CAP. II - LE CONTRADDIZIONI DELL’IRAQ
È il secondo capitolo del libro Tempeste sull’Iraq, che ho scritto e
pubblicato nel 2003 presso l’editore Massari per contrastare la
campagna di disinformazione che aveva preparato l’impresa
imperialista. Scritto a caldo, ma mi sembra che regga ancora oggi, e
possa essere riproposto. Il primo capitolo è stato inserito nel sito col
nome Iraq. Le vere ragioni di una guerra insensata. (13/10/2009)
Un cenno alla storia più antica
Tra le ragioni che possono avere spinto gli Stati Uniti a mettere l’Iraq in testa alla lista degli “Stati
canaglia” (Rogue States) c’è anche la sua relativa vulnerabilità. Si tratta di uno Stato minato da
profonde contraddizioni, in parte legate alla sua stessa origine nel 1918-1922, mentre altre si sono
determinate in una fase più recente e si sono aggravate nell’ultimo decennio di isolamento, di
embargo e di incessanti bombardamenti.
L’Iraq, come tanti altri Stati formatisi dopo la prima Guerra mondiale, è nato mal assemblato, con
confini tracciati a tavolino dalle potenze coloniali che avevano vinto la Turchia e che solo in parte
erano basati su criteri geografici o etnici. Erano state dapprima aggregate tra loro due province
(vilayet), quella di Baghdad e quella di Basra (Bassora), con caratteristiche diverse tra loro dal
punto di vista culturale, economico, religioso.
Il nome era comparso nei primi decenni del XX secolo, ad opera di un gruppo di giovani ufficiali
dell’esercito turco originari della regione, che avevano costituito una associazione segreta chiamata
Ahd el Iraqi. Il termine, proveniente da un dialetto persiano, vuol dire “terre basse”, ed è
equivalente a Sawad (terre nere) in arabo.1 Era un nome riscontrabile già in poemi antecedenti alla
conquista islamica, ma più che definire una precisa formazione statale si riferiva alle ricche pianure
irrigate dal Tigri e dall’Eufrate contrapponendole al deserto arabico e alle montagne del Kurdistan.
Un missionario statunitense che operava da tempo nel paese aveva messo in guardia la scrittrice e
poi archeologa Gertrude Bell, a quell’epoca sottosegretario agli affari arabi nel governo britannico:
Cercare di tracciare una linea intorno all’Irak e chiamare “entità politica” ciò che vi è al suo interno significa
farsi beffe di quattromila anni di storia! L’Assiria ha sempre guardato a ovest, a est e a nord, Babilonia a sud.
Né l’una né l’altra sono mai state unità indipendenti. Occorre tempo per spingerle a integrarsi: è un obiettivo
da raggiungere a poco a poco.2
Naturalmente Baghdad e Basra avevano avuto spesso vicende comuni, non solo nell’Impero
Ottomano, ma anche all’interno dei numerosi imperi – a partire da quello sumerico - che si erano
succeduti in quella fertilissima “terra tra i fiumi”, la Mesopotamia, da circa seimila anni. Ma questa
è storia lontana, che ha lasciato splendide tracce archeologiche, e solo in piccola parte un’eredità
diretta a cui rifarsi per interpretare il presente. Caso mai si può osservare che in quella zona si erano
Jacques Dauphin, Incertain Irak. Tableau d’un Royaume avant la Tempête. 1914-1953, Geuthner, Paris, 1991, pp. 2324.
2
David Fromkin, Una pace senza pace. La caduta dell’impero ottomano e la nascita del Medio oriente moderno,
Rizzoli, Milano, 2002, p. 512. Cfr,. anche Corrado Maltese, Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico. 1798-1992.
Storia e problemi, Mursia, Milano, 1992, pp. 86-87.
1
10
scontrati a lungo gli imperi, ma avevano convissuto molte popolazioni semitiche come i babilonesi
e gli assiri, ed altre indoeuropee, come i persiani e i medi (a cui si riallacciano oggi i curdi).
