Pochi anni fa, Cosimo Laneve ha invitato i pedagogisti che avevano

Enver Bardulla
Uscire dalla pedagogia
Un problema non nuovo ma reale
Alcuni anni fa Cosimo Laneve ha invitato i pedagogisti che avevano partecipato a vario
titolo alle iniziative promosse dal Dipartimento di Scienze dell'Educazione
dell'Università di Bari tra il 1997 ed il 2000 a rispondere ad un questionario focalizzato
principalmente su: identità e ruolo della pedagogia; rapporto tra pedagogia/scienza
dell'educazione e 'scienze umane nella loro curvatura educativa'; e giudizio sul possibile
indebolimento e svilimento della pedagogia generale (intesa essenzialmente come
filosofia dell'educazione), per effetto della dilatazione e frammentazione del sapere
pedagogico in una pluralità di settori ed insegnamenti specialistici.
Le posizioni degli interpellati, espresse vuoi come risposta puntuale alla decina di
domande contenute nel questionario vuoi sotto forma di contributo unitario, sono state
raccolte in un numero monografico dei "Quaderni" dello stesso Dipartimento, che
avrebbe forse meritato una maggiore circolazione. Il taglio necessariamente sintetico dei
pareri formulati, infatti, se, per un verso, rappresenta un limite per una conoscenza
approfondita del pensiero dei singoli autori o per un eventuale utilizzo didattico della
pubblicazione, costituisce tuttavia un pregio non piccolo per chi, dotato di una certa
dimestichezza con la produzione pedagogica nostrana, voglia farsi un'idea degli
orientamenti della pedagogia accademica sulle questioni relative all'identità e ruolo di
questa area disciplinare.
A quasi cinque anni di distanza dalla pubblicazione di quel fascicolo, i problemi
evidenziati dall'insieme dei contributi in esso raccolti sono rimasti sostanzialmente
irrisolti. Per certi aspetti, anzi, si sono ulteriormente aggravati. Nel senso che le
preoccupazioni per le sorti di un sapere pedagogico sempre più minacciato dalle
invasioni del proprio territorio da parte delle scienze umane e di concorrenti per certi
aspetti ancora più agguerriti e 'pericolosi' (si pensi soprattutto all'interesse crescente delle
discipline economiche per le problematiche educative, per non parlare dell'impegno di
ingegneri ed informatici sul versante dell'uso didattico delle nuove tecnologie) appaiono
in effetti sempre più giustificate. Come pure sempre più giustificate sembrano essere le
preoccupazioni per il venir meno, di fatto se non di diritto, della funzione fino ad ora
esercitata dalla pedagogia generale e per la frantumazione dell'area pedagogica in una
pluralità di settori e di indirizzi del tutto scollegati tra loro.
Nel mio contributo a quella tavola rotonda virtuale (Bardulla, 1999), facevo notare
come, nonostante i mutamenti intervenuti in ambito accademico, con l'attribuzione
formale all'area pedagogica della competenza esclusiva sulle questioni educative (sancita
dalla ridefinizione dei settori scientifico-disciplinari e dalle declaratorie delle nuove
classi di laurea) i problemi della pedagogia fossero rimasti quelli di sempre: problemi
che non si possono certo risolvere per decreto, rinunciando in partenza a considerarli tali
a tutti gli effetti ed evitando i rischi e la fatica che ogni situazione problematica
inevitabilmente comporta, per cedere, al contrario, alla lusinga di pratiche di
autogratificazione o autoconsolazione nelle quali, a dire il vero, la corporazione
pedagogica sembra sapersi muovere con grande disinvoltura.
Il convincimento da cui prende le mosse questo contributo è appunto che, per rispondere
in modo non velleitario alle sfide con le quali è chiamata a misurarsi, la pedagogia debba
compiere una scelta di umiltà e di verità, accettando di mettersi spassionatamente in
discussione ed approfondendo in modo radicale l'esplorazione delle cause e circostanze
che hanno contribuito a determinare la situazione in cui si trova.
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Un chiarimento non solo terminologico
Parlare di 'scienze umane nella loro curvatura educativa', per riprendere l'espressione
utilizzata da Laneve nel questionario di cui si è detto, piuttosto che di 'scienze
dell'educazione', potrebbe già venir considerato un passo significativo verso una
condizione di maggiore chiarezza. E in effetti è soprattutto alle discipline
extrapedagogiche che ci si riferisce, nella letteratura italiana come in quella francofona,
quando si utilizza l'espressione 'scienze dell'educazione'. Va senz'altro riconosciuto a
Sergio De Giacinto (1993) il merito di aver preso le distanze, in tempi non sospetti,
dall'orientamento dominante, riferendosi appunto a psicologia, sociologia, antropologia,
ecc. come alle 'cosiddette' scienze dell'educazione, muovendo dal presupposto che solo
la pedagogia, in quanto disciplina pratica, è in grado di fare dell'educazione il proprio
'oggetto di studio', anziché soltanto la propria 'unità di indagine', come avviene invece
per quelle che egli definisce 'discipline di base' della pedagogia: discipline che, in quanto
conoscitive, non sono condizionate dall'esigenza di fornire in tempo utile agli educatori
soluzioni teoriche che consentano loro di far fronte ai problemi incontrati nel concreto
esercizio dell'attività educativa.
La questione nodale, d'altro canto, sta proprio qui, nello stabilire se vi sia o meno una
differenza sostanziale tra la capacità di interrogarsi sugli eventi educativi propria della
pedagogia e quella delle altre discipline, o, comunque, se vi siano differenze tra le
risposte che l'una e le altre sono in grado di fornire.
Sulla scorta di quanto emerge dal dibattito che su questi temi si è andato svolgendo negli
ultimi anni, si potrebbe anche sostenere che l'opzione di De Giacinto a favore del
titolarità esclusiva della pedagogia per lo studio dell'educazione in quanto tale (e non
semplicemente nei suoi inevitabili risvolti di natura filosofica, psicologica, sociologica,
antropologica, economica, ecc.) si sta rivelando l'opzione vincente. Quanto meno si sta
rivelando l'opzione all'apparenza meno autolesionistica per il sapere pedagogico. Con
questo non si vuol dire, però, che lo spostamento sulla pedagogia del favore in
precedenza tributato alle scienze dell'educazione, se si prescinde dalle pur comprensibili
esigenze di sopravvivenza accademica e dai rapporti di potere con le altre discipline,
abbia trovato fino ad ora delle giustificazioni convincenti. Il fatto stesso che l'alternativa
pedagogia - scienze dell'educazione continui ad essere proposta come questione di
natura astrattamente epistemologica non costituisce certo un aiuto per una corretta
impostazione dei problemi. Questa rimane ad ogni modo un'esigenza reale, come reale e
pressante rimane la richiesta di risposte soddisfacenti alle questioni educative. Ed è
ovvio che non è sufficiente a tal fine intervenire esclusivamente sul piano terminologico.
Se ci limitasse ad un chiarimento del genere, si rischierebbe anzi di perpetuare molti
degli equivoci che attualmente sussistono. Primo fra tutti quello che sembra indurre
molti pedagogisti a ritenere che i limiti indiscutibili dello studio dell'educazione attuato
dalle scienze umane e sociali siano sufficienti per attestare la indiscussa capacità della
pedagogia di superarli. Il che ovviamente non è. Oppure quello, su cui sembrano peraltro
fondate le innovazioni degli assetti accademici sopra richiamate, che, seppure in modo
surrettizio, ripropone una ripartizione degli ambiti disciplinari basata prioritariamente
sulla tipologia dei fenomeni indagati, piuttosto che sugli interrogativi su di essi sollevati,
come invece richiedono gli esiti cui è pervenuta la più recente riflessione
epistemologica.
