Il ritorno della questione morale: gli interessi ei

Il ritorno della questione morale: gli interessi e i costi della politica.
- di Giovanni Colombo L’oggetto del mio intervento odierno è l’esame dei rapporti tra economia e politica: qual è il peso
dell’economia e del denaro nella politica? Più in particolare, qual è il posto assegnato al “denaro
politico”, cioè all’insieme dei beni e dei servizi che un gruppo deve avere a disposizione per fare
politica? Lasciando sullo sfondo la questione etico-politica, formulerò alcune affermazioni che,
evidenziando una serie di collegamenti, porteranno a conclusioni più specifiche.
Affrontando il tema del denaro, dovremmo mantenere un approccio molto freddo, senza il solito
pudore moralistico. Partiamo dal presupposto che sono persuaso che chi fa i soldi è o il più scemo
o il più spregiudicato; derivo questa convinzione dal fatto che, uno di tanti esempi, tra coloro che
frequentavano con me la 3^B alla scuola media di Agrate Brianza, quelli che hanno fatto più soldi
sono i più sbruffoni della classe e quelli che studiavano meno. A ciò va certamente aggiunta la
persistente influenza di quell'aspetto della formazione cattolica che vede, laddove c’è denaro, lo
spettro del diavolo o la corruzione o comunque un tipo di degenerazione.
Inoltre, vorrei fare un discorso freddo per capire perché nei grandi libri si legge che il denaro è “ il
latte materno” della politica. Questa frase -non so quanto ortodossa- è pronunciata da S. Teresa
d’Avila: “Io da sola non valgo nulla, io e Dio possiamo fare molto; io, Dio e i soldi possiamo fare
tutto”. Sembra, dunque, che il passaggio decisivo sia l’avere a disposizione del denaro.
Ho pensato di darVi tre quadri di ciò che è successo in questi anni circa la rovente questione del
rapporto economia/politica così da avvantaggiarci, nel discorso, di situazioni esemplari. Questi
sono: tangentopoli, che tenterò un po’ di sintetizzare; la situazione attuale; la mia posizione rispetto
a come dovrebbero essere le cose, verificando se la mia teoria ha possibilità in futuro o se è solo
un sogno.
Allora, Vi presento ciò che io ho capito di tangentopoli. Tangentopoli non è stato solo un episodio o
una serie di episodi di corruzione, ma è stata la corruzione sistematica e continua, che Di Pietro ha
chiamato “dazione ambientale”, è stata una costante come un ritornello, non un’eccezione, bensì
la regola, non un elemento del quadro, ma il quadro. Entro un dato contesto, la necessità di pagare
era diventata come un’abitudine del luogo, una prassi della quale non ci si accorgeva neanche più,
tanto erano “normali” corruzioni o concussioni. In qualche modo, noi ci siamo affezionati
all’espressione “tangentopoli come il regime della corruzione”, affermazione molto forte che era
sempre vista come esagerata, ma che, in effetti, rappresentava una realtà che era -per così direnon solo coperta di polvere, ma ormai completamente sommersa. Per reagire all’accusa di avere
una visione esagerata della situazione, noi che eravamo impegnati direttamente contro i corrotti
del “partito unico lottizzatore” citavamo sempre una pagina all’inizio del Diario di un curato di
campagna1; in un dialogo, il vecchio parroco dice a quello giovane: “Guarda che il mondo non è
l’altarino del Corpus Domini e non devi fare come la mia perpetua che non si accontentava di
combattere la polvere, ma voleva eliminarla tutta… allora continuava a scopare, scopare, scopare
e a furia di scopare il cuore gli è scoppiato. Non devi comportarti così perché la polvere ci sarà
sempre, il mondo non è l’altarino del Corpus Domini”. Quando abbiamo espresso le nostre
proteste contro tangentopoli, avevamo ben presente che il mondo è fatto di luci e di ombre e che ci
sono la polvere e le zone grigie, però eravamo anche persuasi che “quando è troppo, è troppo”:
c’era un regime da cui non si poteva scappare e l’unica possibilità era prendere le distanze e dire
che noi non ci stavamo.
Cosa succedeva nel sistema di tangentopoli? Da una parte, gli interessi economici pubblici
avevano come interlocutore il comitato di affari, il PUL (partito unico lottizzatore), cioè un
“partitone” con persone dalle casacche di colori diversi e dai riferimenti culturali e ideologici
diversi, ma comunque uniti dalla stessa logica di divisione del denaro e della cosa pubblici. Il PUL
influenzava gran parte della vita dei partiti, si infiltrava nelle istituzioni, nominava assessori,
guidava le macchine comunali e muoveva i funzionari che erano disposti ad entrare nella
“spartizione solidale e scientifica”. Queste istituzioni esprimevano poi le presidenze delle
municipalizzate e degli enti pubblici, sicché la lotta era su chi ricopriva queste cariche; di
conseguenza, i “veri capi” andavano sulle municipalizzate e, attraverso la presenza nelle istituzioni
e negli enti pubblici, traevano la possibilità di destinare opere e appaltare servizi alle imprese e agli
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Gorge Bernanos, Diario di un curato di campagna. Mondadori.
