Colzani - Progetto Culturale

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Missione, evangelizzazione e pastorale d’ambiente
prof. don Gianni Colzani
Questo tipo di incontri mi lascia sempre addosso come un timore e un sospetto: cos’é che cerchiamo
davvero? Riorganizzare la presenza della Chiesa nella società o, semplicemente, vivere il Vangelo?
Convertirci o ribadire alcuni punti di coesione organizzativa a livello intellettuale ed a livello
sociale? Credo sia importante – per prima cosa – ricordare e richiamare l’atteggiamento con cui
addentrarci in questo problema. Nonostante la nostra assemblea sia largamente dominata da
sacerdoti, mi sembra che il tema rimandi soprattutto a dei laici che, soggetti di carismi propri,
vivono il proprio dono nella Chiesa e per la Chiesa. In questo senso l’atteggiamento corretto mi
sembra quello di una Chiesa attenta a condividere la storia, la situazione di una società ed i suoi
problemi; il che di fatto significa riprendere – alla luce della intelligenza e della fede – i fili di una
speranza dispersa, il significato deluso di un senso della vita.
1. Due premesse
Due cose mi interessa dire subito, fin da questa premessa. La prima è che dobbiamo accettare
francamente di stare in una società non cristiana e di starci come minoranza culturale. Non è
possibile dimenticare questa realtà nemmeno nell’ambito del lavoro che, di conseguenza, non è
vissuto immediatamente in termini cristiani. Cancellare questo dato dal proprio orizzonte non
produce cristiani integri ma persone alienate; nessuno, infatti, può vivere se non nella storia che gli
è data. Ad essa dovrà reagire, con essa dovrà relazionarsi, ma non c'è che la storia in cui viviamo.
Allora l'unica domanda legittima – una volta detto tutto il bene e tutto il male che si vuole di questo
tempo – è questa: “É possibile per un lavoratore, segnato da questa mentalità e da questa cultura,
vivere l’esperienza del Dio misericordioso? É possibile vivere l’esperienza di quel Dio che fa
propria la causa dell’uomo, che si impegna con lui e per lui?” Io ritengo che, minoranza culturale o
meno, non possiamo rinunciare a vivere la nostra fede ed a comunicarla. In caso contrario, la nostra
presenza di cristiani nel mondo sarebbe quella di un sale scipito che non serve più a nulla – dice il
vangelo – se non ad essere calpestato dai piedi degli uomini. Occorre quindi accettare di stare in
questa società così come è ed occorre starci da credenti, perché questa è la società in cui il Signore
ci chiede di vivere la nostra fede.
La seconda premessa è che tutto questo implica una profonda conversione di mentalità: non
si tratta solo di lasciarsi alle spalle ogni forma di paternalismo o di moralismo ma di mettersi sul
serio di fronte ai cambiamenti e ai mutamenti in atto. Non è semplice per noi, soprattutto noi
sacerdoti. Sarà infatti difficile che il mondo del lavoro, anche quello credente, assuma atteggiamenti
e linguaggi parrocchiali; occorrerà piuttosto che sia la parrocchia a dover assumere e far propri gli
atteggiamenti e i linguaggi del mondo del lavoro; in caso contrario, non vi sarà nessun incontro.
Ecco perché il problema è quello di una conversione di fondo, non di stile o di maniera, ma di
mentalità. Non è il mondo del lavoro che è chiamato a cambiare il suo modo di essere e di pensare
ma siamo noi che dobbiamo tornare a riproporre la fede e il vangelo in una maniera nuova, più
libera e coraggiosa. Ci si accorge così che, se non si arriva alla condivisione di questo momento
storico, se non si arriva a questo cambiamento di mentalità, si offrono risposte che sanno solo di
provvisorio e non di impegnativo, risposte che risentono della scelta individuale ma non ancora del
cammino di Chiesa. A me pare infatti che, nella nostra Chiesa, ci siano tante energie, tanti cammini
che vanno crescendo, ma che devono fare quel salto qualitativo che li fa passare dall’essere impegno
di un gruppo all’essere cammino di una comunità.
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Se dovessi pensare ad un’immagine per riassumere così l’atteggiamento con cui addentrarci nel
nostro tema, riprenderei l’immagine conciliare di una Chiesa pellegrina nella storia, di una Chiesa
che cammina dentro la storia ben sapendo che questo compito di vivere e proclamare il vangelo è
anche un compito che ne mette a nudo i ritardi, le pigrizie, le scissioni tra vangelo e vita. La
meditazione sulle Chiese dell’Apocalisse, cominciata a Palermo, purtroppo si è poi persa per strada.