La capacità di cogliere ciò che rende davvero tali i processi educativi, in altri termini,
non va semplicemente proclamata. Va dimostrata nei fatti. Non solo. Va anche
dimostrata in modo tale che ad esserne convinti non siano soltanto i pedagogisti. E
nemmeno soltanto gli educatori, ancora troppo abituati a dipendere da questi, quanto
meno per le elaborazioni teoriche.
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Un sapere non eccezionale: l'analogia con le scienze ambientali.
Il limite principale dei discorsi che si vanno facendo sul rapporto pedagogia–scienze
dell'educazione consiste con ogni probabilità nel loro essere discorsi 'parrocchiali', ossia
discorsi fatti esclusivamente tra pedagogisti; e tra pedagogisti più che mai bisognosi di
rassicurazioni circa il proprio ruolo e la propria identità, che spesso ignorano o fingono
di ignorare, per ragioni di mera sopravvivenza, quanto avviene negli ambiti limitrofi.
Solo così, d'altro canto, si può coltivare l'illusione che soltanto la pedagogia abbia saputo
uniformarsi alle nuove tendenze epistemologiche, superando le ingenuità del modello
positivistico e prendendo coscienza della complessità del reale e della impossibilità di
comprenderlo mediante logiche di tipo lineare o aspirando ad una conoscenza
assolutamente oggettiva. Sarebbe invece necessario chiedersi come mai le difficoltà in
cui si dibatte la pedagogia non siano comparabili con quelle che pure affliggono le altre
discipline del comparto umanistico. Ma, ovviamente, bisognerebbe farlo in modo non
retorico, rinunciando alla pretesa di essere già in possesso della risposta, come pure alla
riserva mentale di una strutturale impossibilità di confronto, stante la natura del tutto
peculiare di un sapere, quale appunto quello pedagogico, chiamato a farsi carico ad un
tempo di questioni di fatto e di questioni di valore.
Un paragone possibile, a dire il vero, potrebbe essere quello con l'ecologia, una
disciplina forse proprio per questo pressoché ignorata dall'epistemologia pedagogica,
che, grosso modo nello stesso periodo in cui avveniva la transizione dalla pedagogia alle
scienze dell'educazione, si è proposta come nuovo modo di far scienza, in grado al
tempo stesso di superare le cristallizzazioni disciplinari e di fare uscire gli scienziati
dalla torre d'avorio, per affrontare i problemi socialmente e politicamente più rilevanti e
per mettere a disposizione di tutta la comunità, piuttosto che degli interessi economici o
militari, i risultati delle loro ricerche.
Non è ovviamente possibile, in questa sede, procedere ad una comparazione più
approfondita delle tendenze manifestatesi, nell'arco di un trentennio, rispettivamente
nell'ambito ecologico ed in quello pedagogico. Ai fini del discorso che qui si vuole
sviluppare, può essere utile tuttavia evidenziare come l'intento dei pionieri dell'ecologia
di porre i problemi della salvaguardia e del recupero della qualità dell'ambiente come
obiettivo sul quale far convergere l'impegno di una pluralità di discipline scientifiche ed
umanistiche o di prospettarsi come sapere di sintesi, in grado di coordinare gli apporti di
scienze di ben più antica tradizione (chimica, fisica, geologia, zoologia, botanica,
mineralogia, ecc.), per accedere così ad una conoscenza dei sistemi naturali considerati
nella loro globalità e complessità, piuttosto che come mera sommatoria di elementi e
fattori eterogenei, abbia subito nel tempo pesanti ridimensionamenti. Al punto che anche
i più convinti sostenitori dell'approccio ecosistemico hanno dovuto abbandonare un
simile progetto.
Sono sorti, è vero, corsi di laurea e dipartimenti di Scienze ambientali. Ma, se, sul
versante didattico, la cosa è stata vista con favore da parte di fisici, chimici, matematici,
ecc., per le opportunità che in tal modo si creavano di aumentare gli insegnamenti delle
rispettive discipline, su quello scientifico, l'espressione scienze ambientali è rimasta,
nella sostanza, sinonimo di ecologia; e la sua adozione, analogamente a quanto appunto
è avvenuto per le scienze dell'educazione, è stata più che altro un'operazione di
marketing. I cultori delle altre discipline si sono ben guardati dal consentire che queste
venissero egemonizzate o solo coordinate da una 'scienza' (ammesso che la ritenessero
davvero tale) sorta solo di recente come branca, peraltro marginale, della biologia, priva
di basi teoriche proprie, senza tradizioni e con un futuro a dir poco incerto, coltivata da
un gruppo di studiosi raccogliticcio ed alla cui costituzione, in particolare per le
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provenienze dai settori extra biologici, avevano concorso, in misura forse preponderante,
le motivazioni più disparate: dalla ricerca di spazi e di posizioni di potere non disponibili
nel proprio ambito disciplinare alla volontà di coniugare l'impegno di ricerca con quello
politico e sociale. Ma va anche sottolineato che le sorti dell'ecologia, proprio per lo
statuto ancora incerto di questa disciplina, hanno risentito in Italia, in misura
decisamente superiore a quella delle aree scientifiche di più solida tradizione, dei
provvedimenti di riforma del sistema universitario: anche questo, è perfino superfluo
rimarcarlo, un elemento che accomuna ecologia e scienze ambientali, da un lato, e
pedagogia e scienze dell'educazione, dall'altro, e che sarebbe molto interessante poter
approfondire.
Non solo (o soprattutto) una questione epistemologica
Anche per l'ambito pedagogico, individuare con precisione l'apporto dei singoli fattori,
isolando l'influenza delle considerazioni di natura epistemologica da quelle connesse
all'esigenza di adeguarsi alle scelte di politica universitaria, è impresa tutt'altro che
agevole. Se però non si tiene conto di una simile distinzione, si corre il rischio di
favorire proprio il perdurare di quegli equivoci cui è possibile imputare, a mio avviso,
gran parte della responsabilità della situazione di disagio che gli stessi pedagogisti,
consapevolmente o meno, hanno contribuito a creare.
Di grande interesse può risultare a tal fine la rilettura delle posizioni assunte, negli anni
settanta del secolo scorso, dai pedagogisti italiani riguardo alla costituzione di
dipartimenti di scienze dell'educazione, dopo l'approvazione, da parte del Senato, del
disegno di legge 612 sulla Riforma dell'ordinamento universitario, che individuava
appunto nel dipartimento la struttura portante dell'università.
