell'ecclesiologia contemporanee. La cosa più grave è che permane in queste l'illusione di poter usufruire dei vantaggi che l'implicitezza della coappartenenza di essenza ed esistenza elargiva alla metafisica e alla chiesa istituzionale: ontologia ed ecclesiologia contemporanee presuppongono erroneamente di potersi sostenere a vicenda in modo implicito, quasi che l'interez- 29 za o la piccolezza fossero l'essenza di un essere insieme filosofico e sociale, del quale l'ecumenicità e la comunità costituirebbero l'esistenza. Ma esse dimenticano che l'intima coappartenenza reciproca di essenza ed esistenza vale soltanto fin che vige l'ordine metafisico-ecclesiastico, fintanto che l'essere è pensato come ente e la società come chiesa. Nell'ordine metafisico-ecclesiastico era stata possibile una divisione di compiti tra filosofia ed organizzazione della cultura perché già all'inizio la filosofia aveva pensato con Platone l'essenza e con Aristotele l'esistenza dell'ente, e perché già la chiesa aveva pensato nel suo momento apostolico l'essenza e nel suo momento costantiniano l'esistenza della società ecclesiastica. Ma questi privilegi non sussistono più a partire dal momento in cui ci si rifiuta di continuare a pensare l'essere come ente e a organizzare la chiesa come istituzione: metafisici e preti potevano a ragione tacere sulla parte occulta del loro discorso e della loro attività; non lo possono più fare gli ontologi contemporanei pena l'esperienza di un isolamento, che è tale proprio nella misura in cui essi tacitamente presuppongono la permanenza dei rapporti istituiti da una società da loro negata, né gli ecclesiologi contemporanei, pena la caduta in un irrazionalismo che è tale proprio nella misura in cui tacitamente essi presuppongono la permanenza dei rapporti istituiti da una ragione metafisica da loro negata. Perciò ontologia ed ecclesiologia contemporanee sono più i sintomi di un malessere che punti di partenza di grande rilevanza filosofica e storica. La loro pars de- struens, gli argomenti del loro rifiuto della metafisica e della chiesa istituzionale, è persuasiva e convincente, ma la loro pars construens, i caratteri che essi attribuiscono all'essere e alla chiesa, si rivela insostenibile a causa del conflitto tra la pretesa di poter prescindere completamente dall'ordine metafisico-ecclesiastico e la necessità di accogliere occultamente i suoi presupposti. Per procedere veramente oltre la metafisica e la chiesa istituzionale, occorre rendere maggiormente giustizia ad entrambe, di quanto non facciano l'ontologia e l'ecclesiologia. 30 2. L'ordinamento umanistico-partitico La connessione tra umanismo e partito è, a prima vista, tanto teoricamente quanto storicamente assai meno plausibile di quella tra metafisica e chiesa. Infatti da un punto di vista teorico, umanismo e partito sembrano fenomeni nettamente diversi se non antitetici: l'umanismo, inteso come forma di pensiero che pone al centro delle proprie preoccupazioni il problema dell'uomo, pare sottolineare e propugnare l'unità del genere umano, la presenza di elementi di libertà e di dignità essenzialmente comuni a tutti gli uomini, mentre il partito, inteso come forma di organizzazione che pone al centro delle proprie preoccupazioni il problema del potere, pare accettare e ratificare la divisione della società in parti in concorrenza e in conflitto tra loro per la conquista e il mantenimento del controllo politico. Da un punto di vista storico poi colpisce la diversità tra la dimensione rinascimentale dell'umanismo che nato a cavallo tra il XIV e il XV secolo si è sviluppato nelle sue implicazioni filosofiche nei due secoli successivi e il carattere assai recente del fenomeno partitico al quale i politologi assegnano a mala pena, con riluttanza, uno o al massimo due secoli di vita: sicché il secondo sembra cominciare a profilarsi soltanto quando il primo si è completamente esaurito. Eppure nonostante queste immediate difficoltà, la connessione tra umanismo e partito si rivela ad una analisi più approfondita come una coappartenenza essenzialmente operante nella storia dei tempi moderni. Da un punto di vista teorico occorre infatti tener presente che l'unità cui fa riferimento l'umanismo non è affatto cosi incondizionata e universale come appare a prima vista: essa si costituisce come unità proprio attraverso una implicita, ma rigorosa limitazione sociale che esclude coloro che "umani" non sono, che risultano cioè non conformi al modello di 31 umanità, di educazione, di moralità, elaborato e proposto dagli umanisti. L'unità del genere umano presuppone la separazione da ciò che è presunto come in-umano, come barbaro, come immorale e si regge perciò su una divisione sociale che è molto più netta e precisa di quella conosciuta e praticata dai partiti dell'ultimo secolo. Reciprocamente la divisione sociale instaurata dal partito rimanda implicitamente all'esistenza di un nucleo comune di idee, di convinzioni, di orientamenti teorici che costituisce la sua ragion d'essere. Infatti il partito si distingue dalla fazione e dalla banda proprio perché si pone come organizzazione culturale, cioè come società la cui essenza e i cui limiti sono determinati da principi dotati di validità generale. A differenza perciò di altre associazioni che avendo esclusivamente come fine l'acquisizione o la gestione del potere, limitano il numero dei loro membri, il partito ha una vocazione universalistica che si manifesta nella propaganda. Nel partito perciò la lotta per il potere è condizionata dall'esistenza di una ideologia che chiede di essere condivisa e sostenuta dal maggior numero di persone possibile, e tendenzialmente da tutti. I dati storici non contraddicono, ma anzi confermano sia il carattere implicitamente partitico dell'umanismo, sia il carattere implicitamente umanistico del partito. La dimensione implicitamente partitica, e non solo genericamente politica dell'umanismo, la si coglie proprio là dove come nel contrattualismo giusnaturalistico più ampia e universalistica sembra la prospettiva storico-filo- sofica: i contrattualisti, ponendo un'adesione libera e volontaria come condizione del contratto sociale, credono di pensare l'origine della società civile o dello stato, mentre in realtà formulano le condizioni della possibilità del partito: la razionalizzazione e la legittimazione della vita politica, di cui essi si fanno portavoce, passa infatti attraverso l'idea di una organizzazione costituita per iniziativa volontaria dei singoli individui. Reciprocamente la riluttanza di tutti gli uomini politici di parte fino all'Ottocento di dichiararsi tali, lo sforzo indefesso e continuo di presentarsi come esponenti di un "partito nazionale" o di una "volontà generale" al di sopra 32 delle fazioni, dimostra che la domanda di consenso che essi rivolgono ai loro sostenitori implica il riferimento a principi cui viene attribuita una validità generale: ciò è particolarmente evidente nelle vicende politiche del Settecento inglese e in quelle della Rivoluzione francese. Ovunque non appena con l'allargamento del suffragio l'opinione pubblica acquista un peso politico, il riferimento più o meno enfatico e patetico all'immagine umanistica del mondo diventa indispensabile. Il passaggio dalla politica delle cose alla politica delle idee, dall'organizzazione degli interessi all'organizzazione culturale, dalla fazione al partito, che una cosi grande meraviglia destava in tanti acuti osservatori politici tra il Settecento e l'Ottocento, da Hume a Tocqueville, avviene appunto attraverso l'adozione dell'umanismo, adozione inconsapevole proprio per l'ovvietà e la necessità con cui si presenta. Non a caso del resto il primo partito che si pone esplicitamente e radicalmente come partito di classe, il partito comunista, implica anche una rifondazione dell'umanismo, che partendo dall'umanismo classico, giunga a una concezione ancora più universale dell'uomo. Perciò da un lato non si può limitare l'umanismo all'età rinascimentale perché, dopo la parentesi del Barocco, non solo esso si afferma nel Settecento come un aspetto importante della cultura letteraria e filosofica, ma costituisce la forma di pensiero fondamentale su cui si struttura l'opinione pubblica e il consenso politico, dall'altro non si può separare il partito politico dalle premesse teoriche generali che consentono la sua nascita e il suo sviluppo non soltanto perché i raggruppamenti inglesi degli Whigs e dei Tories, oppure in modo più sicuro ed evidente il club dei Giacobini durante la Rivoluzione francese hanno già costituito partiti ante litteram, ma soprattutto perché una società costituita sull'adesione ideologica volontaria non è pensabile senza le premesse filosofiche poste e sviluppate dall'umanismo in quasi mezzo millennio. Se l'ordine metafisico-ecclesiastico aveva il proprio centro nel concetto di ente, rispettivamente inteso come significato nominale del participio del verbo essere e come istituzione, l'ordinamento umanistico-partitico trova il proprio centro nel 33 concetto di soggetto. Il soggetto dei tempi moderni non è tuttavia l'io empirico: non si potrebbe in tal caso capire né la socialità implicita dell'umanismo né la razionalità implicita del partito, mentre è proprio il soggetto che costituisce il loro fondamento. Che la socialità dell'umanismo sia limitata non meno della razionalità del partito non dipende da una supposta dimensione individualistica o arbitraria del soggetto, ma al contrario proprio dal fatto che il soggetto implica una obbligatorietà sociale e intellettuale rigorosamente determinata, la quale è certo diversa da quella dell'ordine metafisico-ecclesiastico, ma non più elastica e più imprecisa di essa. La liberazione dalla metafisica dell'ente e dalla istituzionalità della chiesa non avviene che attraverso la formulazione delle regole del metodo e la fondazione del loro valore assoluto e universale. La posizione sovrana assunta dall'uomo nei confronti di tutti gli altri enti e dell'associazione volontaria nei confronti di tutte le società precostituite e indipendenti dall'adesione, si realizza attraverso l'assunzione dell'eredità dell'unico ente che implica la socializzazione, l'idea platonica, e dell'unica società che è stata essenzialmente culturale, la chiesa. Il soggetto cartesiano risponde al bisogno di una fondazione più rigorosa di quella che garantiva il subiectum, il sostrato, la sostanza della metafisica; in tal modo quindi non indebolisce, ma anzi rafforza il presupposto della necessità di un fondamento assoluto ed inconcusso. Analogamente il partito politico risponde al bisogno di una organizzazione culturale più coinvolgente di quella che garantiva la chiesa istituzionale; in tal modo quindi non indebolisce, ma anzi rafforza il presupposto della necessità di una unità dottrinale. Non a torto perciò umanismo e partito sono stati considerati più la continuazione della metafisica e della chiesa, che il loro oltrepassamento. Umanismo e partito ereditano non solo la rigorosità, ma anche l'ambiguità strutturale della metafisica e della chiesa. L'esistenza di una obbligatorietà che implica la dimensione sociale di un legame, di un impegno, di un'alleanza, pur essendo sempre presupposta dall'umanismo non può essere mai da questo esplicitamente ammessa e pensata, proprio perché comprometterebbe la sua pretesa universalistica: 34 il fatto che il metodo colleghi non tutta l'umanità, ma solo coloro che lo possono e che lo vogliono seguire, costituisce un'evidenza che non può mai essere pienamente da questo riconosciuta perché pregiudica inesorabilmente la sua certezza di lottare contro il particolarismo oscurantistico. Cosi l'esistenza di un fondamento che trasforma il partito da mera associazione di volontà singole in soggetto storico e gli conferisce una salda dimensione teorica, è destinata a restare implicita perché un completo sviluppo di tale dimensione teorica porterebbe al progetto dell'estensione del partito al di là dei confini della nazione fino ad inglobare l'umanità intera; ma la formulazione di un tale proposito equivale all'estinzione del partito stesso per il venir meno di ogni conflittualità. L'ordinamento umanistico-partitico è perciò non meno paradossale dell'ordine metafisico-ecclesiastico: come in quello anche in questo filosofia ed organizzazione della cultura si presuppongono reciprocamente senza potersi mai incontrare. Tale ambiguità è già presente in Platone e in Aristotele, i quali possono essere giustamente considerati non solo come i fondatori dell'ordine metafisico-ecclesiastico, ma altresì come i remoti