Quelle erano Chiese che, come le nostre, vivevano una fatica in ordine al Vangelo; come loro, anche
noi avremmo bisogno di risentire gli stessi moniti e di ascoltare gli stessi richiami. Quando non
riusciamo a vivere il Vangelo in modo consono a questa storia, le generazioni giovani saranno le
prime a staccarsi, saranno le prime ad intuire che qualcosa non va né nel nostro modo di essere
credenti né nel nostro modo di essere dentro la società. Ecco perché l’atteggiamento che vorrei
evocare è quello del popolo di Dio che cammina nella storia. Questo significa avere dubbi,
incertezze, non saper bene come regolarsi di fronte alla globalizzazione, ai mutamenti in atto, alla
reinterpretazione della vita, agli spostamenti di accento e di significato; questo significa registrare –
come Chiesa – le medesime confusioni, paure, insicurezze di altri soggetti. Ciò che come Chiesa
abbiamo di caratteristico è la “Dei Verbum”, è la Parola di Dio: solo essa dà un’altra luce, un’altra
prospettiva alla vita. Se non fosse pericoloso usare questo verbo, direi che la Parola di Dio cambia e
stravolge la realtà: la modifica, la illumina in una maniera differente nello stesso tempo in cui la
assume e la fa propria. La “Dei Verbum”, insomma, rappresenta una alternativa alla comune
maniera di pensare e di vivere. Su questo sfondo diventa più semplice parlare di evangelizzazione e
parlarne alla luce della Parola di Dio.
2. L’icona di Gesù evangelizzatore
Vorrei partire da un testo della Scrittura – Mt 9, 35-38 – che è una breve icona di Gesù
evangelizzatore; è posto subito prima del capitolo 10 che è, per eccellenza, il capitolo in cui Matteo
raccoglie i loghia di Gesù sulla missione, il capitolo costruito attorno alla scelta dei dodici ed al
discorso missionario, il capitolo che in un discorso raccoglie le linee della loro missione. Prima di
questo capito, quasi a introduzione della missione della Chiesa, Matteo pone questi quattro versetti
in cui presenta Cristo come modello della missione della Chiesa: 35Gesù percorreva tutte le città e i
villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il Vangelo del Regno e curando ogni
malattia e infermità. 36Vedendo le folle ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite, come
pecore senza pastore”. 37Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è molta, ma gli operai sono
pochi! 38Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!”. Passa poi al
capitolo decimo. A me pare che questo brano, questa icona di Gesù evangelizzatore possa
permetterci di cogliere alcuni punti, alcuni aspetti importanti per la nostra riflessione.
Il primo punto lo intitolerei la passione di evangelizzare, descritta qui come un anticipo della
passione, una com-passione, un vivere anticipatamente di quell’amore pasquale che è amore per Dio
e per le persone, che sa stare dentro i drammi della vita personale e sociale. Il secondo lo indicherei
come lo sguardo che sa vedere; la com-passione è preceduta da un verbo: “vedendo le folle, ne sentì
compassione”. Non è sempre facile saper vedere con sincerità perché il nostro tempo ci riempie di
notizie marginali proprio mentre ci nasconde le cose più importanti; il nostro mondo vive di
apparenze, di verità virtuali, che non di raro dissimulano ciò che è decisivo e fondamentale. Il terzo,
infine, lo presenterei come l’impegno, l’azione di evangelizzazione. Il brano parla di operai della
messe da chiedere con insistenza ma, non chiarendo la loro azione, lascia intuire che deve essere
simile a quella di Gesù riassunta attorno a due punti fondamentali: predicare il Vangelo del Regno
da una parte, curare ogni malattia e infermità dall’altra. La missione, l’evangelizzazione è così
raccolta attorno alla proclamazione del vangelo del Regno ed attorno al prendersi cura della vita
delle persone, della loro concreta condizione umana. La dignità della persona e le problematiche del
lavoro e della produzione di ricchezza ne fanno quindi direttamente parte.