Dal 586 avanti Cristo si era formata a Babilonia anche una consistente comunità ebraica, originata
dalla deportazione dello strato elevato della popolazione di Gerusalemme fatta da Nabucodonosor
II. Cinquant’anni dopo, l’imperatore persiano Ciro II aveva sconfitto il regno babilonese e aveva
concesso a chi volesse di tornare a Gerusalemme e di ricostruirvi il tempio, ma molti ebrei, ormai
bene inseriti, avevano preferito restare. D’altra parte il loro progenitore mitico Abramo era giunto
nella “terra di Canaan” (la Palestina) proprio da Ur in Caldea (poco a nord dell’attuale Basra). Gli
ebrei rimarranno nel paese fino alla metà del XX secolo, quando saranno travolti dalle conseguenze
delle guerre arabo-israeliane e costretti a “tornare” nella Palestina, divenuta ormai Israele.3
Più tardi su quelle terre, abitate da un gran numero di popoli diversi, si erano confrontati a lungo gli
imperi persiano e quello romano, di cui - fino alla conquista islamica - aveva raccolto l’eredità
quello di Bisanzio. Il carattere oppressivo dell’impero bizantino facilitò indubbiamente la conquista
araba e la conversione all’Islam; dopo la sconfitta dell’armata persiana a Qadisiya nel 636, la
Mesopotamia ma anche la Persia vengono inserite nel califfato Omayade con capitale Damasco. A
quella lontanissima battaglia si richiamerà Saddam Hussein al momento della guerra con l’Iran (più
o meno come Milosevic cercherà di fondare il suo nazionalismo serbo esaltando e mitizzando la
battaglia di Kosovo Polije del 1389).
Ma pochi anni dopo la conquista islamica uno scontro violento per la successione tra il califfo di
Damasco e il “partito” (shìa) di Ali, cugino e al tempo stesso genero di Maometto, conclusosi nel
661 con la morte di Ali a Kufa, determina la grande frattura tra “l’ortodossia” sunnita di Damasco
(e di quasi tutto il resto del mondo islamico) e “l’eresia” sciita, che si diffonde e si consolida
soprattutto nei territori che erano stati persiani, anche come forma religiosa della resistenza al
potere di Damasco. Ma si radica anche nel sud dell’attuale Iraq, dove ci sono i principali “santuari”
sciiti sulle tombe di Ali a Najaf, di suo figlio Hussein a Kerbela, e di altri tre dei dodici imam (capi
della comunità) riconosciuti dagli sciiti, una parte dei quali attendono il ritorno del “dodicesimo
imam”, rapito alla terra all’età di otto anni, ma presente in forma invisibile, fino al suo ritorno come
Mahdi (che vuol dire “guidato da Allah”).
Si tratta di una forma islamica di quell’atteggiamento che si riscontrava nel millenarismo cristiano
dei primi secoli, che attendeva la seconda venuta di Cristo sulla terra e disconosceva chi pretendeva
di rappresentarlo.
Quell’antica controversia religiosa ha creato le premesse di uno dei problemi di oggi, in Iran, in
Iraq, in Libano e in altri paesi. Infatti, mentre i sunniti hanno sempre tenuto in alta considerazioni i
primi califfi successori di Maometto e considerano sunna (legge) le loro interpretazioni e aggiunte
al Corano, gli sciiti li ritengono usurpatori, e hanno considerato legittimi solo i discendenti e
successori di Ali. Dopo la scomparsa del dodicesimo imam, non hanno più avuto capi politicoreligiosi come i califfi. Le implicazioni sono evidenti: al rifiuto del potere tradizionale riconosciuto
dai sunniti, si accompagna una sistematica denuncia della sua empietà e un forte radicalismo.