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operatori economici che avevano pagato il PUL. Il circuito che si era creato era uno scambio tra
denaro e favori non concedibili ed aveva due facce: la corruzione, mossa dall’iniziativa
dell’imprenditore che dava soldi al politico, e la concussione, quando il politico chiedeva
direttamente all’imprenditore.
Cosa è successo di conseguenza? Le tangenti hanno appesantito il bilancio pubblico e, al fine di
gonfiare le spese e permettere di avere il ritorno della tangente e moltiplicato l’importo, erano
attuati meccanismi quali le varianti in corso d’opera, le revisioni dei prezzi chiesti dai vincitori degli
appalti, qualità e quantità insufficienti del servizio o dei materiali da utilizzare nell’opera pubblica2.
Si capisce, quindi, che il sistema era pagato dalla collettività e che il debito pubblico degli anni ’80
ha, in gran parte, questa radice. Oltre al danno economico, venivano stravolte le regole del
mercato perché le imprese che pagavano i politici erano le sole competitive; in pratica, per
aggiudicarsi gli appalti si doveva fare parte della “cupola di imprese” che aveva un rapporto diretto
con il PUL, altrimenti si era tagliati fuori dal mercato3.
Così il meccanismo economico diveniva avariato e quello politico-democratico una farsa in quanto
vincevano solo coloro che, avendo i “mezzi idonei”, erano “sponsorizzati” dal PUL; il circuito di
questo accordo perverso tra imprenditori e PUL, però, non poteva che determinare ricadute sul
versante economico.
Ma perché questo sistema è in seguito crollato? Inizialmente nessuno credeva che sarebbe
successo, poi, grazie ad una combinazione di spinte, è avvenuto il collasso. Tre sono le cause che
si sono incrociate.
La prima è successiva alla caduta del Muro, quando ci si è sentiti più liberi di esprimersi, anche
rispetto alla propria delusione morale. La gente, che prima votava il pentapartito (per gran parte del
PUL) contro la Sinistra (vista invece come l’Est), ha potuto allora mostrare il proprio disagio, il
proprio disgusto per la degenerazione della vita politica italiana degli anni ’80.
La seconda causa è che il sistema era talmente esagerato e i costi così alti che molti degli
imprenditori hanno detto “basta”. Inoltre, in quegli anni le finanze pubbliche dovevano essere
sistemate in relazione ai parametri di Maastricht e bisognava quindi rientrare nella normalità per la
gestione del bilancio dello Stato.
Terza, c’è stato un gruppo di magistrati che, avendo accumulato elementi per tutti gli anni ’80,
sono andati fino in fondo. Così partì Di Pietro che, in possesso di una serie di dati probanti, è
riuscito a creare un varco in cui indagare quando fu preso Mario Chiesa; Borrelli mise insieme la
squadra in cui D’Ambrosio era il coordinatore, Davigo il più veloce dal punto di vista giuridico,
Colombo il più esperto nel riciclaggio e così via. Io penso che, senza di loro, le cose non sarebbero
andate allo stesso modo. L’espressione “toghe rosse”, coniata nel 1995 da Berlusconi, che aveva
prima sostenuto quelle indagini, è usata solo per screditare il pool di “Mani pulite”: Borrelli non è un
estremista, Davigo è sempre stato di Destra, Di Pietro con la Democrazia Cristiana, mentre
Colombo e D’Ambrosio erano gli unici effettivamente di Sinistra.
Così il sistema è saltato. Consideriamo ora il secondo quadro: dopo il collasso, ci ritroviamo in una
condizione diversa.
Nella situazione attuale il dato economico vince pesantemente, la politica è ridotta ai minimi
termini, l’economia è sempre più strabordante e hanno importanza quegli interessi particolari che
sono veicolati dai mass-media. I poteri economici si esprimono dando fiducia al loro personale, al
comitato di gestione, e vengono contraccambiati dal sostegno dell’opinione pubblica che,
attraverso la “gran cassa” mediatica, si convince che essi sono grandissime figure. Quando,
approfittando delle nuove leggi, il comitato di gestione diventa il personale politico delle istituzioni,
allora ha mano libera sulle nomine nelle società a partecipazione comunale, le ex municipalizzate,
e sulla destinazione delle opere e dei servizi pubblici. Mentre il comitato di gestione guida le
istituzioni, i partiti sono posti in un angolo e vengono sostenuti solo nel momento elettorale,
quando sono utilizzati proprio per “scegliere i candidati” alle cariche istituzionali.