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3. La passione di evangelizzare
La passione di evangelizzare mi pare il primo aspetto da richiamare. Noi siamo una Chiesa dalle
radici antiche, radici che vanno indietro nei secoli; non solo la mia Chiesa di Milano ma tutte le
Chiese italiane risalgono al III-IV secolo o anche prima. Questa storia così lunga è la nostra
ricchezza e, a volte, la nostra fatica. La ricchezza e il peso della storia ci rendono titubanti di fronte
alle realtà nuove come chi, avendo troppo, non sa di preciso a cosa rinunciare; così abbiamo perso
di freschezza, di attenzione all’oggi, di flessibilità come si dice nel linguaggio produttivo. Noi
siamo una Chiesa di popolo, ancora radicata nella vita della gente diversamente da altre Chiese
nazionali; il rischio è che questa popolarità si accompagni a carenze di cultura e di riflessione.
Possibile sempre, questo è particolarmente vero oggi che l’identità del popolo italiano è entrata in
una fase di profondi mutamenti; la debolezza culturale è fatica a comprendere i processi oggi in
atto: capirli, non già adeguarvisi, è condizione indispensabile per fare pastorale. Nonostante il
Codice parli di populi Dei portio, noi siamo una Chiesa centrata sul territorio, costruita su
parrocchie territoriali, che fatica per questo a prendere atto dei processi di mobilità oggi in vigore.
Inoltre sul territorio i nostri referenti sono le famiglie, quando non addirittura le mamme ed i
giovani, più che sugli ambiti professionali. Siamo una Chiesa ricca di energie, di carismi e di
vivacità, ma quale fatica a ricondurre questa vivacità entro un progetto pastorale organico ed
unitario, un progetto che non incapsuli ma valorizzi quello che esiste.
Proprio queste difficoltà ci obbligano a risalire a monte: quale è la passione di evangelizzare oggi
presente e quale passione di evangelizzazione esprimiamo nei confronti del mondo del lavoro?
Quanto alla prima domanda darò una risposta veloce, senza ritornarci su più di tanto; io temo che la
nostra Chiesa, in misura diversa, conosca un blocco della evangelizzazione ed un suo concentrarsi
attorno alla gestione della pastorale, cioè attorno alla gestione di quel che si può ritenere sia come il
condensato della fantasia e del coraggio pastorale del passato. Questo non è più tollerabile. Quanto
al mondo del lavoro ci dobbiamo convincere fino in fondo che non è una realtà ecclesiale; individua
le proprie mete e sceglie i criteri della propria organizzazione indipendentemente dalla Chiesa.
Realtà ampia e universale, spazio di confronto pluralistico non legato ai cristiani, il mondo del
lavoro conta su di sé, sulle proprie energie e sui propri aderenti per risolvere i propri problemi.
Voglio dire che è la Chiesa ad aver bisogno del mondo del lavoro per vivere la propria missione di
evangelizzazione e non il contrario; per questo è la Chiesa a dovergli andare incontro perché questo
fa parte della sua missione, del suo modo di essere. È la Chiesa a doversi accostare al mondo del
lavoro, a doversi misurare con la sua vita e le sue esperienze.
Ora, se richiamiamo quanto osservavo prima sulle ricchezze e sui pesi della nostra storia,
possiamo dire che il rapporto della Chiesa con il mondo del lavoro si concentra attorno a tre aspetti,
quasi naturali ambiti del suo impegno di evangelizzazione. Il primo consiste nell’offerta di quel
messaggio che la Chiesa considera decisivo: al mondo del lavoro la Chiesa offre il Vangelo, il
Vangelo di Cristo, quel Vangelo che ultimamente, in ordine al lavoro ed all’economia, ha trovato la
sua espressione più alta e più nobile nella dottrina sociale. Bene intesa, la dottrina sociale non
dovrebbe essere altro che una riscrittura continua del Vangelo, una riscrittura mai terminata, uno
sforzo continuo per incarnare il Vangelo nell’oggi. Nella misura in cui si avvicina sempre di più alla
teologia morale, di cui diventa seriamente una branchia, la dottrina sociale partecipa alla
metodologia teologica ed implica perciò un confronto a tutto campo con la cultura, con il tempo,
con i mutamenti. Oltre naturalmente ad una fedeltà evangelica. Dovremmo dire che, una volta
abbandonato il criterio giusnaturalista che derivava le sue affermazioni da alcuni principi teorici, il
problema è diventato quello di prendere atto dei rapporti sociali che, come sappiamo, sono rapporti
di forza, e conseguentemente sono rapporti aperti al conflitto. L’affermazione di una dottrina sociale
che smorzi la conflittualità, che svuoti la dinamica del confronto di forza che rappresenta l’essenza
della società democratica – la democrazia è forza in ragione del numero e della capacità di attivare il
consenso – che si accontenti di affermazioni di principio, di frasi forti ma astratte, senza mai entrare
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nel merito dei conflitti sociali se non dove sono in gioco interessi di enti religiosi, sarebbe una
interpretazione della dottrina sociale che tramuta la propria ricchezza in peso. Non è sempre stato
così, per fortuna. L’affermazione che la persona è principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni ha
condotto all’affermazione del primato della società sulle istituzioni, al recupero dell’importanza
della solidarietà, alla sottolineatura della decisività dei diritti umani. Tuttavia bisogna riconoscere
che alcuni fondamentali principi, solennemente proclamati, non sono entrati del tutto nemmeno
nella coscienza dei credenti, nella maniera di pensare e di giudicare della comunità cristiana. Non è
più sufficiente educare ai rapporti umani primari; occorre educare anche ad una coscienza sociale
dove la consapevolezza dei rapporti di forza si traduce non in rassegnazione ai numeri ma in
impegno per attirare e favorire il consenso su idee e criteri di fondo. Questo è il cammino per
riformulare un rapporto nuovo con il mondo del lavoro alla luce della dottrina sociale.