E le implicazioni per l’Iraq saranno ancora più gravi. La formazione a tavolino di questo Stato nel
1921 ha fatto sì che la maggioranza della popolazione sia sciita, mentre i gruppi dirigenti che si
sono succeduti dalla fine della prima Guerra mondiale a oggi sono stati tutti sunniti. Inoltre gli sciiti
- ancor più nettamente maggioritari in Iran - si recavano ogni anno in pellegrinaggio non alla
Mecca, ma a Kerbela, alla tomba del figlio di Ali, o nella città santa di Najaf, entrambe in Iraq,
Costretti da una più o meno tacita intesa tra Israele e l’avida burocrazia locale: dato che la consistente comunità
ebraica, come tutte quelle inserite nel mondo arabo-islamico, era rimasta indifferente al sionismo e rifiutava le
sollecitazioni al “ritorno”, all’inizio degli anni Cinquanta alcuni agenti del Mossad (che ammisero le loro responsabilità
sulla stampa israeliana molti anni dopo) fecero esplodere bombe nelle sinagoghe di Baghdad, mentre venivano diffusi
volantini che istigavano all’odio reciproco e al boicottaggio commerciale tra le due comunità che avevano convissuto
per tanti secoli. L’esodo divenne necessario, e ne approfittarono non pochi funzionari del governo iracheno (ancora
legato mani e piedi ai britannici) per arricchirsi con i beni dei fuggitivi. Per le testimonianze di ebrei antisionisti su
queste vicende rinvio a: A. Moscato, M. Warshawski, J. Taut, Sionismo e questione ebraica. Storia e attualità, Sapere
2000, Roma, 1983, p. 8.
3
11
ovviamente tentando di fare proselitismo. A Najaf si era rifugiato l’ayatollah Komeini, espulso
dall’Iran verso la Turchia nel 1965, e poi dopo appena un anno scacciato anche da quel paese. Alla
fine del 1977, meno di due anni prima del suo ritorno trionfale in patria, Komeini sarà espulso da
Saddam Hussein, su richiesta dello Scià, con cui il dittatore iracheno aveva negoziato poco prima
un accordo che riconosceva le pretese iraniane sullo Shat-el-Arab, in cambio della cessazione di
ogni aiuto alla guerriglia curda. Un vero accordo tra gentiluomini!
Il terzo incomodo: i curdi
I problemi determinati dall’assemblaggio di un sud sciita, inevitabilmente attratto da Teheran, e di
una regione centrale sunnita, sarà complicato dall’aggiunta nel 1922 di una terza provincia, quella
curda di Mosul, che storicamente aveva poco a che fare con il resto dell’Iraq, ma che venne
aggregata alla nuova formazione statale per sottrarla alla Turchia che la rivendicava. La Turchia in
quegli anni era non solo nazionalista e impegnata in una forte modernizzazione, ma in buoni
rapporti con la Russia bolscevica, mentre l’Iraq nasceva come Stato fantoccio della Gran Bretagna,
nemica giurata del bolscevismo.4
Se le due province di Baghdad e Basra avevano già tra loro diversità sufficienti a creare qualche
problema, l’inserimento di una cospicua minoranza curda (pari forse al 25% o più della popolazione
complessiva)5 ne creava uno ben maggiore.
I curdi infatti hanno una lingua del tutto diversa, di ceppo indoeuropeo, che i persiani considerano
una variante dialettale della loro lingua, ma che ha caratteristiche sostanzialmente diverse, pur
essendo dello stesso ceppo. Sono quasi tutti musulmani sunniti, ma sostanzialmente estranei alla
grande polemica con gli sciiti, e il loro islamismo reca tracce residuali delle religioni preislamiche,
come quella dei Magi dei medi e lo zoroastrismo. Ci sono anche curdi sciiti alauiti, yezidi 6 e
cristiani. Uno dei primi viaggiatori italiani nel Kurdistan, Alessandro De Bianchi, che si recò nella
regione come ufficiale dell’esercito ottomano, osservava nel 1863 che “non trovasi qui quel
fanatismo proprio di alcune città mussulmane dell’interno, ed anche il culto esteriore non è oggetto
di molte cure”.7
Scheda
Viaggiatori e missionari italiani nel Kurdistan
L’accenno alla relazione di Alessandro De Bianchi suggerisce qualche riflessione. Egli non era stato il
primo italiano a visitare il Kurdistan: nel 1667 era uscita a Venezia una dettagliata relazione di viaggio di
Pietro Della Valle. Nel 1787 un domenicano italiano, Maurizio Garzoni, che aveva vissuto a lungo nella
4
Assurdamente la maggior parte dei dirigenti britannici erano convinti che i bolscevichi fossero davvero al soldo della
Germania e parte di un “complotto tedesco-ebraico-turco nazionalista”; interpretavano quindi ogni loro mossa come un
contributo alla creazione di un grande impero tedesco in Asia. Cfr. D. Fromkin, op. cit. pp 527-531 e passim.
