“Solidarietà e lavoro, per una scelta di sviluppo coerente”
S.E. Mons. Fernando Charrier - Vescovo di Alessandria
Presidente Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro
1. La solidarietà
Con parole che paiono avere del paradossale, così ci introduce nel tema don Mazzolari:
“Siamo intelligentissimi nello scoprire le altrui responsabilità e così generosi nel distribuirle, che
non ce ne avanziamo una briciola, per cui ne viene che il nostro cuore è sempre traboccante di
amarezza e di sdegno verso gli altri, che consideriamo predoni della nostra felicità.
Se, come è mio preciso dovere, sentissi la mia colpevolezza in tutto quello che avviene di tristo in
me, nella mia famiglia, nel mio impegno, nella mia fabbrica, nel mio paese, nella mia patria, nel
mondo intero; se io ne soffrissi come di una cosa che mi appartiene perché conseguenza del mio
fare e del mio non fare, allora questo mio povero cuore traboccherebbe di un amore tenero,
compassionevole, insaziabile. Bisogna sentirsi colpevoli per amare e redimere”. 1
Alla luce di queste parole, mi pare, che i termini proposti alla riflessione di questa
comunicazione, cioè “solidarietà, lavoro e sviluppo”, siano una tradizione logica e coerente della
fraternità universale fondata, per il credente, sull’imitazione del Padre celeste “che fa sorgere il suo
sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” 2; così si
esprimeva Giovanni Paolo II al riguardo: “Abbiate cura, anzitutto, nella vostra azione pastorale,
per quanti ancora soffrono a causa della pesantezza e della insalubrità del loro lavoro, della
insicurezza della loro occupazione, della disoccupazione e della sottoccupazione, della insufficiente
retribuzione... ”. 3
Ma ancor più nella Nota pastorale La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, si legge: “Il
Paese non crescerà se non insieme... e ha il dovere di partecipare. Vuole essere consapevole delle
proprie scelte e sta imparando a esercitare questo suo diritto organizzandosi nel territorio, nella
scuola, nelle strutture sanitarie e assistenziali, oltre che sul posto di lavoro e sul piano politico”. 4
La cultura in cui si è immersi, è marcata da uno smaccato individualismo, caratteristica
negativa di ogni società “consumistica”. Il prevalere dell’avere sull’essere ha chiuso l’uomo nel
cerchio del proprio tornaconto incrinando ogni rapporto con gli altri che non abbia per fine “il
proprio interesse”. Il principio cui si fa, normalmente, riferimento è: “quanto faccio mi deve
rendere”. Di conseguenza l’uomo si sente realizzato se è scaltro nel gestire i propri affari ed abile
nell’accumulare beni su beni. Il valore di un uomo - non ne sono esenti neppure i cristiani - è
misurato dai beni che possiede o dalla posizione che ricopre.
La crisi, poi, in cui si dibatte il nostro Paese, situazione presente più o meno in tutti i paesi
del mondo industrializzato, ha acuito tale cultura individualista. Si ha, a volte, l’impressione che si
stia instaurando in larghi strati sociali la psicologia del naufrago, e cioè: “è importante che io trovi
una tavola cui aggrapparmi; gli altri si arrangino!”. Si ha un bel dire e un bel scrivere che “si è tutti
sulla medesima barca” e che ci si salva solo in cordata con gli altri; in realtà si pensa e si agisce in
modo del tutto opposto. Il “bene comune” diventa sempre più un valore sconosciuto.
“Siamo eredi - si legge nella Nota pastorale Chiesa e lavoratori nel cambiamento - di una
cultura che ha considerato il fatto sociale come accessorio della vita privata, o come strumento
dell’individuo. Stenta, ancora oggi, ad emergere, nonostante i decenni di vita democratica, una
1
2
3
4
PRIMO, MAZZOLARI, Il buon Samaritano,
Mt 5,44-45
GIOVANNI PAOLO II, Udienza Generale del 25.4.1979
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 8-9
1
cultura del sociale, che sospinga a realizzare un’interazione tra il singolo e il soggetto sociale; che
evidenzi, per il singolo il senso del vivere insieme ad altri soggetti all’interno di una storia
particolare, di un territorio, di una struttura; che metta in risalto, per il soggetto sociale, lo
spessore della dignità irrinunciabile del singolo individuo, dotato di libertà e di responsabilità. E’
ovviamente un problema culturale, prima ancora che sociale e politico”. 5
Un altro dato culturale sta segnando il comportamento nell’attuale società, e dal quale, anche
in questo caso, non sono esenti nemmeno i credenti: “l’assistenzialismo”. Non che l’assistenza sia
da condannare, né tantomeno che sia un male o una realtà che possa essere, in un domani, superata.
