“Solidarietà e lavoro, per una scelta di sviluppo coerente” S.E. Mons. Fernando Charrier - Vescovo di Alessandria Presidente Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro 1. La solidarietà Con parole che paiono avere del paradossale, così ci introduce nel tema don Mazzolari: “Siamo intelligentissimi nello scoprire le altrui responsabilità e così generosi nel distribuirle, che non ce ne avanziamo una briciola, per cui ne viene che il nostro cuore è sempre traboccante di amarezza e di sdegno verso gli altri, che consideriamo predoni della nostra felicità. Se, come è mio preciso dovere, sentissi la mia colpevolezza in tutto quello che avviene di tristo in me, nella mia famiglia, nel mio impegno, nella mia fabbrica, nel mio paese, nella mia patria, nel mondo intero; se io ne soffrissi come di una cosa che mi appartiene perché conseguenza del mio fare e del mio non fare, allora questo mio povero cuore traboccherebbe di un amore tenero, compassionevole, insaziabile. Bisogna sentirsi colpevoli per amare e redimere”. 1 Alla luce di queste parole, mi pare, che i termini proposti alla riflessione di questa comunicazione, cioè “solidarietà, lavoro e sviluppo”, siano una tradizione logica e coerente della fraternità universale fondata, per il credente, sull’imitazione del Padre celeste “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” 2; così si esprimeva Giovanni Paolo II al riguardo: “Abbiate cura, anzitutto, nella vostra azione pastorale, per quanti ancora soffrono a causa della pesantezza e della insalubrità del loro lavoro, della insicurezza della loro occupazione, della disoccupazione e della sottoccupazione, della insufficiente retribuzione... ”. 3 Ma ancor più nella Nota pastorale La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, si legge: “Il Paese non crescerà se non insieme... e ha il dovere di partecipare. Vuole essere consapevole delle proprie scelte e sta imparando a esercitare questo suo diritto organizzandosi nel territorio, nella scuola, nelle strutture sanitarie e assistenziali, oltre che sul posto di lavoro e sul piano politico”. 4 La cultura in cui si è immersi, è marcata da uno smaccato individualismo, caratteristica negativa di ogni società “consumistica”. Il prevalere dell’avere sull’essere ha chiuso l’uomo nel cerchio del proprio tornaconto incrinando ogni rapporto con gli altri che non abbia per fine “il proprio interesse”. Il principio cui si fa, normalmente, riferimento è: “quanto faccio mi deve rendere”. Di conseguenza l’uomo si sente realizzato se è scaltro nel gestire i propri affari ed abile nell’accumulare beni su beni. Il valore di un uomo - non ne sono esenti neppure i cristiani - è misurato dai beni che possiede o dalla posizione che ricopre. La crisi, poi, in cui si dibatte il nostro Paese, situazione presente più o meno in tutti i paesi del mondo industrializzato, ha acuito tale cultura individualista. Si ha, a volte, l’impressione che si stia instaurando in larghi strati sociali la psicologia del naufrago, e cioè: “è importante che io trovi una tavola cui aggrapparmi; gli altri si arrangino!”. Si ha un bel dire e un bel scrivere che “si è tutti sulla medesima barca” e che ci si salva solo in cordata con gli altri; in realtà si pensa e si agisce in modo del tutto opposto. Il “bene comune” diventa sempre più un valore sconosciuto. “Siamo eredi - si legge nella Nota pastorale Chiesa e lavoratori nel cambiamento - di una cultura che ha considerato il fatto sociale come accessorio della vita privata, o come strumento dell’individuo. Stenta, ancora oggi, ad emergere, nonostante i decenni di vita democratica, una 1 2 3 4 PRIMO, MAZZOLARI, Il buon Samaritano, Mt 5,44-45 GIOVANNI PAOLO II, Udienza Generale del 25.4.1979 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 8-9 1 cultura del sociale, che sospinga a realizzare un’interazione tra il singolo e il soggetto sociale; che evidenzi, per il singolo il senso del vivere insieme ad altri soggetti all’interno di una storia particolare, di un territorio, di una struttura; che metta in risalto, per il soggetto sociale, lo spessore della dignità irrinunciabile del singolo individuo, dotato di libertà e di responsabilità. E’ ovviamente un problema culturale, prima ancora che sociale e politico”. 