5
Come nella Turchia, è relativamente difficile accertare il numero reale dei curdi, dato che i governi hanno sempre teso
a riconoscerne solo una parte (ad esempio Kirkuk, che era sempre stata curda, è stata staccata subito dalla provincia
autonoma curda perché troppo ricca di petrolio...).
6
Gli yezidi sono una setta islamica sorta nel 750, dopo la caduta del califfato di Damasco - si richiamava a Yazid,
ultimo califfo di Damasco - e trasformatasi poi nel XII secolo. Imbevuta di manicheismo, è stata sempre considerata da
sunniti e sciiti una setta di “adoratori del diavolo” perché consideravano Satana un essere luminoso, collaboratore di
Dio per le vicende terrene. Per questo avevano subito nel corso dei secoli feroci persecuzioni, e avevano accolto con
favore le truppe britanniche. Erano concentrati sul Djebel Sindjar, e furono di nuovo ferocemente repressi tra il 1934 e il
1936. Cfr. J. Dauphin, op. cit., pp. 92-96.
7
Mirella Galletti, I curdi nella storia, Vecchio Faggio, Chieti, 1990, p. 29. Anche la maggior parte delle notizie
riportate nella scheda sono tratte da questo libro, che è anche arricchito da una bibliografia molto esauriente. Altre
notizie nella parte iniziale del libro di Laura Schrader, I fuochi del Kurdistan, DataNews, 1998, prevalentemente
dedicata peraltro allea lotta dei curdi in Turchia.
12
regione con altri missionari italiani, aveva potuto pubblicare un volume di Grammatica e vocabolario
della lingua kurda (ed è per questo considerato il padre della linguistica curda).
Più o meno negli stessi anni passò per il Kurdistan una singolare figura di avventuriero, arrivato come
missionario cattolico: padre Giovan Battista Boetti, anche lui domenicano, originario del Monferrato. A
trent’anni si convertì all’Islam e si fece chiamare Mansur Ushurma, o Shaikh (sceicco) Mansur. Raccolse
un piccolo esercito di 10.000 curdi e tra il 1785 e il 1790 conquistò parecchie città come Erzurum e Siirt
(oggi nel Kurdistan turco), passando poi nel Caucaso, dove si unì alla rivolta cecena. I ceceni (a cui si
aggiunsero anche altre popolazioni del Caucaso, compresa una parte degli ingusci, diventati anch’essi
mussulmani per combattere gli invasori russi) si convinsero che Mansur avesse il dono dell’ubiquità,
mentre i russi insinuavano che per sostenerlo si servisse di un sosia ceceno. Per qualche tempo riuscì a
formare una confederazione antirussa che comprendeva il Daghestan e a cui si aggregarono osseti,
cabardini e circassi, ma questa si sciolse dopo la cattura di Mansur avvenuta nel 1791.