In un articolo pubblicato su "I Problemi della pedagogia" agli inizi di quel decennio,
Giovanni Maria Bertin (1971), tra le questioni da affrontare per dar vita a dipartimenti di
scienze dell'educazione nel rispetto delle indicazioni legislative, indicava anche quello
del criterio da adottare per l'accorpamento delle discipline, ponendo in alternativa le
opzioni basate rispettivamente sull'oggetto e sulla metodologia della ricerca. A proposito
dello stato della ricerca pedagogica nel nostro Paese, faceva notare come non fosse
possibile scaricare per intero le responsabilità della sua arretratezza sul monopolio della
cultura idealistica imposto dalla dittatura fascista, e come fosse invece necessario
riconoscere l'intervento di alcuni fattori, quanto meno concomitanti, dal momento che
una situazione analoga si era verificata anche in Francia. Tra questi, includeva il
mancato sviluppo delle scienze umane, a differenza di quanto era avvenuto nei Paesi
anglosassoni, ed il disinteresse, non solo degli ambienti accademici, per i problemi
pedagogici, "considerati faccende da lasciare a studiosi di secondo rango, bene
intenzionati ed anche meritevoli di elogio, ma sprovvisti di acume speculativo e di
talento scientifico". Non si nascondeva poi le difficoltà di collaborazione tra pedagogia
ed altre discipline coinvolte nella ricerca educativa, riconoscendo che tali difficoltà, più
che dall'abitudine a lavorare individualmente, dipendevano dalla mancanza di studiosi di
scienze umane disposti ad interessarsi di questioni educative e scolastiche, dalla
concentrazione della loro presenza in un numero limitato di atenei e dalla mancanza di
una formazione interdisciplinare degli esperti di diversa estrazione chiamati a
collaborare alla soluzione dei problemi educativi: "ciascuno portato piuttosto a tirare
l'acqua al proprio mulino di competenza, anziché a integrare effettivamente il proprio
lavoro con quello degli altri."
In una nota inserita nelle conclusioni dell'articolo, si specificava che il contributo,
unitamente a quelli di Flores d'Arcais e di Visalberghi, era servito come introduzione ai
lavori dell'incontro sul dipartimento di scienze dell'educazione svoltosi nel giugno dello
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stesso anno a Villa Falconieri ed aperto a tutti i docenti di materie pedagogiche. Si
precisava altresì che, sulla impostazione del dipartimento, si erano manifestati due
distinti orientamenti. Per uno, la struttura portante di una simile aggregazione avrebbe
dovuto essere individuata nelle diverse articolazioni della ricerca pedagogica (storica,
teoretica, metodologico-didattica, applicativa), cui avrebbero dovuto essere collegati "i
settori filosofico, biologico, psicologico, sociologico, in quanto dedicati [sottolineatura
nostra] ad indagare i principi ed i fattori condizionanti il processo educativo, e perciò
idonei a concorrere alla chiarificazione dei complessi problemi dell'educazione". Per
l'altro la pedagogia era invece da considerare "centro di una pluralità di settori di ricerca
[pedagogico, psicopedagogico, sociopedagogico, biologico, sperimentale] …
convergenti verso lo scopo educativo".
In entrambi i casi, come si può facilmente constatare, il mantenimento di una funzione di
guida da parte delle discipline pedagogiche era considerato assolutamente fuori
discussione. E, del resto, nella mozione approvata al termine dei lavori, per dissipare gli
equivoci cui avrebbe potuto dar luogo l'espressione utilizzata dal legislatore
('dipartimenti attinenti alle scienze educative') e per sgombrare il campo da forzature
interpretative volte a privilegiare altre discipline a scapito di quelle pedagogiche, si
ribadiva l'esigenza di centrare il nuovo organismo "sulla ricerca pedagogica nelle sue
varie articolazioni e sulle esigenze della formazione professionale di insegnanti e
operatori educativi, per quanto attiene a metodi didattici e alla consapevolezza di
problemi pedagogici". Nel terzo dei quattro punti in cui era articolata la mozione, poi, si
precisava che, nella sua realizzazione minimale, il nuovo organismo avrebbe dovuto
"comprendere le materie propriamente pedagogiche e le principali scienze ausiliarie
[sottolineatura nostra] dell'educazione".
Nonostante la partecipazione all'incontro di studiosi di altri ambiti disciplinari, il
dibattito si svolgeva, nella sostanza, all'interno alla pedagogia. Ed è del resto
significativo che, in calce all'articolo di Bertin, venisse pubblicata una breve nota
sottoscritta da un gruppo di docenti di psicologia dell'Università di Bologna, nella quale
si precisava che gli "orientamenti degli psicologi italiani per quanto riguarda la
ristrutturazione dipartimentale dell'università sembrano confluire verso la costituzione di
dipartimenti autonomi di psicologia". E si sosteneva che "la costituzione di un
dipartimento psicologico autonomo doveva avvenire tuttavia con garanzie precise di
rapporti interdipartimentali, in particolare col dipartimento di scienze dell'educazione",
ipotizzando anche la costituzione di "servizi interdipartimentali permanenti" per
assicurare tra l'altro la preparazione pedagogico-didattica [sottolineatura nostra] degli
insegnanti".
D'altro canto, qualche anno dopo, lo stesso Bertin, ritornando sulla questione per fornire
un contributo alla stesura di un documento che sintetizzasse l'orientamento dei
pedagogisti sui compiti del dipartimento di scienze dell'educazione in una università
ristrutturata secondo il modello dipartimentale (il precedente progetto di riforma era
infatti naufragato), pur confermando il sussistere di orientamenti contrastanti a proposito
del criterio organizzativo più funzionale ad una impostazione interdisciplinare della
ricerca e della didattica in campo educativo, affrontava il problema in prospettiva non
esclusivamente pedagogica. Si chiedeva, infatti, se gli studiosi di antropologia,
sociologia, psicologia, urbanistica, puericultura, ecc. dovessero afferire a tutti gli effetti
al dipartimento di scienze dell'educazione o se dovessero, invece, confluire in
dipartimenti corrispondenti alle rispettive specializzazioni, assicurando la loro
collaborazione con il dipartimento di scienze dell'educazione solo per le lezioni ed
esercitazioni o, saltuariamente, per lo svolgimento di ricerche interdisciplinari. In
quest'ultimo caso, il coinvolgimento degli studiosi di discipline non pedagogiche sarebbe
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stato soltanto marginale. Nel primo caso, a soffrirne sarebbe stata la loro "libertà di
studio e di ricerca".
Al fine di evitare interpretazioni distorte dei rapporti tra pedagogia e altre scienze
umane, è tuttavia opportuno ricordare che: i corsi di laurea in sociologia e psicologia
sono stati istituiti rispettivamente nel 1970 e nel 1971 e, per un lungo periodo, attivati
solo in un limitatissimo numero di atenei; che la professione di psicologo è stata
riconosciuta per legge nel 1989; e che, ad esempio, la facoltà di psicologia
dell'Università di Roma è stata istituita solo nel 1991, e quella di Padova l'anno
successivo, in seguito ad una tribolata operazione di distacco del corso di laurea in
psicologia dalla facoltà di magistero.
Ed è pure doveroso ricordare che, prima della liberalizzazione dei piani degli studi
operata dalla legge 'Codignola' del 1969, gli insegnamenti psicologici e sociologici (per
di più limitati in genere alla psicologia ed alla sociologia generali ed alla psicologia e
sociologia dell'educazione o alla psicologia dell'età evolutiva, ed impartiti da psicologi e
sociologi spesso improvvisati) non figuravano tra gli insegnamenti fondamentali del
corso di laurea in pedagogia (a differenza di quelli di pedagogia, delle lingue e
letterature italiana e latina, della storia della filosofia e della filosofia, delle storie, di una
lingua straniera), e potevano tutt'al più rientrare tra i quattro insegnamenti
complementari previsti dall'ordinamento didattico, sempre ovviamente che fossero stati
inseriti negli statuti ed attivati dalle facoltà.