5 Un altro dato culturale sta segnando il comportamento nell’attuale società, e dal quale, anche in questo caso, non sono esenti nemmeno i credenti: “l’assistenzialismo”. Non che l’assistenza sia da condannare, né tantomeno che sia un male o una realtà che possa essere, in un domani, superata. Vi saranno sempre uomini che abbisognano di assistenza, sia per la loro incapacità di procurarsi i beni di cui hanno bisogno, sia perché toccati dalle cosiddette “povertà postindustriali”, sia, ancora, perché segnati da devianze sociali. L’assistenza è, perciò, e lo sarà sempre, doverosa oltre che necessaria. A chiarimento sull’assistenzialismo si possono fare due osservazioni: innanzitutto esso è insufficiente quando si limita a porre rimedio ai mali senza curarsi di cercare e di correggere le cause degli stessi. E’ necessario certamente agire come il Buon Samaritano della parabola evangelica che si cura dell’uomo incappato nei ladroni;6 ma è altrettanto necessario fare in modo che non vi siano ladroni sulla strada dell’uomo. Vi sono, infatti, molti mali che non potranno essere superati poiché sono il retaggio della condizione umana, limitata ed imperfetta; ma altri ve ne sono che hanno origine nella volontà dell’uomo e che perciò stesso possono e debbono essere superati. Una seconda osservazione. Alcuni organismi della CEI hanno il fine di promuovere “la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace...” 7. E’ chiaro il riferimento alla promozione umana. con quale significato? Facendo riferimento al mondo del lavoro, si potrebbe ricorrere ad una domanda presente al termine del convegno della CEI “Il lavoro è per l’uomo”, svolto nel novembre del 1983: “La Chiesa italiana fa oggi più assistenza o favorisce più i movimenti autonomi e le persone interessate al cambiamento?”. 8 La risposta è chiara: far si che ogni uomo si a protagonista e possa occupare con profitto un giusto posto nel grande e socialmente differenziato banco del lavoro; e, più in generale, perché ogni uomo possa svilupparsi in piena sintonia con la sua natura e la sua vocazione perché si realizzi lo “sviluppo integrale dell’uomo sia nelle sue dimensioni socio-politiche e culturali, sia nella sua dimensione spirituale e trascendente”. 9 Anche in questo caso il problema è prima di tutto culturale, e solo in secondo luogo economico, finanziario e politico. La “crescente consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni” è un fatto rilevabile sia a livello nazionale che internazionale. Quando l’interdipendenza è assunta in modo etico; quando, cioè, è sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa diventa “solidarietà”. Ma non è vera solidarietà umana e cristiana - quest’ultima ci interessa in modo particolare - il semplice sentimento e la filantropia; questi ne possono essere l’inizio e non sono da scartare “a priori”. La solidarietà cristiana comporta che, alla luce della “coscienza dalle paternità comune di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo, figli nel Figlio, della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo, si applichi un nuovo criterio per interpretare il mondo e la storia e si individui un nuovo modo di vivere. I popoli, i gruppi sociali, gli uomini si debbono incontrare per formare la “nuova comunità”, fondata sulla vera comunione che richiede inventiva, generosità, gratuità, perdono, riconciliazione, ecc. 5 6 7 8 9 COMMISSIONE EPISCOPALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO, Chiesa e lavoratori nel cambiamento, 26 Lc 10,30ss Cfr. per esempio lo Statuto della Caritas Italiana, art. 1 Convegno Il lavoro è per l’uomo - Conclusioni di S. E. Mons. Santo Quadri CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e promozione umana, 6 2 L’oggetto “della solidarietà è, in specifico, il bene comune, cioè il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti”; 10 bene comune che è criterio di obbligo morale per gli orientamenti della vita pubblica e privata. In una parola è richiesto di partire dal bene comune per giungere al bene privato e non viceversa, come è uso fare oggi. La solidarietà, vista in prospettiva cristiana e in aderenza alla realtà attuale, deve ritenersi “sia nella comunità cristiana, sia nella società, non una virtù accanto ad altre, ma espressione unificante della vita cristiana”,11 poiché “Il valore guida, capace di indicare il giusto orientamento per l’opportuna composizione degli attuali molteplici dinamismi del lavoro umano, inteso nella sua più ampia accezione, oggettiva e soggettiva, è il valore della solidarietà. Valore profondamente umano, la solidarietà nella prospettiva cristiana acquista uno spessore nuovo e più pieno, fino a potersi proporre quale espressione unificante della vita cristiana. La solidarietà è per i cristiani, in ultima analisi, un’istanza teologale, che ha nella sua stessa realtà del mistero di comunione del Dio uno e trino il suo fondamento ultimo, il suo radicamento e la sua norma definitiva: essa traduce efficacemente in pratica degli obblighi della carità evangelica”. 