Nel XIX secolo nel Kurdistan si rifugiarono anche diversi patrioti italiani per sfuggire alle persecuzioni,
soprattutto dopo la sconfitta dei moti risorgimentali del 1848. Può sembrare incredibile oggi, che si
erigono barriere da ogni parte e si inculca la diffidenza nei confronti di ogni straniero, ma quelli erano
anni di grande mobilità e soprattutto di generosi impegni per la causa di altri popoli: dal più noto
Garibaldi in America Latina ai tanti intellettuali inglesi e italiani impegnati al fianco dei greci, agli
ungheresi e polacchi che parteciparono alla spedizione dei mille, ai tantissimi combattenti non francesi
nella Comune di Parigi.
Oggi la maggior parte degli italiani hanno scoperto l’esistenza dei curdi solo il 21 novembre 1998,
quando arrivò a Roma (e venne subito arrestato e successivamente espulso) il leader del Pkk curdo
Ocalan; quella dei ceceni il 23 ottobre 2002, quando tutti i mass media hanno dato notizia con clamore e
scandalo dell’occupazione del teatro Zubrovka di Mosca da parte di una loro formazione armata, e li
hanno assimilati contro ogni verosimiglianza a Bin Laden e Saddam Hussein, assolvendo quindi Putin
dal feroce e ingiustificato intervento, costato la vita anche a centinaia di russi.
Quello che ha reso i curdi un problema non facilmente risolvibile nello Stato iracheno creato dopo
la prima Guerra mondiale è che, dopo secoli di vita sostanzialmente indipendente all’interno
dell’impero ottomano, avevano rivendicato la formazione di uno Stato vero e proprio nel quadro
della riorganizzazione dell’area in Stati nazionali. In un passato più lontano alcuni curdi avevano
avuto un ruolo importante nella storia della regione, a partire da quel Salah ad-Din Ayyubi (il
Saladino, la cui fama, legata alle capacità militari e al tempo stesso alla generosità, era giunta anche
in Europa), che aveva unificato i musulmani di Egitto, Siria, Mesopotamia e parte dell’Arabia,
sconfiggendo i crociati e riconquistando Gerusalemme. In alcuni periodi l’esistenza dei curdi
divenne più difficile e precaria, perché condizionata dagli scontri tra i sultani ottomani e l’impero
persiano, risorto nel XVI secolo con la dinastia Safavide.
Ma in quella fase la maggior parte dei principi curdi avevano conquistato una indipendenza di fatto,
limitandosi a pagare un tributo al sultano o allo Scià, e a fornire loro un contingente di soldati in
caso di bisogno, approfittando del fatto di trovarsi in zone montagnose impervie che rendevano
incerto e probabilmente troppo costoso un tentativo di imporre un vassallaggio più stretto.8
Molti curdi ottennero incarichi importanti nell’impero ottomano anche in tempi recenti, senza
tuttavia puntare a creare uno Stato su basi nazionali.
I curdi fanno riferimento alle vicende dei principati che si trovavano nelle zone di frontiera con
l’impero persiano e che mantennero e difesero con le armi una sostanziale autonomia, presentandola
come la premessa di uno Stato indipendente: tuttavia si trattava di fatto di una resistenza di capi
feudali a tentativi centralizzatori e modernizzatori. Alcuni di questi principati reagirono nel XIX
secolo con vere sollevazioni popolari ai tentativi di sostituire il corpo dei Giannizzeri con un
8
Non è un caso unico: per analoghi motivi salvarono a lungo la loro indipendenza, o almeno la loro identità di fronte ai
tentativi di conquista o di riconquista i baschi al confine tra Spagna e Francia, il Montenegro al margine dei
possedimenti ottomani nei Balcani, mentre i valdesi riuscirono a conservare la loro specificità religiosa in un ridotto
montano invano assediato dai duchi di Savoja e dal re di Francia.