Vi saranno sempre uomini che abbisognano di assistenza, sia per la loro incapacità di procurarsi i
beni di cui hanno bisogno, sia perché toccati dalle cosiddette “povertà postindustriali”, sia, ancora,
perché segnati da devianze sociali. L’assistenza è, perciò, e lo sarà sempre, doverosa oltre che
necessaria. A chiarimento sull’assistenzialismo si possono fare due osservazioni: innanzitutto esso è
insufficiente quando si limita a porre rimedio ai mali senza curarsi di cercare e di correggere le
cause degli stessi. E’ necessario certamente agire come il Buon Samaritano della parabola
evangelica che si cura dell’uomo incappato nei ladroni;6 ma è altrettanto necessario fare in modo
che non vi siano ladroni sulla strada dell’uomo. Vi sono, infatti, molti mali che non potranno essere
superati poiché sono il retaggio della condizione umana, limitata ed imperfetta; ma altri ve ne sono
che hanno origine nella volontà dell’uomo e che perciò stesso possono e debbono essere superati.
Una seconda osservazione. Alcuni organismi della CEI hanno il fine di promuovere “la
testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai
bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace...” 7. E’
chiaro il riferimento alla promozione umana. con quale significato? Facendo riferimento al mondo
del lavoro, si potrebbe ricorrere ad una domanda presente al termine del convegno della CEI “Il
lavoro è per l’uomo”, svolto nel novembre del 1983: “La Chiesa italiana fa oggi più assistenza o
favorisce più i movimenti autonomi e le persone interessate al cambiamento?”. 8 La risposta è
chiara: far si che ogni uomo si a protagonista e possa occupare con profitto un giusto posto nel
grande e socialmente differenziato banco del lavoro; e, più in generale, perché ogni uomo possa
svilupparsi in piena sintonia con la sua natura e la sua vocazione perché si realizzi lo “sviluppo
integrale dell’uomo sia nelle sue dimensioni socio-politiche e culturali, sia nella sua dimensione
spirituale e trascendente”. 9 Anche in questo caso il problema è prima di tutto culturale, e solo in
secondo luogo economico, finanziario e politico.
La “crescente consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni” è un fatto
rilevabile sia a livello nazionale che internazionale. Quando l’interdipendenza è assunta in modo
etico; quando, cioè, è sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo
nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa diventa “solidarietà”. Ma non è vera
solidarietà umana e cristiana - quest’ultima ci interessa in modo particolare - il semplice sentimento
e la filantropia; questi ne possono essere l’inizio e non sono da scartare “a priori”. La solidarietà
cristiana comporta che, alla luce della “coscienza dalle paternità comune di Dio, della fratellanza di
tutti gli uomini in Cristo, figli nel Figlio, della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo,
si applichi un nuovo criterio per interpretare il mondo e la storia e si individui un nuovo modo di
vivere. I popoli, i gruppi sociali, gli uomini si debbono incontrare per formare la “nuova comunità”,
fondata sulla vera comunione che richiede inventiva, generosità, gratuità, perdono, riconciliazione,
ecc.
5
6
7
8
9
COMMISSIONE EPISCOPALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO, Chiesa e lavoratori nel cambiamento, 26
Lc 10,30ss
Cfr. per esempio lo Statuto della Caritas Italiana, art. 1
Convegno Il lavoro è per l’uomo - Conclusioni di S. E. Mons. Santo Quadri
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e promozione umana, 6
2
L’oggetto “della solidarietà è, in specifico, il bene comune, cioè il bene di tutti e di
ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti”; 10 bene comune che è criterio di
obbligo morale per gli orientamenti della vita pubblica e privata. In una parola è richiesto di partire
dal bene comune per giungere al bene privato e non viceversa, come è uso fare oggi. La solidarietà,
vista in prospettiva cristiana e in aderenza alla realtà attuale, deve ritenersi “sia nella comunità
cristiana, sia nella società, non una virtù accanto ad altre, ma espressione unificante della vita
cristiana”,11 poiché “Il valore guida, capace di indicare il giusto orientamento per l’opportuna
composizione degli attuali molteplici dinamismi del lavoro umano, inteso nella sua più ampia
accezione, oggettiva e soggettiva, è il valore della solidarietà. Valore profondamente umano, la
solidarietà nella prospettiva cristiana acquista uno spessore nuovo e più pieno, fino a potersi
proporre quale espressione unificante della vita cristiana. La solidarietà è per i cristiani, in ultima
analisi, un’istanza teologale, che ha nella sua stessa realtà del mistero di comunione del Dio uno e
trino il suo fondamento ultimo, il suo radicamento e la sua norma definitiva: essa traduce
efficacemente in pratica degli obblighi della carità evangelica”. 12
2. Il lavoro
Di fronte al grave problema della disoccupazione la comunità cristiana non vuole e non può
stare alla finestra, né limitarsi alla memoria storica di quello che si è fatto nel passato; è necessario
riattualizzare, in ogni momento, la visione del rapporto uomo-lavoro, lavoro-società alla luce della
centralità del lavoro nella vita dell’uomo anche nell’attuale realtà sociale. 13
La Chiesa perciò anche nel mondo del lavoro può e deve fare qualcosa come ci ricorda il
Concilio Vaticano II; e proprio a partire dalla sua missione religiosa, essa ha il compito di
contribuire a costruire e consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina. Così pure,
dove fosse necessario, a seconda delle circostanze di tempo e di luogo, può, anzi deve, suscitare
opere destinate al servizio di tutti, ma specialmente dei bisognosi, come ad esempio le opere di
misericordia.