Prendiamo il caso di Milano ad esempio. Il PUL salta, i DS vengono inquisiti o delegittimati, arriva
la Lega che, come una fiammata, muore dopo un anno perché non sa gestire le cose, poi arriva
Forza Italia che è un contenitore elettorale a valle rispetto alle logiche prevalenti, in quanto indica
come il consiglio d’amministrazione sia più importante del consiglio comunale. Nel 1997 la Sinistra
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Ad esempio, il Piccolo Teatro è costato da 11 a 75 miliardi, San Siro da 78 a 97, poi a 200 miliardi.
Nelle sue lettere, l’imprenditore Mauri, suicidatosi nel 1997, parla con amarezza di un ruolo mai riconosciuto.
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candida come sindaco Fumagalli, un giovane imprenditore, mentre la Destra non trova un
candidato; allora Berlusconi parla con Romiti, il quale gli mette a disposizione Albertini, che, a quel
punto, diventa l’uomo più forte del consiglio d’amministrazione della città (formato da Mediobanca,
Fininvest, Compagnia delle Opere e Cariplo). Partita con la comunicazione di Romiti, la
candidatura di Albertini mostra principalmente la strumentalizzazione di una simile operazione.
Diventato sindaco, Albertini si circonda di uomini di fiducia secondo la logica del consiglio
d’amministrazione, discute direttamente nel comitato di gestione insieme ai suoi fedelissimi circa le
scelte sostanziali (per esempio municipalizzate, privatizzazione, acqua, cablaggio e aree
dismesse) ed arriva in consiglio comunale solo per le cose spicciole. A Milano, “l’operazioneacqua” costa 500 milioni di euro ed è stata tutta gestita fuori dal consiglio comunale, evidenziando
ancora che il momento economico è realmente strabordante, approfittando della
commercializzazione, della forte verticalizzazione dei meccanismi istituzionali ed anche del fatto
che i partiti non sono più organizzati e giocano il loro ruolo solo durante la campagna elettorale.
Il terzo quadro sul quale vorrei lavorare rischia di essere solo utopia. Io penso che bisognerebbe
riportare in equilibrio i rapporti tra i vari pezzi del sistema, secondo il principio che democrazia è il
contrario di plutocrazia, secondo il cui schema decide chi ha i soldi, ossia gli imprenditori. Credo,
cioè, che si debba ripristinare il principio aureo della democrazia: contano tutti e decidono tutti,
secondo la regola “una testa, un voto”. E i voti, poi, si contano e non si pesano.
Per riportare in equilibrio il sistema serve un’opinione pubblica che si convinca in maniera
autonoma e non manipolata. Questo argomento riguarda i temi del pluralismo in campo
dell’informazione e della costruzione di coscienze limpide che abbiano fonti di creatività limpide, in
grado cioè di svolgere criticamente ed autonomamente il proprio pensiero. Accenno al caso della
“Rosa Bianca” perché solo coscienze di quel genere, che tutelano l’interiorità e che non hanno
inquinato la fonte della creatività, sono in grado di dire “No” al tiranno.
La storia della “Rosa Bianca” è la storia di cinque giovani studenti che, fatta una serie di letture
consigliate da un professore, alla fine del 1942 iniziano a compiere azioni di resistenza al Nazismo,
a scrivere volantini e a spedirli; lanciando il sesto di questi volantini nell’atrio dell’università di
Monaco, vennero visti dal guardiano e vennero subito arrestati e poi decapitati. E’ l’epilogo tragico
di un gruppo di persone che “si è messo contro”: per fare una cosa simile serve un rapporto critico
con la realtà e la consapevolezza della potenza che si ha dentro di sé; altrimenti, invece, si è
massa, un topolino che il pifferaio si porta in giro.