12 2. Il lavoro Di fronte al grave problema della disoccupazione la comunità cristiana non vuole e non può stare alla finestra, né limitarsi alla memoria storica di quello che si è fatto nel passato; è necessario riattualizzare, in ogni momento, la visione del rapporto uomo-lavoro, lavoro-società alla luce della centralità del lavoro nella vita dell’uomo anche nell’attuale realtà sociale. 13 La Chiesa perciò anche nel mondo del lavoro può e deve fare qualcosa come ci ricorda il Concilio Vaticano II; e proprio a partire dalla sua missione religiosa, essa ha il compito di contribuire a costruire e consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina. Così pure, dove fosse necessario, a seconda delle circostanze di tempo e di luogo, può, anzi deve, suscitare opere destinate al servizio di tutti, ma specialmente dei bisognosi, come ad esempio le opere di misericordia. Se questa è la visione del compito della Chiesa, come si pone il problema del lavoro e della disoccupazione oggi? Il problema del lavoro non ha una valenza solo tecnica, come qualche volta viene affermato dalla cultura contemporanea, per di più con un approccio prettamente strumentale. E’ qualcosa di più grande: è una realtà profondamente umana e cristiana; Dio, infatti, creando l’uomo, gli ha dato il compito di “assoggettare la terra” e l’ha dotato di intelligenza e volontà perché fosse in grado di adempiere a questo compito in piena autonomia. Il lavoro è, perciò, un dovere, ed in realtà anche un diritto, anche se non si può dimenticare che il lavoro ha a che fare, la politica, la finanza, realtà tutte che devono essere poste a servizio dell’uomo. Alcuni sociologi, da qualche tempo, vanno dicendo che il lavoro sta tramontando e presto scomparirà. Questi discorsi sembrano una beffa di fronte a persone che di lavoro non ne hanno mai avuto o non hanno mai potuto svolgerne uno! Le situazioni che il mondo presenta a proposito del lavoro si possono comprendere ma non giustificare poiché il lavoro è connaturale all’uomo. Il lavoro di un domani potrà annullare alcune caratteristiche di tempi e di fatica, però sarà sempre lavoro; l’uomo che non lavora è meno cittadino, e non partecipa all’“azione di civiltà” che, sotto il comando di Dio: “Crescete e moltiplicatevi e assoggettate la terra” 14 è dovere per ogni creatura umana. 10 11 12 13 14 GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, 38 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Chiesa e lavoratori nel cambiamento, 29 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Convegno Uomini, nuove tecnologie, solidarietà GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 15.5.1981 Gen 1,28 3 Il lavoro, essendo un fattore di civiltà, diviene come si è detto un diritto-dovere; il Papa così si esprime: “il lavoro è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo”. 15 Per risolvere i numerosi problemi dell’attuale società, si deve partire da questa visione; e i legislatori e quant’altri operano nel campo del lavoro umano dovrebbero essere ben coscienti. Se è un fattore di civiltà, il lavoro non può essere reputato solo come possibilità di vita materiale, ma anche di giustizia, espressione di libertà, di autentica democrazia. Forse una tale cultura del lavoro è ancora poco assimilata, per questo non ci si impegna con la dovuta concretezza per dare occupazione a tutti quelli che ne sono capaci. Il Papa afferma ancora: la disoccupazione “è in ogni caso un male e, quando assume certe dimensioni, può diventare una vera calamità sociale. Essa diventa un problema particolarmente quando vengono colpiti i giovani”. 16 Bisogna, quindi, agire contro la disoccupazione. Il Papa chiede inoltre che ci sia una pianificazione globale “in riferimento a quel banco di lavoro differenziato, presso il quale si fonda la vita non solo economica, ma anche culturale di una data società”.17 Oggi oltre alla pianificazione globale si deve dare spazio alle capacità del singolo di diventare imprenditore di se stesso; di inventarsi e costruirsi il proprio lavoro con l’aiuto, non essenzialistico, delle società e dello Stato in modo da divenire protagonisti del proprio lavoro. L’attuale situazione, per quanto riguarda il lavoro, è certamente grave, lo sanno i giovani meglio di chi vi parla, che sperimentano e soffrono, specialmente nel Sud, questa situazione. Se il lavoro è un diritto-dovere se la gravità della situazione è quella descritta, come mai una società sviluppata, come si afferma essere la nostra, non è in grado di dare risposte a questo problema? Tutti gli espedienti che fino ad oggi sono stati proposti per risolvere il problema - lavorare meno per lavorare tutti, i patti territoriali, i lavori atipici - possono, a breve termine, dare qualche