progenitori della concezione umanistica del mondo e dell'impegno politico nella loro reciproca taciuta coappartenenza. Infatti il mito platonico della caverna, in cui si considera la paideia, l'educazione, come condizione della liberazione dagli errori e della visione della verità, si conclude con l'ipotesi di un intervento, che può avere perfino conseguenze violente, diretto al fine di sciogliere dalle catene i prigionieri; reciprocamente, nell'opera aristotelica dedicata alla politica, la tesi della essenziale socievolezza dell'uomo, della sua tendenza ad associarsi con altri, rimanda al fatto che l'uomo, solo tra gli animali, possiede il logos, e quindi la percezione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, nonché degli altri valori. Eppure né Platone può attribuire all'impegno liberatorio quel significato di parte che esso in effetti ha, perché sono in gioco gli interessi universali dell'umanità, né Aristotele può dedurre dal bisogno umano di unirsi con altri quell'universalismo filantropico e cosmopolitico che sembra implicito nel suo appello alla ragione 35 e alla morale, perché vuole fondare razionalmente le comunità preideologiche, e perciò ancor più empiricamente determinate, della famiglia e della polis. L'ambiguità strutturale dell'ordinamento umanistico- partitico non è passato inosservato al pensiero contemporaneo il quale, analogamente a quanto è avvenuto per l'ordine metafisico-ecclesiastico, ha spezzato i due termini del rapporto, separando l'una dall'altra la filosofia dall'organizzazione della cultura. È nato cosi un umanismo senza partito, che si chiama universalismo ermeneutico, e una partiticità senza umanismo, che si chiama autonomia del politico. Nell'ermeneutica universalistica la comprensione non è più il punto di arrivo che, provvisoriamente assicura la solidità del legame intersoggettivo, come nell'umanismo classico, ma, in quanto essenzialmente connessa col linguaggio, il carattere preliminare che definisce in generale ogni rapporto dell'uomo col mondo. Tale estrema generalizzazione dissolve appunto la possibilità di fondare sulla comprensione l'associazione volontaria impegnativa, il partito, e blocca il compito metodico e infinito del soggetto teso verso l'appropriazione collettiva del mondo. Tuttavia sebbene l'ermeneutica proponga di pensare una realtà di fronte alla quale la pretesa onnipotenza della riflessione si trovi limitata, non attribuisce mai però a tale realtà il carattere di una differenza, teologica, artistica o storica, completamente altra, ma la riconduce sempre, proprio in quanto linguaggio umano, nell'ambito di una antropologia estetica che eredita dall'umanismo le nozioni di socialità, di paideia, di gusto. L'ermeneutica universalistica è insomma un umanismo che lascia cadere le implicazioni socio-politiche e organizzative più impegnative presenti nel soggetto, nel metodo, nella progettualità, e si accontenta di connotazioni desunte dallo stesso contesto storico-culturale che critica. Reciprocamente le correnti che rivendicano l'autonomia del politico pensano il partito prescindendo dalle implicazioni filosofiche e teoriche dell'umanismo. Esse vedono l'essenza del politico nel rapporto amico-nemico e quindi considerano la divisione sociale non già, come nella concezione classica del partito, la conseguenza inevitabile e provvisoria di un conflitto teorico, ma in quanto 36 essenzialmente connessa con la lotta per il potere, il presupposto sempre presente che determina in generale l'azione dell'uomo nel mondo. Tale estrema generalizzazione della partiticità mostra che essa non ha più nessun rapporto con l'adesione collettiva ad un programma, ad una ideologia, ad un progetto generale dell'uomo vincolante ed impegnativo, e blocca il compito metodico ed infinito del soggetto teso verso la comprensione delle ragioni degli altri e la ricerca di un consenso razionale. Tuttavia questo emanciparsi del politico dalla teoria, il quale mostra l'impossibilità di una estensione del partito all'umanità intera, sebbene ridicolizzi la pretesa illuministica di spacciare per volontà generale ciò che è volontà di parte, conserva tuttavia un nucleo teorico che è desunto interamente dalla politica delle idee aperta dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese: non tanto perché pone un limite alla lotta rifiutando l'esito estremo di un annientamento totale della parte nemica, il quale ricreando perciò l'unità abolirebbe l'essenza partitica del politico, ma soprattutto perché attribuisce un significato e un valore fondamentale alla pubblicità del conflitto, perché distingue con la massima nettezza tra nemico pubblico e palese e nemico privato ed occulto. L'autonomia del politico è perciò un universalismo organizzativo a struttura polemologica che lascia cadere le implicazioni teoriche più cogenti connesse col partito inteso come soggetto storico e si accontenta di connotazioni teoriche più generali desunte dallo stesso contesto storico-culturale che critica. Ermeneutica e autonomia del politico hanno una chiara percezione dei limiti e delle ambiguità strutturali dell'ordinamento umanistico-partitico, ma ritengono a torto di poterle risolvere isolando rispettivamente la filosofia dall'organizzazione della cultura e l'organizzazione della cultura dalla filosofia: la connessione implicita tra umanismo e partito si rivela certo oggi sempre più insostenibile, ma ancor meno soddisfacente è la frammentazione desocializzante e derazionalizzante di un ordinamento che ha continuato, sviluppato e approfondito, coinvolgendovi intere nazioni, quell'attività di socializzazione della filosofia e di razionalizzazione della società svolta nei 37 secoli precedenti dalla metafisica e dalla chiesa. Ciò risulta evidente anche nell'analisi delle trasformazioni che le nozioni fondamentali in cui si articola l'ordinamento umanistico-partitico subiscono nella frammentazione autonomizzante cui li sottopone l'ermeneutico e il politico. Tali nozioni sono quelle di rappresentazione e di rappresentanza. La prima è per la concezione umanistica del mondo la condizione stessa della conoscenza: essa indica sia il porre dinanzi al soggetto l'oggetto da rappresentare, sia ciò che è posto come oggetto da rappresentare dinanzi al soggetto. La seconda è per l'organizzazione partitica la condizione stessa del suo funzionamento: essa indica il rapporto reciproco che lega l'eletto all'elettore, il dirigente al militante di base, il rappresentante al rappresentato. Nell'ordinamento umanistico- partitico socializzazione del pensiero e razionalità dell'organizzazione non sono garantite direttamente come nell'intuizione intellettuale o nella democrazia diretta: esse sembrano assicurate indirettamente attraverso la mediazione, attraverso l'imprescindibilità di un rinvio vicendevole tra soggetto ed oggetto, tra rappresentante e rappresentato. Tuttavia questo reciproco rimando da solo non è sufficiente a garantire la socialità dell'umanismo e la razionalità del partito. Tali caratteristiche dipendono da una implicita partiticità della rappresentazione e universalità della rappresentanza. Infatti in primo luogo la rappresentazione non è soltanto l'atto soggettivo di rappresentare l'oggetto, o il risultato oggettivo di tale atto, ma più occultamente un rappresentarsi in anticipo in quanto rappresentanti il rappresentato, cioè un decidere su se stessi come soggetti della rappresentazione e su ciò che si pone dinanzi a se stessi come oggetto di essa. L'uomo è certo e sicuro della propria rappresentazione perché procede con metodo: l'esattezza del rappresentato è assicurata da una decisione inespressa e impensata, il cui significato è politico, perché implica l'adozione di un modo di essere che garantisce l'esattezza dello sguardo, e le obbligazioni, i legami, le solidarietà con quello connesse. In secondo luogo la rappresentanza non è soltanto l'emancipazione del rappresentante da un ruolo di mera esecuzione o del rap- 38 presentato da una condizione di mera inefficacia, ma implica più occultamente il fatto che tanto il rappresentante quanto il rappresentato rappresentino un modello che sta al di sopra di entrambi per la sua normatività e cogenza razionale. In tanto si può stabilire tra i due un rapporto fiduciario in quanto entrambi riproducono e attualizzano tacitamente un ideale che costituisce il fondamento del loro essere insieme nel partito. Questo ideale si impone ad entrambi con una pretesa di validità universale e li solleva dal ristretto ambito delle lotte locali e degli interessi particolari sulla scena della storia. La legittimità della loro azione riposa in ultima analisi su un fondamento filosofico: essi rappresentano un copione che è stato scritto dalla ragione e che chiede di essere recitato da tutti gli uomini. L'implicita coappartenenza del concetto filosofico di rappresentazione e di quello politico di rappresentanza è dissolta sia dall'universalismo ermeneutico sia dall'autonomia del politico. Il primo infatti recide il legame occulto che congiungeva la rappresentazione al metodo e alla decisione e conferisce a questa nozione un significato eminentemente estetico-linguistico: la rappresentazione è un autorappresentarsi dell'immagine e del linguaggio, il movimento attraverso cui essi vengono all'essere e alla verità, sottraendosi alla distinzione tra soggetto ed oggetto. Perciò l'ermeneutica contemporanea universalizza il concetto di gioco emancipandolo dalla soggettività del giocatore, ma non dall'esistenza anche meramente ipotetica di uno spettatore. Il secondo inversamente recide il legame occulto che congiungeva la rappresentanza al modello normativo e ideale e serra il rapporto tra rappresentante e rappresentato in una solidarietà per la vita e per la morte: la rappresentanza diventa lo specchio in cui dirigente e militante di base si raffigurano e si riconoscono l'uno nell'altro. Ciò che consente tale identificazione è l'autopresentarsi e l'autodichiararsi nemici dei due partiti contrapposti tra loro: al loro interno non è più possibile nessuna indeterminazione, perché al di sopra di tutti s'impone l'estrema verità e serietà risolutiva del conflitto. Perciò il politico autonomizza il concetto di guerra emancipandolo dalla soggettività dei combattenti, ma non 39 dall'ingiunzione rivolta al terzo interessato di favorire occultamente l'uno o l'altro. Cosi certo l'ambiguità su cui si reggevano l'umanismo e il partito sembra risolta, ma si è gettato il bimbo con l'acqua senza poter poi nemmeno uscire dal bagno. Infatti la pretesa dell'ermeneutico di creare una socialità indipendente dalla politica e la pretesa del politico di creare una razionalità indipendente dall'umanismo restano ancora debitrici all'esistenza di un presupposto su cui nasce e si sviluppa l'ordinamento umanistico-parti- tico: l'opinione pubblica, la società pensata come soggetto. Il gioco e la guerra hanno ancora bisogno di un soggetto dinanzi a cui svolgersi che si rappresenti lo splendore della rappresentazione o che consideri segretamente uno dei due combattenti come il proprio rappresentante. Essi cosi tradiscono la loro natura epigo- nica e offrono lo spettacolo di una modernità dimidiata. 