Se questa è la visione del compito della Chiesa, come si pone il problema del lavoro e della
disoccupazione oggi?
Il problema del lavoro non ha una valenza solo tecnica, come qualche volta viene affermato
dalla cultura contemporanea, per di più con un approccio prettamente strumentale. E’ qualcosa di
più grande: è una realtà profondamente umana e cristiana; Dio, infatti, creando l’uomo, gli ha dato il
compito di “assoggettare la terra” e l’ha dotato di intelligenza e volontà perché fosse in grado di
adempiere a questo compito in piena autonomia.
Il lavoro è, perciò, un dovere, ed in realtà anche un diritto, anche se non si può dimenticare
che il lavoro ha a che fare, la politica, la finanza, realtà tutte che devono essere poste a servizio
dell’uomo.
Alcuni sociologi, da qualche tempo, vanno dicendo che il lavoro sta tramontando e presto
scomparirà. Questi discorsi sembrano una beffa di fronte a persone che di lavoro non ne hanno mai
avuto o non hanno mai potuto svolgerne uno!
Le situazioni che il mondo presenta a proposito del lavoro si possono comprendere ma non
giustificare poiché il lavoro è connaturale all’uomo. Il lavoro di un domani potrà annullare alcune
caratteristiche di tempi e di fatica, però sarà sempre lavoro; l’uomo che non lavora è meno cittadino,
e non partecipa all’“azione di civiltà” che, sotto il comando di Dio: “Crescete e moltiplicatevi e
assoggettate la terra” 14 è dovere per ogni creatura umana.
10
11
12
13
14
GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, 38
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Chiesa e lavoratori nel cambiamento, 29
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Convegno Uomini, nuove tecnologie, solidarietà
GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 15.5.1981
Gen 1,28
3
Il lavoro, essendo un fattore di civiltà, diviene come si è detto un diritto-dovere; il Papa così
si esprime: “il lavoro è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione
sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo”. 15 Per risolvere
i numerosi problemi dell’attuale società, si deve partire da questa visione; e i legislatori e quant’altri
operano nel campo del lavoro umano dovrebbero essere ben coscienti.
Se è un fattore di civiltà, il lavoro non può essere reputato solo come possibilità di vita
materiale, ma anche di giustizia, espressione di libertà, di autentica democrazia. Forse una tale
cultura del lavoro è ancora poco assimilata, per questo non ci si impegna con la dovuta concretezza
per dare occupazione a tutti quelli che ne sono capaci. Il Papa afferma ancora: la disoccupazione “è
in ogni caso un male e, quando assume certe dimensioni, può diventare una vera calamità sociale.
Essa diventa un problema particolarmente quando vengono colpiti i giovani”. 16 Bisogna, quindi,
agire contro la disoccupazione.
Il Papa chiede inoltre che ci sia una pianificazione globale “in riferimento a quel banco di
lavoro differenziato, presso il quale si fonda la vita non solo economica, ma anche culturale di una
data società”.17 Oggi oltre alla pianificazione globale si deve dare spazio alle capacità del singolo
di diventare imprenditore di se stesso; di inventarsi e costruirsi il proprio lavoro con l’aiuto, non
essenzialistico, delle società e dello Stato in modo da divenire protagonisti del proprio lavoro.
L’attuale situazione, per quanto riguarda il lavoro, è certamente grave, lo sanno i giovani
meglio di chi vi parla, che sperimentano e soffrono, specialmente nel Sud, questa situazione.
Se il lavoro è un diritto-dovere se la gravità della situazione è quella descritta, come mai una società
sviluppata, come si afferma essere la nostra, non è in grado di dare risposte a questo problema?
Tutti gli espedienti che fino ad oggi sono stati proposti per risolvere il problema - lavorare meno per
lavorare tutti, i patti territoriali, i lavori atipici - possono, a breve termine, dare qualche risultato, ma
nel lungo termine, il lavoro che cosa sarà? Quali saranno le reali possibilità?