risultato, ma nel lungo termine, il lavoro che cosa sarà? Quali saranno le reali possibilità? Ci troviamo di fronte a problemi sociali fondamentali e cruciali, che diventano questioni morali. Mi pare che i criteri applicati oggi per la soluzione del problema del lavoro, siano criteri rapportati ad una società industriale del passato e non alla società tecnologicamente avanzata, alla società del futuro. Quale rapporto ci sarà tra capitale e lavoro? Non è giunto il momento di ribaltare la situazione e di affermare con chiarezza che il capitale è frutto del lavoro? Se cosi è, il capitale deve “correre dietro” all’uomo e non viceversa. Non è forse il tempo di mutare il rapporto tra l’uomo e il lavoro? Di riequilibrare i tempi di lavoro e i tempi liberi? Di rinnovare la cultura del lavoro per qui il tempo del lavoro viene visto come il tempo della non vita, mentre il tempo libero è il tempo di vita? Non sono entrambi tempi dell’uomo che richiedono una politica diversa e, per noi, una pastorale del tempo libero perché questo non venga ridotto ad uno spreco? Non bisognerà rivedere anche i rapporti tra società e lavoro, tra mercato e profitto e tra sviluppo e finanza? “Non viviamo un’era di sfida - afferma un economista dei tempi nostri -; molti degli antichi convincimenti delle differenti scuole di pensiero economico sono ora in discussione, confrontati con esperienze empiriche contrastanti. Nell’accettare la sfida, la necessità di abbandonare la camicia di forza della razionalità economica ristretta è un punto centrale. Vi è un intero mondo di differenze nelle motivazioni al di fuori degli stretti confini della razionalità economica. I compiti importanti che l’economia moderna affronta ci invitano in quel vasto mondo. L’invito merita una risposta adeguata”. 18 Bisogna avere il coraggio di cambiare, e qualcuno questo coraggio comincia ad averlo. 15 16 17 18 GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, 3 Ivi, 18 Ibidem AMARTYA SEN, Etica e democrazia economica, Marietti, p.64 4 3. Una lettura sapienziale “Nelle molteplici e difficili circostanze della vita, - scrive Giovanni Paolo II nella lettera ai lavoratori di Roma - il cristiano sa di poter contare sul dono della sapienza, che si ottiene con la preghiera, si fortifica nell’ascolto della Parola del Signore e nell’obbedienza al Magistero della Chiesa. E’ tale dono dello Spirito, ricevuto nel Battesimo e nella Confermazione, che aiuta a trovare la via da percorrere per testimoniare la verità e il bene morale, se necessario fino all’obiezione di coscienza. Tuttavia, il cristiano sa anche che il lavoro fa parte del quotidiano cammino di purificazione e di salvezza per quanti l’accolgono in spirito di obbedienza alla volontà di Dio e di servizio umile e paziente verso il prossimo. Nella croce di Cristo egli troverà la forza per affrontare situazioni di disagio o di difficoltà e per offrire a tutti una efficace e coerente testimonianza”. 19 Il mondo moderno pare rifiutare il lavoro e il suo significato. Si cerca il “posto” più che il lavoro e si approfondisce così la frattura tra lavori “liberali” e lavori “manuali”, riportando all’attenzione una distinzione che, alla luce della Rivelazione, non aveva luogo ad essere. La Chiesa, e con essa tutte le persone cui stanno a cuore i valori della persona umana, hanno sempre combattuto questa visione distorta dei rapporti uomo-lavoro; anche se la pochezza della testimonianza dei cristiani e degli uomini di buona volontà, non hanno aiutato, specie in questo tempo di “lavoro che cambia e di lavoro che manca”, ad assumere idee e comportamenti che spingessero a porre attenzione al lavoro come a primo problema, sia da parte di ogni cittadino, sia, specialmente, da parte di coloro che hanno in mano le sorti del nostro Paese. La centralità della persona umana che la Chiesa ha sempre riproposto e ribadito, acquista in essa un particolare dinamismo come esaltazione della corresponsabilità dell’uomo nell’opera creatrice, redentrice ed animatrice della Trinità divina, proprio attraverso il lavoro. Centri focali di questa riproposta spirituale del lavoro sono le prime pagine del libro della Genesi, ed il “Vangelo del lavoro” che ricollega la fatica e la creatività dell’impegno umano alla morte e risurrezione di Gesù. Ogni lavoro umano, quindi, dal più tradizionale al più tecnologicamente avanzato, dal più umile al più gravato di responsabilità, è chiamato a qualificarsi secondo questi significati profondi suggeriti dalla Rivelazione; è questo l’orizzonte teologico del pensiero sociale cristiano che fa da sfondo anche alla pastorale del mondo del lavoro e all’impegno per restituire al lavoro umano la dignità