3. Il sistema scientifico-professionale Per quanto la scienza, intesa come forma di pensiero che si propone di conoscere sistematicamente il mondo, e la professione, intesa come forma di organizzazione della cultura che pone una conoscenza detenuta monopolisticamente al servizio della società, abbiano una storia secolare che risale al sorgere delle prime università nel Medioevo, tuttavia il sistema scientifico-professionale inteso come struttura che permea e determina profondamente il sapere e la società, ha vissuto un lunghissimo periodo d'incubazione storica e solo a partire dal primo decennio del secolo scorso, con la fondazione delle università moderne, ha cominciato a delinearsi nettamente. Ciò che caratterizza tale sistema è insieme una socializzazione radicale della scienza per cui questa non è più vista come una investigazione personale e privata del singolo, ma come un'impresa in cui tutta la società è coinvolta e da cui dipende il 40 suo destino, e una scien- tificizzazione altrettanto radicale della società, per cui la condizione di ogni azione efficace implica una completa subordinazione ai criteri, alle prospettive e ai procedimenti della conoscenza scientifica. È importante osservare che a partire dall'Ottocento la scienza diventa sociale non perché utile, né perché la maggior parte della società o la parte più influente di essa si rende conto della sua utilità: utile non lo è mai stata, né mai lo è diventata, se si pensa al presupposto che l'ha sempre animata, di essere perseguita per se stessa e non per le conseguenze che comporta; oppure lo è sempre stata, se si pensa alle applicazioni pratiche che da essa sempre sono state tratte. Sociale la scienza è diventata perché si è appropriata completamente della realtà, escludendo da questa tutto ciò che restava irriducibile al suo approccio metodico: la sua socialità non è separabile da una intuizione metafisica fondamentale che pensa l'essere dell'ente come oggettività del reale. Parimenti importante è osservare che la società è diventata scientifica non perché abbia acquistato un grado di complessità tale da sollecitare una considerazione sistematica: complessa la società lo è sempre stata almeno dall'avvento della divisione del lavoro, oppure non lo è mai stata, né è successivamente mutata, se si pensa al controllo che sul lavoro essa ha sempre in qualche modo esercitato. Scientifica la società è diventata mediante l'introduzione di un sistema scolastico e universitario che conferisce a coloro che hanno seguito e superato l'intero corso di studi il monopolio non solo dell'esercizio delle professioni colte, ma anche della direzione del lavoro esecutivo: la scientificità non è separabile da una organizzazione della cultura che rende scientifico tutto il lavoro umano e che fa della scientificità la condizione della sua efficacia. Il sistema scientifico-professionale ha potuto assumere l'eredità dell'ordine scientifico-ecclesiastico e far concorrenza all'ordinamento umanistico-partitico, perché possiede come questi una dinamicità intrinseca che rende il suo compito sempre incompiuto e interminabile. Non si tratta infatti di trasmettere e di applicare un insieme di conoscenze stabilite una volta per tutte, ma di essere coinvolti, per quanto concerne sia l'attività 41 scientifica che quella professionale, in un processo di continuo approfondimento e ampliamento del sapere e della sua operatività. Perciò il concetto fondamentale su cui si costruisce il sistema scientifico-professionale è la ricerca: ciò che la caratterizza essenzialmente è lo sforzo continuo di tenere sotto controllo il mutamento, delineandolo innanzitutto in un progetto, seguendolo attraverso un procedimento, facendolo pervenire ad un risultato. Sebbene filosofia ed organizzazione della cultura, scienza e professione, elaborazione di nuove conoscenze e loro applicazione sociale siano distinte, esse si coappartengono reciprocamente in modo occulto. Da un lato infatti la scienza è intrinsecamente operativa perché il suo progetto deve essere verificato attraverso l'esperimento, attraverso la critica delle fonti, attraverso la comparazione: proprio questa operatività intrinseca la separa dalla mera osservazione, dalla mera erudizione, dalla mera cronaca. Dall'altro la professione è intrinsecamente scientifica, perché la sua prestazione si fonda su un corpo di conoscenze sistematicamente ordinate e in continuo sviluppo: proprio questa costante innovazione rigorosamente controllata la separa dal mestiere, oltre che ovviamente dal ciarlatanismo e dalla magia. La scienza si costituisce come professione parallelamente al costituirsi della professione come scienza. Questa coappartenenza risulta evidente nell'università moderna e nella figura del professore universitario, che è insieme docente e ricercatore, docente di un sapere professionale proprio perché professionalmente dedito all'incremento di questo sapere, e ricercatore di una conoscenza sperimentale al servizio di tutti perché libero professionista della scienza. Viceversa la riduzione del professore ad impiegato dell'università è parallela alla recisione di ogni legame tra attività professionale e ricerca: tale fenomeno mostra a contrario in primo luogo che la dimensione scientifica che distingue il professore dall'insegnante è proprio derivata dal carattere professionale delle conoscenze che egli trasmette e in secondo luogo che la dimensione etica che distingue il professionista dagli altri lavoratori è proprio derivata dal carattere scientifico delle conoscenze che detiene. Attraverso il sistema scientifico-professionale l'intero sapere diventa sociale 42 e l'intera società diventa culturale, perché l'umanità stessa è coinvolta in un progresso illimitato il cui motore è il lavoro. Questo non ha più nulla di privato o di naturale: la ricerca fonda la sua socialità e la sua culturalità separandolo dal passatempo o dalla operosità degli animali. Questo processo di socializzazione del sapere e di culturalizzazione della società non riguarda solo gli scienziati e i professionisti, ma coinvolge tutti. La progressiva scientificizzazione di tutti i campi del sapere è evidente nella trasformazione delle discipline umanistiche in scienze dello spirito e di queste in scienze umane, processo che non è solo nominale, ma implica una progressiva estensione dell'attitudine scientifica a tutti gli ambiti della vita, contemporaneamente allo svolgersi di un processo che trasforma in lavori professionali attività precedentemente praticate in modo meramente privato, come la psicoterapia o l'osservazione della società...: non a caso perciò i nuovi oggetti della ricerca scientifica sono proprio quei fenomeni che sono rimasti finora estranei ad un'indagine sistematica, come la vita quotidiana. Rispettivamente la scolarizzazione universale non è soltanto l'alfabetizzazione, ma il coinvolgimento dell'umanità intera in un processo di promozione culturale ininterrotta che, attraverso corsi di perfezionamento, di aggiornamento, di riqualificazione, tende a conferire un alto livello specialistico e quindi uno statuto professionale a tutte le attività: anche in questo caso lo sforzo è orientato verso la creazione di nuove carriere che soddisfino le carenze lasciate dall'esercizio corrente delle professioni tradizionali non solo nell'assistenza tecnica ma soprattutto nella partecipazione personale ed emotiva ai problemi del cliente. La coappartenenza di scienza e professione, come il rapporto che lega metafisica e chiesa, umanismo e partito, resta tuttavia implicita: una completa esplicitazione di tale reciproco rimando metterebbe in mostra la sostanziale ambiguità su cui l'intero sistema scientifico-professionale si regge. Infatti la scienza rivendica una totale autonomia, indipendenza e precedenza nei confronti di qualsiasi uso o applicazione, e, per quanto esili e gracili possano sembrare i suoi appelli ad un puro valore del sapere, tuttavia essi mostrano che la sua dimensione teorica è qualcosa di essenziale e non di 43 meramente autocelebrativo; analogamente la professione rivendica una totale dedizione al servizio e alla società, un totale rifiuto delle attività dilettantesche o meramente ludiche e per quanto esili e gracili possano sembrare i suoi riferimenti alla vocazione e alla completa dedizione ad un compito sociale, tuttavia essi mettono in evidenza che la sua dimensione pratica è qualcosa di essenziale e non di meramente autoapologetico. Da un lato abbiamo dunque una teoria che subordina a sé la pratica, dall'altro una pratica che subordina a sé la teoria. Il luogo in cui queste opposte esigenze dovrebbero trovare una conciliazione e un'armonizzazione è l'università, perché in essa da un lato la scienza nella sua dimensione più teorica è perseguita come professione, dall'altro la professione consiste proprio nella formazione e nella comunicazione di un sapere professionale: in realtà l'università è proprio perciò anche il luogo della massima ambiguità non tanto o non soltanto per il sommarsi dei compiti di ricerca e dei compiti di docenza nella figura del professore universitario, ma più essenzialmente perché da un lato la scienza universitaria è nella sua stessa struttura più profonda al servizio del fare e del produrre, e dall'altro la professione è nella sua stessa essenza più profonda, professione della conoscenza. È tuttavia impossibile alla scienza riconoscere esplicitamente il fatto di essere scienza delle professioni senza oscurare l'aspetto essenziale della ricerca disinteressata e ridurre cosi l'università ad una scuola superiore, e parimenti è impossibile alla professione riconoscere esplicitamente il fatto di essere professione di scienza, senza oscurare l'aspetto essenziale del servizio fornito a clienti ben determinati e ridurre cosi l'università ad una accademia. Di questa ambiguità si rende conto il pensiero contemporaneo quando fa oggetto il sistema scientifico-profes- sionale di una critica più che mai convincente e perspicua. Da un lato la nuova epistemologia mostra che la pretesa della scienza di identificare la realtà con l'oggettività non ha affatto un valore razionale assoluto, che la stessa opposizione fondamentale tra scienza e mito è priva di giustificazione, che perfino l'idea più antica o assurda può migliorare la conoscenza. Dall'altro il movimento per l'educazione permanente sostiene 44 che la scolarizzazione universale della società, secondo cui il ruolo professionale di ciascuno è stabilito da un curriculum scolastico e universitario, è insieme antieducativa e antisociale, che la concezione scientifico-progressiva del lavoro e del sapere è in realtà fonte infinita di frustrazioni, che lo sviluppo attuale del professionismo e della specializzazione è causa di nuovi errori e di nuovi insuccessi, mentre le istituzioni delegate a pianificare e a risolvere scientificamente un qualsiasi problema provocano il risultato opposto a quello che si propongono. L'interesse delle critiche rivolte alla scienza e al lavoro professionale dalla nuova epistemologia e dal movimento per l'educazione permanente sta nel fatto che esse nascono all'interno stesso della problematica scientifica e formativa: da ciò tuttavia deriva anche il loro limite, perché, nutrendo rispettivamente interessi solamente scientifici e solamente educativi ed operazionali, spezzano la connessione che nel sistema scientifico-profes- sionale legava implicitamente la filosofia all'organizzazione della cultura. Di tale sistema essi perciò avvertono solo la miseria, non la grandezza. Il fatto che la scienza intesa come teoria della razionalità costituisca un ostacolo allo stesso progresso scientifico e che la professione intesa come esercizio pubblico di una competenza fondata sul percorso di un curriculum universitario finisca coll'essere inefficiente, può anche avere in fondo un'importanza molto relativa, dal momento in cui ci si pone fuori dalle prospettive teoriche e organizzative del sistema scientifico-professionale: proprio l'estraneità rispetto a tale sistema e alle preoccupazioni che ne hanno influenzato la dinamica consente di comprendere la sua enorme rilevanza filosofica e storica assai meglio di quanto possano fare i nuovi epistemologi e i nuovi educatori, i quali restano sostanzialmente prigionieri dei moventi che lo hanno animato e quindi non sono in grado di cogliere la sua grandezza che è extra-scientifica ed extra-professionale quanto la sua miseria. Col sistema scientifico-professionale il pensiero viene socializzato non solo più nella forma di una verità sull'essere, come nella metafisica, o di una verità sull'uomo, come nell'umanismo, ma come verità sul mondo: questa verità non è 45 segreta, ma appartiene a tutti coloro che hanno la volontà e la costanza di impararla in modo sistematico e progressivo e di svilupparla in modo ordinato e metodico. La scienza eredita ed amplia il carattere sociale della metafisica e dell'umanismo: essa conferisce a tutti la possibilità di porsi come padroni dell'oggettità del reale. Analogamente in questo sistema la società viene culturalizzata, non solo più nella forma del popolo di Dio, come nella chiesa, o nella forma del soggetto collettivo, come nel partito, ma come noosfera, cioè come un universo la cui continua evoluzione è determinata dalla scolarizzazione di tutti e dalla progressiva scientificizzazione del lavoro. Così la noosfera eredita ed amplia la culturalizzazione della società avviata dalla chiesa e dal partito: la lotta contro l'ignoranza e l'insuccesso conferisce un significato culturale anche ai lavori più umili e modesti. Sfugge tuttavia a tale socializzazione e culturalizzazione quanto non può essere calcolato, né fondato: per quanto il sistema scientifico-professionale tenda incessantemente ad ampliare i suoi limiti, annettendosi nuovi oggetti e creando nuove specializzazioni, sempre si ricostituisce un resto che si sottrae ad ogni indagine e che smentisce ogni progetto: la storia della modernità che è scandita dai successi della ragione