Oltre che nella dottrina sociale, la passione di evangelizzare ha trovato un suo significativo
indice nella collocazione politica della comunità cristiana; questa, infatti, evangelizza non solo con
le parole ma anche con i rapporti pratico-sociali che istituisce con il mondo civile. Si può certo
pensare che questi rapporti scaturiscono dal Vangelo tuttavia non sono risolvibili nel Vangelo; il
volto storico della Chiesa non è sempre identico alla sua predicazione ufficiale. Di fatto la nostra
comunità sta vivendo un passaggio non semplice da quella solidarietà tra autorità ecclesiastica e
autorità civile e statale, che era tipica del regime di cristianità, ad una situazione differente, una
situazione dove l’episcopato e la comunità cristiana diventano interlocutori trasversali di tutta la
società civile, quella credente e quella non credente. Questo dovrebbe significare che la Chiesa non
guarda più solo ai suoi interessi ed a quella parte politica che li rappresenta ma all’intera società,
vista come spazio in cui si concretizza il destino della persona umana. Questa passaggio muta
profondamente il modo con cui la Chiesa sta nella società; esperta in umanità, la Chiesa è chiamata
a dialogare con tutti in forza del suo carisma. Questo spiega perché la comunità cristiana stia
spostando la sua presenza sociale da un asse tradizionalmente costruito attorno alla scuola ed
all’assistenza ad un nuovo baricentro, che riconosce l’importanza del volontariato e si fa carico
delle scuole di formazione sociale o politica. Ne verrà qualcosa? Lo spero fortemente, anche se oggi
ci muoviamo in un quadro complesso dove la realtà tradizionale, l’asse tradizionale della presenza
sociale della Chiesa, c’è ancora ed al suo fianco sta nascendo una realtà ulteriore. Pur guardando a
questo mutamento con fiducia e ottimismo, devo dire che mi lascia non poco perplesso – lo dico
con serenità, nella maniera più fraterna possibile – il venire allo scoperto di una generazione
cristiana che non ha vissuto il Concilio e che esprime la propria fedeltà al Vangelo come
un’amministrazione priva di genialità e di impegno, come una semplice gestione dell’esistente in un
quadro di pragmatismo politico che mi lascia stupito.
L’attenzione alla persona e la passione per il Vangelo passa, ancora, attraverso la maniera
con cui, a livello profondo e quasi inconscio, la Chiesa guarda al mondo operaio. Tradizionalmente,
nel passato – è un passato che portiamo con noi ed in questo caso è tutt’altro che ricchezza – si era
parlato di apostasia, di lontananza del mondo operaio dalla Chiesa. Era un giudizio sulle cui radici e
sulle cui ragioni non voglio entrare in questo momento; credo però che nel caso del mondo operaio,
più che di chiusura alla trascendenza, più che di secolarizzazione o di ateismo, si dovrebbe parlare
in larga misura di irrilevanza della fede e del messaggio ecclesiale. E questo non tanto per il fatto
che la Chiesa fosse dalla parte dei padroni ma, piuttosto, perché si era realizzata una frattura fra la
cultura ecclesiale e la cultura operaia. La Chiesa non ha mai cercato di confrontarsi troppo con il
mondo del lavoro che, per questo, in una larga misura l’ha sentita estranea. Da qui discende pure la
scarsa incisività di un attivismo pastorale che, a volte, sembra limitarsi a rincorrere il sindacato e la
politica o ad operare in base a circostanze individuali; questa mancanza di un preciso progetto
pastorale, coerentemente perseguito, non può dare frutti di Chiesa. Soltanto la capacità di saldare
teoricamente e concretamente la fede della Chiesa con il mondo del lavoro, soltanto la presenza di
lavoratori e imprenditori testimoni di una fede vissuta può originare una conversione pastorale e far
nascere la coscienza di rapporti diversi tra la Chiesa ed i soggetti del mondo produttivo.