Ci troviamo di fronte a problemi sociali fondamentali e cruciali, che diventano questioni
morali. Mi pare che i criteri applicati oggi per la soluzione del problema del lavoro, siano criteri
rapportati ad una società industriale del passato e non alla società tecnologicamente avanzata, alla
società del futuro. Quale rapporto ci sarà tra capitale e lavoro? Non è giunto il momento di ribaltare
la situazione e di affermare con chiarezza che il capitale è frutto del lavoro? Se cosi è, il capitale
deve “correre dietro” all’uomo e non viceversa.
Non è forse il tempo di mutare il rapporto tra l’uomo e il lavoro? Di riequilibrare i tempi di
lavoro e i tempi liberi? Di rinnovare la cultura del lavoro per qui il tempo del lavoro viene visto
come il tempo della non vita, mentre il tempo libero è il tempo di vita? Non sono entrambi tempi
dell’uomo che richiedono una politica diversa e, per noi, una pastorale del tempo libero perché
questo non venga ridotto ad uno spreco?
Non bisognerà rivedere anche i rapporti tra società e lavoro, tra mercato e profitto e tra sviluppo e
finanza?
“Non viviamo un’era di sfida - afferma un economista dei tempi nostri -; molti degli antichi
convincimenti delle differenti scuole di pensiero economico sono ora in discussione, confrontati con
esperienze empiriche contrastanti. Nell’accettare la sfida, la necessità di abbandonare la camicia
di forza della razionalità economica ristretta è un punto centrale. Vi è un intero mondo di
differenze nelle motivazioni al di fuori degli stretti confini della razionalità economica. I compiti
importanti che l’economia moderna affronta ci invitano in quel vasto mondo. L’invito merita una
risposta adeguata”. 18
Bisogna avere il coraggio di cambiare, e qualcuno questo coraggio comincia ad averlo.
15
16
17
18
GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, 3
Ivi, 18
Ibidem
AMARTYA SEN, Etica e democrazia economica, Marietti, p.64
4
3. Una lettura sapienziale
“Nelle molteplici e difficili circostanze della vita, - scrive Giovanni Paolo II nella lettera ai
lavoratori di Roma - il cristiano sa di poter contare sul dono della sapienza, che si ottiene con la
preghiera, si fortifica nell’ascolto della Parola del Signore e nell’obbedienza al Magistero della
Chiesa. E’ tale dono dello Spirito, ricevuto nel Battesimo e nella Confermazione, che aiuta a
trovare la via da percorrere per testimoniare la verità e il bene morale, se necessario fino
all’obiezione di coscienza. Tuttavia, il cristiano sa anche che il lavoro fa parte del quotidiano
cammino di purificazione e di salvezza per quanti l’accolgono in spirito di obbedienza alla volontà
di Dio e di servizio umile e paziente verso il prossimo. Nella croce di Cristo egli troverà la forza
per affrontare situazioni di disagio o di difficoltà e per offrire a tutti una efficace e coerente
testimonianza”. 19
Il mondo moderno pare rifiutare il lavoro e il suo significato. Si cerca il “posto” più che il
lavoro e si approfondisce così la frattura tra lavori “liberali” e lavori “manuali”, riportando
all’attenzione una distinzione che, alla luce della Rivelazione, non aveva luogo ad essere.
La Chiesa, e con essa tutte le persone cui stanno a cuore i valori della persona umana, hanno
sempre combattuto questa visione distorta dei rapporti uomo-lavoro; anche se la pochezza della
testimonianza dei cristiani e degli uomini di buona volontà, non hanno aiutato, specie in questo
tempo di “lavoro che cambia e di lavoro che manca”, ad assumere idee e comportamenti che
spingessero a porre attenzione al lavoro come a primo problema, sia da parte di ogni cittadino, sia,
specialmente, da parte di coloro che hanno in mano le sorti del nostro Paese.
La centralità della persona umana che la Chiesa ha sempre riproposto e ribadito, acquista in
essa un particolare dinamismo come esaltazione della corresponsabilità dell’uomo nell’opera
creatrice, redentrice ed animatrice della Trinità divina, proprio attraverso il lavoro. Centri focali di
questa riproposta spirituale del lavoro sono le prime pagine del libro della Genesi, ed il “Vangelo
del lavoro” che ricollega la fatica e la creatività dell’impegno umano alla morte e risurrezione di
Gesù.
Ogni lavoro umano, quindi, dal più tradizionale al più tecnologicamente avanzato, dal più
umile al più gravato di responsabilità, è chiamato a qualificarsi secondo questi significati profondi
suggeriti dalla Rivelazione; è questo l’orizzonte teologico del pensiero sociale cristiano che fa da
sfondo anche alla pastorale del mondo del lavoro e all’impegno per restituire al lavoro umano la
dignità voluta dal “progetto di Dio”.