scientifica e del lavoro intellettuale è anche segnata dalla ineliminabilità di una opposizione poetica che nessuna estetica riesce a sopprimere e di una opposizione sociale contro la scuola e il lavoro che nessun incentivo professionale e nessuna organizzazione sindacale riesce ad abolire. Contro il razionalismo leibniziano-kantiano nasce e si sviluppa la rivolta poetica dallo Sturm und Drang in poi; contro il movimento che promuove le nuove università e le nuove classi produttive sorge e continua per tutta la modernità il movimento che contesta radicalmente l'organizzazione del lavoro professionale e industriale. La pretesa di totalità del sistema scientifico-professionale è perciò sempre frustrata: il suo carattere progressivo nasconde l'incompiutezza e l'interminabilità del suo compito. Insieme alla ricerca e ai curricula scolastici, il sistema 46 scientifico-professionale crea un'opposizione strutturale a se stesso, che si manifesta nella rivolta poetica e nel luddismo. Lo sforzo per andare al di là del sistema scientifico-professionale deve partire da una considerazione più approfondita dell'ambiguità strutturale di una teoria che è esplicitamente pura teoria mentre è implicitamente anche pratica e di una pratica che è esplicitamente pura pratica mentre è implicitamente anche teoria. Questa ambivalenza che ha caratterizzato la filosofia occidentale fin da Platone e da Aristotele è rimasta in uno stato d'incubazione sino all'età moderna, quando ha trovato la sua manifestazione nel principio di ragion sufficiente formulato da Leibniz, secondo cui nulla è senza ragione. Tale principio su cui si basano le verità di fatto, implica la distinzione tra due nozioni fondamentali che si coappartengono reciprocamente, la ragione e il fondamento. La ragione è appunto la facoltà dinanzi alla quale vengono presentate, rese, esposte le proposizioni riguardanti questioni di fatto, le quali perciò non sono necessarie, ma contingenti, cioè possono essere sottoposte ad essa in modo opposto senza che sorga una contraddizione: essa funziona come un tribunale che calcola, pesa, confronta ciò che gli viene proposto e quindi dà un giudizio sulla sua razionalità; ha quindi un compito eminentemente teorico, proprio nel senso di stare a guardare soppesando, ponderando e riflettendo. Il fondamento è invece la cosa che viene presentata alla ragione come causa, ragion d'essere, condizione della possibilità delle proposizioni di fatto su cui essa è chiamata a giudicare: il fondamento è il risultato di un mettere, di un produrre, di un effettuare, è il punto di arrivo di un fare che si presuppone poter essere approvato dalla ragione, proprio perché già intanto ha una sua ragion sufficiente per esistere; esso è la base di un compito eminentemente pratico, proprio nel senso di compiere proponendo, promuovendo e trattando. La ragione è la dimensione teorica del sistema scientifico-professionale, è la scienza; il fondamento è la dimensione pratica del sistema scientifico-professionale, è la professione. La loro coappartenenza non è solo quella esplicita che sussiste tra chi giudica e chi è giudicato, tra chi sanziona e chi fonda, tra chi 47 guarda e chi fa; tra ragione e fondamento, tra scienza e professione c'è una coappartenenza implicita che non può essere riconosciuta apertamente da loro, sia perché metterebbe in evidenza il circolo vizioso su cui in ultima analisi il loro rapporto si struttura, sia perché compromettendo l'autonomia della scienza e l'efficacia della professione dissolverebbe il sistema. Questa coappartenenza implicita, da loro impensata ma segretamente operante, dipende da due fattori. In primo luogo la ragione in tanto può sapere, in quanto sa fare: essa ha il suo fondamento in un saper potere, che sebbene non abbia mai l'autorizzazione all'esercizio, tuttavia costituisce la base ultima del suo giudicare. In secondo luogo il fondamento in tanto può fare, in quanto fa sapere: il resoconto che viene presentato alla ragione presuppone un conto e una ragione che l'abbia già trovato giusto; sebbene questa produzione di sapere resti senza legittimazione esplicita, essa costituisce la razionalità del fondamento. Oppure detto altrimenti: in primo luogo la scienza è sapere puro di una realtà che è già scientifica e quindi il possesso della scienza garantisce la possibilità di operare all'interno di tale realtà; in secondo luogo, la professione è fare puro che può fare non solo perché può mostrare in ogni momento di sapere ciò che sta facendo, ma soprattutto perché produce effetti nella misura in cui ha prodotto sapere. Tutto ciò mostra che scienza e professione formano una struttura le cui singole parti sono inseparabili l'una dall'altra. Esse costituiscono un sistema teorico-pratico nel senso più profondo: cioè le stesse nozioni di teoria e di pratica sono nella loro fondamentale ambiguità poste da un modo di filosofare che presuppone occultamente l'organizzazione professionale della cultura e da un modo di organizzazione della cultura che viceversa presuppone occultamente la scienza. Tanto più insostenibili e inefficaci appaiono le posizioni difese dalla nuova epistemologia e dal movimento per l'educazione permanente: la prima, sostenendo i diritti di una scienza più ampia della ragione perviene ad esiti ultra-teorici, perché taglia quegli occulti rapporti col fare professionale che conferivano alla ragione una dimensione implicitamente pratica. La seconda inversamente, sostenendo i diritti di una operatività più ampia della 48 professione, perviene ad esiti ultra-pratici, perché taglia quegli occulti rapporti con la ragione che conferivano alla professione una dimensione implicitamente teorica. Ma ultra-teoria e ultra-pratica, scienza senza ragione e lavoro senza fondamento, sciolto ogni legame col principio di ragion sufficiente, diventano frammenti che non si sostengono, bensì si confondono l'un l'altro: il principio secondo cui qualsiasi cosa può andar bene è suscettibile di una interpretazione ultra-teorica o di una interpretazione ultrapratica, ma in ambedue i casi resta prigioniero della concezione scientifico-professionale di un progresso illimitato di cui l'umanità è la protagonista. 4. Il compimento dialettico-statale Nell'avvento della dialettica hegeliana e dello stato come cosa razionale in sé, la filosofia e l'organizzazione della cultura trovano il loro compimento. Le tre forme di pensiero che si ponevano in un rapporto di reciproca opposizione tra loro, il pensiero dell'essere, cioè la metafisica, il pensiero dell'uomo, cioè l'umanismo, e il pensiero del sapere, cioè la scienza, sono intese come momenti necessari di un movimento che le ingloba e che termina, trova il suo punto di arrivo, si compie nella sintesi realizzata dal pensiero del pensiero, dal pensiero che pensa la sua storia e storicità. Questa unificazione di forme di pensiero cosi diverse avviene non perché la dialettica sia una forma di pensiero cosi altra e differente rispetto ad esse da mostrare la loro sostanziale affinità e continuità, ma proprio al contrario perché essa penetra e ripete quanto esse hanno pensato cosi bene che nello stesso tempo toglie la loro unilateralità e le conserva in quanto suoi momenti, sue tappe, suoi gradini. La dialettica compie le forme di pensiero che l'hanno preceduta proprio perché pone termine a quella incompiutezza e interminabilità che le metteva in contraddizione con se stesse e le rendeva simili e 49 affini proprio quando e dove esse ritenevano di essere diverse ed estranee; la dialettica riesce a conferire a quella pretesa di totalità che metafisica, umanismo e scienza hanno sempre visto frustrata una assolutezza effettuale perché identifica il pensiero con la storia del pensiero, la filosofia con la storia della filosofia. Attraverso questa identificazione il filosofare è storico, non perché racconta il passato, ma perché esso ha già, indipendentemente dai suoi effetti, uno statuto storico-effettuale soltanto in virtù di se stesso. La storicità e l'effettualità sono inseparabili dalla sua assolutezza: se esso non fosse fin dall'inizio sciolto, affrancato, liberato dalla relatività empirica, nessuno e nulla potrebbe dargli a posteriori la dimensione storico-effettuale che gli mancava. La dialettica è il colmo della metafisica, il colmo dell'umanismo, il colmo della scienza, perché pone come verità assoluta già data, certezza assoluta già data, sapere assoluto già dato, ciò che nella metafisica, nell'umanismo e nella scienza si presentava come un compito interminabile e in fondo impossibile, come un non-ancora realizzato, ma obbligatorio: cioè l'identità tra ente e tutto, tra soggetto e universalità, tra ricerca e teoria generale. In questo modo la dialettica emancipa ed assolve la metafisica, l'umanismo e la scienza dai loro occulti legami con la chiesa, col partito e con la professione: essa spezza la coappartenenza tra queste tre forme di filosofia e le forme di organizzazione della cultura corrispondenti, non perché supponga, come il pensiero contemporaneo, che le prime possano svilupparsi meglio da sole in una presunta purezza incontaminata, ma proprio al contrario perché garantisce loro apertamente e incondizionatamente, ciò che quelle tre organizzazioni le davano di nascosto. La dialettica fa cadere quelle autolimitazioni che il pensiero dell'essere, il pensiero dell'uomo e il pensiero del sapere erano costrette a stabilire per mantenere la loro socialità: il concetto, lo spirito, il sapere dialettico possono affermare pienamente la loro assolutezza perché sono già storia. Lo stato moderno inteso come organizzazione culturale costituisce una radicale rottura nei confronti delle altre forme precedenti di esercizio del potere, il significato razionale delle 50 quali era solo accessorio ed aggiunto. Lo stato moderno è piuttosto il compimento di quelle organizzazioni della cultura che, come la chiesa, il partito e la professione, aggregano gli individui sulla base di principi universali e conferiscono alla vita dei singoli un valore socio-razionale privatamente vissuto con intensità e pubblicamente riconosciuto da tutti. Lo stato moderno compie la chiesa perché dà già in partenza ai suoi membri per il semplice fatto di essere nati la condizione di cittadini; esso conferisce loro a priori una esistenza razionale inalienabile indipendentemente dal rapporto con una dottrina, un sistema di credenze, una verità dogmatica. Esso attribuisce ai suoi membri tutto ciò senza essere una teocrazia, anzi sciogliendo ogni relazione nei confronti della metafisica, con la quale la chiesa manteneva necessariamente un occulto legame. L'unità dello stato moderno è garantita dal suo essere patria. Analogamente lo stato moderno compie il partito perché la sua unità implica già in partenza un legame, un impegno, un'alleanza cui i suoi membri sono soggettivamente obbligati per la vita e per la morte, indipendentemente dall'adesione ad un programma, ad un manifesto, ad una causa. Esso non è un principato, non ha più bisogno dell'umanismo per legittimare implicitamente la lotta cui chiama. La limitazione sociale che esso implica dipende dal suo essere nazione. Infine lo stato moderno compie la professione perché il suo fondamento razionale è già dato in partenza nella sua costituzione e nel suo ordinamento; la razionalità dello stato non dipende nascostamente da una scienza in continuo progresso: esso è di per se stesso sapiente in virtù delle sue leggi senza essere per questa una tecnocrazia. La sua efficacia pratica deriva dal suo essere l'istituzione organica per eccellenza. Sciolto perciò dai limiti che metafisica, umanismo e scienza ponevano alla chiesa, al partito e alla professione, lo stato deve la propria universalità all'identificazione che in esso si compie tra organizzazione della cultura e organizzazione della storia. La sua socialità è già razionale, perché tale è già la storia. Che la ragione governi la storia costituiva il compito interminabile e in fondo impossibile, il non ancora realizzato, ma obbligatorio della chiesa, del partito e della professione: che la ragione governi la 51 storia è invece il presupposto già dato su cui si muove lo stato. Lo stato è quindi organizzazione dell'organizzazione: esso sa ciò che vuole e lo sa esplicitamente. L'infinita indifferenza e sufficienza del vero uomo di stato, mostrata per esempio da Napoleone Bonaparte, nei confronti della metafisica, dell'ideologia e della ricerca scientifica, si fonda sulla convinzione che queste non possano dargli nulla di più di quanto egli stesso già abbia. La sovranità, la guerra e il lavoro dello