ANTICIPAZIONI - GALILEO TRA ASTROLOGIA E SCIENZA L’uomo delle Stelle Il creatore della moderna scienza sperimentale, nel 1609 strizzava ancora l’occhio all’astrologia. Nel corso della sua vita sarebbe divenuto sempre più scettico sugli oroscopi, ma al servizio di Cosimo de’ Medici doveva fare di necessità virtù e dar prova di cortigianeria. Il risultato fu che la dedica del «Sidereus Nuncius» – l’opera che avrebbe cambiato la storia della scienza, famosa perfino in Cina – è un capolavoro di astrologia e adulazione. A 400 anni dalle scoperte del grande scienziato, un nuovo libro ne ripercorre vita e strane relazioni col mondo crepuscolare degli astrologi di Andrea Albini La dedica del «Sidereus Nuncius» era composta nello stile altisonante tipico dell’epoca barocca e seguiva il modello del pronostico quattro-cinquecentesco, nel quale le autorità «venivano tutte ogni volta elevate – secondo la più consumata metafora della letteratura pronosticante – ad “astri” che effondevano influssi benigni sull’opera e sul suo autore». Si apriva con la constatazione che ogni ricordo svanisce se non è stimolato da immagini esterne e che niente era più incorruttibile degli «eterni globi di chiarissime stelle» cui sono stati dati i nomi degli uomini illustri. Seguiva un preambolo sugli aspetti «personali» di una scoperta astronomica, presentata con forti tinte di simbolismo astrologico. Non appena il granduca era salito alla sua alta carica e aveva cominciato a rifulgere sulla Terra la bellezza del suo animo, quattro nuovi astri si erano mostrati attorno a Giove. Astri che non potevano legittimamente appartenere che a lui: lo stesso «Artefice delle Stelle» dava così un segno: «Che poi io dovessi destinare questi nuovi Pianeti all’eccelso nome dell’Altezza Vostra a preferenza d’ogni altro». Il fatto che le nuove stelle fossero solo quattro non le rendeva insignificanti di fronte al grandissimo numero delle stelle fisse, perché appartenevano all’illustre ordine delle «vaganti», ossia dei pianeti. Ruotavano attorno a Giove: stella nobilissima che rappresentava per gli astrologi l’astro della temperanza e della giustizia, essendo tra Marte, il caldo pianeta della guerra, e Saturno, ritenuto invece freddo e contemplativo. Proseguendo nelle sue considerazioni astrologiche Galileo paragonava il carattere del sovrano con le virtù del benigno astro di Giove, affermando che non si poteva ignorare che «la clemenza, la mitezza dell’animo, la gentilezza dei modi e lo splendore del sangue reale, la maestà nelle azioni, l’imponenza dell’autorità e dell’imperio sugli altri» di Cosimo derivavano da questo pianeta, «subito dopo Dio fonte di tutti i beni». Lo stesso Giove che «all’apparire dell’altezza vostra, oltrepassati i torbidi vapori dell’orizzonte, occupando il punto medio del cielo e con la sua reggia illuminando l’angolo orientale, scorse da quel sublime trono il felicissimo parto, e tutto lo splendore e la magnificenza sua profuse nel purissimo aere, perché il tenero corpicino, insieme con l’anima, già da Dio fregiata dei più nobili ornamenti, bevesse col primo respiro quella universale forza e potenza». La prosa barocca di quest’ultima affermazione di Galileo trova interpretazione nel linguaggio dell’astrologia, ricordando che quando il granduca venne alla luce il suo ascendente, cioè il segno zodiacale che si trovava più a oriente nel momento della nascita, era nel Sagittario e che Giove si trovava al medium coeli, il punto più alto del grafico astrologico, indice di sicuro successo. Il riferimento alla «reggia» concerne quindi, in termini astrologici, la «casa» governata dal pianeta, il Sagittario, e forse l’accenno al «trono» indica l’importante «dignità» astrologica del pianeta. Quasi al termine della dedica, seguendo la consuetudine, il pronostico di Galileo si chiudeva con un richiamo alla prudenza: «Pure, perché io ricorro ad argomentazioni probabili, quando potrei concludere e dimostrare ciò con una ragione in certo modo inoppugnabile?». Galileo evitava di mettere avanti le «certezze» matematico-astronomiche dell’astrologia e