13
esercito regolare organizzato sul modello occidentale (in particolare dal generale prussiano Helmuth
von Moltke).9
Negli ultimi decenni prima della dissoluzione del califfato parecchie tribù curde hanno accettato di
fornire la loro cavalleria irregolare (organizzata sul modello cosacco), collaborando attivamente alla
persecuzione, deportazione e sterminio degli armeni, con cui invece avevano convissuto per secoli
più o meno nelle stesse regioni (ma va detto che altre tribù curde hanno invece offerto protezione a
quel popolo sventurato).10
La rivoluzione dei giovani turchi suscitò l’entusiasmo degli intellettuali curdi (ma anche armeni,
arabi e di altre minoranze), tuttavia li deluse ben presto per le tendenze centralizzatrici che si
manifestarono all’interno del suo gruppo dirigente. Alcuni capi feudali curdi si schierarono
decisamente con il sultano contro la rivoluzione. In ogni caso, nei primi due decenni del XX secolo,
in uno strato significativo anche se non maggioritario della popolazione curda – prevalentemente in
quella urbana - cominciava a formarsi una vera coscienza nazionale, alimentata da numerose
pubblicazioni. Così al momento dell’armistizio di Mudros tra le potenze dell’Intesa e la Turchia (30
novembre 1918) i curdi tentarono di approfittare della situazione per costituire un loro Stato almeno
nella zona di Mosul, Kirkuk e Sulaimanya, ottenendo inizialmente l’appoggio del rappresentante
britannico nella zona, che nominò un curdo come governatore. Altri curdi avevano puntato in
precedenza a ottenere l’appoggio della Russia, mentre altri erano rimasti fedeli alla Turchia.
Tutta l’area periferica dell’ex impero ottomano era lacerata dalle interferenze delle varie potenze
europee, che promettevano l’indipendenza alle diverse etnie non turche, mentre in realtà l’area era
già stata spartita sulla carta in due zone di influenza, francese e britannica, con gli accordi SykesPicot.
Le promesse dei 14 punti di Wilson alimentarono le speranze dei curdi, ma anche degli armeni, che
rivendicavano le stesse terre. Un accordo curdo-armeno siglato a Parigi nel dicembre 1919 poneva
fine al conflitto degli anni precedenti e sembrava gettare le basi per una strategia comune dei due
popoli. Nel Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 veniva riconosciuto il diritto del popolo curdo
all’indipendenza, per creare una cintura tra Russia sovietica e Turchia nazionalista, e per indebolire
quest’ultima. Uno “Stato cuscinetto” che si pensava fosse facilmente controllabile dai britannici, e
sicuramente ostile ai vecchi dominatori turchi per ovvi risentimenti, ma a maggior ragione ai
bolscevichi per ragioni di classe, dato il peso che vi avrebbero avuto i signori feudali. Ma la
reazione nazionale turca ai tentativi di smembramento portati avanti dall’Intesa (che aveva il suo
braccio armato nella Grecia) ridussero ben presto l’area promessa ai curdi a quella del nord
dell’attuale Iraq. La commissione di tre membri (uno britannico, uno francese e uno italiano) che
secondo l’articolo 62 del Trattato di Sèvres doveva preparare entro sei mesi uno Statuto per
l’autonomia della regione non si riunì mai.
Il trattato di Sèvres d’altra parte lasciava nel vago i confini dello Stato curdo, mentre riconosceva la
repubblica indipendente di Armenia (anch’essa, nelle intenzioni dell’Intesa “Stato cuscinetto”
antiturco e antirusso). La Georgia era stata invece nello stesso periodo “offerta” all’Italia dai
britannici, che erano presenti in quasi tutto il Caucaso, ma non riuscivano a controllarlo tutto. Una
consistente delegazione di politici, giornalisti e affaristi italiani si era affrettata a esplorare la
situazione e a stabilire contatti con la borghesia locale antibolscevica, prima di accettare un formale
Von Moltke organizzò molte spedizioni contro i feudatari curdi recalcitranti. Egli osservò che “l’impero ottomano
abbraccia molti territori dove la Porta non esercita alcuna autorità di fatto, ed è certo che il sultano ha molte conquiste
da fare nella periferia dei suoi propri Stati”. Egli si riferiva soprattutto al territorio tra il Tigri e la frontiera persiana,
dove “i principi kurdi hanno un gran potere sui loro sudditi, guerreggiano fra loro, sfidano l’autorità della Porta, negano
le imposte, non permettono la leva, e cercano un ultimo rifugio nelle rocche che hanno innalzato sulle alte vette”. M.