stato non hanno bisogno di legittimazioni: la sua effettualità è razionale in quanto reale, in quanto riesce, vince, in quanto si organizza nella sua compiutezza e si rende stabile nella sua presen- zialità storica. Dialettica e stato si pongono dunque entrambi come il compimento delle forme di filosofia e di organizzazione della cultura che li hanno preceduti. In ambedue i casi tale compimento è conseguito grazie all'appropriazione della storia nella sua totalità in forma più radicale e completa di quanto non sia riuscito all'ordine metafisi- co-ecclesiastico, all'ordinamento umanistico-partitico, al sistema scientifico-professionale. La nozione che in ambedue i casi consente questa appropriazione è la storia: identificandosi con essa tanto la filosofia quanto l'organizzazione della cultura pervengono ad uscir fuori da se stesse e mediante tale estraniazione a raggiungere una effettualità, una realizzazione, un compimento che sarebbe stato loro diversamente impossibile. I filosofi dialettici e gli uomini di stato proprio per la radicalità e il carattere estremo dell'estraniazione cui espongono la filosofia e l'organizzazione della cultura, si affermano attraverso il proseguimento di un immane processo di negazione e di negazione della negazione come i padroni della storia; certo questa padronanza non ha nulla di arbitrario e di capriccioso. Anzi in tal modo essi riescono a socializzare la filosofia e a culturalizzare la società nel modo più completo e totale. Tuttavia la padronanza della storia non può essere tenuta a mezzadria tra filosofi dialettici e uomini di stato. Per quanto non sia impossibile pensare un filosofo dialettico che sia anche uomo di stato, né un uomo di stato che sia anche filosofo dialettico, e 52 per quanto ciò sia anche storicamente avvenuto, resta che dialettica e stato non sono né assolutamente differenti, né assolutamente identici: le unisce certamente una comune nozione di storia intesa come processo, come divenire, il cui carattere essenziale è determinato dalla estraniazione e dal ricupero, dalla negazione e dalla negazione della negazione, ma altrettanto certamente le separa la concorrenza su chi dei due debba pronunciare il giudizio finale in nome dello spirito e della storia universale. Il fatto è che tra dialettica e stato esiste lo stesso rapporto di coappartenenza reciproca, implicita ma profondamente operante, che collega ambiguamente metafisica e chiesa, umanismo e partito, scienza e professione. Non solo perché mai la filosofia avrebbe potuto porsi come la parusia dell'assoluto ed intendere il suo lavoro come una lotta storica effettuale condotta da questo, se una nuova specie di organizzatori della cultura non avessero sulle ceneri dell’àncien régime, preteso di fondare razionalmente la convivenza di individui che abitano lo stesso territorio e parlano la stessa lingua; né inversamente solo perché mai l'organizzazione della cultura avrebbe potuto pretendere di imporre in una lotta per la vita e per la morte un proprio disegno di società razionale, se un nuovo tipo di filosofi non avessero imposto se stessi come i più eminenti uomini politici del paese. L'enormità delle esigenze della dialettica e l'enormità delle esigenze dello stato sono andate storicamente di pari passo, perché la dialettica ha basato la sua effettualità sociale sul carattere razionale della società statale e viceversa lo stato ha basato la sua razionalità sul carattere reale del movimento dialettico. Eppure nonostante l'assolutezza della dialettica e l'universalità dello stato, il loro rapporto resta ambiguo non meno di quello che garantiva la socialità della metafisica, dell'umanismo e della scienza, la razionalità della chiesa, del partito, della professione. Tanto la socialità della dialettica quanto la razionalità dello stato sono inseparabili da un divenire, da un movimento, da una storia che nessuno può pretendere di fermare con un giudizio senza appello o con una effettualità ultima. Perciò, sebbene separatamente presi sia la dialettica che lo stato segnino la 53 compiutezza rispettiva della filosofia e dell'organizzazione della cultura, il loro rapporto resta incompiuto: esso non chiude affatto la storia, ma anzi la spinge avanti all'infinito verso distinzioni che non sono mai differenze, verso ritorni che non sono mai ripetizioni. Sebbene la dialettica sia il già ora della filosofia e lo stato il già ora dell'organizzazione della cultura, il loro rapporto è un non ancora da loro impensato e per loro impensabile. D'altra parte tale limitazione resta la condizione imprescindibile della loro socialità e razionalità rispettiva. I tentativi compiuti dal pensiero contemporaneo di spezzare la coappartenenza di dialettica e stato, dando rispettivamente luogo ad una dialettica senza stato e ad uno stato senza dialettica compromettono proprio la socialità del filosofare e la razionalità dell'organizzazione della cultura. La dialettica senza stato è la dialettica negativa: la sua pretesa di continuare il lavoro di negazione del concetto per cogliere l'eterogeneo più irriducibile ad ogni identità finisce col rendere di nuovo incompiuto ed infinito il filosofare stesso; la socialità di tale dialettica negativa è rimandata sempre a più tardi, all'avvento di una improbabile e impensabile utopia. Tuttavia la dialettica negativa non ricade per questo in una posizione meramente metafisica, umanistica o scientifica, estranea al processo storico, ma paradossalmente ritiene di stabilire un rapporto più profondo con la storicità della storia proprio solo attraverso l'esercizio di una negazione illimitata. In realtà essa spezza il legame occulto che teneva la dialettica ancorata allo stato e spinge il filosofo in un isolamento vertiginoso senza precedenti. Lo stato senza dialettica è lo stato funzional-sistemico. In esso la razionalità intrinseca dello stato è intesa come funzione, o meglio come riduzione della complessità dell'ambiente mediante l'esercizio di una negatività che non è più implicitamente dialettica come nello stato moderno, ma selettiva. Mentre cioè nello stato moderno la razionalità è già data, nello stato funzional-sistemico essa è il risultato di una selezione che riduce la complessità dell'ambiente e individua un più limitato campo di alternative: il senso di quest'ultimo consiste tuttavia proprio nel garantire la conservazione di quelle possibilità che all'interno di tale campo 54 non sono momentaneamente attualizzate. Lo stato funzional-sistemico è perciò di nuovo incompiuto, ma in un modo completamente diverso dalle organizzazioni della cultura precedenti, dalla chiesa, dal partito, dalla professione, che escludevano la possibilità di mantenere, semplicemente stralciandolo e neutralizzandolo, quanto non veniva immediatamente scelto. La stato funzional-sistemico ribadisce il primato della negazione e il suo rapporto costitutivo col senso, ma rifiuta di riconoscere alla negazione quell'effettualità che invece era essenziale alla razionalità dello stato moderno. Ora, un senso fondato sulla negazione, ma senza effettualità e dimensione storica, può essere ancora considerato razionale? Più chiaramente, una organizzazione culturale, in cui il passaggio da una prima fase ad una seconda fase opposta e contradditoria rispetto alla prima, è privo di quella giustificazione e razionalità intrinseca che l'appello alla storia garantisce, può essere ancora considerata come tale? In realtà il funzionalismo sistemico, spezzando il legame occulto dello stato con la dialettica, lo getta in un opportunismo di cui è impossibile rivendicare il carattere razionale, almeno fintanto che si privilegia la negazione come fonte di senso. Il carattere ambiguo della coappartenenza di dialettica e stato è del resto deducibile dalla considerazione dei due significati fondamentali cui rimanda il prefisso verbale greco diá, la divisione e la completezza. Il pieno sviluppo delle premesse implicite nell'assolutezza della dialettica e nell'universalità dello stato dovrebbe condurre ad una identificazione tra i due termini, ma questa identificazione non può essere mai presa esplicitamente in considerazione, perché tanto la dialettica quanto lo stato sono alternativamente mossi da un movimento di trascendenza reciproca che si arroga in entrambi i casi l'identità tra razionalità e realtà, ma la accentua diversamente: sicché nel primo caso il razionale è reale, mentre nel secondo caso il razionale è reale. La stessa proposizione non è mai univoca, ma è divisa in se stessa, riproducendosi all'infinito in una specularità, per cui ciò che è posto da un lato passa dall'altro e viceversa. Il compimento dialettico-statale è una premessa che esige di essere prodotta e 55 riprodotta infinitamente, senza che questa duplicazione possa mai esplicitamente essere presa in considerazione: esso non pone termine alla storia, ma la sposta ininterrottamente dal lato della filosofia a quello dell'organizzazione della cultura, e viceversa dal lato dell'organizzazione della cultura a quello della filosofia. Esso supera cosi, nel senso che insieme toglie e conserva riproducendole ad un livello più alto, le ambiguità che caratterizzano l'ordine metafisi- co-ecclesiastico, l'ordinamento umanistico-partitico, il sistema scientifico-professionale. Il duplice augurio di Platone, che i filosofi pervengano al potere politico o che i capi politici diventino filosofi, è realizzato proprio nella sua duplicità, nel senso che i filosofi insieme sono e non sono i padroni della storia e i capi politici insieme sono e non sono i padroni della storia. Il compimento dialettico-statale ha perciò instaurato tra filosofi e organizzatori della cultura il dialogo, nel senso appunto di discorso alternativo, in cui l'opposto si raccoglie e si unifica, mantenendo tuttavia la distinzione. L'effettualità attraversa la filosofia cosi come la razionalità attraversa la realtà effettuale; con questo attraversamento la dialettica diventa transpolitica: essa attraversa e insieme va oltre lo stato, cosi come lo stato diventa translogico, nel senso che attraversa e va oltre la filosofia. Questi movimenti e sviluppi tuttavia non risolvono ma riproducono l'ambiguità: nel compimento dialettico-statale, estraniazione e riflessione, traversalità e superamento, sono soltanto insieme infinite dislocazioni dello stesso e rispecchiamenti dell'opposto, sicché l'oltre dell'organizzazione statale si rivela poi essere sempre la filosofia e l'oltre della filosofia si rivela poi essere sempre lo stato. L'insopportabilità di tale compimento non deriva tuttavia soltanto dal suo paradossale rimando all'infinito, né dal fatto che la concorrenza tra filosofi dialettici e uomini di stato è senza esito definitivo, ma proprio dalla sua vuotezza speculare. Il filosofo dialettico non appena si specchia nell'uomo di stato vede immediatamente quanto poco di reale e quanto poco di razionale attraverso lo stato si organizzi e viceversa non sfugge certo all'uomo di stato quanto poco di reale e quanto poco di razionale 56 si compie nella dialettica. Da tale insopportabilità sono mossi sia la dialettica negativa sia lo stato funzional-sistemico. La prima sposta il compimento in nessun luogo, nel pensiero utopico; il secondo trasforma il compimento in riduzione della complessità mediante l'agire sistemico. In entrambi i casi viene infranta la specularità dinamico-processuale di dialettica e stato e si suppone di poter meglio garantire razionalità ed effettualità mediante soluzioni asimmetriche che lasciano cadere lo stato oppure la dialettica. In realtà tanto la dialettica negativa, nonostante tutti i suoi sforzi verso un eterogeneo più reale del concetto, quanto lo stato funzional-sistemico, nonostante tutti i suoi sforzi verso un ordine più razionale della struttura normativa, restano frammenti del compimento dialettico- statale. In entrambi va perduto ciò che più importa: la socializzazione compiuta della filosofia che ha trasformato in realtà sociale il pensiero, la culturalizzazione compiuta della società che ha trasformato la realtà sociale in ragione. 