Affrontiamo allora il problema di come costruire l’opinione pubblica. Gli interessi, che muovono
legittimamente al “voler fare affari”, devono essere portati in superficie; una volta emersi, essi
esprimono, insieme con l’opinione pubblica, le idee, le aspirazioni e i progetti che vengono poi
sintetizzati nei partiti. Questi ultimi dovrebbero essere il luogo in cui le persone, sulla base di
orientamenti culturali e politici, si incontrano per mediare tra le diverse spinte della società civile. Si
tenga in considerazione, quindi, che questi ideali hanno come punto effettivo quello di fare
realmente dei partiti i luoghi di discussione deputati a raccogliere il progetto di mediazione di una
serie di spinte e contro-spinte. Con questa proposta, si presentano alla competizione elettorale per
entrare nelle istituzioni, dove ci sono momenti democratici in cui le consultazioni e le assemblee
funzionano. L’offerta di servizi ed opere secondo i criteri di trasparenza ed economicità e
quant’altro vanno effettuate in visione di una gestione diretta di alcuni interventi, così da evitare
che si diffonda l’idea che l’istituzione, per esempio il Comune, non fa più niente.
Mi interessa sottolineare che dobbiamo lavorare per ristabilire un equilibrio del genere, altrimenti
non c’è la democrazia, ma la plutocrazia. Questo pensiero è collegato alla questione del denaro
politico, cioè di come i rinnovati partiti risolvano il problema “del soldo” o del finanziamento
pubblico ai partiti; infatti, per uscire da tangentopoli serve un assetto economico diverso ed anche
un intervento per precisare quali sono gli strumenti che un gruppo politico ha a propria
disposizione per svolgere la sua azione.
Lo schema che segue spiega come può essere l’equilibrio tra soldi e partito: da una parte c’è
l’intensità del finanziamento, più o meno soldi, poi la strutturazione e l’istituzionalizzazione dei
partiti.
Ad un primo livello, da tempo superato, c’è un modello chiamato liberale (con pochi soldi e poca
istituzione), ossia il partito dei notabili dell’800, i quali avevano soldi che arrivavano dalla classe
alta della popolazione, da chi -per censo- poteva permettersi il lusso di fare politica.
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Vi è poi uno stadio più strutturato che comunque oggi non esiste più, cioè il partito di massa del
‘900 che, sul modello socialdemocratico, svolge un ruolo di integrazione sociale ed è il
protagonista della vita politica; esso poteva contare sul contributo di tesseramento di tanti iscritti e
poi sul legame con imprese che finanziavano la vita del partito.
Nel modello plutocratico, invece, ci sono molti soldi, ma il partito non è particolarmente strutturato
perché è un grande contenitore per la campagna elettorale. Come nel modello americano, arrivano
tanti soldi da donazioni private e dalle lobby economiche che stanno alle spalle del partito.
Infine, c’è il modello partitocratrico, con un partito che penetra sempre più nell’istituzione e che
attinge pesantemente dalle casse pubbliche per il proprio funzionamento.
Oggi, anche in Italia, si riscontra il modello plutocratico. “Quel poco di partito” che è rimasto, è
rimasto con i connotati del comitato elettorale finanziato dalle lobby economiche, le quali hanno un
certo interesse a potere controllare il comitato di gestione interno alle istituzioni.
La grande questione è che il denaro è il “latte materno” della politica e senza denaro non si va da
nessuna parte. Noi possiamo consolarci dicendo che, in alternativa al finanziamento, il denaro ha
un peso inferiore quando c’è molta partecipazione perché con tanti militanti cessa il bisogno di
pagare altri per la propaganda politica. Certo possiamo consolarci così, ma oggi siamo davvero di
fronte ad una nuova stagione di grande militanza tale da permetterci di tornare, se non al partito di
massa, al partito con altissima presenza di volontari?
La mia opinione, inoltre, è che dovremmo fare una cosa che invece non si farà mai in Italia, Paese
di ipocriti. Si tratta del finanziamento pubblico, diretto e indiretto, ai partiti: diretto sta ad indicare
che c’è una quota di soldi che arriva ai partiti, indiretto che questi ultimi ricevono una serie di
servizi gratuiti.
Da tangentopoli ho capito che, in politica, non sono solo importanti i fini, ma sono decisivi i mezzi.
Noi veniamo da un’impostazione in cui tanta enfasi è data ai fini, ai valori, mentre vi è distrazione,
in tantissimi casi voluta appositamente, circa i mezzi. Personalmente, ho sempre apprezzato di più
il socialista spudorato piuttosto che il “democristianone” che, su quei temi, è doppio, se non triplo,
se non addirittura quadruplo.
Quella schizofrenia non regge più ed ora è meglio dichiarare apertamente quello che si vuole.
Questo discorso politico va fatto anche nei nostri ambienti: se diciamo che certe cose non si fanno,
dovremmo poi evitare di farle, ossia, dovremmo davvero essere onesti perché siamo formati sul
principio che la politica è servizio, è un bene comune, che la questione morale è importante, ma
poi quando bisogna contenere il male ci sentiamo dire: “la ricreazione è finita, sei troppo
schizzinoso, hai sbagliato”.