voluta dal “progetto di Dio”. Bisogna prendere le mosse da questo orizzonte e, solo in seguito, porlo in relazione con le trasformazioni di questi anni e di quelle che si possono prevedere per il futuro. Le trasformazioni in Italia non sono state né poche, né di poco conto, tanto a livello strutturale che culturale. Si è accentuato ed approfondito l’intreccio tra innovazioni tecnologiche e sistema produttivo con riflessi di ordine quantitativo sul lavoro, sono cresciute le interconnessioni internazionali e i ruoli riguardanti la qualità dello sviluppo, risultano più pronunciate le polarizzazioni sociali e territoriali, si è diffusa una cultura individualista e competitiva che si riflette in ideologie e politiche che rimettono in discussione i temi della programmazione e dell’imprenditore diretto, ai quali il Magistero sociale della Chiesa faceva riferimento. Di fronte ad un cambiamento così veloce e profondo, di fronte al venire meno di quadri di riferimento tradizionali sia teorici che pratici, molti cristiani paiono cedere alla tentazione di rifugiarsi in una spiritualità frutto della paura, che porta sovente alo scoraggiamento, al disimpegno, alle fughe, proprio nel momento in cui è necessaria una spiritualità dell’incarnazione con l’assunzione di responsabilità e un darsi da fare in prima persona per risolvere i problemi a tutti i livelli. 19 GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai Lavoratori di Roma, 8 dicembre 1998, 4 5 Di fronte, inoltre, alle difficoltà e alla complessità del cambiamento, pare utile fare opera di incoraggiamento alimentando la speranza e l’impegno per un mondo nuovo in cui la fraternità sia un valore universalmente riconosciuto e praticato, stimolando al tempo stesso un tipo di religiosità e di azione di Chiesa che pare non più sufficientemente in grado di smuovere le coscienze e di creare comportamenti e riferimenti vitali legati alla nostra fede. 4. Problemi vecchi e nuovi Non sarà inutile prendere in esame alcune caratteristiche del cambiamento relativamente all’agricoltura, all’attività terziaria, all’artigianato, ai lavoratori stranieri, esempi chiari della situazione in cui si viene a trovare il lavoratore. Ci può essere di aiuto un passaggio dell’allocuzione di Giovanni Paolo II pronunciata al convegno di Palermo: “Al travaglio profondo che il popolo italiano sta attraversando sembra salire verso la Chiesa una grande domanda: quella che essa sappia innanzitutto dire Cristo, l’unica parola che salva; quella di non abdicare mai alla difesa dell’uomo. I figli della Chiesa potranno così contribuire a ravvivare la coscienza morale della nazione, facendosi artigiani di unità e testimoni di speranza per la società”. 20 Per quanto mi compete vorrei sottolineare alcune idee che mi sembrano particolarmente significative. Quella innanzitutto di offrire un contributo a tutti coloro che sono sensibili alla causa dei lavoratori, affinché il cambiamento, spesso fonte di disorientamento e di incertezza per tante persone, non avvenga contro l’uomo, ma possa essere vissuto come un’ulteriore e propizia occasione di giustizia, di pace, di autentica umanizzazione. “Ad esso guardiamo - affermano i Vescovi nella Nota pastorale Chiesa e lavoratori nel cambiamento - con trepidazione ma anche con un atteggiamento spirituale di vigilante fiducia, nella gioiosa consapevolezza che il Padre buono e misericordioso ha salvato, in Cristo, l’uomo e la sua storia. Spinti dallo Spirito del Signore, vogliamo che il nostro ministero di Vescovi sia sempre più, nel cambiamento storico, un servizio attento ai poveri, ai timorosi, agli sfiduciati, che affermi per tutte le ragioni della speranza cristiana”. Alla luce di queste parole si possono fare alcune sottolineature. Sul piano strutturale e sociale bisogna richiamare la caduta dei modelli tayloristici di organizzazione del lavoro, con conseguente “deburocratizzazione” dei rapporti, decentramento produttivo e gestionale, sviluppo reticolare degli insediamenti produttivi, ricerca della qualità totale, e tentativi che comportino il creare un’impresa come “comunità di uomini” 21, ecc. (Tutto ciò non significa, si badi, la fine della grande impresa, ma un suo diverso articolarsi rispetto al contesto ambientale e di mercato di una società “postfordista”. In aggiunta si è di fronte ad una globalizzazione quasi selvaggia. Sul piano culturale deve esserci attenzione al processo di astrazione che caratterizza i contenuti del lavoro, fatto sempre più “con” e “di” informazione. Il che, tra l’altro, implica una crescita generalizzata dei livelli di istruzione e la smentita di quello che è diventato un vero e proprio stereotipo: la disoccupazione giovanile come disoccupazione intellettuale. L’evidenza ormai suggerisce che in realtà è consistente, ed anzi in via di enorme espansione, una disoccupazione giovanile da insufficiente livello di istruzione (vedi il fenomeno nel Sud d’Italia). Purtroppo i mutamenti di carattere culturale non sono così frequentemente segnalati come quelli strutturali, ma hanno la medesima importanza, e incidono non poco sullo stesso comportamento organizzativo e sociale. 