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Se vogliamo parlare della passione di evangelizzare, di questa com-passione, di questo
sentirsi toccati dentro che Gesù provava nel guardare le folle, dobbiamo parlare di una passione in
grado di fare i conti con il suo passato – la dottrina sociale, la collocazione della Chiesa nella
società, il modo ecclesiale di avvertire e pensare il mondo del lavoro – riconoscerne gli errori e
ricavarne le energie per un impegno diverso.
4. Lo sguardo che sa vedere
La seconda cosa su cui vorrei fermarmi è lo sguardo di chi deve evangelizzare. Lo sguardo esprime
tanto la rettitudine del cuore quanto i nostri limiti; per avere lo sguardo di Gesù che leggeva nei
cuori, noi dobbiamo mettere in atto un insieme di intelligenza e di fiducia indispensabile per capire,
condividere, chinarci sulla realtà. Noi, infatti, crediamo fermamente che, dal giorno in cui Cristo si è
fatto carne, nella storia dell’uomo vibra qualcosa di unico e di trascendente; nella storia dell’uomo è
davvero possibile incontrare gli echi di quel mistero di salvezza che il Signore vi ha deposto. É
necessario, perciò, abbandonare la cultura del lamento e del catastrofismo di fronte a questo tempo e
a questo mondo: questi sono il tempo e il mondo che il Signore ha affidato alle nostre mani. Non
possiamo rinunciare all’ottimismo della fede, all’ottimismo che ci viene non da quanto incontriamo
attorno a noi ma dal sapere che il Cristo è vivo ed è presente in questo mondo come il suo Salvatore.
Nel libro di Geremia (1,11-12), in una situazione disastrosa dove la nazione è sfiduciata e
prossima al tracollo, si legge questa Parola: 11mi fu rivolta questa parola del Signore: “Che cosa
vedi, Geremia?”. Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. 12Il Signore soggiunse: “Hai visto bene,
poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla”. É difficile rendersi pienamente conto del senso
della frase: il suo significato è tutto giocato sulle parole ebraiche “mandorlo” e “vigilare”, “zadek” e
“zodek”, che hanno molte assonanze. Quello che il profeta afferma non è che Dio vigila sulla
natura, sul ramo di mandorlo, ma piuttosto che la cura che Dio ha per la natura è la medesima che
egli ha perché la sua Parola si realizzi. Dio vigila sulla sua Parola per realizzarla, questa è la radice
della nostra certezza. Si tratta allora di guardare, alla luce di questa prospettiva, una realtà che è
segnata dai suoi limiti e dalla sua povertà ma, anche, dalla sua grandezza e dalla sua ricchezza; per
quanto riguarda il nostro tema, si tratta di guardare il mondo del lavoro e di imparare a registrarne i
problemi e le trasformazioni positive in atto.
Il mondo del lavoro, infatti, non porta solo problemi, ma anche atteggiamenti consolidati che
sono un patrimonio di valori. Porta con sé la volontà di persone, altrimenti ai margini, desiderose di
partecipare alla modificazione della vita sociale e dei suoi equilibri; diventa tramite della ricerca di
una promozione integrale e solidale della persona; costruisce le sue dinamiche attorno a un agire
democratico dove la trasparenza delle idee fa sì che esse valgano per la capacità che hanno di
costruire o meno consenso e dove la gestione dei conflitti interni va commisurata al bene di tutti.