Sotto questo profilo, riesce davvero difficile non condividere il giudizio di chi, come
Franco Cambi (2001), considera il "passaggio alle scienze dell'educazione…una svolta
radicale, epocale e irreversibile, se pure assai problematica". Ma questo a condizione
che un simile giudizio, sebbene non privo di implicazioni sul piano epistemologico (alle
quali soprattutto va riferito il connotato di problematicità), non si riferisca al versante
della ricerca, bensì a quello della didattica, ossia alla struttura ed ai contenuti dei corsi di
studio per la formazione delle competenze richieste a chi è chiamato a progettare ed
attuare interventi educativi.
Una scientificità solo derivata
Anche il discorso relativo all'aspirazione della pedagogia ad uno status riconosciuto di
disciplina scientifica (un discorso anche questo che i pedagogisti hanno sviluppato
esclusivamente tra di loro), se decontestualizzato e destoricizzato, rischia di perpetuare
non pochi fraintendimenti. Oltre a porsi come reazione ad un sapere pedagogico
focalizzato esclusivamente sui fini dell'educazione (concepito come filosofia applicata,
prodotto per mera deduzione da questa o quella metafisica, e per di più mal sopportato,
perché troppo dogmatico, pedante e privo di qualsiasi utilità sul piano operativo, dagli
stessi educatori), e come bisogno, più che giustificato, di utilizzare risultati di una ricerca
psicologica e socio-antropologica a lungo ignorata nel nostro Paese, tale esigenza
rifletteva un più generale orientamento culturale. Quello per cui la scienza si poneva
come sola forma di conoscenza affidabile, al punto che la stessa filosofia, per venire
legittimata come sapere ancora valido, doveva porsi al servizio della scienza,
autolimitando il proprio ambito d'indagine alle problematiche epistemologiche o alla
storia del pensiero scientifico.
Stando così le cose, era inevitabile che anche lo studio dei processi educativi si
uniformasse allo spirito del tempo e si adoperasse per acquisire quanto meno una
parvenza di scientificità. Il che non significa certo sostenere né che tale ricerca sia stata
mossa esclusivamente o principalmente da motivazioni opportunistiche (l'accettazione
appunto della pedagogia nel novero delle discipline accademiche ed il mantenimento
della credibilità presso i tradizionali destinatari della produzione pedagogica), né che sia
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svolta in modo indolore. Basti ricordare il conflitto determinatosi a questo proposito tra
pedagogia di ispirazione laica e pedagogia di ispirazione cattolica: un aspetto, questo,
che tende ad essere dimenticato, ma che meriterebbe senz'altro di venire approfondito,
eventualmente prendendo lo spunto dalle acute considerazioni formulate su questo tema
da Riccardo Massa (1997).
Riesce però difficile sostenere che, mossa da tale bisogno, la pedagogia si sia fatta
scienza, intendendo con questo la sua trasformazione tanto in scienza empirica quanto in
'collettore di molte scienze', per riprendere la distinzione operata da Cambi. Se una
simile trasformazione fosse effettivamente avvenuta, non potremmo che rallegrarcene,
non foss'altro perché ciò avrebbe consentito di superare nei fatti, e non soltanto a parole,
i limiti di un approccio empirico-sperimentale, che in realtà la pedagogia non ha mai
fatto proprio. O ha adottato solo parzialmente. Da un lato, premurandosi di autolimitare
il proprio ambito di indagine ad aspetti per di più parcellari dei soli processi di
istruzione, escludendo nel modo più perentorio, come rilevava Lydia Tornatore (1984),
la considerazione delle componenti più propriamente 'educative'. Dall'altro, mutuando in
toto sia le ipotesi teoriche che i metodi di ricerca da altri ambiti disciplinari. Il che
tuttaiva si è verificato solo in casi del tutto eccezionali, sempre che non si intenda
attribuire la patente di scientificità con troppa disinvoltura.
L'ipotesi di una pedagogia divenuta scientifica in quanto fruitrice e sintetizzatrice di
conoscenze scientifiche prodotte da altre discipline appare senza dubbio più verosimile.
Ma anche in questo caso occorre guardarsi dalle semplificazioni, e non solo perché
rimane da stabilire sulla scorta di quali competenze e di quali criteri la fruizione e la
sintesi possano venire effettuate. Illuminante risulta peraltro la consultazione anche solo
degli indici di alcuni 'manuali' di scienze dell'educazione pubblicati proprio agli inizi
degli anni settanta. Il riferimento è in particolare ad "Avviamento alle scienze
dell'educazione" di Clausse (1970) e ad "Introduzione alla ricerca in educazione" di De
Landsheere (1973), scorrendo i quali balza all'evidenza, anzitutto, come la scientificità
della pedagogia, anche di quella che si definiva sperimentale, fosse per così dire una
scientificità solo parassitaria, della quale, cioè, essa non poteva rispondere in proprio,
appunto perché dipendente senza residui da fonti e strumenti mutuati da altri ambiti
disciplinari. Come del resto precisava Gaston Mialaret nella prefazione al volume di De
Landsheere, pur essendo arte e non potendo che rimanere tale, l'educazione [il
riferimento, si badi bene, è all'educazione, non alla pedagogia] non può essere esercitata
correttamente e l'artista educatore non può esprimersi al meglio se non si avvale di dati
scientifici.
Va del resto tenuto presente che, in questa fase, a prevalere, anche per le scienze umane
e sociali, era una rappresentazione mitizzata della conoscenza scientifica come
conoscenza assolutamente oggettiva. Al punto che anche uno studioso come Sergio De
Giacinto, impegnato nell'approfondire l'assetto formale dell'indagine pedagogica sulla
scorta di concezioni epistemologiche meno ingenue e grossolane, per lungo tempo
coltiverà l'illusione di una pedagogia in grado di attingere dalle 'discipline di base'
informazioni certe ed univoche sui singoli aspetti o fattori del rapporto educativo:
illusione che verrà abbandonata solo nel suo ultimo volume, pubblicato postumo col
titolo "Pedagogia come poesia".
Una trasformazione solo virtuale e interna alla pedagogia
Si giustifica così la tendenza degli stessi pedagogisti a ritenere non solo la praticità ma
anche l'ecletticità un tratto distintivo della propria disciplina, senza preoccuparsi
eccessivamente della collocazione e dell'apporto specifici delle competenze più
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propriamente pedagogiche nell'ambito delle scienze dell'educazione. Il problema, d'altro
canto, non rivestiva una particolare rilevanza per una pedagogia considerata come sapere
per sua natura anomalo, concepito fin dalle origini per la formazione degli educatori e
impostato esclusivamente, tanto nella versione teoretica quanto in quella empiricooperativa, come consumo e divulgazione di conoscenze prodotte da altri. Non costretto,
cioè, a confrontarsi con gli altri saperi.
Presentarsi come scienze dell'educazione, piuttosto che come pedagogia, poteva
senz'altro far acquisire al sapere pedagogico un'aura di scientificità tutt'altro che
disprezzabile in termini di immagine, anche da parte di quanti avessero deciso di
percorrere questa strada perché effettivamente convinti della sua validità, non solo per
ragioni di sopravvivenza all'interno dell'accademia o in ambito educativo e scolastico.