preferiva affidarsi ai chiari argomenti dell’Artefice delle stelle: in altre parole alla provvidenza divina; sicuramente per tutelarsi nel caso qualcosa fosse andato storto. In un’epoca di Controriforma, inoltre, non era prudente enfatizzare il determinismo dell’astrologia genetliaca, specialmente rivolgendosi a una famiglia che vantava nel proprio albero genealogico alcuni pontefici della Chiesa romana. I riferimenti astrologici enunciati da Galileo erano un atto dovuto nei confronti di una famiglia potente che da sempre aveva mostrato un profondo fascino per l’occulto. Nessun altro casato regnante, scrive il filosofo della scienza Paolo Rossi, fece un uso tanto regolare dell’astrologia, in tutte le sue forme, quanto i Medici e questo interesse è testimoniato dalle rappresentazioni pittoriche nelle quali figure umane e animali alludono alle congiunzioni zodiacali e planetarie. Durante il Rinascimento il fascino per l’astrologia, i talismani, gli amuleti e gli incantesimi si impadronì delle classi più elevate e questo non avvenne solo alla corte dei Medici, ma anche a Ferrara con gli Estensi e a Milano con gli Sforza. Il filosofo e umanista Marsilio Ficino (1433-1499) fu il principale esponente del platonismo a Firenze e diede molta importanza al «potere delle stelle», ritenendo che questo poteva trasmettersi per «magia simpatica» a oggetti particolari o essere usato per creare condizioni propizie prima di iniziare determinate imprese. Ficino fu il protetto di Cosimo de’ Medici il Vecchio (1389-1464) e del figlio Lorenzo (1449-1492), il cui casato fu ai primi posti nel ritenere che la magia fosse una delle manifestazioni della realtà. In questo mondo magico i simboli astrologici erano anche un modo per trasmettere elaborate informazioni personali e pubbliche. (...) Molti dipinti mitologici, come quelli di Sandro Botticelli (1450-1510) e Luca Signorelli (c. 1450-1523), contengono riferimenti astrologici, spesso difficili da decifrare perché il loro simbolismo intendeva essere non di pubblico dominio ma riservato solo a chi li aveva commissionati. Giovanni de’ Medici (1475-1521), secondogenito di Lorenzo, una volta eletto al soglio papale con il nome di Leone X fece ornare la Sala dei Pontefici in Vaticano con un sontuoso ciclo pittorico di argomento astrologico, nel quale si celebrava il suo potere temporale e spirituale come voluto da Dio e segnato nelle stelle. Si dice inoltre che Giovanni abbia deciso il nome assunto da papa basandosi su considerazioni astrologiche. Se fino alla metà del Cinquecento i riferimenti astrologici della famiglia Medici erano destinati a una ristretta platea di nobili e colti, con il nonno del futuro Cosimo II le cose iniziarono a cambiare. Quando Cosimo I (1519-1574) divenne dapprima duca e poi granduca di Toscana, si trovò nell’imbarazzante situazione di dover giustificare la legittimità della sua posizione, dato che essendo figlio di Giovanni dalle Bande Nere – l’ultimo capitano di ventura – proveniva da un ramo cadetto della famiglia. Nel formare il suo governo assolutistico, scrive Rossi, Cosimo I utilizzò a fini propagandistici i simboli della sua famiglia in libri, stemmi e decorazioni di chiese e palazzi. Nel frontespizio del «Dialogo delle Imprese Militari e Gloriose» di Paolo Giovio (Lione, 1559), ad esempio, è raffigurato un Capricorno, l’ascendente di Cosimo, che sovrasta la città di Firenze. Il granduca si rivolse agli astrologi per conoscere il proprio tema natale e per averne pronostici in occasione dei suoi compleanni o in vista di eventi importanti. La «propaganda astrologica» di Cosimo, sostiene Rossi, fu certamente più estesa e pubblica di quella dei suoi predecessori, sebbene, a un certo punto, anche nel suo caso l’iconografia astrologica si fece più altera e separata da quella che poteva interessare la gente comune. I temi astrologici divennero indicazioni della potenza e della sapienza dei loro destinatari, con riferimenti nascosti e personali alla successione dinastica spesso comprensibili solo alla corte e ai diretti interessati. Ne sono esempio i dipinti