Pur di fronte ai problemi che salgono dal nostro tempo, dobbiamo prendere atto della opportunità e
della bellezza di quanto il nostro mondo ci offre: l’anticonformismo dei giovani, il nascere di una
fede veramente personale, il crescere di comunità sempre più incarnate nella storia. Certo vi sono
problemi e sfide nuove; oggi, in effetti, si stanno tracciando le frontiere di un nuovo ordine
economico internazionale che ha il suo asse nella globalizzazione dell’economia, nella
valorizzazione delle conoscenze scientifiche e delle possibilità tecnologiche e, forse, in un
passaggio dalle coste dell’Atlantico a quelle del Pacifico. Questa nuova geografia passa ben poco
sotto il controllo degli stati nazionali e rischia di produrre nuove drammatiche esclusioni. A me
preme spendere una parola perché la frattura tra valori religiosi e valori del lavoro, già reale, non si
allarghi ulteriormente.
L’emergere di condizioni nuove è una occasione storica per non ripetere gli errori del
passato e per riaprire una complessa relazione affrontando diversamente i problemi. Una situazione
di cambiamento – dobbiamo riconoscerlo – è per lo più fonte di disorientamento e di incertezza,
almeno all’inizio, ma è legittimo nutrire la speranza che i problemi nuovi riaprano un dialogo,
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fattosi difficile, con questo mondo produttivo. In fin dei conti, la distanza tra il mondo del lavoro e
la fede non è nient’altro che la distanza della Chiesa dalla vita della gente, dalle loro esigenze, dai
loro problemi. Sfogliando il vangelo, ho voluto verificare quante volte Gesù stava in una piazza, in
una casa, in un ambiente pubblico ed ho constatato che sono tantissime; molto più raramente Gesù
sta in un luogo chiuso e privato o in una sinagoga e nel tempio. La condivisione della vita delle
persone fa parte del Vangelo; questo suo messaggio non può essere annacquato. Si tratta allora di
formulare un impegno non contrappositivo alla società; si tratta di mettere a disposizione la verità
evangelica e l’amore pasquale per far crescere il bene di tutti. È in quanto Chiesa, cioè con i suoi
doni propri, che la comunità cristiana deve contribuire al cammino sociale.
In questo modo la Chiesa purifica la sua presenza sociale e, lungi dall’indebolirla, la motiva
e la rafforza. Certo si dovrà aver piena consapevolezza che l'unità nella comunione ecclesiale, anche
se sfocia nell’impegno, non è automaticamente né unità politica né unità culturale; non per questo è
inefficace ma, al contrario, è sorgente di giudizi, di scelte e di vita. In questo modo la comunità
cristiana, senza venir meno a se stessa, impara a parlare di discernimento e di pluralismo, di
democrazia e di condivisione; diventa così capace di scelte storiche che, pur radicate nel vangelo,
della storia mantengono l’opinabilità e l’obbligo della verifica. La fatica di questo cammino deve
spingerci a moltiplicare gli sforzi perché la testimonianza della fede non prescinda dalle reali
condizioni reali della vita: si tratta di un dinamismo da coltivare con pazienza e da far crescere a
poco a poco.
5. L’azione della evangelizzazione
Vorrei cominciare questa analisi ricordando un testo di Marco, probabilmente post-pasquale. Si
tratta di Mc 9,38-40 e del parallelo di Lc 9,49-50. 38Giovanni gli disse: “Maestro, abbiamo visto
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uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri”. Ma
Gesù disse: “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e
subito dopo possa parlare male di me. 40Chi non è contro di noi, è per noi”. Questa pagina contiene
un importante ammonimento: ci invita, infatti, a non considerare il nome di Gesù, cioè il contenuto
del suo Vangelo, come un confine o una barriera, come una divisione o un principio di separazione.
Il nome di Gesù ed il suo vangelo sono radice di comunione e non di opposizione. È questo –a la
comunione – il primo e fondamentale dato di ogni evangelizzazione; non c’è nessuno che faccia un
miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi. È
vero che si potrebbe obiettare che nel vangelo non mancano formulazioni opposte, come in Mt
12,30; Lc 11,23; tuttavia è significativo che il nome di Gesù sia principio di unità e di comunione al
di là di ogni differenza. Il nome nel quale vi è salvezza (At 4,12) è anche il nome attorno a cui ed in
forza del quale sorge la comunione, è anche il nome che supera in radice ogni contrapposizione; a
questa esperienza bisognerà tornare per ritrovare luce, forza e coraggio soprattutto nei momenti
difficili.