Bisogna prendere le mosse da questo orizzonte e, solo in seguito, porlo in relazione con le
trasformazioni di questi anni e di quelle che si possono prevedere per il futuro. Le trasformazioni in
Italia non sono state né poche, né di poco conto, tanto a livello strutturale che culturale. Si è
accentuato ed approfondito l’intreccio tra innovazioni tecnologiche e sistema produttivo con riflessi
di ordine quantitativo sul lavoro, sono cresciute le interconnessioni internazionali e i ruoli
riguardanti la qualità dello sviluppo, risultano più pronunciate le polarizzazioni sociali e territoriali,
si è diffusa una cultura individualista e competitiva che si riflette in ideologie e politiche che
rimettono in discussione i temi della programmazione e dell’imprenditore diretto, ai quali il
Magistero sociale della Chiesa faceva riferimento.
Di fronte ad un cambiamento così veloce e profondo, di fronte al venire meno di quadri di
riferimento tradizionali sia teorici che pratici, molti cristiani paiono cedere alla tentazione di
rifugiarsi in una spiritualità frutto della paura, che porta sovente alo scoraggiamento, al disimpegno,
alle fughe, proprio nel momento in cui è necessaria una spiritualità dell’incarnazione con
l’assunzione di responsabilità e un darsi da fare in prima persona per risolvere i problemi a tutti i
livelli.
19
GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai Lavoratori di Roma, 8 dicembre 1998, 4
5
Di fronte, inoltre, alle difficoltà e alla complessità del cambiamento, pare utile fare opera di
incoraggiamento alimentando la speranza e l’impegno per un mondo nuovo in cui la fraternità sia un
valore universalmente riconosciuto e praticato, stimolando al tempo stesso un tipo di religiosità e di
azione di Chiesa che pare non più sufficientemente in grado di smuovere le coscienze e di creare
comportamenti e riferimenti vitali legati alla nostra fede.
4. Problemi vecchi e nuovi
Non sarà inutile prendere in esame alcune caratteristiche del cambiamento relativamente
all’agricoltura, all’attività terziaria, all’artigianato, ai lavoratori stranieri, esempi chiari della
situazione in cui si viene a trovare il lavoratore. Ci può essere di aiuto un passaggio dell’allocuzione
di Giovanni Paolo II pronunciata al convegno di Palermo: “Al travaglio profondo che il popolo
italiano sta attraversando sembra salire verso la Chiesa una grande domanda: quella che essa
sappia innanzitutto dire Cristo, l’unica parola che salva; quella di non abdicare mai alla difesa
dell’uomo. I figli della Chiesa potranno così contribuire a ravvivare la coscienza morale della
nazione, facendosi artigiani di unità e testimoni di speranza per la società”. 20
Per quanto mi compete vorrei sottolineare alcune idee che mi sembrano particolarmente
significative.
Quella innanzitutto di offrire un contributo a tutti coloro che sono sensibili alla causa dei
lavoratori, affinché il cambiamento, spesso fonte di disorientamento e di incertezza per tante
persone, non avvenga contro l’uomo, ma possa essere vissuto come un’ulteriore e propizia
occasione di giustizia, di pace, di autentica umanizzazione. “Ad esso guardiamo - affermano i
Vescovi nella Nota pastorale Chiesa e lavoratori nel cambiamento - con trepidazione ma anche con
un atteggiamento spirituale di vigilante fiducia, nella gioiosa consapevolezza che il Padre buono e
misericordioso ha salvato, in Cristo, l’uomo e la sua storia. Spinti dallo Spirito del Signore,
vogliamo che il nostro ministero di Vescovi sia sempre più, nel cambiamento storico, un servizio
attento ai poveri, ai timorosi, agli sfiduciati, che affermi per tutte le ragioni della speranza
cristiana”.
Alla luce di queste parole si possono fare alcune sottolineature.
Sul piano strutturale e sociale bisogna richiamare la caduta dei modelli tayloristici di
organizzazione del lavoro, con conseguente “deburocratizzazione” dei rapporti, decentramento
produttivo e gestionale, sviluppo reticolare degli insediamenti produttivi, ricerca della qualità totale,
e tentativi che comportino il creare un’impresa come “comunità di uomini” 21, ecc. (Tutto ciò non
significa, si badi, la fine della grande impresa, ma un suo diverso articolarsi rispetto al contesto
ambientale e di mercato di una società “postfordista”. In aggiunta si è di fronte ad una
globalizzazione quasi selvaggia.