dell’«Apoteosi di Cosimo», di Palazzo Vecchio a Firenze, in cui il granduca è raffigurato quasi come un’icona religiosa circondata da simboli astrologici. Nelle arti del XVII secolo i temi astrologici furono meno utilizzati rispetto al Medioevo e al Rinascimento, pur continuando a rimanere nella forma allusiva. Resta difficile distinguere il simbolismo di tipo astrologico da quello mitologico, perché i nomi dei pianeti sono gli stessi della mitologia greca e le «caratteristiche astrologiche» assegnate ai pianeti nell’interpretazione degli oroscopi riflettono quelle attribuite alle divinità greco-romane. In molti casi, inoltre, le raffigurazioni artistiche dello zodiaco non hanno legame con la simbologia astrologica, ma un significato più immediato: sono rappresentazioni dello scorrere del tempo e del trascorrere dell’anno in un’epoca in cui gli orologi erano congegni rudimentali e queste indicazioni si ottenevano osservando l’altezza del Sole durante il giorno o la posizione delle costellazioni di notte. Secondo lo storico Mario Biagioli, Galileo seppe agire da cortigiano consumato nei confronti del suo ex allievo divenuto granduca, utilizzando abilmente il «linguaggio di corte» nella dedica del «Sidereus Nuncius» per collegare la scoperta dei satelliti di Giove alla mitologia preesistente sulla dinastia medicea. Ma non tutti gli studiosi sono d’accordo con l’affermazione che in questa mitologia Giove fosse regolarmente associato con Cosimo I, fondatore della dinastia e primo degli «Dèi medicei», e che, trovandosi il pianeta all’altezza dell’orizzonte al momento della nascita del nipote, ciò simboleggiava la trasmissione delle sue virtù. Robert Westman ha fatto notare che fu Giorgio Vasari, illustrando le «invenzioni» da lui dipinte nel palazzo dei Medici, a dire che il pianeta «speciale» di Cosimo I era, in realtà, Saturno. Ed è un fatto che il segno più importante nell’ascendente del granduca era il Capricorno. Entrambi questi simboli figurano in modo prominente nell’iconografia medicea della metà del Cinquecento. Secondo Westman, le presunte connessioni tra Giove e Cosimo I sono nella migliore delle ipotesi tenui e, nella peggiore, inesistenti. Nei dipinti della «stanza di Giove» il pianeta figurava piuttosto come un intermediario e, se anche Galileo aveva conosciuto l’interpretazione espressa dal Vasari, non ne fece cenno nella dedica del «Sidereus». Sebbene Giove figurasse nella mitologia astrologica medicea, non era il Dio più importante. La propaganda di corte, sostiene la studiosa Isabelle Pantin, puntava molto più sui legami della famiglia con il battagliero Marte, il protettore di Firenze che aveva il segno dell’Ariete – tradizionale domicilio del pianeta – all’ascendente della fondazione della città, e con Saturno, il Dio dell’«Età dell’Oro», protettore dell’Imperatore Augusto, che al pari di Cosimo I aveva avuto in ascendente il segno del Capricorno, domicilio di quel pianeta. Nel «Sidereus» Galileo utilizzò lo stratagemma di enfatizzare il ruolo di Giove nel tema natale di Cosimo II, ma non fece allusione agli antenati del granduca tranne che alla fine dell’introduzione, per dire però che non si sarebbe pronunciato su questo argomento. Ciò non aiuta a chiarire fino a che punto Galileo si appoggiasse ai riferimenti planetario-mitologici preesistenti con cui i Medici si celebravano; ma certo fu bravissimo a presentare la scoperta dei satelliti di Giove come un ulteriore segno della potenza di questa famiglia. Le «stelle medicee» comparvero come emblemi dinastici in poesie, affreschi, medaglie e rappresentazioni teatrali. Giovanni Villifranchi, descrivendo uno spettacolo durante il carnevale del 1613, racconta come vi apparissero anche le quattro stelle che circondavano Giove, scoperte dal matematico del granduca, dedicate rispettivamente a Sua Altezza e a i principi Francesco, Carlo e Lorenzo. Le sorti dei pianeti di Giove raffigurati come emblemi dinastici dei Medici cominciarono a declinare solo quando la salute del granduca prese ad affievolirsi e i problemi di Galileo con la Chiesa, causati