La proclamazione del nome di Gesù e della vita in Lui è quindi il centro della
evangelizzazione; l’eventuale difficoltà non scaturisce dalla debolezza del nome di Gesù ma dalla
nostra incapacità di proclamarlo con la fede e la forza necessaria. In un libro recente – Medard Kehl,
Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1998 – l’autore, parlando
della attuale comunicazione della fede, sostiene che si tratta di una comunicazione disturbata. Con
questo intende dire che facciamo fatica a comunicare il nome di Gesù e il senso nuovo e liberante
del vivere di Lui; la comunicazione della fede è una comunicazione disturbata dalle novità
introdotte dall’illuminismo, cioè dalla libertà di coscienza e dalla ricerca personale della verità. La
verità non va data ma va cercata liberamente da ciascuno. Va poi aggiunto che la libertà di
coscienza e la ricerca personale della verità hanno oggi assunto la figura dello scontro tra oggettività
della verità ecclesiale e soggettività del credere; inoltre questo scontro sembra acutizzarsi al punto
da mettere in crisi anche il tradizionale senso di appartenenza alla Chiesa di alcune fasce sociali.
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Di fronte a questo scontro tra oggettività della verità e coscienza soggettiva non serve
insistere sull’autorità e sull’obbligo che un cristiano ha di aderire al Vangelo; il più delle volte
provoca, come reazione, il rinchiudersi diffidente delle persone nell’intimo intoccabile della propria
coscienza. La coscienza, questa grande realtà che è istanza suprema di libertà e di sofferta
responsabilità della propria vita, è diventata oggi spazio di valutazione del magistero, della fede e
del vangelo, visti come un’opinione tra le tante e, per di più, come un’opinione tradizionalista. Ne
risulta che l’incertezza e l’insicurezza appaiono gli atteggiamenti più diffusi; in effetti dove si rifiuta
l’autorità di Dio e del vangelo è difficile consentire ad una ragione, ormai immersa in un radicale
pluralismo; questa perdita di consenso sociale finisce per generare individualismo e soggettivismo.
Da qui scaturisce la fatica della prassi ecclesiale: non la risolveremo ribadendo per autorità alcuni
punti così come non risolveremo la crisi di appartenenza ecclesiale insistendo su una buona teologia
della Chiesa.
È certo importante insistere su una Chiesa intesa come comunione, come corresponsabilità e
come missione; è fondamentale insistere insistere sulla testimonianza della carità come linguaggio
normale della fede ma tutto questo ha bisogno di completarsi sia con una prassi di vita più teologica
e spirituale sia con una attenzione e una capacità dialogica molto più grande di quella praticata
finora. Si tratta di coltivare teoricamente e praticamente il valore della libertà, precisandone il
significato sia di fronte alla ricerca che di fronte allo sbaglio. La comunione ecclesiale non si
impone ma si coltiva con una disposizione di fiducia, con un impegno paziente per far avanzare il
punto di convergenza; la stessa testimonianza della carità, poi, è ecclesialmente significativa non
quando ottiene riconoscimenti ufficiali ma quando diventa capace di portare tutta la Chiesa – non
una sua parte – a misurarsi sui problemi reali, accettandone la conflittualità e crescendo in una
capacità di realismo evangelico. Le esperienze dei diversi soggetti ecclesiali vanno accolte e
verificate nella loro forza di novità, valorizzando quella tensione positiva da cui scatta la creatività
della fede. Solo convinto per questa strada paziente di dialogo, di accoglienza e di discernimento,
potremo giungere a un riequilibrio ecclesiale di cui ciascuno potrà portare vivibilmente sia la gioia
che la responsabilità. Se uno potesse sognare, vorrei sognare un ministero che sia guida di un
consenso dialogico all’interno delle comunità e che ne sia anche il frutto.
--------------------------------La passione di evangelizzare, lo sguardo di chi sa vedere, l’atto dell’evangelizzazione come
sorgente di un modo di essere e di vivere la vita cristiana e la vita ecclesiale, mi paiono i punti
attorno a cui raccogliere il nostro cammino in maniera organica, concreta e continua. La linea del
futuro, così come la vedo io, è quella di crescere in questa passione, in questa capacità di guardare e
di vedere avvalendosi del rigore culturale delle analisi, in questa disponibilità sempre più meditata e
responsabile di proclamare il Vangelo. Oggi l'evangelizzazione non ammette più improvvisazioni;
l’obbligo di evangelizzare passa attraverso la formulazione e la realizzazione di progetti dei quali
assumiamo la responsabilità per il presente e per il futuro.
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