Sta di fatto, però, che tanto la trasformazione della pedagogia in disciplina scientifica
quanto il suo aprirsi alla prospettiva delle scienze dell'educazione sono state in certo
senso operazioni puramente virtuali, fittizie. Operazioni che hanno riguardato
esclusivamente i pedagogisti: operazioni interne alla pedagogia e, appunto per questo,
sostanzialmente indolori, delle quali, di conseguenza, non era necessario approfondire
più di tanto le giustificazioni.
La ricostruzione dei passaggi attraverso i quali si è passati dalla pedagogia alle scienze
dell'educazione effettuata da Carlo Nanni (1984) è senza dubbio di grande utilità, specie
sotto il profilo documentario e didattico. L'Autore, d'altro canto, non sempre assume,
almeno esplicitamente, posizioni troppo nette. Presenta le diverse soluzioni con il
distacco dell'osservatore imparziale, ed affronta le questioni nodali in forma dubitativa.
Ma le motivazioni addotte per giustificare l'opzione in favore delle scienze
dell'educazione (processo di revisione critica della scienza moderna; pluralità di approcci
richiesta da un sapere rigoroso; complessità, molteplicità e dinamicità della realtà
educativa) sono assai poco convincenti. Ancor meno convincente risulta il suo dare per
scontata l'esistenza di un sistema di scienze dell'educazione, tenuto insieme da una
'analoga pedagogicità' (l'uso di quest'ultimo termine è oltremodo rivelatore), ossia dal
sussistere di "un comune interesse-guida conoscitivo e una stessa mentalità di fondo, che
porta ad affrontare scientificamente i problemi educativi in vista di una loro concreta e
storica soluzione, pur nel rispetto della tipicità e autonomia di ciascuna disciplina, non
sempre direttamente finalizzata ad applicazioni operative" (p. 75) i
Del resto, lo stesso Nanni, a distanza di una quindicina d'anni (1998), ponendo l'accento
sugli insuccessi fatti registrare da un sistema di scienze dell'educazione rivelatosi "più
una buona intenzione ed un'aspirazione che una realtà effettiva ed attuata" (p. 31), e che
sembra addirittura aver accresciuto il distacco dall' "esperienza quotidiana dei processi
educativi", nel registrare la tendenza a fare nuovamente pedagogia 'al singolare',
prospetta di fatto il riproporsi dell'alternativa pedagogia-scienze dell'educazione come
priva di rilevanza scientifica ed epistemologica e come questione da affrontare
principalmente su basi pragmatiche. Così, oltre che da ragioni di ordine teorico e storico,
l'opzione tra un'ipotesi 'sistematico-interdisciplinare' ed una 'monodisciplinaremultidimensionale' dipenderà dalla consistenza accademica della componente
pedagogica. Ma anche dall'ambito coinvolto, nel senso che se è preferibile una
multidisciplinarità interattiva in quello della ricerca, sul versante didattico conviene
forse fornire un quadro di sintesi. E si può poi "ragionevolmente pensare che un sistema
di discipline sia preferibile per la formazione di ricercatori e docenti dell'area
pedagogica, mentre una disciplina scientifica a forte spessore pratico, magari contornata
da varie discipline ausiliarie, può essere considerata più adatta per la formazione di
operatori pedagogici con specifico sbocco professionale" (p. 37).
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Se, per un verso, il 'trasformismo' di Nanni riflette fedelmente le tendenze succedutesi
negli ultimi decenni, per l'altro, non fa che confermare l'interpretazione secondo la quale
il passaggio dalla pedagogia alle scienze dell'educazione e la successiva rinascita della
pedagogia sono in realtà puramente nominali, perché interni all'area pedagogica ed
attuati senza un coinvolgimento effettivo delle altre discipline. D'altro canto, a ben
considerare, lo stesso mutamento che si è evidenziato nella posizione di Nanni, è in
effetti più apparente che reale. Per la semplice ragione che, nel sistema di scienze
dell'educazione da lui prospettato negli anni ottanta, mentre la pedagogia si poneva sullo
stesso piano delle altre competenze specialistiche (facendosi carico dello studio della
metodologia generale dell'educazione), le funzioni da essa in precedenza esercitate (ivi
comprese quella di analizzare criticamente i discorsi delle diverse discipline
uniformandone il linguaggio, e di dare un senso ed un orientamento unitario ai progetti
educativi) venivano attribuite ad una filosofia dell'educazione da collocarsi
preferibilmente accanto, piuttosto che tra le scienze dell'educazione. Curiosamente, è il
caso di osservare, la scelta delle scienze dell'educazione non veniva considerata
incompatibile con l'attribuzione alla filosofia dell'educazione della funzione oggi
rivendicata per una pedagogia generale di matrice eminentemente filosofica.
Per chiudere su questo aspetto, merita infine di essere ricordato il manuale scritto da
Riccardo Massa (1990) e da altri pedagogisti dell'Università statale di Milano (D.
Demetrio, P. Mottana, A. Rezzara, M.G. Riva), il cui titolo "Istituzioni di pedagogia e di
scienze dell'educazione", se, per un verso, vuole indicare "tanto una attenzione agli
aspetti più generali ed essenziali dei fenomeni educativi, quanto quella a tutte le
componenti principali", e se non fa che riflettere la nota diffidenza di Massa per
l'infatuazione di tanti pedagogisti per un approccio psicologico o sociologico ai problemi
educativi, per l'altro, risente con ogni probabilità delle trasformazioni che, sul finire
degli anni ottanta, avrebbero interessato la nostra università. Proprio in questo periodo,
giova ricordarlo, veniva istituito il Ministero dell'Università e della ricerca scientifica e
tecnologica. E prendeva le mosse quel processo di autonomia dell'università destinato ad
incidere profondamente su assetto e ruolo di questa istituzione, in particolare per quanto
concerne l'offerta formativa. Come si ricorderà, poi, proprio in questo periodo il
preesistente corso di laurea in Pedagogia della facoltà di Magistero veniva trasformato in
corso di laurea in Scienze dell'educazione e veniva istituita la facoltà di Scienze della
formazione.
Eppure, ci si muove ancora nella logica delle scienze dell'educazione come questione
che riguarda esclusivamente i pedagogisti. Non per nulla, nel manuale cui si è fatto
cenno, sono appunto questi a stendere anche le parti relative alla filosofia, psicologia e
sociologia dell'educazione.
Un confronto con le altre discipline divenuto ineludibile
Il problema che si pone, in questa fase, non è tanto un problema di rapporti con le altre
scienze umane, ma piuttosto un problema di leadership all'interno dell'area pedagogica.
Qui, gli spazi e l'autorità della pedagogia generale, di impostazione eminentemente
filosofica, si vanno progressivamente riducendo, vuoi per il proliferare di una miriade di
settori specialistici decisi a rivendicare con sempre maggiore determinazione la propria
autonomia, vuoi per la tendenza della didattica e delle pedagogie più facilmente
spendibili sul versante applicativo e professionale a proporsi come le sole in grado di
arginare le mire espansionistiche delle altre discipline (si può leggere ad esempio in
questa chiave la costituzione, nel 1992, della Società Italiana di Ricerca Didattica). La
logica secondo la quale ci si muove è però quella di sempre. Nel senso che
l'affermazione dell'identità ed autonomia disciplinare continua ad essere ricercata in
9
modo autarchico, evitando un confronto serio con le altre discipline; proclamando la
propria scientificità ma, al tempo stesso, rivendicando una condizione di irriducibile
anomalia rispetto a qualsiasi altro settore di ricerca, ivi comprese le discipline pratiche
tradizionalmente considerate 'analoganti', e continuando ad individuare nella formazione
degli educatori il proprio compito primario ed il presupposto stesso della propria
identità.