5. Il compimento nichilistico-popuiistico Nel compimento dialettico-statale il cammino iniziato dalla filosofia con la metafisica e dall'organizzazione della cultura con la chiesa non è ancora compiuto: solo l'appropriazione della storia della filosofia consente alla dialettica di essere reale, solo l'appropriazione della pre- senzialità storica consente allo stato di essere razionale. Nichilismo e populismo cercano invece, ciascuno per proprio conto ma secondo un medesimo processo, una appropriazione più profonda e radicale rispettivamente della realtà e della razionalità. Né la filosofia né l'organizzazione della cultura possono accontentarsi di far dipendere l'assolutezza del proprio carattere sociale o del proprio carattere razionale da un gioco di specchi che riproduce ad un altro livello i caratteri fondamentali delle forme filosofiche e organizzative superate: 57 l'inter- minabilità del processo, la coappartenenza reciproca occulta, la trascendenza del pensiero sociale e dell'organizzazione razionale rispetto al mondo empirico sommerso che resta attraverso i millenni ostinatamente sordo e inaccessibile ad ogni socialità razionale o razionalità sociale. Affinché dunque il compimento stesso non resti incompiuto, occorre che filosofia ed organizzazione della cultura compino una parusia dell'assoluto ciascuna per proprio conto, ponendo termine al rimando all'infinito, spezzando la loro coappartenenza, instaurando al posto della verticalità della trascendenza l'orizzontalità dell'immanenza. Nella filosofia questo compimento finalmente compiuto avviene col nichilismo, nell'organizzazione della cultura avviene col populismo. Ciascuna delle due cerca di emanciparsi completamente dall'altra ricreando al proprio interno ciò che l'altra le garantiva occultamente: la filosofia non sarà perciò solo l'ambito per eccellenza dell'essenza, della rappresentazione, della ragione, della razionalità, ma anche nella stessa misura quello dell'esistenza, della rappresentanza, del fondamento e della realtà e viceversa l'organizzazione della cultura non sarà solo l'ambito per eccellenza dell'esistenza, della rappresentanza, del fondamento e della realtà, ma anche quello dell'essenza, della rappresentazione, della ragione e della razionalità. Nel nichilismo la volontà di potenza assume l'eredità della prima serie di nozioni, l'eterno ritorno dell'uguale l'eredità della seconda serie di nozioni. Ciò che però in ambedue i casi è determinante non è la quieta appropriazione di un'eredità storica, anche se essa va ben oltre i limiti tradizionalmente fissati alla filosofia e all'organizzazione della cultura e perciò si presenta sotto l'aspetto totalitario più che sotto l'aspetto totale. Ciò che importa è l'inversione compiuta dal nichilismo e dal populismo, grazie alla quale essi pongono fine alla filosofia e all'organizzazione della cultura. Il nichilismo non è semplicemente la filosofia della volontà di potenza, ma è l'affermazione della volontà di potenza come origine di tutte le filosofie e di tutte le organizzazioni della cultura. Solo attraverso questa affermazione è possibile il salto 58 che sopraeleva la filosofia al di sopra di se stessa e autorizza il nichilista a sciogliere ogni rapporto non solo con la chiesa, con il partito, con la professione e con lo stato, con qualsiasi altra forma sociale presente o futura, ma perfino con la metafisica, con l'umanismo, con la scienza e con la dialettica: il nichilista non ha bisogno di qualcosa che garantisca occultamente la propria socialità o la propria razionalità perché egli stesso è già un prodotto di quel fattore per definizione illimitatamente potente e illimitatamente razionale, da cui proviene ogni socialità e ogni cultura, che è la volontà di potenza. Ciò tuttavia non vuol dire che il nichilista sia una marionetta i cui fili sono tirati da una forza trascendente: egli appartiene compiutamente alla volontà di potenza solo nella misura in cui approva incondizionatamente ciò che esiste e vuole con la massima energia possibile la ripetizione infinitamente reiterata di ciò che c'è. Tutto può essere approvato dal nichilismo tranne ciò che non c'è, ciò che è mero dover- essere. Analogamente il populismo non è semplicemente l'organizzazione della cultura che attribuisce al popolo un'importanza e un ruolo fondamentali, ma è l'affermazione del popolo come origine di tutte le organizzazioni della cultura passate e di tutte le filosofie. Il popolo non può sottostare a nessuna dottrina, ideologia, programma o legge rigorosamente e sicuramente fissate, perché è già da sempre per definizione il luogo di ogni cultura e di ogni socialità: esso perciò può tollerare la metafisica, l'ideologia, la scienza e la dialettica solo se restano incondizionatamente subordinate a lui e può autorizzare la chiesa, il partito, la professione e lo stato solo come sue articolazioni. La volontà del popolo ha una manifestazione visibile nella volontà del capo, che ha con lui un rapporto diretto ed immediato. Ciò non vuol dire tuttavia che il popolo sia una entità trascendente, con cui solo il capo sarebbe in relazione: al contrario il popolo in tanto è popolo in quanto è tutto e tutti, in quanto è massa. Il populismo perciò toglie a coloro che non sono popolo ogni diritto di esistere: non combatte ma sopprime i suoi nemici condannandoli alla pura e semplice sparizione fisica. 59 L'ordine metafisico-ecclesiastico, l'ordinamento umanistico-partitito, il sistema scientifico-professionale e il compimento dialettico-statale erano unità che si reggevano su un rapporto di coappartenenza reciproca occulta tra due termini, tra filosofia ed organizzazione della cultura. Il compimento nichilistico-populistico non è più una unità articolata, ma è costituito da due unità, completamente indipendenti l'una dall'altra, incondizionatamente sovrane, autonome, totali. Al nichilismo non corrisponde nessuna organizzazione della cultura: tutti i tentativi di considerare il nietzschenismo come la filosofia del nazismo, che è stato il primo populismo compiuto, misconoscono la frattura tra filosofia ed organizzazione della cultura, che il loro compimento compiuto implica. Analogamente perciò al populismo non corrisponde nessuna filosofia: tutti i tentativi di trovare un nazismo filosofico prescindono dal fatto che col nazismo l'organizzazione della cultura si auto-oltrepassa e non ha più bisogno di nessuna filosofia. Da ciò tuttavia non deriva che nichilismo e populismo siano forme immobili e prive di tensioni. La contraddittorietà dei termini su cui si reggono mostra proprio il contrario. Per quanto concerne il nichilismo, il carattere di oltrepassamento, di intensificazione, di sopraeleva- zione implicito nella volontà di potenza sembra opposto alla mancanza di fini, di scopi, di mete, connessa con l'eterno ritorno dell'uguale. Per quanto concerne il populismo, la nozione di popolo inteso come aggregato sociale omogeneo, dotato di una identità e depositario esclusivo di caratteri specifici e permanenti sembra opposta a quella di massa, intesa come raggruppamento amorfo ed eterogeneo, privo di identità ed incapace di organizzarsi e di manifestarsi in modo univoco. Eppure volontà di potenza ed eterno ritorno, popolo e massa si coappartengono occultamente. Una volontà di potenza che trovasse un limite nella mera rassegnazione ad un destino sfavorevole non sarebbe una potenza incondizionata; la volontà di potenza deve diventare volontà di eterno ritorno se vuole rimanere tale: volontà di eterno ritorno significa essere sempre i più forti anche e soprattutto nelle situazioni più ostili, più nefaste, più orrende. E viceversa l'eterno ritorno dell'uguale 60 non è una legge del tempo cui la volontà deve sottostare, bensì eterno ritorno della volontà: non solo tutto il presente e il futuro appartiene alla volontà, ma anche tutto il passato. Analogamente popolo e massa si coappartengono occultamente. Il popolo non è la nazione, né tantomeno lo stato: la nozione di popolo sorge quando le identità storico-dialettiche sono dissolte ed implica un'affermazione esagerata, aggressiva, oltranzista dell'identità sociale che riesce a mantenersi solo a patto di appellarsi al dato meramente empirico e fattuale fornitole dalla massa. E viceversa la massa, per rimanere tale, per non disperdersi in infiniti atomi privi di ogni giustificazione d'esistenza, deve porsi come massa di popolo, e non già come massa di diseredati, di orbati, di disperati. Il compimento nichilistico-populistico in tanto è compimento compiuto in quanto i due termini che si sono resi autonomi l'uno dall'altro, la filosofia divenuta nichilismo e l'organizzazione della cultura divenuta populismo, riproducono ciascuno al proprio interno, quel rapporto di coappartenenza reciproca che caratterizzava la loro relazione. L'ambiguità si colloca perciò interamente all'interno di ciascuno dei due: volontà di potenza ed eterno ritorno sono e non sono la stessa cosa; cosi popolo e massa sono e non sono la stessa cosa. Se da un lato questa intensificazione ed autopromozione che porta ad una completa sovranità dei due ambiti segna il pieno spiegamento di premesse che erano già implicite nella metafisica e nella chiesa, dall'altro introduce all'interno di ciascun ambito quell'ambiguità che nelle forme precedenti di filosofia e di organizzazione della cultura proveniva solo dal loro occulto rapporto reciproco. Invano si cercherebbe perciò nel nichilismo quel rigore teorico che ha qualificato la metafisica, l'umanismo, la scienza e la. dialettica o nel populismo quella coerenza pratica che ha qualificato la chiesa, il partito, la professione e lo stato. Le nozioni del nichilismo, a confronto del patrimonio storico elaborato dalla filosofia occidentale restano più affini ad immagini poetiche che a veri e propri concetti: esse non sono contraddittorie nel senso dialettico del termine, bensì aperte, equivoche, sempre pronte ad assumere aspetti diversi; solo cosi esse possono contenere tutto. 61 Analogamente gli enunciati del populismo, a confronto della programmatica elaborata dall'organizzazione della cultura nel suo sviluppo storico, restano vaghi, confusi, più affini a manifestazioni istintuali che a vere e proprie dichiarazioni d'intenzione impegnative: essi non hanno più la generalità della legge, bensì la genericità del banale, del luogo comune, dell'ovvio espresso con un oltranzismo ed una intimidazione degli avversari pari alla sua imprecisione. Perciò il nichilismo sembra più prossimo alla poesia che alla filosofia, il populismo più alla contestazione che all'organizzazione della cultura: in realtà essi segnano la fine della tradizione poetica e rivoluzionaria moderna non meno che della filosofia e dell'organizzazione della cultura, perché svelano quanto questa tradizione fosse, suo malgrado, strettamente connessa a ciò che combatteva. Nichilismo e populismo si emancipano dalla necessità di fornire giustificazioni o legittimazioni perché presuppongono di possedere già tutto. In questo consiste la loro giustizia, nel dare come già assegnata, acquisita e perfino posseduta da loro stessi anche la parte che manca alla filosofia e all'organizzazione della cultura tradizionali. Il compimento compiuto implica il possesso di un vantaggio, di una parte attribuita anticipatamente prima di ogni divisione: il nichilista si è già accaparrata la socialità, il populista la teoricità, perché essi si presentano come l'origine di ogni società e di ogni teoria. Ciononostante sembra inadeguato definire come impostura questa concezione della giustizia, perché essi si pongono oltre la distinzione tra vero e falso ed oppongono alla concezione meramente speculare della giustizia una loro maniera di pensare costruttiva. Se giustizia non c'è mai stata, se cioè nulla ha mai davvero garantito il filosofo dall'isolamento, dalla frustrazione, dall'emarginazione, se nulla ha mai davvero garantito l'organizzatore di cultura dall'impotenza, dalla connivenza con i violenti, dalla istituzionalizzazione di uno stato di fatto, allora prendersi anticipatamente ciò a cui si ha avuto diritto da sempre può anche essere l'unico modo per sottrarsi al risentimento, alla sopportazione recriminante, al lamento sui torti subiti, 62 realizzando ed esaurendo cosi compiutamente il processo storico iniziatosi con la metafisica e con la chiesa. Il compimento compiuto è paradossale: esso compie non una, ma due parusie, completamente indipendenti ed autonome l'una dall'altra perché incondizionatamente sovrane; queste si reggono su coppie di nozioni che sono diverse, ma riportabili ad una problematica identica. Infatti tanto la coppia nichilistica volontà di poten- za-eterno ritorno, quanto quella populistica popolomassa possono essere ricondotte ad un'altra più generale, comune ad entrambe, la coppia valore-fatto. Infatti volontà di potenza e popolo sono riconducibili alla nozione di valore, eterno ritorno e massa a quella di fatto. Valore e fatto non appartengono alla tradizione della filosofia pre-nichilistica e dell'organizzazione della cultura pre-populistica: esse sono nozioni ambigue che si coappartengono occultamente. Il