dal suo appoggio al sistema copernicano, si fecero palesi nel 1614. Quando nel 1621, alla morte di Cosimo II la moglie Cristina assunse la reggenza, negli ambienti di corte si impose un clima più austero che ridusse, anche se non eliminò completamente, questo tipo di simbolismo mitologico-astronomico. Tra gli astronomi contemporanei di Galileo, sia Brahe che Keplero utilizzarono talvolta riferimenti astrologici nelle dediche delle loro opere, ma solo il secondo dei due fece riferimento all’oroscopo del suo protettore. Lo studioso Darrel Rutkin ha ipotizzato che nella dedica a Cosimo II Galileo si sia ispirato alla prefazione con la quale Keplero dedicò a Rodolfo II l’«Astronomia nova», nel 1609. (...) È probabile, sostiene Rutkin, che nella vicina Padova il matematico dello Studio della Repubblica veneta si sia interessato a un’opera, come quella del famoso astronomo imperiale, che parlava del moto dei pianeti attorno al Sole. In effetti, una copia dell’«Astronomia nova» compare nell’inventario della biblioteca di Galileo eseguito da Antonio Favaro. Considerando che in una lettera del primo ottobre 1610 all’ambasciatore a Praga Giuliano de Medici Galileo richiese alcuni libri di Keplero ma non questo, possiamo immaginare che la conoscesse già. Galileo cominciò le osservazioni di Giove il 7 gennaio 1610 e una settimana dopo si rese conto che il pianeta aveva quattro satelliti. Poiché il «Sidereus Nuncius» fu completato all’inizio di marzo, evidentemente lo scienziato pisano ebbe il tempo di leggere la dedica di Keplero all’Imperatore e trarne forse ispirazione. Rutkin ha individuato sorprendenti similitudini strutturali nel punto in cui le dediche del «Sidereus Nuncius» e dell’«Astronomia Nova» rendono entrambe omaggio al protettore attraverso il suo oroscopo, per distaccarsene e seguire poi la strategia retorica considerata più forte dai rispettivi autori. Val la pena osservare che, al di là dell’analoga strategia generale, Keplero prese le distanze dall’astrologia – beninteso, dopo aver fatto l’oroscopo di Rodolfo – dichiarando che se ne disinteressava per non offrire occasioni di scontro agli astrologi e aggiungendo che preferiva occuparsi di astronomia. Galileo, invece, si distaccò dal pronostico genetliaco per affidarsi alla provvidenza divina. La differenza deve forse molto alla diversità delle situazioni religiose e politiche in cui i due matematici si trovavano a operare. Della prossimità tra la corte fiorentina e il Vaticano abbiamo già detto. Il regno di Rodolfo II fu caratterizzato da una notevole apertura confessionale e da un interesse per le arti magiche e l’astrologia. Keplero si considerava un rinnovatore dell’astrologia, avendo elaborato un modello ottico-geometrico dei meccanismi d’azione, e riteneva che per la maggior parte chi faceva oroscopi fosse un ciarlatano. È forse per questa ragione che nel rivolgersi al suo augusto mecenate preferì il più rispettabile ruolo di «astronomo imperiale», che aveva dato tanto prestigio a Brahe soprattutto per le sue minuziose osservazioni. Da ultimo, è ironico osservare che se Galileo ritoccò di venti minuti l’oroscopo di Cosimo II per ottenere che Giove dominasse la genitura al medium coelum, nel caso di Rodolfo II Keplero esaltò il ruolo di Marte ma senza dichiarare dove il pianeta effettivamente si trovava nella genitura. Evidentemente, osserva Rutkin, l’astronomo imperiale non era interessato a presentare un quadro completo e accurato della natività di Rodolfo, perché questa avrebbe rivelato anche i suoi punti deboli. Quel che gli premeva era piuttosto concepire una strategia retorica ben congegnata in cui Marte, per ovvie ragioni, giocava un ruolo dominante sia negli esiti delle indagini astrologiche che nel modo con cui era presentato all’Imperatore. Sarebbe sbagliato giudicare l’adulazione di Galileo verso Cosimo II con i criteri di valutazione attuali. A quell’epoca la figura dello scienziato professionista semplicemente non esisteva: cercare un protettore era normale e tutti lo facevano senza problemi. Galileo, non potendo sperare di essere premiato