20 21 GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 9 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, 35 6 In questa situazione il lavoro sembra restare un valore fondamentale per la vita della gente, anche se è in atto un processo di pluralizzazione di senso del lavoro, che assume una valenza polidimensionale con una compresenza di atteggiamenti strumentali ed espressivi ormai diversi. Il quadro che emerge consente di mettere a fuoco alcune aree problematiche cruciali per il lavoro e la vita di lavoro. Una prima area problematica riguarda la questione della “conoscenza” e delle “conoscenze”. Una società, come la nostra, che possiamo chiamare come “postindustriale” o “postfordista” esige, pertanto, di essere affrontata con una forte capacità ermeneutica. Una seconda area problematica riguarda il governo del mutamento. Anche la definizione di progetti comuni oggi si presenta difficile: la diversificazione, la segmentazione dei gruppi sociali in atto, porta alla frantumazione degli interessi e all’apparente impossibilità di definire il bene comune. Tutto questo sembra comportare l’esigenza di ripensare il modo stesso con cui si perviene a prendere decisioni di governo nella società e delle decisioni prese non solo in condizioni di incertezza, ma anche di ignoranza dei relativi effetti. La terza area problematica riguarda la questione etica legata al lavoro. Noi veniamo da una tradizione di enfasi lavorativa, di centralità assoluta del lavoro umano per la vita dell’uomo, che l’attuale fase di mutamento sociale sembra aver messo in discussione, almeno per una certa parte. E ciò positivamente, se si assume la contemplazione come atto essenziale per capire il senso stesso della pur rilevante condizione lavorativa. Ridimensionare l’enfasi lavorativa, senza negarne la centralità, significa lasciare spazio ad un modo di vita in cui il lavoro e il “non lavoro” o tempo libero sono meglio equilibrati, lasciando più spazio alla famiglia, alla formazione, alla coltivazione di sé, all’esperienza religiosa e caritativa, e così via. Stante così le cose non bisognerà avere timore di dare giudizi e valutazioni molto forti. In riferimento alla crescente mondializzazione dei problemi si può osservare che in mancanza di accordi tra i popoli con un’autorità internazionale, la mondializzazione invece di una nuova soglia di possibilità per la comunità dei popoli rischia di diventare una nuova forma di oppressione dei Paesi più forti sui più deboli. Affermò il Papa, il 19 marzo 1994 parlando ai lavoratori, agli imprenditori, ai sindacati e agli uomini della finanza: “ ...sempre più numerosi sono i Paesi vittime di sfruttamento nel contesto dei vigenti sistemi economici internazionali. Si paga sempre di meno per i prodotti del duro lavoro della terra, si esige sempre di più per quelli dell’attività industriale e in questo modo, invece dello sviluppo a cui hanno diritto, molte Nazioni vengono come condannate al ristagno, alla disoccupazione, all’emigrazione. Si tratta di un ingiusto sistema che oggi diventa un problema mondiale... Voi, uomini responsabili della giustizia, delle condizioni dei lavoratori, ovunque essi si trovino sulla terra; voi, rappresentanti dei sindacati, dovete gridare ad alta voce, dovete esigere il mutamento di questo ordine”. 5. Le Chiese del Sud e il Progetto Policoro Le due Note pastorali dei Vescovi che riguardano il Sud hanno rilevato quanto i problemi del Sud stesso siano problemi dell’intera Nazione, sottolineando che la reciprocità è una via da percorrere sia per un nuovo sviluppo di tutte le Regioni sia per rinsaldare quell’identità nazionale che è il fondamento del convivere di un popolo. La coscienza che si è venuta sempre più instaurando in chi è sensibile ai problemi della Nazione porta perciò a ritenere il Sud come questione dell’intero Paese, per cui “urge trovare la risposta giusta - secondo la visione dei Vescovi espressa nella Nota Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà - nella costruzione dell’unità tra le diverse parti del Paese, e anche in vista del problema delle nuove immigrazioni dai Paesi del Sud del mondo”. 