valore non è il do- ver-essere dell'imperativo categorico: quest'ultimo è troppo incompiuto per il nichilismo e il populismo. Il valore vale: la sua validità pesa come un fatto sulla bilancia del nichilismo e del populismo; la volontà di potenza nel suo svilupparsi e manifestarsi è strettamente congiunta con l'instaurazione, col mantenimento, col rovesciamento dei valori e il popolo è tale proprio nella misura in cui custodisce, potenzia, trasforma i valori. Il valore importa non perché trascendente, bensì proprio al contrario perché produce fatti, rende salde le decisioni, muove le moltitudini. Il valore insomma conta perché è un fatto. Reciprocamente il fatto non ha nulla a che fare con l'effettualità dialettica: quest'ultima è troppo intrisa di negatività per il nichilismo e il populismo. Il fatto non è l'estraniazione nel processo storico, bensì proprio al contrario l'identificarsi immediato con ciò che c'è, con l'identico che infinitamente ritorna, con la massa che sta, nella sua opacità, informe ed elastica. Si obbedisce dunque al fatto come se esso fosse un valore, anzi esso è l'unico valore, il valore per eccellenza, ciò che vale indipendentemente da altro, ciò che non ha bisogno d'altro per valere, ciò che è finito, compiuto, perfetto. Appartiene al compimento compiuto la riconsiderazione delle filosofie e delle organizzazioni della cultura passate nella chiave 63 nichilistico-populistica: metafisica, umanismo, scienza e dialettica appaiono come portatori di valori che sono riusciti a diventare fatti in modo troppo incompleto e parziale, e che perciò devono essere transvalutati, cosi come chiesa, partito, professione e stato appaiono come portatori di fatti che acquistano il loro pieno valore solo nella dimensione nuova e dispiegata del fatto compiuto. La coappartenenza reciproca di valore-fatto e di fatto-valore spiega perché né il nichilismo né il populismo sopportino una demitizzazione e una derealizzazione che sopprima tanto i valori quanto i fatti. La sussistenza di una problematica identica, determinata dalle comuni nozioni di valore-fatto e di fatto-valore rende inevitabile, nonostante la totale e radicale separazione tra nichilismo e populismo, l'emergenza del problema del loro rapporto. Questo ovviamente non può mai diventare per definizione una coappartenenza, né può essere mai concorrenziale, né speculare, perché entrambi si danno come totali ed unici già in partenza. Il loro rapporto non potrà essere che di coestraneità e destituzione reciproca. Nel loro compimento compiuto filosofia ed organizzazione della cultura si rivelano dunque cosi lontane 1' una dall'altra da non riuscire nemmeno a scontrarsi, ma solo a disprezzarsi reciprocamente, ignorandosi o utilizzandosi opportunisticamente. Il compimento nichilistico-populistico non è però il raggiungimento di uno stato definitivamente immobile. Il movimento che ha prodotto la rottura del rapporto millenario che filosofia ed organizzazione della cultura intrattenevano segretamente tra loro, è anch'esso ambiguo e presenta un duplice volto: se per un verso è stato orientato alla costituzione di totalità orizzontali sempre più comprensive come nichilismo e populismo, per un altro inaugura un processo di frammentazione inarrestabile che spezza e dissolve queste stesse totalità. Tale frammentazione si esercita innanzitutto sulle forme passate di filosofia e di organizzazione della cultura. L'organicità verticale ed implicita dell'ordine metafisico-ecclesiastico, dell'ordinamento umanistico-partitico, del sistema scientifico-professionale appare sempre più insostenibile ed estranea all'esperienza contemporanea: il rapporto di 64 coappartenenza implicita tra filosofia ed organizzazione della cultura sembra meramente dottrinario, ideologico, programmatico, autoritario. Correnti filosofiche contemporanee come l'ontologia, l'ermeneutica, la nuova epistemologia e perfino la dialettica negativa sono impensabili senza una pregiudiziale intuizione nichilistica che condanna senza appello ogni organizzazione della cultura esterna ad essa; analogamente tendenze contemporanee come la nuova ecclesiologia, l'autonomia del politico, il movimento per l'educazione permanente e perfino quello per lo stato funzional-sistemi- co sono impensabili senza una pregiudiziale intuizione populistica che nutre un insuperabile scetticismo nei confronti di ogni filosofia esterna a se stessa. Il processo di frammentazione investe le stesse forme compiute del nichilismo e del populismo. I termini su cui si reggevano si rendono autonomi l'uno dall'altro. La volontà di potenza senza eterno ritorno genera un decisionismo che suppone di poter prescindere da ogni vincolo preesistente; dall'eterno ritorno senza volontà di potenza prende origine la teorizzazione di un pensiero debole, per il quale tutto sembra risolversi in una rammemorazione pensante e poetante. Analogamente la separazione della nozione di popolo da quella di massa porta ad un partecipazionismo che si attende il formarsi di una aggregazione sociale dalla mera mozione patetica degli affetti; e all'inverso l'isolamento della nozione di massa da quella di popolo conduce al dissolvimento della società stessa. Una certa ristrutturazione di tutta la problematica di derivazione nichilistico-populistica sembra possibile sulla distinzione tra un orientamento attivo, in cui s'inscriverebbe il decisionismo e il partecipazionismo, e un orientamento passivo, in cui si collocherebbero le teorie del pensiero debole e dell'implosione sociale. Ma questa distinzione è estrinseca, perché presuppone che tali orientamenti costituiscano un effettivo oltrepassamento del compimento nichilistico-populisti- co: in realtà essi lo frammentano soltanto senza giungere ad una ipotesi alternativa. Ciò che importa è il processo di equivalenza, circolazione e confusione di questi frammenti. Esso instaura una situazione che non è semplicemente riducibile al compimento 65 nichilistico-populistico nella sua forma classica, pur essendone una conseguenza. Ciò che caratterizza questa fase estrema è la riduzione di tutta la sedicente filosofia a spettacolo e di tutta la sedicente organizzazione della cultura a macchinazione. Tutto si confonde con tutto e tutto si capovolge in tutto: si afferma l'epoca della compiuta mancanza di senso. Ogni residua pretesa ad affermare la socialità intrinseca del pensare e la teoricità intrinseca del potere, sulle quali è nata e si è costruita la civiltà ellenico-cristiana viene spacciata per una velleità irrilevante, oppure perseguita in modo aberrante come notorietà effimera e complicità mafiosa. Lo spettacolo trova un campo di applicazione più ampio trasformandosi in ornamento, la macchinazione diventa accessibile a tutti nella forma della banda. Si tratta certo ancora di sviluppi che non escono dal compimento compiuto: l'ornamento è infatti ancor più nichilistico della volontà di potenza e dell'eterno ritorno, la banda ancor più populistica del popolo e della massa. Tutto il passato viene reinterpretato sulla base di questi termini: la metafisica, l'umanismo, la scienza e perfino la dialettica sembrano essere state nient'altro che ornamento; la chiesa, il partito, la professione e perfino lo stato nien- t'altro che banda. Il punto di arrivo dell'epoca della compiuta mancanza di senso sembra essere l'annullamento della stessa distinzione tra spettacolo e macchinazione, tra ornamento e banda: le due parusie si confondono sempre più l'una con l'altra: forse qualcosa permette ancora di distinguere la banda filosofica dall'organizzazione che si dà come ornamento, ma che cosa più separa il sedicente filosofo-manager dal sedicente manager-filosofo? Tuttavia proprio da questo postremo esito proviene la certezza che si sta aprendo un nuovo mondo in cui cultura e società, sapere e potere saranno congiunti in modo molto più intimo di quanto non lo siano mai stati. 66 Conclusione Per quanto l'ordine metafisico-ecclesiastico, l'ordinamento umanistico-partitico, il sistema scientifico-profes- sionale, il compimento dialettico-statale mostrino oggi, anche e soprattutto a chi è sempre stato estraneo ad essi, a chi ne ha sempre visto i limiti, a chi li ha combattuti, la loro grandezza per lo sforzo immane perseguito nei secoli di tenere congiunta, sia pure in modo occulto, la filosofia con l'organizzazione della cultura, il sapere col potere, la socialità del pensare con la teoricità dell'istituzione, qualsiasi ritorno ad essi è impossibile. È impossibile non per qualche pretesa legge della storia, né per un malinteso attaccamento ad un supposto corso progressivo degli eventi, né infine perché manchino le condizioni della loro restaurazione, ma più essenzialmente perché il compimento nichilistico-populistico con i suoi prodotti ultimi, l'ornamento e la banda, è il punto di arrivo, la piena estrinsecazione, il compimento compiuto di premesse che erano presenti fin dall'inizio in quelle forme di filosofia e di organizzazione della cultura e che sono state sviluppate in loro con ostinata ed indefessa fedeltà. Dal momento in cui tale continuità è apparsa nella sua evidenza, è cominciata la ricerca di dimensioni radicalmente alternative ed autonome più originarie e più aurorali, non soltanto storicamente precedenti alla metafisica e alla chiesa, ma soprattutto essenzialmente indipendenti da queste. Questo passo indietro verso ciò che è più proprio e più prossimo all'origine, da cui si attende il dono del presente e del futuro, ha assunto almeno tre direzioni: verso la Grecia pre-classica della filosofia pre-socratica e del mito tragico, verso la cristianità delle prime comunità apostoliche e del movimento riformatore, verso le radici dell'esperienza europea, colta soprattutto nel linguaggio 67 dei suoi poeti più autentici. Queste tre fonti hanno in comune il fatto di essere completamente estranee alla metafisica, all'umanismo, alla scienza e ai loro compimenti, non meno che alla chiesa, al partito, alla professione e ai loro compimenti, e di condurre ad una concezione dell'essere, dell'uomo e del sapere alternativa rispetto alla tradizione filosofico-organizzativa che sembra essere stata la via maestra dell'Occidente. Per quanto questo orientamento non possa essere confuso né assimilato, proprio per il suo carattere di proposta globale e risolutiva, ai frammenti in cui si sono ridotte le forme della filosofia e dell'organizzazione della cultura nel loro compimento compiuto, tuttavia esso appare sempre più inadeguato ad effettuare quella appropriazione-accettazione-approfondimento della storia dell'Occidente che pur si propone, per la rinunzia a porre in maniera finalmente esplicita il problema della socialità del pensiero e della teoricità dell'istituzione. Il fatto che tale problema abbia trovato un'impostazione insoddisfacente nella filosofia metafisico-umanistico- scientifica e nella organizzazione ecclesiastico-partitico- professionale e nei rispettivi compimenti, non significa punto che esso cada con queste. La proposta di soluzioni proto-logiche e proto-istituzionali evita di prendere davvero in considerazione lo stato di disperato isolamento e di irrimediabile frustrazione in cui si sentono sprofondati il filosofo e l'organizzatore di cultura contemporaneo, che è proprio al contrario essenzialmente post-logico e post-istituzionale. Non dunque verso ciò che è, ed è sempre stato, più originario, più proprio, più autentico, deve volgersi l'attenzione, bensì verso ciò che è, ed è sempre stato, più derivato, più ripetuto, più ibrido. Non è guardando alla purezza proto-storica che si può vincere la battaglia contro l'imbarbarimento e l'incanaglimento universale, ma proprio al contrario scoprendo che la feccia di Romolo può essere altra e differente da quanto è sempre parso ai seguaci della repubblica di Platone. Non certo per farsi portavoce di una qualche trascendenza che salva e redime, secondo il modello elaborato dalla filosofia e dall'organizzazione della cultura, ma proprio al contrario per trovare nello spurio e nel replicato, 68 finalmente considerati in quanto tali e non come semplici derivazioni degenerate e conseguenze accessorie del genuino e dell'originale, la possibilità di un pensiero effettivo, di una effettività pensante. La filosofia e l'organizzazione della cultura, essendo state dominate dalla preoccupazione di affermare, di preservare e di imporre la loro identità socio-razionale, si sono rivelate troppo estrinseche, artificiose e rigide nei confronti di una realtà storica sempre mutevole, sempre differente, sempre pronta ad assumere aspetti nuovi e inaspettati da cui