Sul piano culturale deve esserci attenzione al processo di astrazione che caratterizza i
contenuti del lavoro, fatto sempre più “con” e “di” informazione. Il che, tra l’altro, implica una
crescita generalizzata dei livelli di istruzione e la smentita di quello che è diventato un vero e
proprio stereotipo: la disoccupazione giovanile come disoccupazione intellettuale. L’evidenza ormai
suggerisce che in realtà è consistente, ed anzi in via di enorme espansione, una disoccupazione
giovanile da insufficiente livello di istruzione (vedi il fenomeno nel Sud d’Italia).
Purtroppo i mutamenti di carattere culturale non sono così frequentemente segnalati come
quelli strutturali, ma hanno la medesima importanza, e incidono non poco sullo stesso
comportamento organizzativo e sociale.
20
21
GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 9
Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, 35
6
In questa situazione il lavoro sembra restare un valore fondamentale per la vita della gente,
anche se è in atto un processo di pluralizzazione di senso del lavoro, che assume una valenza
polidimensionale con una compresenza di atteggiamenti strumentali ed espressivi ormai diversi.
Il quadro che emerge consente di mettere a fuoco alcune aree problematiche cruciali per il
lavoro e la vita di lavoro.
Una prima area problematica riguarda la questione della “conoscenza” e delle “conoscenze”.
Una società, come la nostra, che possiamo chiamare come “postindustriale” o “postfordista” esige,
pertanto, di essere affrontata con una forte capacità ermeneutica.
Una seconda area problematica riguarda il governo del mutamento. Anche la definizione di
progetti comuni oggi si presenta difficile: la diversificazione, la segmentazione dei gruppi sociali in
atto, porta alla frantumazione degli interessi e all’apparente impossibilità di definire il bene comune.
Tutto questo sembra comportare l’esigenza di ripensare il modo stesso con cui si perviene a
prendere decisioni di governo nella società e delle decisioni prese non solo in condizioni di
incertezza, ma anche di ignoranza dei relativi effetti.
La terza area problematica riguarda la questione etica legata al lavoro. Noi veniamo da una
tradizione di enfasi lavorativa, di centralità assoluta del lavoro umano per la vita dell’uomo, che
l’attuale fase di mutamento sociale sembra aver messo in discussione, almeno per una certa parte. E
ciò positivamente, se si assume la contemplazione come atto essenziale per capire il senso stesso
della pur rilevante condizione lavorativa. Ridimensionare l’enfasi lavorativa, senza negarne la
centralità, significa lasciare spazio ad un modo di vita in cui il lavoro e il “non lavoro” o tempo
libero sono meglio equilibrati, lasciando più spazio alla famiglia, alla formazione, alla coltivazione
di sé, all’esperienza religiosa e caritativa, e così via. Stante così le cose non bisognerà avere timore
di dare giudizi e valutazioni molto forti.
In riferimento alla crescente mondializzazione dei problemi si può osservare che in
mancanza di accordi tra i popoli con un’autorità internazionale, la mondializzazione invece di una
nuova soglia di possibilità per la comunità dei popoli rischia di diventare una nuova forma di
oppressione dei Paesi più forti sui più deboli. Affermò il Papa, il 19 marzo 1994 parlando ai
lavoratori, agli imprenditori, ai sindacati e agli uomini della finanza: “ ...sempre più numerosi sono i
Paesi vittime di sfruttamento nel contesto dei vigenti sistemi economici internazionali. Si paga
sempre di meno per i prodotti del duro lavoro della terra, si esige sempre di più per quelli
dell’attività industriale e in questo modo, invece dello sviluppo a cui hanno diritto, molte Nazioni
vengono come condannate al ristagno, alla disoccupazione, all’emigrazione. Si tratta di un ingiusto
sistema che oggi diventa un problema mondiale... Voi, uomini responsabili della giustizia, delle
condizioni dei lavoratori, ovunque essi si trovino sulla terra; voi, rappresentanti dei sindacati,
dovete gridare ad alta voce, dovete esigere il mutamento di questo ordine”.
5. Le Chiese del Sud e il Progetto Policoro
Le due Note pastorali dei Vescovi che riguardano il Sud hanno rilevato quanto i problemi
del Sud stesso siano problemi dell’intera Nazione, sottolineando che la reciprocità è una via da
percorrere sia per un nuovo sviluppo di tutte le Regioni sia per rinsaldare quell’identità nazionale
che è il fondamento del convivere di un popolo.