Continuo a pensare che il contributo del cristiano in politica è questa coerenza tra il fine che si
proclama ed il mezzo che si usa. Non si può predicare all’esterno la correttezza e poi non viverla
nel proprio interno, non si può parlare di collaborazione e poi essere i primi a volere intorno a sé
uno staff scelto per la paura che il proprio nome possa essere oscurato dagli altri, non si può
invitare alla democrazia e poi bacchettare durante le riunioni.
Se si ha un dato fine, il mezzo non è affatto neutrale, ma è anzi il fine in costruzione che esprime il
senso di continuità tra le cose che si utilizzano durante il viaggio e la meta del viaggio.
Il punto principale che emerge da questo rapido excursus è che noi dobbiamo fare di tutto per
essere coerenti nella nostra azione perché non smentiamo il fine che continuamente predichiamo
e che intendiamo raggiungere. La coerenza tra i mezzi e i fini è, mi pare, un fatto su cui lavorare
perché non è ancora un patrimonio acquisito né nella Chiesa né, tanto meno, nella politica.
(testo non rivisto dall’autore)
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Il ritorno della questione morale: gli interessi e i costi della politica
di Guido Formigoni
Io direi di partire da un’immagine sintetica dell’esperienza storica che abbiamo alle spalle e, in
particolare, della società di antico regime della cristianità: come funzionava una società in cui c’era
una comunanza generale di valori, di religione, di fondamento della vita, come si poneva in quel
passato il problema della morale.
Il problema della morale, in quel quadro, si poneva come problema della morale di chi regnava, di
chi governava la politica; la gestione del governo, del potere, della società era un affare ristretto a
coloro che avevano per diritto divino, per tradizione, questo compito e quindi il problema era come
si faceva a garantire il fatto che il sovrano fosse morale e non fosse un tiranno, uno che uscisse
dalle regole.
Fondamentalmente si trattava di istruirlo bene, di controllarlo, di consigliarlo e in questo compito
dell’istruzione, del controllo e del consiglio si collocava Santa Madre Chiesa, la porta di guida di
questa istituzione, i valori comuni del tessuto religioso che teneva insieme la società e poteva
orientare chi governava.
Certo il rapporto tra i poteri era una cosa abbastanza complessa ma essendo all'interno di questo
universo comune le vie per rendere morale la politica, fondamentalmente, erano l'istruzione e il
consiglio verso i governanti (ad esempio la santa mafia della Compagnia di Gesù ha avuto la
pretesa di collocarsi nel ruolo di precettore dei governanti delle case regnanti europee): se
riusciamo a educare e formare queste persone alla morale si otterrà la moralizzazione della
politica.
A un certo punto questo meccanismo non ha funzionato più: la società comincia a diversificarsi e
si entra nella modernità che è un'inserzione di elementi di rottura e di pluralismo all’interno di
questo modo di concepire l'esperienza come totalmente indicato dal punto di vista religioso.
Dire che la modernità ha rotto quel sistema non vuol dire che non si pone più il problema della
morale per la politica ma vuol dire che si pone in un modo diverso.
Le due grosse linee che mi sembra di poter vedere come conseguenza di quella rottura sono:
- la linea della laicizzazione della politica, quando tendenzialmente la politica trova in se stessa
le leggi di funzionamento e non dipende più da un universo di tipo morale, di tipo religioso;
laicizzazione vuol dire distacco, separazione dei due piani.
- la linea della secolarizzazione, un linguaggio che spesso si usa in modo analogo al termine
laicizzazione ma indica invece una cosa diversa perché non vuol dire separare i due piani ma
creare una nuova fusione dei due piani, politica e morale, politica e religione, tutti all'interno della
politica, tutti all’interno delle regole secolari e non più in un quadro di riferimenti esplicitamente
religiosi.
Queste vie d'uscita, simbolicamente, per quanto riguarda il nostro problema di rapporto politica
morale significano:
- nella via della laicizzazione per fare un riferimento troviamo Machiavelli; cioè l'idea che la
moralità della politica non è esterna all'attività politica, ma si riduce nella avere successo; il fine
della politica, il fine dell’attività del Principe è conservare, conquistare prima conservare poi, quindi
lo stato e tutto quello che serve a questo fine è di per sé morale. Non c’è una morale esteriore, non
c’è nessun riferimento al di fuori di questa realtà quindi c'è separazione tra l'universo della morale
e della religione e questo universo della politica, della lotta per la conquista del potere .