Ovviamente, la specializzazione sempre più spinta, per quanto inevitabile (oltre che in
linea con la tendenza impostasi in ogni campo di studio), non è in grado, di per sé, di
assicurare uno status scientifico. Per un approccio che intenda qualificarsi per la capacità
di cogliere i fatti educativi, senza perdere di vista ciò che li rende effettivamente tali e
senza misconoscerne la complessità, la moltiplicazione dei settori specialistici può
risultare, al contrario, controproducente, perché rimuove appunto l'esigenza di perseguire
un taglio specificamente pedagogico ed esclude le questioni più generali, giudicate
troppo impegnative e cervellotiche. Quanto meno lasciandole nel vago. Ma, nel
contempo, appiattendosi sulle indicazioni mutuate, spesso acriticamente, dagli altri
campi disciplinari (sarebbe forse più giusto dire sulle mode del momento) e, in certo
senso, ritenendosi esentati (proprio perché fruitori anziché produttori di conoscenze) dal
rispetto dei vincoli di rigore e di coerenza teorica coi quali deve misurarsi una ricerca
che voglia dirsi scientifica. Il confronto, ammesso che questo termine risulti appropriato,
rimane sempre interno alla pedagogia.
Paradossalmente, proprio quando dovrebbe ritenersi superata, sul piano normativo, dalla
delimitazione delle sfere di influenza in ambito accademico (settori scientificodisciplinari e classi di laurea), la questione del rapporto tra pedagogia e 'scienze
dell'educazione' diviene una questione reale. Nel senso che la pedagogia, nelle sue varie
articolazioni, si trova costretta, forse per la prima volta, a misurarsi sul serio con gli altri
ambiti disciplinari: ambiti certo non disposti a venire declassati a scienze ausiliarie di
una disciplina che giudicano peraltro screditata, e che si guardano bene dal denominarsi
scienze dell'educazione, sebbene più che mai determinati ad impadronirsi di un settore,
quello educativo, divenuto troppo importante e redditizio, nella società della conoscenza
e delle nuove tecnologie, per continuare a considerarlo cosa da bambini e lasciarlo
ancora gestire ai formatori di maestri.
Si potrebbe obiettare che, proprio perché filosofi, psicologi, sociologi, antropologi, ecc.
non avvertono la benché minima esigenza di interrogarsi sul rapporto delle rispettive
discipline con la pedagogia, il discorso rimane pur sempre tra pedagogisti, e che quindi
non vi sono, sotto questo profilo, cambiamenti apprezzabili. Sta di fatto però che, nella
situazione attuale, riesce sempre più difficile, per gli studiosi di pedagogia, continuare a
confrontarsi con un interlocutore di comodo, costruito al solo scopo di rafforzare la
coesione al proprio interno e di autorassicurarsi circa il proprio ruolo e la propria
identità, oltre che, ovviamente, persuadere la clientela potenziale circa la validità del
proprio prodotto.
Una 'pedagogicità' di cui si è persa l'esclusiva
Nel regime di concorrenza spietata che si sta progressivamente instaurando anche nel
settore educativo (si pensi al business della formazione a distanza), rivendicare come
pedagogisti la titolarità privilegiata dello studio dei processi formativi (o comunque una
funzione di guida in questo ambito) semplicemente mediante petizioni di principio
riesce, com'è ovvio, sempre più difficile. Non solo. Anche gli argomenti
tradizionalmente addotti a sostegno della centralità del sapere pedagogico, muovendo
dall'esigenza di dare un senso ed un assetto unitario agli apporti delle altre discipline,
vanno profondamente rivisti tenendo conto delle trasformazioni intervenute nel modo in
10
cui da parte di queste ultime vengono affrontati i problemi educativi. È sufficiente, ad
esempio, un minimo di consuetudine con la letteratura psicologica per constatare come,
tra gli studiosi di questa disciplina, si vada sempre più diffondendo la tendenza a
considerare tali problemi in modo non settoriale ed a tener conto delle istanze di
formazione integrale ed equilibrata dei soggetti, delle finalità perseguite, dei vincoli
posti dalla situazione sociale e culturale all'interno della quale si opera, oltre che delle
credenze ed aspettative degli attori coinvoltiii.
Di grande interesse può risultare a questo riguardo la lettura di un articolo di Patricia
Alexander (2004), nel quale l'autrice, riprendendo il discorso pronunciato come
presidente della divisione di psicologia dell'educazione dell'American Psychological
Association all'incontro annuale del 2001 di questa associazione, si sofferma sulle
implicazioni per i processi di insegnamento e apprendimento (e quindi per la ricerca in
psicologia dell'educazione) di alcune tendenze che si vanno delineando nella società
postindustriale. Prima fra tutte, la tendenza a considerare l'informazione un bene di
consumo, una merce come le altre, e a non distinguere tra informazione e conoscenza. Il
che comporterà, presumibilmente, il venir meno dell'interesse per un genuino impegno
conoscitivo da parte degli studenti e per l'acquisizione degli strumenti concettuali
indispensabili per una conoscenza significativa. Ma comporterà anche crescenti
difficoltà ad orientarsi nel flusso ininterrotto di informazioni, sapendo distinguere quelle
importanti ed affidabili da quelle assolutamente irrilevanti. L'azione educativa dovrà poi
tener conto della tendenza sempre più marcata a concentrarsi sul presente,
sull'immediato, e delle conseguenze che inevitabilmente ne derivano per quanto
concerne il tempo dedicato all'apprendimento, i livelli di attenzione e la durata e stabilità
di quanto si è appreso. Ma conseguenze non meno importanti sono destinate ad avere
anche l'incapacità di distinguere tra esperienze reali e virtuali ed uno sviluppo
tecnologico col quale la ricerca psicologica non riesce a stare al passo, da un lato, e la
diversa composizione della popolazione cui si rivolge l'intervento educativo, dall'altro.
Per quest'ultimo aspetto, si tratta soprattutto di capire se, per far fronte alla dilatazione
all'intero arco dell'esistenza delle attività di insegnamento-apprendimento, sia sufficiente
applicare anche alla formazione degli adulti i modelli didattici tradizionalmente utilizzati
nella scuola o se piuttosto una trasformazione di tale portata non richieda una revisione
radicale del modo di concepire ed impostare l'intervento educativo.
Per rispondere a queste sfide, secondo la Alexander, psicologia dell'educazione e pratica
educativa dovranno stabilire un rapporto di collaborazione sempre più stretto e
produttivo per entrambe. Ma al rinnovato interesse per la pratica, dovrà accompagnarsi
una riscoperta, da parte dei ricercatori, delle origini filosofiche della disciplina, al fine di
recuperare gli elementi di saggezza prodotti in passato da questo tipo di approccio. Oltre
che nel crescente interesse per le questioni epistemologiche, tale riscoperta dovrà
peraltro comportare "sistematiche esplorazioni di ontologia, etica ed estetica e del loro
ruolo nell'apprendimento e nell'insegnamento" (p. 155)iii.