Galletti, op. cit., p. 69. Anche la Galletti, pur spiegandone correttamente l’origine, tende a presentare una versione
abbellita di queste resistenze alla modernizzazione dello Stato, mentre la Schrader le presenta semplicemente come
prime lotte per l’indipendenza.
10
Il libro della Schrader, più dipendente da fonti curde accettate acriticamente, mette in ombra la partecipazione allo
sterminio degli armeni e, viceversa, presenta anche i curdi come vittime di analoghe persecuzioni.
9
14
mandato della Società delle Nazioni.11 Tuttavia nel febbraio 1921 l’Armata Rossa entrava in
Georgia, che diventava repubblica sovietica, e il progetto sfumava.
La prospettiva della repubblica di Armenia (che doveva essere originariamente molto più estesa di
quella che risultò alla fine dopo le offensive dell’esercito turco, appoggiate anche dagli azeri) spinse
molte tribù curde ad arruolarsi nelle truppe del generale Mustafà Kemal (che successivamente
diventerà presidente, e assumerà il nome di “Ataturk”, padre dei turchi), per combattere gli armeni
che intendevano creare un loro Stato sulle terre comuni.
Il parlamento nazionale di Ankara intanto, nel marzo 1920, aveva rifiutato di ratificare il trattato di
Sèvres, e varato un progetto di Costituzione in cui veniva riconosciuta la nazionalità curda e si
parlava di uno Stato federale turco-curdo. I curdi anche progressisti contribuirono a quel punto in
modo determinante alla controffensiva dell’esercito di Kemal che respinse fuori dai confini attuali
della Turchia gli armeni e soprattutto gli invasori greci appoggiati da ufficiali francesi.
La funzione di contenimento della Russia che avrebbe dovuto avere un Kurdistan indipendente
secondo i progetti dell’Intesa veniva dunque a cadere, dopo la riconquista turca delle regioni curde
settentrionali adiacenti al territorio sovietico. Non c’era più la possibilità di uno “Stato cuscinetto”.
Nel frattempo era stato trovato il petrolio nella regione di Mosul e per questo vennero dimenticate le
promesse fatte ai curdi nel trattato di Sèvres, e cancellata la stessa concessione di una sostanziale
autonomia sotto tutela inglese avviata nella zona di Mosul, Kirkuk e Sulaimanya nel 1918.
Quando nel settembre 1922 le potenze dell’Intesa firmarono a Losanna un nuovo trattato di pace
con la Turchia, che sostituiva quello di Sèvres e teneva conto dei nuovi rapporti di forza, i curdi non
furono neppure invitati. La maggior parte dei territori storici dell’Anatolia venivano riconosciuti
alla Turchia (che li aveva riconquistati d’altra parte con le armi e a caro prezzo), ma della regione di
Mosul non si parlava neppure.
La Turchia protestò, dato che riteneva di avere diritti storici su Mosul, anche perché –
rimangiandosi le promesse del 1920 – aveva già cominciato a negare persino (come nega tuttora)
l’esistenza di un popolo curdo. Secondo il governo turco i “i curdi, anche se parlano lingue diverse,
non differiscono in nulla dai turchi”, sicché i due popoli formerebbero “una sola entità etnica,
religiosa e con gli stessi costumi”. Ma la Turchia, stremata dalla lunga guerra di liberazione
nazionale e confrontata con i complessi problemi dello scambio di popolazioni (un milione e mezzo
di greci furono espulsi dal suo territorio, dove arrivavano invece i turchi cacciati dalle regioni
balcaniche occupate dalla Grecia), dovette rassegnarsi per il momento alla perdita di quella
provincia. Più tardi, alla vigilia della seconda Guerra mondiale, la sottrazione di quell’area fu
compensata dalla restituzione alla Turchia del Sangiaccato di Alessandretta, i cui abitanti erano
peraltro in maggioranza arabi (i turchi erano il 40%), che era stato dapprima annesso alla Siria sotto
tutela francese, e poi per qualche tempo trasformato dalla Francia in “Repubblica autonoma del
Hatai”.