22 E’ perciò 22 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 25 7 necessario promuovere una maggiore conoscenza reciproca, aiutandosi a realizzare una conversione di mentalità che faccia superare pregiudizi, polemiche, vittimismi, presunzioni di superiorità, atteggiamenti di rigetto che prima o poi elimineranno le tensioni tra Sud e Nord d’Italia risanando in maniera duratura ferite e fratture antiche e nuove. 23 A questo proposito è esemplare il “progetto Policoro” che porta a gesti di solidarietà, sensibilizzando le Chiese locali ad una reciprocità che coinvolga cultura, sviluppo, lavoro sulla base di una sussidiarietà che non toglie il protagonismo alle realtà più deboli o in via di sviluppo. In una cultura sempre più fondata sui valori contrari alla solidarietà e, cioè, sull’egoismo personale o di gruppo od, ancora, su individualismi nazionali, pare necessario proporre l’impresa sociale - prendo in prestito l’affermazione di un esperto - vale a dire quella che trova il proprio motore e la propria ragione di essere nel perseguimento in via prioritaria del bene comune al posto del vantaggio individuale. E’ questa una utopia. Noi crediamo che se utopia è, essa è nell’ordine delle utopie positive, cioè dei grandi obiettivi che possono e debbono essere realizzati, anche se per gradi e in tempi successivi. Quanto Paolo VI diceva per il valore della pace può essere esteso ad ogni modello del convivere civile: “La pace non è un sogno puramente ideale, non è un’utopia attraente ma infeconda e irraggiungibile, è, deve essere, una realtà”. 24 Una simile cultura deve estendersi alle politiche economiche sia mondiali sia delle singole Nazioni. E’ impressionante constatare come i meccanismi economici, finanziari e sociali funzionano spesso in maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli uni e di povertà degli altri. Ribaltare una siffatta cultura non è compito facile; e, tuttavia, è impresa necessaria se si vuol dare inizio alla realizzazione del progetto di Dio che vuole tutti gli uomini partecipi con equità dei beni della terra. Ribaltamento che richiede di non partire dal bene personale per giungere al bene comune, ma da quest’ultimo per realizzare anche il proprio bene personale. Si richiede un’inversione di marcia; in termini cristiani si può ben parlare di una vera conversione, non spaventandosi dell’arditezza della meta che sta dinanzi. “Non dobbiamo perderci di coraggio. In questa lotta è inevitabile che diventiamo consapevoli dell’esistenza della cupidigia, della pigrizia, dell’invidia. Nessuna utopia è possibile su questa terra; ma, poiché crediamo nell’amore divino che redime e abbiamo sperimentato la misericordia divina che perdona, sappiamo che la provvidenza di Dio oggi non ci abbandona e non ci abbandonerà”. 25 Una simile proposta può creare sconcerto, specie in coloro che ritengono le attuali “leggi economiche” o le divisioni tra Sud e Nord assolutamente intoccabili, pena la ricaduta per tutti in uno stato di nuova povertà. Ad una tale osservazione si può facilmente rispondere che sino ad oggi non ci si è impegnati a sufficienza nella ricerca di una alternativa alle ragioni dell’economia, ossia del mercato, del profitto e della produttività che, se non governate o governate male, tendono a prevalere e a porsi come fondamento di una cultura economicistica. Bisogna superare la “razionalità economica ristretta”, quella che si chiude in se stessa, per adottare una razionalità economica aperta a tutti gli aspetti della vita dell’uomo e della società. E’, questa, una sfida che bisogna cogliere senza timori. Per quanto riguarda la realizzazione del “progetto di Dio”, non si può “partire” da una semplice lettura sociologica della realtà. Il metodo per tale cambiamento insegna come una “lettura teologica” della realtà, o se si vuole “sapienziale”, richiede l’assunzione, da parte di ogni uomo, il riconoscersi responsabile davanti a Dio e non solo dinanzi agli uomini o peggio di fronte ai mercati e allo sviluppo. “Il compito dell’uomo è di dominare sulle altre creature, “coltivare il giardino”, ed è da assolvere nel quadro dell’ubbidienza alla legge divina e, quindi, nel rispetto dell’immagine 23 24 25 Cfr. Ivi, 24 PAOLO VI, Messaggio per la Giornata della Pace, 1 gennaio 1978 CONFERENZA EPISCOPALE USA, Giustizia economica per tutti, 364 8 ricevuta, fondamento chiaro del potere di dominio, riconosciutogli in ordine al suo perfezionamento”26; “se certe forme di imperialismo moderno si considerassero alla luce di criteri morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo all’economia si nascondono vere forme di idolatria del denaro, dell’ideologia, della classe, della tecnologia”27. Per queste ragioni una cultura cristianamente ispirata non potrà non essere