Come si può facilmente rilevare, si ritrovano qui molti degli elementi cui di solito ci si
appella per argomentare la necessità e peculiarità dell'approccio pedagogico. Il che, a
dire il vero, potrebbe rappresentare una conferma, piuttosto che una negazione, del
giudizio circa l'insufficienza delle indicazioni desumibili dalla ricerca psicologica in
senso stretto. In un saggio sul contributo della psicologia alla soluzione dei problemi
educativi, Lucia Lumbelli (1986), basandosi su un'analisi accurata di un testo sul futuro
dell'educazione, in cui Piaget sostiene la validità dei metodi attivi ed auspica il rispetto
delle istanze di sviluppo integrale della personalità e dei diritti fondamentali dell'uomo,
distingue tra indicazioni corroborate dai risultati delle ricerche realizzate dallo psicologo
ginevrino ed opzioni riconducibili piuttosto a giudizi di valore, alla concezione di uomo
11
e di società cui si ispira la proposta educativa. La stessa Alexander, d'altro canto, si
premura di precisare, a più riprese, la matrice prettamente speculativa delle sue
considerazioni.
Volendo semplificare al massimo, si potrebbe affermare, senza per questo compiere
eccessive forzature, che, come spesso succede, nonostante la collocazione disciplinare
degli autori, i discorsi da questi formulati sono spesso, in realtà, di natura pedagogica,
piuttosto che psicologica. Ma ciò, a ben considerare, più che motivo di orgoglio,
dovrebbe essere, per i pedagogisti, motivo di preoccupazione, dal momento che la
facilità con la quale si verificano simili 'invasioni di campo' non depone certo a favore
della solidità e specificità del sapere pedagogico. Per non considerare, poi, che quanto
detto per la psicologia valge anche per altri ambiti disciplinari, ivi compreso quello
economico, e che resterebbe pur sempre da chiarire per quali aspetti la riflessione sui
processi educativi attuata dalla pedagogia dovrebbe ritenersi più valida di quella
effettuata direttamente dai filosofi.
La complessità: una sfida non raccolta
Ma occorre fare chiarezza anche su un altro degli argomenti solitamente addotti a
sostegno della necessità e specificità della lettura dei processi educativi attuata dalle
discipline pedagogiche: quello basato sulla estrema complessità di tali processi e sulla
conseguente impossibilità di ottenerne una comprensione adeguata servendosi di logiche
e di modelli lineari, come sono appunto quelli utilizzati da una ricerca empiricosperimentale che si ritiene ancorata, nella sostanza, ad una concezione della scientificità
di stampo positivistico. Perché, pur non potendosi ovviamente contestare la fondatezza
dell'argomento e pur riconoscendo l'importanza che la consapevolezza di tale
complessità riveste, di per sé, per lo studio dei fatti educativi, resta pur sempre da
precisare di quali strumenti la pedagogia disponga per investigare in modo non del tutto
arbitrario le interazioni estremamente complesse in cui consiste l'educazione.
Diversamente, l'argomento 'complessità' rischia di rivelarsi soltanto un argomento di
comodo o, quanto meno, un argomento soltanto difensivo.
Non si può, d'altro canto, non tener conto del fatto che i contributi più significativi alla
conoscenza dei sistemi complessi e dei processi che in essi si realizzano provengono
principalmente da scienze dure quali la fisica, la chimica o la matematica, o comunque
da discipline che, come la biologia, rientrano pur sempre tra le scienze naturali. Così
come non si può ignorare il fatto che, fino ad ora, questa consapevolezza della
complessità dell'educazione e dei processi di pensiero in grado di comprenderla,
invocata come prerogativa del sapere pedagogico, non ha prodotto risultati apprezzabili,
né in termini di conoscenze acquisite, né in termini di metodi e tecniche di indagine da
utilizzare. E che le risorse teoriche e metodologiche sulle quali la pedagogia sembra fare
grande affidamento per rispondere alle sfide della complessità sono mutuate senza
eccezioni, e spesso in modo del tutto acritico e incoerente, da altri ambiti disciplinari.
Basti pensare alla fiducia riposta nel ricorso al paradigma narrativo ed all'approccio
autobiografico, al paradigma della conversazione, ai metodi qualitativi sviluppati dalla
ricerca antropologica ed etnografica, al rilievo attribuito al contesto ed alle variabili
situazionali da parte di alcuni filoni dell'indagine psicologica, per non parlare degli
effetti taumaturgici che talvolta sembra vengano attribuiti alla sola evocazione del
temine ermeneutica e dei suoi derivati.
E, in effetti, è a dir poco sorprendente che, specie da parte di chi addirittura individua
nella pedagogia il prototipo di una nuova forma di conoscenza, in linea con le più recenti
acquisizioni della riflessione epistemologica, non ci si chieda come mai questa disciplina
12
non abbia recato il benché minimo contributo, neppure in termini di mera prospettazione
del problema e di sollecitazioni a risolverlo, alla messa a punto di strumenti teorici e
metodologici in grado di far fronte alla complessità delle situazioni educative. E si sia
invece limitata, ancora una volta, ad uniformarsi, più o meno prontamente, alle tendenze
manifestatesi proprio nei settori di cui denuncia i limiti.
Più in generale, riesce difficile capire come si possa davvero sostenere che quelle che
vengono solitamente considerate le principali cause della precarietà e debolezza del
sapere pedagogico ne costituiscano in realtà, paradossalmente, l'elemento di forza. Che
cioè la mancanza di un apparato teorico e metodologico consolidato e di una identità
sufficientemente definita, il pluralismo esasperato degli approcci, l'assunzione
programmatica di un orientamento eclettico, l'incessante vagare tra il piano dei giudizi di
valore e quello dei giudizi di fatto, avvalendosi esclusivamente, per raccordarli, di criteri
ideologici, la dipendenza del tutto passiva dalle tendenze impostesi in altri ambiti
disciplinari, e, al limite, lo stesso senso di profonda frustrazione che da tutto ciò
inevitabilmente è prodotto garantiscano alla pedagogia quella posizione di costante
apertura e quella disponibilità a rimettere costantemente in discussione le certezze
provvisoriamente acquisite, senza le quali non sarebbe possibile trovare risposte
soddisfacenti ai problemi educativi, ossia a problemi che risentono inevitabilmente del
momento storico e del contesto culturale all'interno dei quali si pongono, oltre che del
senso che viene loro attribuito dai soggetti coinvolti.
Soprattutto, come già si è detto, riesce difficile capire come si possa davvero ritenere che
solo la pedagogia abbia imparato la lezione della epistemologia contemporanea e della
storia delle 'rivoluzioni scientifiche'. E come non ci si renda conto che l'atteggiamento di
incessante problematizzazione e di costante apertura alla novità e la disponibilità a
rimettere costantemente in discussione i propri risultati ed a verificare senza sosta la
validità ed affidabilità delle proprie procedure sono appunto tratti costitutivi dell'impresa
scientifica. E che tutto questo, però, lungi dall'esimere la pedagogia (che intende pur
sempre qualificarsi come scienza dell'educazione, nonostante le ricorrenti geremiadi
contro scienza e tecnologia) dal sottoporsi al tribunale della falsificabilità e dal rispetto
dei criteri di coerenza e di rigore senza i quali non può esservi scienza normale, la
costringe, al contrario, a rinunciare all'illusione di poter vivere soltanto il momento
rivoluzionario della scienza, e di poterlo vivere per di più esclusivamente ad un livello
metateorico; anche questo, peraltro, meramente virtuale, per l'assenza di teorie proprie
sulle quali metateorizzare. Limitarsi ad enunciare quelli che si vorrebbe fossero i pregi
del sapere pedagogico al quale si aspira, senza esplicitare con quali strumenti e modalità
ed a quali condizioni un simile risultato possa essere raggiunto non serve certo a
rassicurare chi esercita o intende esercitare il difficile mestiere di pedagogista o di
educatore.