esse a torto o a ragione ritenevano di dover essere preservate: la stessa netta distinzione tra filosofia ed organizzazione della cultura nasce da una libidine d'identità che le rende entrambe estremamente deboli e vulnerabili. Certamente il compimento nichilistico-populistico si è reso conto di tale fragilità, ma esso ha soltanto portato, senza scrupoli e remore di sorta, alle estreme conseguenze la pretesa che già animava l'ordine metafisico-ecclesiastico di affermare incondizionatamente una identità totale, o una totalità identica. Manca al compimento nichilistico-populistico ogni intuizione della differenza della realtà storica, ogni capacità di discrezione nei confronti di essa. Il passo indietro verso l'origine ha certo inaugurato un pensiero della differenza, un pensiero differente dalla presunta strada maestra della tradizione occidentale. Ma il fatto di averlo cercato in sentieri che spariscono per poi riemergere di tanto in tanto, in sorgenti che corrono sotterranee per zampillare fortunosamente qua e là, ne ha estremamente ridotto la forza innovativa. Per quanto esso si presenti come un pensiero semplice, e in quanto pensiero dell'origine non possa non esserlo, il carattere privilegiato che esso ha assegnato al pensatore e al poeta lo ha ammantato di una solennità aurata, che pur non essendo trascendenza, tuttavia non gli consente di fornire risposte differenti alle domande tradizionali riguardanti il rapporto tra sapere e potere, ma solo di porre domande differenti. Ora il pensiero della differenza non può essere proseguito che attraverso un passo indietro verso la ripetizione, il quale si attende il dono del presente e del futuro dalla considerazione di fonti simmetricamente opposte a quelle frequentate dal passo 69 indietro verso l'origine. Non la Grecia pre-classica, ma la Roma pre-classica, che sul rito senza mito ha costruito l'effettività della cerimonia, dell'ars, dello ius; non la Riforma protestante, ma il cattolicesimo post-rinascimentale, che sulla elezione della differenza storica ha edificato l'operatività della consolazione, del principio della maggior gloria e della sovrana indifferenza barocca; non l'Europa più genuina e segreta, ma l'Europa più ibrida e più replicata, quell'Europa fuori di se stessa che ormai occupa la maggior parte del mondo e che attraverso gli innesti più illegittimi e le combinazioni più spurie, è artefice di una quotidianità finalmente priva di appoggi, di giustificazioni, di sostegni nella trascendenza del mito, dell'ideologia o della scienza, e che proprio perciò è sorprendentemente pronta a pensare la cosa che è e a far cosa di ciò che pensa. Questo pensiero-cosa o questa cosa-pensiero, in cui l'esperienza romana, l'esperienza cattolica post-rinascimentale e l'esperienza dell'Europa fuori di se stessa convergono non è e non è mai stata una filosofia, né un'organizzazione della cultura. Al pensiero rituale della Roma arcaica, che estende la propria influenza a tutta la romanità storica, è estranea la pretesa metafisica di determinare l'essenza dell'ente in modo univoco ed immutabile, non meno di quella ecclesiastica di costituire un'istituzione religiosa unica ed infallibile: esso procede attraverso una concessione incondizionata di rilevanza ontica a tutto ciò che mostra una qualche presenza effettiva per quanto larvale e intermittente, ed è pronto ad incorporare mediante successivi sincretismi ed assimilazioni qualsiasi elemento estraneo, senza mai creare una classe sacerdotale separata dal resto della popolazione. Invece dell'idea umanistica dell'identità dell'uomo e della sfida prometeica che questa implica, esso pratica un'approvazione piena ma non priva di impercettibili riserve e di duplicazioni indiscernibili dell'effettività storica: una devozione accorta a tutto quanto è positivo che rende fatali le alleanze e le conflittualità non mediante l'appello a moti interiori, ma grazie all'esecuzione di cerimonie collettive scrupolosamente compiute. Infine esso non annulla il caso singolo nella legge, ma armonizza la situazione specifica con la forma rituale, inaugura un 70 atteggiamento diretto allo studio del singolo fenomeno e con l'importanza assegnata al calendario afferma una concezione del tempo parimenti estranea al tempo cronologico unidirezionale e irreversibile e al tempo ciclico metastorico e reversibile. L'erede storico e il continuatore del pensiero rituale romano è stato il cattolicesimo post-rinascimentale. Il pensiero-cosa ignaziano non è una verità dogmatica sempre uguale che si possa apprendere su un trattato, bensì il risultato di una serie di esercizi, il cui direttore funge soltanto da catalizzatore di una ricerca di cui ignora completamente il punto di arrivo. E nonostante l'obbedienza speciale al papa, anzi proprio in virtù di essa, mira a non confondersi con l'impotere ecclesiastico secolare, temporale ed economico dei suoi tempi. Esso è sostanzialmente estraneo all'umanismo, perché fa del dissolvimento del soggetto la condizione indispensabile per essere disponibili al meglio storico, il quale è per definizione altro e differente: la compagnia inoltre si distingue nettamente agli altri ordini proprio per l'indeterminatezza del suo compito, per la disponibilità a disseminarsi sotto i più vari aspetti in tutti i luoghi, per la sua plasticità operativa. Per il pensiero-cosa ignazia- no infine conta più il discernimento che la legge: saper cogliere in tutte le cose, azioni, conversazioni, la differenza della storia è più importante che applicare una norma astratta. Il pensiero-cosa ignaziano inaugura nel cristianesimo un tipo di operatività pensante che è al di là della filosofia e dell'organizzazione culturale, che è irriducibile alla impostazione metafisico-ecclesiastica, ai suoi sviluppi e ai suoi compimenti. Il pensiero-cosa contemporaneo si presenta almeno sotto tre aspetti: come rete, come traffico, come quotidianità. La nozione di rete è alternativa rispetto a quelle tradizionali di ordine, ordinamento, sistema che hanno caratterizzato il rapporto tra filosofia ed organizzazione della cultura: ciò che importa oggi non è tanto il richiamo a una norma razionale prestabilita che legittimi le determinazioni gerarchiche, la regolamentazione delle coappartenenze, la correzione delle deviazioni, quanto l'instaurazione e la persistenza di schemi còmunicazio- nali che consentano la comprensione operatoria, che siano indipendenti da ciò che viene veicolato attraverso di 71 loro, che permettano l'integrazione sociale senza la convergenza su scopi comuni. Ora è evidente che tale orientamento non può essere seguito da un pensiero che attribuisce un ruolo privilegiato al prefisso tedesco ge e alla sua accentuazione enfatica del raccogliere e del riunire intorno a ciò che è più segreto, più proprio, più autentico. È al contrario il prefisso tedesco ver, che evoca l'idea del passaggio, dell'operatività relazionale, del traffico, dell'azione eseguita completamente, il più adatto a determinare un'esperienza in cui l'esteriorità non vuole dire ornamento e decorazione, bensì effettività pensante. Nel traffico, nella trasmissione da un continente all'altro delle cose-pensiero, nell'imitazione e nella ripetizione dei modi di vita in luoghi, in tempi, in contesti socio-culturali completamente differenti da quelli che li hanno generati, nella continua e inarrestabile moltiplicazione, riproduzione, disseminazione dei gesti, dei comportamenti, dei linguaggi, il primo a cadere, ad essere dimenticato, trascurato, ignorato è il prototipo, il mito, il significato originario. In questo universale trasporto, traslazione, metaforismo che coinvolge, mescola e confonde tutto e tutti, generando infinite congiunzioni, mescolanze, sincretismi, in cui tutto e tutti vengono strappati alle loro matrici, alle loro patrie, alle loro terre d'origine, per poi ritornare differenti e irriconoscibili, anche se talora paradossalmente più perfetti di quanto non lo siano mai stati, il reiterato, il ripetuto, il replicato trova finalmente la sua dignità e autonomia ed è finalmente visto come tale, indipendentemente dalla legittimazione, dall'autorizzazione, dalla verificazione che deriva dal confronto col modello. Non solo in Europa, ma ovunque, l'archetipico, l'autoctono, l'indigeno scompare in una moltiplicazione vertiginosa di se stesso che lo rende trasmissibile, comunicabile, fruibile alle altre culture, a tal punto che bisogna farsi stranieri a se stessi e perdere tutto ciò che si ritiene ancora di possedere, bisogna farsi nulla e nessuno, se si vuole ancora vedere, sentire, gustare qualcosa. Questo trionfo planetario del reiterato e dello spurio, in cui la ripetizione e la contaminazione diventano condizioni di comunicazione, non è affatto l'uniformizzazio- ne, l'avvilimento, l'omogeneizzazione del mondo su un solo registro, 72 bensì proprio al contrario la disseminazione della differenza, l'acquisizione del diritto di ogni singolarità per quanto stereotipata ed illegittima ad essere considerata autonomamente. La filosofia e l'organizzazione della cultura nel loro sviluppo millenario dall'ordine metafisico-ecclesiastico fino all'estremo compimento nichilistico-populistico, hanno sempre fatto coincidere la socializzazione della cultura e la teoricità della società con la generalizzazione e universalizzazione di una identità socio-razionale, supponendo che il possesso del modello implicasse altresì il possesso di tutte le sue ripetizioni, che la padronanza della matrice comportasse anche la padronanza di tutti i suoi prodotti; si tratta ora di seguire la strada opposta, non certo inseguendo ad una ad una tutte le singole copie, ma trovando in una copia qualsiasi l'esser-copia della copia, la sua socio- razionalità intrinseca, la quale non ha bisogno di essere introdotta, programmata o progettata dall'alto perché c'è già. C'è dunque una compiutezza che non è però il compimento della metafisica e della chiesa, ma una pienezza di tempi e di luoghi, un venir meno dell'attesa, dell'utopia, della profezia, cosi come del catastrofismo escatologico, una scomparsa della distinzione tra centro e periferia, tra prossimo e remoto, tra organicità e marginalità. Se da un lato non è errato considerare la pienezza dei pensieri-cosa e delle cose-pensiero come una appropriazione-accettazione-approfondimento, nonché quindi come un oltrepassamento, della filosofia e dell'organizzazione della cultura tradizionali, perché compie in modo molto più profondo e radicale quella connessione tra pensiero e società che quelle avevano per due millenni tanto ostinatamente perseguito, dall'altro è però difficile sottrarsi al dubbio che l'affermazione d'identità tanto aspramente ribadita dall'ordine metafisico-ecclesiastico, dall'ordinamento umanistico-partitico, dal sistema scientifico-professionale, dal compimento dialettico-statale e dal compimento nichilistico-populistico sia stata, paradossalmente, cedimento alla barbarie e complicità con questa, vuoi per l'estrema fragilità che la sua mancanza di flessibilità e di adattamento alle situazioni storiche concrete ha sempre 73 comportato, vuoi per la profonda ostilità che ha sempre manifestato contro il pensiero rituale e per la lotta che gli ha mosso. Questa lotta non può essere taciuta. Il misconoscimento dell'autonomia della ritualità, dell'esercizio, del quotidiano ha assunto tanti aspetti e manifestazioni: ma sempre è ritornata la stessa accusa di mancanza di senso, stereotipia, inutilità, esteriorità idolatrica, disperazione patologica. La filosofia e l'organizzazione della cultura hanno formulato e ribadito una condanna inappellabile contro l'emancipazione del ripetuto e del derivato nei confronti dell'archetipico e dell'originale. La causa di un simile accanimento contro qualcosa che è poi stato, a ben vedere, il fenomeno più esteso e più comune, è proprio da ricercarsi nell'ambiguità essenziale del rapporto di coappartenenza reciproca occulta che lega, nella tradizione metafisico-ecclesiastica e nei suoi sviluppi, la socialità del pensare e la teoricità della società: la pienezza dei pensieri-cosa e delle cose-pensiero è per questa tradizione un fenomeno incomprensibile e insopportabile. Eppure questa pienezza dei riti, dei gesti e delle cose è la più facile da cogliere. Il suo charme rende pronti ad una felicità indipendente dalla fortuna. Indice Pag. 7 Premessa 9 Introduzione 23 1. L'ordine metafisico-ecclesiastico 33 2. L'ordine umanistico-ecclesiastico 74 44 3. Il sistema scientifico-professionale 55 4. Il compimento dialettico-statale 65 5. Il compimento nichilistico-populistico 76 Conclusione 75