Perché Machiavelli arriva a questo punto? Non è solo la giustificazione della legge della forza ma è
la reazione al fatto che le morali stavano diventando tante; non c'è una sola morale, c'è un
universo che sta diventando pluralistico e quindi non si può più avere una sola bella morale, allora
tanto vale separare il discorso pluralistico del modo di vedere il mondo della religione e della
morale dall'attività rivolta alla conquista e alla conservazione del potere. La logica è questa:
all'interno dell’attività c'è la sua unica fonte di giustificazione.
- l’altra linea della secolarizzazione del rapporto politica-morale vuol dire che la morale non viene
più esclusa dalla politica e lasciata nel campo del libero dibattito ma viene inserita ancora
profondamente all'interno della politica non più come un elemento di giudizio critico sulla politica,
ma come una morale che coincide con i fini dell'attività politica con l'assolutezza che la politica si
costruisce. Questa è la linea della politica assoluta moderna in cui l'obiettivo, che sia il partito, che
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sia la nazione, che sia la classe, assume al suo interno caratteri morali per cui non si è nella
condizione del Principe di Machiavelli che può fare a meno di riferirsi alla morale; la morale è
l'obiettivo che si deve raggiungere, ma anche la causa, la battaglia, la struttura con cui si fa questa
operazione.
Nella politica assoluta contemporanea il soggetto della morale non è più l'individuo ma è il
soggetto politico, il partito, più classicamente (ad esempio la formazione morale del comunista è
una formazione rigorosissima, dove la morale è legata all'obiettivo, all’affermazione delle linee per
cui si combatte, per il partito).
Per il partito l’individuo può anche venire meno alla morale comune, mentre il soggetto partito non
può mai venire meno alla sua moralità che è la moralità di ottenere il successo della causa; c’è una
nuova fusione di moralità e politica totalmente diversa dalla linea di separazione machiavelliana
dei due campi.
Il problema è che la politica assoluta moderna, in tutte le forme che ha assunto, diverse, variegate
(ho fatto l’esempio del comunismo ma non è l’unico, anche il nazionalismo, e ci sono state tante
altre versioni di questa moralità immanente alla causa politica) ha portato con sé i drammi e i
guasti che conosciamo; questa totale dimenticanza delle ragioni dell’individuo, questa
strumentalizzazione delle persone in vista del fine collettivo e, dall’altra parte, la laicizzazione
crescente hanno mostrato il limite dell'assenza di riferimenti, dell'assenza di controllo dell’attività
politica, perché il Principe non ha più nessun vincolo e quindi sia separare morale e politica che
tornare a unificarle così strettamente all’interno di una battaglia, di una causa si sono mostrate vie
molto problematiche per la morale.
Vediamo dunque qual è stata la riflessione più recente dopo la consumazione dei totalitarismi e
dopo la verifica dei guasti della laicizzazione totale della politica:
- qualcuno ha cercato di dire che questa è in fondo una versione addolcita della visione
machiavelliana: l’unica morale che la politica si può permettere è quella di rispettare le regole,
quella più formalistica. C'è tutta una riflessione della democrazia contemporanea che insiste su
questo: una volta che si rispettano le regole, una volta che la democrazia funziona col principio
di maggioranza e minoranza, di bilanciamento dei poteri, di separazione dei poteri, si ha il
massimo di moralità che la politica si può permettere. Questo in fondo non è molto diverso
dalla laicizzazione di tipo machiavellico; l’unica differenza è che il principe di Machiavelli è
vincolato anche dalle regole, qui, invece, le regole diventano un minimo punto di riferimento,
ma il passo avanti non è molto sentito.
- qualcun altro ha cercato di fare qualche passo in più, riflettendo sul ruolo dell’individuo che fa
politica, che si assume un compito politico: all’interno di questo orizzonte che rapporto può
avere con la morale?
- questa è in fondo la riflessione di Max Weber, quando nell’immediato primo dopoguerra scrive
"La politica come professione"4 e si pone proprio questa domanda: non bastano le regole per
garantire una moralità della politica, nello stesso tempo la politica assoluta rischia di travolgere
la morale. Egli ragiona sul fatto che il politico, l’uomo che vuole “mettere mano agli ingranaggi
della storia” ha un forte ruolo di responsabilità progettuale: il politico non può trascurare la
dimensione etica, ma introduce questa distinzione famosa tra l’etica della convinzione e
l’etica della responsabilità:
- l'etica della convinzione è obbedire ad un imperativo di tipo morale: io sono convinto che
questo è giusto e quindi posso seguire questa linea
- l'etica della responsabilità vuol dire, invece, farsi guidare da una convinzione generale, dalla
domanda sulle conseguenze delle proprie azioni; responsabilità vuol dire essere in grado di
rispondere alle conseguenze delle scelte assunte; in questo senso è più sottile, più articolata e
meno rigida dell’etica della convinzione che vuol dire che io posso assumere una serie di
scelte che apparentemente hanno un contenuto morale non chiaro se sono convinto che la
conseguenza si tradurrà in un bene maggiore rispetto al precedente .