Non prediche e divulgazione ma ricerca
Un ultimo tratto, tra quelli ritenuti distintivi dell'approccio pedagogico, sul quale
conviene senz'altro soffermare l'attenzione, consiste nell'impegno per la salvaguardia
dello spazio per un'azione autenticamente formativa, perché basata sul rispetto della
libertà degli educandi e sul desiderio di prendersi cura di loro, piuttosto che
sull'applicazione di schemi deterministici, volti a conformare invece di formare: uno
spazio che si considera sempre più minacciato dal prevalere di istanze efficientistiche,
cui la stessa ricerca empirica in campo educativo risulterebbe asservita.
Vi è addirittura chi, come Meirieu (1996), considera il momento psico-pedagogico una
negazione dell'educazione ed individua nella sollecitudine per l'infanzia e nella
considerazione della resistenza dell'educando alle proposte e imposizioni dell'educatore
13
la tematica comune del discorso pedagogico. Non si dà educazione, egli afferma, senza
volontà di rischiare da parte dell'educatore e senza che questi abbia vissuto esperienze di
esclusione. Per questo, la fonte principale del sapere educativo va individuata nelle opere
letterarie, non nelle scienze dell'educazione, il cui compito, se mai, consiste nell'aiutare
l'educatore a considerare in modo più realistico i risultati del proprio lavoro e le proprie
aspettative, e neppure nella filosofia, la cui analisi dei fatti educativi risulta priva di
spessore umano.
Non si può certo negare l'esistenza in simili affermazioni di un fondo di verità. Non per
nulla si tratta di motivi ricorrenti nella letteratura pedagogica. Oltre a segnalare
l'attenzione crescente che alle istanze peculiari dell'educazione viene prestata anche
dagli altri ambiti disciplinari, preme tuttavia evidenziare che, se si adotta questa
prospettiva, come pure l'altra, condivisa dallo stesso Meirieu, che sancisce il primato
della pratica, vi è effettivamente il rischio che la pedagogia come disciplina accademica
finisca per venire svuotata di un qualsivoglia significato. Nel senso che nessuno meglio
dell'educatore può essere in grado di comprendere le situazioni nelle quali è coinvolto, e
di intervenire su di esse sulla scorta di informazioni adeguate sulle variabili in gioco; e
che soltanto a lui è data la possibilità di prendersi cura concretamente dell'educando,
impegnando la propria affettività, oltre che la propria intelligenza e saggezza, e sapendo
cogliere ogni occasione propizia per orientare il rapporto nella direzione desiderata.
Se il compito del pedagogista si riduce a rammentare quale dev'essere il senso
dell'azione educativa, a proporre finalità ed obiettivi coerenti con una data concezione
del mondo, a richiamare la necessità di una postura critica, a divulgare saperi altrui, a
conservare la memoria di iniziative coronate da successo (ma pur sempre da adattare a
situazioni diverse), salvaguardare l'identità di questa figura, in una fase di sempre più
accentuata concorrenzialità quale è appunto l'attuale, diviene in effetti alquanto
problematico. Se non altro diviene impossibile, per chi abbia un minimo di onestà
intellettuale, sostenere che lo svolgimento di tali compiti possa venir qualificato come
lavoro scientifico o, più genericamente, come attività di ricerca.
La comparsa sulla scena della progettualità e dell'indagine educative di discipline
davvero 'altre' rispetto alla pedagogia ed ai sistemi di scienze dell'educazione da questa
costruiti costringe a ripensare radicalmente il modo di affrontare il problema della
specificità del sapere pedagogico e del rapporto che esso instaura, da un lato, con gli altri
saperi e, dall'altro, con la prassi educativa. Ma, sempre che non ci si accontenti di 'tirare
a campare' in attesa di tempi migliori o che non si creda davvero di poter salvaguardare
l'identità ed il ruolo professionale dei pedagogisti con disposizioni di legge, la strada da
percorrere sembra essere una sola: quella che impegna a porre le basi per una pratica
pedagogica intesa soprattutto come lavoro di ricerca, come tentativo di individuare
giustificazioni non arbitrarie del successo o dell'insuccesso degli interventi educativi,
schemi interpretativi in grado di reggere la prova dei fatti oltre che quella della coerenza
del discorso. Ciò presuppone ovviamente che la natura ibrida della competenza
pedagogica venga resa davvero feconda. Che cioè tra componenti filosofico-speculative
e componenti empirico-sperimentali di tale competenza si instauri un rapporto di
scambio reciproco, che veda le seconde contribuire alla individuazione di problemi
teoreticamente rilevanti e la prima contribuire alla precisazione di ipotesi vagliabili
empiricamente. Il che implica la rinuncia da parte della pedagogia generale alla pretesa
di esercitare di diritto, invece di guadagnarselo eventualmente sul campo, un ruolo di
leadership nei confronti degli altri settori dell'area pedagogica, analogo a quello che si
era attribuito per orientare e coordinare gli apporti delle altre discipline.
14
Potrebbe essere questa la strada per stabilire anche con queste ultime quel confronto, se
non proprio quel rapporto di collaborazione che una pedagogia concepita e praticata
esclusivamente come sapere 'professionale' non è stata fino ad ora capace di instaurare.
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i
"In questo orizzonte di senso il passaggio dalla pedagogia alle scienze dell'educazione rappresenta non
solo un fatto di specializzazione scientifica, volta ad affermare un approccio necessariamente
multidisciplinare dell'evento educativo, in luogo di un'indistinta e arcaica monodisciplinarità, incapace di
stare al passo con l'attuale livello di sviluppo scientifico. E neppure è solo un'obbligata ammissione
pragmatica dell'impossibilità di arrivare ad una scienza dell'educazione, lasciando al livello 'artistico'
ultradisciplinare la composizione delle indicazioni provenienti dai diversi canali scientifici. Ma può essere
correttamente visto come un vero e proprio capovolgimento di fronte: una sorta di 'rottura epistemologica',
che nella produzione scientifica, così come in ogni altra forma di attività umana e sociale, dà la priorità
logica ai problemi più che alle prospettive d'indagine; e in rapporto ai problemi struttura le strategie e le
procedure d'indagine." (C. Nanni, Educazione e scienze dell'educazione, Roma, LAS, 1986, p. 63)
16
ii
Per quanto concerne l'attenzione sempre maggiore prestata alla dimensione educativa dalla psicologia
dell'orientamento si veda E. Bardulla, Orientamento e ricerca pedagogica, in A. Perucca (a cura di),
L'orientamento fra miti, mode e grandi silenzi, Castrignano dei Greci (LE), Amaltea, 2002, pp.127-153.
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Al rapporto tra psicologia dell'educazione e filosofia è interamente dedicato il terzo fascicolo del 2003
della rivista "Educational Psychologist".
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