segno di contraddizione nell’attuale contesto socio culturale, sempre oscillante, sia nelle sue manifestazioni più specificatamente culturali sia in quelle a carattere economico e politico, tra i due poli dell’individualismo e del collettivismo, - in questo caso in forme diverse dal recente passato superficialmente contrapposti, ma accomunati in fondo dalla mancata percezione della dimensione trascendente della persona umana. “Non abbiamo il sospetto - ci ripetono i Vescovi dal 1981 - che volgersi a Cristo possa significare evadere la situazione... Se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo, non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza” 28. Solo così l’uomo di buona volontà, il credente, la comunità cristiana possono divenire “l’icona del mondo futuro”. 6. Conclusioni Il richiamo a coniugare assieme libertà e corresponsabilità, autonomia e interdipendenza, efficacia e solidarietà, diviene al giorno d’oggi un dovere indifferibile. L’obbligo di impegnarsi per lo sviluppo del Nord e del Sud non è un dovere esclusivamente individuale; né tantomeno individualistico, quasi fosse possibile conseguirlo con gli sforzi isolati di ciascuno. Esso è un imperativo per tutti e per ciascuno degli uomini e delle donne, per le società e le Nazioni... Mettersi assieme, in altre parole cooperare, per lo sviluppo dei singoli, e , inoltre, allargare il proprio sguardo oltre questo confine del bene del singolo individuo per pervenire al bene dei gruppi sociali, delle regioni ed oltre, è vera, reale e concreta solidarietà. La libertà è indispensabile per lo sviluppo e la promozione umana e vi è un’intima connessione tra queste due realtà. Così si dica per autonomia ed interdipendenza. Il primo termine risponde ad un principio cardine del pensiero sociale cristiano: la centralità della persona umana, fondata sulla sua dignità; ossia l’uomo ha diritti anteriormente ai suoi rapporti con gli altri, diritti che devono essere riconosciuti, garantiti e promossi. Si tratta dei diritti relativi alla sua dimensione fisico-corporea come il diritto alla vita, alla cura del corpo ecc.; alla sua dimensione spirituale come la libertà di pensiero, di parola, la libertà religiosa ecc.; alla sua dimensione sociale quale il lavoro, il salario, il diritto ad associarsi e a partecipare al governo della cosa pubblica, ecc. All’autonomia va affiancata la interdipendenza, realtà che si pone sempre più all’attenzione. Essa ha certamente una dimensione economica e politica; si parla sempre più, infatti, di un’economia mondiale, di mercati internazionali, di divisione internazionale del lavoro, di flusso libero dei capitali, di globalizzazione. Tuttavia oggi tutti i mezzi, e non solo quelli economici, tendono verso una collaborazione e una interdipendenza mondiale, di conseguenza anche quelli sociali, politici e culturali. Il primo termine non esclude l’altro; e la “cordata” tra l’una e l’altra, quando non si limiti a sole utilità economiche, sa essere efficace fondamento alla nuova “civiltà dell’amore”, cioè ad ogni uomo. L’uomo è il signore delle cose, e nessuna delle cose create è al di sopra di lui; tutte le realtà della terra sono relative all’uomo e ad ogni uomo, così l’economia, la politica, il progresso, il cambiamento, ecc. 26 27 28 GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, 30 Ivi, 37 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Chiesa italiana e prospettive del Paese, 13 9 “La Chiesa - e quindi anche noi che vi operiamo - non ha soluzioni tecniche da offrire al problema del sottosviluppo” 29, propone, comunque, quale suo apporto alla soluzione dei problemi, la sua dottrina sociale che ha “carattere di applicazione della Parola di Dio alla vita degli uomini e della società così come alle realtà terrene, che ad esse si connettono, offrendo principi di riflessione, criteri di giudizio e direttrici di azione”. 30 L’agire nel sociale esige prudenza, il che non significa timidezza o insicurezza, infatti, la vera prudenza ha due occhi: uno fisso al fine da raggiungere, l’altro al rischio da correre31; vede fino alla meta, per questo sa affrontare il rischio. In tutti i campi l’uomo deve scegliere, non tra la sicurezza e il rischio, ma tra un rischio aperto, carico di promesse, e un rischio senza compensazioni, senza uscite. E’ la spiritualità dell’audacia a cui ci chiama anche Gesù esortandoci: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”32. L’indicazione è puntuale ed esigente. (FILE: CHAR2.DOC) 29 30 31 32 GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, 8 GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, 37 Cfr. G. THIBON, La scala di Giobbe, Bruxelles 1945 Mt 5,48 10