La coscienza che si è venuta sempre più instaurando in chi è sensibile ai problemi della
Nazione porta perciò a ritenere il Sud come questione dell’intero Paese, per cui “urge trovare la
risposta giusta - secondo la visione dei Vescovi espressa nella Nota Chiesa italiana e Mezzogiorno:
sviluppo nella solidarietà - nella costruzione dell’unità tra le diverse parti del Paese, e anche in
vista del problema delle nuove immigrazioni dai Paesi del Sud del mondo”. 22 E’ perciò
22
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 25
7
necessario promuovere una maggiore conoscenza reciproca, aiutandosi a realizzare una conversione
di mentalità che faccia superare pregiudizi, polemiche, vittimismi, presunzioni di superiorità,
atteggiamenti di rigetto che prima o poi elimineranno le tensioni tra Sud e Nord d’Italia risanando in
maniera duratura ferite e fratture antiche e nuove. 23
A questo proposito è esemplare il “progetto Policoro” che porta a gesti di solidarietà,
sensibilizzando le Chiese locali ad una reciprocità che coinvolga cultura, sviluppo, lavoro sulla base
di una sussidiarietà che non toglie il protagonismo alle realtà più deboli o in via di sviluppo.
In una cultura sempre più fondata sui valori contrari alla solidarietà e, cioè, sull’egoismo
personale o di gruppo od, ancora, su individualismi nazionali, pare necessario proporre l’impresa
sociale - prendo in prestito l’affermazione di un esperto - vale a dire quella che trova il proprio
motore e la propria ragione di essere nel perseguimento in via prioritaria del bene comune al posto
del vantaggio individuale. E’ questa una utopia. Noi crediamo che se utopia è, essa è nell’ordine
delle utopie positive, cioè dei grandi obiettivi che possono e debbono essere realizzati, anche se per
gradi e in tempi successivi. Quanto Paolo VI diceva per il valore della pace può essere esteso ad
ogni modello del convivere civile: “La pace non è un sogno puramente ideale, non è un’utopia
attraente ma infeconda e irraggiungibile, è, deve essere, una realtà”. 24
Una simile cultura deve estendersi alle politiche economiche sia mondiali sia delle singole
Nazioni. E’ impressionante constatare come i meccanismi economici, finanziari e sociali
funzionano spesso in maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli
uni e di povertà degli altri.
Ribaltare una siffatta cultura non è compito facile; e, tuttavia, è impresa necessaria se si vuol
dare inizio alla realizzazione del progetto di Dio che vuole tutti gli uomini partecipi con equità dei
beni della terra. Ribaltamento che richiede di non partire dal bene personale per giungere al bene
comune, ma da quest’ultimo per realizzare anche il proprio bene personale.
Si richiede un’inversione di marcia; in termini cristiani si può ben parlare di una vera
conversione, non spaventandosi dell’arditezza della meta che sta dinanzi.
“Non dobbiamo perderci di coraggio. In questa lotta è inevitabile che diventiamo consapevoli
dell’esistenza della cupidigia, della pigrizia, dell’invidia. Nessuna utopia è possibile su questa
terra; ma, poiché crediamo nell’amore divino che redime e abbiamo sperimentato la misericordia
divina che perdona, sappiamo che la provvidenza di Dio oggi non ci abbandona e non ci
abbandonerà”. 25
Una simile proposta può creare sconcerto, specie in coloro che ritengono le attuali “leggi
economiche” o le divisioni tra Sud e Nord assolutamente intoccabili, pena la ricaduta per tutti in
uno stato di nuova povertà. Ad una tale osservazione si può facilmente rispondere che sino ad oggi
non ci si è impegnati a sufficienza nella ricerca di una alternativa alle ragioni dell’economia, ossia
del mercato, del profitto e della produttività che, se non governate o governate male, tendono a
prevalere e a porsi come fondamento di una cultura economicistica. Bisogna superare la “razionalità
economica ristretta”, quella che si chiude in se stessa, per adottare una razionalità economica aperta
a tutti gli aspetti della vita dell’uomo e della società. E’, questa, una sfida che bisogna cogliere
senza timori.
Per quanto riguarda la realizzazione del “progetto di Dio”, non si può “partire” da una
semplice lettura sociologica della realtà. Il metodo per tale cambiamento insegna come una “lettura
teologica” della realtà, o se si vuole “sapienziale”, richiede l’assunzione, da parte di ogni uomo, il
riconoscersi responsabile davanti a Dio e non solo dinanzi agli uomini o peggio di fronte ai mercati
e allo sviluppo. “Il compito dell’uomo è di dominare sulle altre creature, “coltivare il giardino”, ed
è da assolvere nel quadro dell’ubbidienza alla legge divina e, quindi, nel rispetto dell’immagine
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Cfr. Ivi, 24
PAOLO VI, Messaggio per la Giornata della Pace, 1 gennaio 1978
CONFERENZA EPISCOPALE USA, Giustizia economica per tutti, 364
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ricevuta, fondamento chiaro del potere di dominio, riconosciutogli in ordine al suo
perfezionamento”26; “se certe forme di imperialismo moderno si considerassero alla luce di criteri
morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo all’economia si
nascondono vere forme di idolatria del denaro, dell’ideologia, della classe, della tecnologia”27.