Quindi l’etica della responsabilità non è contrapposta all’etica della convinzione, come si sente dire
in modo scorretto, quasi che la responsabilità sia una cosa diversa dalla morale, ma è un modo
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Max Weber (a cura di Carlo Donolo), La politica come professione, Anabasi, Milano 1994
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diverso di considerare la moralità delle proprie azioni: queste non devono rispondere a un criterio
astratto ma a un criterio concreto e degno di verificabilità delle conseguenze.
L’etica della convinzione identifica la propria azione con l’Assoluto, il Massimo, il Bene: se io sono
convinto che sia giusto volere la pace non posso che fare questa scelta.
L’etica della responsabilità prende in considerazione il fatto che fare e volere la pace in politica non
è immediato, ma chiede di porsi la domanda: come mi posso avvicinare, come è possibile il bene
che posso raggiungere nei confronti della pace rispetto alle scelte che faccio.
In questo senso ci sono due tipi di ragionamento:
- questo discorso sull’etica della responsabilità non va distinto da altre due cose importanti, ovvero
che il politico vero è il politico che è dotato di altri due elementi fondamentali: da una parte la
lungimiranza, lo sguardo lungo sulla capacità di vedere la lunga distanza di quello che si va a
costruire e, in secondo luogo, la dedizione a una causa, a un obiettivo che vada al di là della
conservazione del potere per se stessi.
Mettendo assieme questi elementi Weber identifica una visione che è da una parte consapevole
dei limiti e anche relativamente pessimistica riguardo alle possibilità che il politico ha, ma allo
stesso tempo ha questa forza di volontà legata all’idea del politico che è colui che comanda, con
elementi anche verticistici, la politica. In questo senso il discorso ci fa fare dei passi avanti rispetto
all’impasse iniziale tra laicizzazione secolarizzazione: si potrebbero citare altre riflessioni che
hanno fatto fare ulteriori passi avanti rispetto a Weber. Un teologo protestante, Bonhoeffer,
aggiunge che non è solo il capo che comanda, che assume su di sé le responsabilità di una
decisione, ma si tratta di un coinvolgimento totale della vita che è chiesto al politico come è chiesto
a tutti gli uomini, quindi non solo nella scelta e nella decisione di chi comanda, ma anche di
chiunque compia qualsiasi minima scelta politica c’è questa necessità di un’etica della
responsabilità.
- seconda cosa, la responsabilità non può essere considerata solo nei confronti di una causa
astratta, di un obiettivo da raggiungere, ma deve essere considerata nei confronti di uomini e
donne concreti, in che misura cioè le conseguenze della mia scelta non solo ottengono un bene
rispetto a una causa, ma ottengono un bene per uomini e donne concreti.
Si potrebbe ancora dire, questa volta con una grande pensatrice, Simone Weil, che il politico
ragiona nella logica dell’etica della responsabilità perché c’è un obbligo fondamentale nei confronti
di tutti gli altri esseri umani che viene prima della morale, un obbligo che si fonda sul fatto che la
società non è solo un insieme di individui ma è un elemento che ha una forza trascendente rispetto
all’insieme degli individui. In questo senso usciamo anche un po’ dall’individualismo di Weber,
vediamo il politico come colui che si fa carico di quest’obbligo nei confronti degli altri uomini perché
si parte dalla convinzione che esista questa fondamentale struttura trascendente della società.
Senza è più difficile immaginare la moralità del singolo alle prese con i problemi della società.
Queste sono tutte riflessioni che storicamente abbiamo alle spalle e ci fanno fare dei passi avanti
rispetto al dilemma iniziale: non è più riproponibile il modello della morale per i governanti o di
condivisione delle regole generali della società religiosa; laicizzazione e secolarizzazione hanno
portato problemi e allora come trovare il modo di ricucire politica e morale e quale tipo di ulteriore
tentativo di attualizzazione si può fare in questa logica?
Considerati questi riferimenti ho provato a elaborare alcune riflessioni:
- la prima riguarda l’unità dei valori all’interno di una società. L’identità non è scontata e noi come
facciamo a garantire che ci sia un rapporto tra morale e politica al di là delle scelte del singolo
politico?