solamente per il valore scientifico della sua scoperta, dovette presentarla come una «meraviglia esotica», da abbellire con riferimenti mitologici, astrologici ed espedienti retorici. Aggiungendo a questi fattori la sua cronica insicurezza economica, non possiamo considerarlo cinico se, nella sua ricerca di tranquillità, non si fece problemi a presentarsi come un astrologo di corte alla vecchia maniera. Bisogna poi considerare che, se trascuriamo la dedica, la rimanente parte del «Sidereus» non contiene nulla di arcano. Si tratta piuttosto di un trattato di pura astronomia descrittiva, in cui traspare lo stesso stupore che proverebbe ancora oggi chi per la prima volta osservi il firmamento con un binocolo. Galileo perfezionò il telescopio e per primo lo puntò in direzione delle stelle. Facendo questo, compì un gesto rivoluzionario e lanciò una sfida a tutti coloro che credevano in un firmamento stabile e immutabile. Non meraviglia che alcuni dei suoi avversari semplicemente si rifiutassero di guardare attraverso lo strumento e non provassero nessuna emozione alla pubblicazione dell’opera che ne era scaturita. L’atteggiamento mentale di questi filosofi rendeva loro impossibile prendere sul serio un libro di sole osservazioni, senza che vi fossero mescolate, com’era consuetudine, argomentazioni metafisiche o filosofiche. La nuova astronomia di Galileo faticò a far breccia tra le vecchie convinzioni. Un esempio emblematico fu la persistenza dell’idea aristotelica che l’Universo fosse formato da «sfere cristalline». Questo concetto sopravvisse nel mondo accademico e iniziò ad affievolirsi nel corso degli anni venti del Seicento, per scomparire definitivamente solo nel decennio successivo. Ciononostante, il «Sidereus» fece molta impressione sui contemporanei. Secondo Marjorie Hope Nicolson fu il libro più importante del Seicento per i suoi effetti sull’immaginazione. Nel 1612 l’opera era arrivata a Mosca e in India e tre anni dopo fu riassunta anche in lingua cinese. Nel 1631, cannocchiali per uso astronomico furono visti in Corea e, sette anni dopo, in Giappone. Nel 1640 la fama scientifica di Galileo in Cina era tale che il suo nome era stato traslitterato in «Chia-Li-Lueh». Subito dopo la pubblicazione del volume, Galileo ricevette un gran numero di lettere da amici e conoscenti. Gli scrisse Ilario Altobelli, l’astronomo che aveva discusso con lui le osservazioni della nova del 1604, dicendogli che il libro aveva provocato un tale strepito da risvegliarlo dal torpore in cui era caduto. Da Napoli, Orazio del Monte paragonò la scoperta a quella di Cristoforo Colombo e lo stesso fecero l’accademico dei Lincei Johannes Faber e l’ex allievo inglese Thomas Seggett, il quale aggiunse che il matematico italiano aveva reso divini i mortali permettendo loro di raggiungere stelle conosciute fino ad allora solo dagli Dèi: e tutto questo senza spargere una sola goccia di sangue. Anche il poeta manierista Giambattista Marino (1569-1625) trovò modo di lodare Galileo in un passo del poema «L’Adone». Il cielo stesso era debitore allo scienziato, scriveva Marino, e la sua gloria sarebbe vissuta con i luminosi raggi delle stelle che «con lingue di luce ardenti e belle» avrebbero sempre parlato di lui. Molti versi che celebravano le scoperte di Galileo appartenevano alla letteratura encomiastica, allora di moda. Tra questi, un’«Adulazione Perniciosa» fu composta nel 1620 dal cardinale Maffeo Barberini (1568-1644). Nell’ode, scritta nello stile di Orazio, lo scienziato toscano era elogiato per avere scoperto al cannocchiale la vera natura della Luna, i satelliti di Giove e le macchie solari. La composizione era tutt’altro che un capolavoro letterario: scritta quattro anni dopo la condanna del «De revolutionibus» di Copernico da parte della Chiesa, non parlava del sistema copernicano ma rappresentava comunque una testimonianza di come erano buoni, in quel momento, i rapporti tra Galileo e il futuro papa, [Urbano VIII NdR] che lo avrebbe condotto ad abiurare le sue idee. Andrea Albini (Per gentile concessione di Avverbi Edizioni)