Per queste ragioni una cultura cristianamente ispirata non potrà non essere segno di
contraddizione nell’attuale contesto socio culturale, sempre oscillante, sia nelle sue manifestazioni
più specificatamente culturali sia in quelle a carattere economico e politico, tra i due poli
dell’individualismo e del collettivismo, - in questo caso in forme diverse dal recente passato superficialmente contrapposti, ma accomunati in fondo dalla mancata percezione della dimensione
trascendente della persona umana.
“Non abbiamo il sospetto - ci ripetono i Vescovi dal 1981 - che volgersi a Cristo possa
significare evadere la situazione... Se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo, non è perché
siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza” 28. Solo così l’uomo di buona volontà, il
credente, la comunità cristiana possono divenire “l’icona del mondo futuro”.
6. Conclusioni
Il richiamo a coniugare assieme libertà e corresponsabilità, autonomia e interdipendenza,
efficacia e solidarietà, diviene al giorno d’oggi un dovere indifferibile. L’obbligo di impegnarsi per
lo sviluppo del Nord e del Sud non è un dovere esclusivamente individuale; né tantomeno
individualistico, quasi fosse possibile conseguirlo con gli sforzi isolati di ciascuno. Esso è un
imperativo per tutti e per ciascuno degli uomini e delle donne, per le società e le Nazioni...
Mettersi assieme, in altre parole cooperare, per lo sviluppo dei singoli, e , inoltre, allargare il proprio
sguardo oltre questo confine del bene del singolo individuo per pervenire al bene dei gruppi sociali,
delle regioni ed oltre, è vera, reale e concreta solidarietà.
La libertà è indispensabile per lo sviluppo e la promozione umana e vi è un’intima
connessione tra queste due realtà. Così si dica per autonomia ed interdipendenza. Il primo termine
risponde ad un principio cardine del pensiero sociale cristiano: la centralità della persona umana,
fondata sulla sua dignità; ossia l’uomo ha diritti anteriormente ai suoi rapporti con gli altri, diritti
che devono essere riconosciuti, garantiti e promossi. Si tratta dei diritti relativi alla sua dimensione
fisico-corporea come il diritto alla vita, alla cura del corpo ecc.; alla sua dimensione spirituale come
la libertà di pensiero, di parola, la libertà religiosa ecc.; alla sua dimensione sociale quale il lavoro,
il salario, il diritto ad associarsi e a partecipare al governo della cosa pubblica, ecc.
All’autonomia va affiancata la interdipendenza, realtà che si pone sempre più all’attenzione.
Essa ha certamente una dimensione economica e politica; si parla sempre più, infatti, di
un’economia mondiale, di mercati internazionali, di divisione internazionale del lavoro, di flusso
libero dei capitali, di globalizzazione. Tuttavia oggi tutti i mezzi, e non solo quelli economici,
tendono verso una collaborazione e una interdipendenza mondiale, di conseguenza anche quelli
sociali, politici e culturali. Il primo termine non esclude l’altro; e la “cordata” tra l’una e l’altra,
quando non si limiti a sole utilità economiche, sa essere efficace fondamento alla nuova “civiltà
dell’amore”, cioè ad ogni uomo. L’uomo è il signore delle cose, e nessuna delle cose create è al di
sopra di lui; tutte le realtà della terra sono relative all’uomo e ad ogni uomo, così l’economia, la
politica, il progresso, il cambiamento, ecc.
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GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, 30
Ivi, 37
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Chiesa italiana e prospettive del Paese, 13
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“La Chiesa - e quindi anche noi che vi operiamo - non ha soluzioni tecniche da offrire al
problema del sottosviluppo” 29, propone, comunque, quale suo apporto alla soluzione dei problemi,
la sua dottrina sociale che ha “carattere di applicazione della Parola di Dio alla vita degli uomini e
della società così come alle realtà terrene, che ad esse si connettono, offrendo principi di
riflessione, criteri di giudizio e direttrici di azione”. 30
L’agire nel sociale esige prudenza, il che non significa timidezza o insicurezza, infatti, la
vera prudenza ha due occhi: uno fisso al fine da raggiungere, l’altro al rischio da correre31; vede fino
alla meta, per questo sa affrontare il rischio. In tutti i campi l’uomo deve scegliere, non tra la
sicurezza e il rischio, ma tra un rischio aperto, carico di promesse, e un rischio senza
compensazioni, senza uscite. E’ la spiritualità dell’audacia a cui ci chiama anche Gesù esortandoci:
“Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”32. L’indicazione è puntuale ed
esigente.
(FILE: CHAR2.DOC)
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GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, 8
GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, 37
Cfr. G. THIBON, La scala di Giobbe, Bruxelles 1945
Mt 5,48
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