Il ragionamento di Weber vale per chi si impegna concretamente ma se noi guardiamo il discorso
dal punto di vista della società del pensiero che tipo di possibilità c’è di condizionare la moralità dei
governanti, la moralità della politica? Siccome non possiamo dare per scontata questa unità di
punti di vista diversi (non c’è una sola morale, ci sono tante morali, c’è il mercato delle convinzioni
sui modi di volere il bene delle altre persone, non siamo tutti d’accordo su cosa sia bene), da
questo problema si esce solo se si prende sul serio la logica della costruzione del consenso
della comunità. Non si può trovare un’altra scorciatoia per portare la morale all’interno del discorso
politico nel mondo moderno che quella del paziente consenso della società intorno al modo che
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noi abbiamo di vedere il bene degli uomini e delle donne che vuol dire poi tornare al rapporto tra
partiti e opinione pubblica: come costruire un nuovo circuito?
Non c’è possibilità diversa di condizionare l’aspetto morale della confidenza, non si può dare per
scontato che ci siano altre forme, possiamo confidare nella popolarità dei politici ma non più di
tanto, e allora un modo serio è quello della costruzione del consenso nella società che si situa ad
un livello molto diverso dalla tradizione in cui si poteva collocare tra il governante e la religione; il
problema è che la religione, la morale cristiana, si colloca all’interno di questo dibattito.
- un secondo punto è la questione dei contenuti, l’etica della responsabilità come la morale del
politico. Ma quali contenuti ha questa moralità ?
E’ difficile avere una visione onnicomprensiva di un riferimento morale per la politica; il discorso
dell’etica della responsabilità porta a dire che è all’interno dell’attività politica che si scoprono i
riferimenti della morale e quindi non ha molto senso fare l’elenco dei valori che i politici tengono
per sé perché è dall’interno dell’attività politica che si costruiscono in concreto i rapporti fra i valori,
le scelte di priorità, gli equilibri tra i diversi valori.
Nel linguaggio corrente, invece, anche da parte del magistero ecclesiastico, per noi si corre il
rischio spesso di fare la tavola dei valori di riferimento per cui ci stanno dentro tutti: la libertà, la
giustizia, la pace, .. ma poi in concreto che cosa vuol dire per un politico perseguire quella tavola di
valori?
Vuol dire, all’interno delle scelte e nella logica dell’etica della responsabilità, costruire delle priorità,
degli equilibri che magari, a seconda dei dati che in una certa società ci sono, cambieranno perché
non ci è dato maneggiare integralmente quella tavola di valori.
La posizione del politico è una posizione limitata; questo vuol dire che il contenuto della morale è
un contenuto sempre progettuale, da costruire politicamente con i mezzi della progettualità politica
e non astrattamente fissabile in una specifica tavola dei valori.
- il terzo punto riguarda i tentativi di attualizzazione. Se è vero che etica della responsabilità vuol
dire porsi il problema delle conseguenze, il problema dei mezzi che si utilizzano, il problema che i
mezzi non sono più indifferenti perché sono quelli che permettono di costruire gli obiettivi, i fini e
quindi sono come un seme rispetto alla pianta, allora la grande attenzione della moralità di chi fa
politica o di chi deve scegliere rispetto alle idee che ci sono è nel senso di valutare attentamente i
mezzi dell’attività politica. E questo nel senso di abituarsi in modo virtuoso a decidere dei mezzi
della politica più che non avere grandi visioni complessive della morale, avere gli "abiti virtuosi",
per dirla con un’espressione di Dossetti, le attitudini interiori profondamente maturate a discernere
i mezzi, a discernere sulle scelte, sulle occasioni che ci sono e quindi a sapere che, nel concreto
della battaglia delle soluzioni che ci sono, conta di più questa “attitudine virtuosa” che non
centinaia di declamazioni di tavole di valori .
- l'ultimo punto riguarda la questione radicale dei limiti della politica (su questo argomento
torneremo nel prossimo incontro): se noi abbiamo questo complesso di ragionamenti che ci
permette di ritenere la politica come una realtà non separata dalla morale, non distinta, non
impermeabile alla morale, sappiamo anche che si tratta di ragionamenti che convergono tutti
nel dire che la politica non riuscirà mai a realizzare un universo pienamente morale; quel bene
degli uomini e delle donne concreti è sempre qualcosa a cui tendere che non si può mai
immedesimare totalmente con la realtà. E' bene quindi maturare questa consapevolezza della
precarietà, dei limiti, della non capacità di realizzare il bene assoluto, per evitare di tornare al
meccanismo perverso della secolarizzazione.
Una concezione diversa della morale in questo senso resta sempre una realtà che eccederà la
politica, andrà oltre il problema; significa trovare i modi di riuscire a collegare, ma sempre con
questa attenzione al limite e alla distanza, le due cose.
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