Alla fine di quel convulso dopoguerra, i curdi si trovarono dunque divisi tra i territori di cinque
Stati: la maggioranza in Turchia, una parte consistente in Iraq e in Iran, mentre comunità di minori
dimensioni erano rimaste in Siria e nel Caucaso sovietico. Così una nazione di molti milioni di
persone (i curdi oggi valutano la loro consistenza a 25 milioni, anche se in genere le altre stime
indicano cifre minori) è rimasta priva di uno Stato, mentre sono stati riconosciuti nella regione Stati
con una popolazione molto più ridotta e senza nessun precedente storico. Ciò è stato possibile sia
per l’eredità di un lungo passato di principati feudali indipendenti che si combattevano tra di loro,
sia perché anche le nuove formazioni indipendentiste dei curdi di Turchia, Iraq e Iran non hanno
collaborato tra loro e si sono scontrate in alcuni casi con le armi, offrendo non pochi spazi ai loro
I tentativi dell’imperialismo italiano di ritagliarsi uno spazio nel Vicino e Medio Oriente sono pochissimo conosciuti
e ignorati del tutto dai manuali scolastici. Uno degli strumenti per la penetrazione erano i missionari, ma anche le
“spedizioni archeologiche”, su cui rinviamo all’interessante libro di Marta Petricioli, Archeologia e Mare Nostrum. Le
missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia 1898/1943, Prefazione di Sergio Romano, Valerio Levi
editore, Roma, 1993. Il termine “mediterranea” non deve trarre in inganno: l’autrice accenna anche a tentativi non solo
nella fascia di Adalia (che doveva essere assegnata all’Italia secondo il Trattato di Londra) ma nel cuore dell’Anatolia,
in Etiopia, in Iran, in Georgia e appunto nella Mesopotamia. Ivi, pp. 297, 299, 321-323 331-332, e passim.
11
15
nemici. In particolare il regime iracheno e quello iraniano hanno spesso finanziato e armato le
organizzazioni curde operanti nello Stato rivale.12
Non solo l’Iraq è uno Stato artificiale
Abbiamo accennato al carattere artificiale dell’Iraq, ma non è l’unico Stato costruito sulla carta,
sulla base di decisioni delle potenze vincitrici della prima Guerra mondiale.
Anche la Siria, il Libano e la Giordania sono stati suddivisi e poi assemblati nello stesso modo.
Nell’impero ottomano facevano parte di un unica realtà amministrativa, con capoluogo Damasco,
all’interno della quale c’erano peraltro numerose comunità la cui autonomia era pienamente
riconosciuta, ma che non erano in nessun modo l’embrione di uno Stato né erano associate tra loro,
pur trovandosi più o meno sullo stesso territorio (è il caso soprattutto dei maroniti e dei drusi del
Libano).
Della Giordania il leader tunisino Bourghiba dava questa definizione impietosa: “il Giordano è il
nome di un fiume, e Palestina il nome di un paese sempre esistito dal tempo dei Faraoni; la
Transgiordania è una costruzione artificiale mentre la Palestina è un’entità reale”. Ma la Palestina
non ha ancora uno Stato, mentre la Giordania nacque come Emirato di Transgiordania nel 1921,
riconosciuto come indipendente (anche se come vedremo non lo era affatto) nel 1923, quando aveva
appena 300.000 abitanti. Assumerà il nome attuale dopo l’annessione di quanto restava della
Palestina dopo la guerra del 1948-1949. I suoi confini rivelano chiaramente la loro origine di linee
tracciate su una carta geografica per inventare un regno come premio di consolazione per un
vassallo insoddisfatto.
La Siria era toccata alla Francia nella spartizione concordata da Mark Sykes e Georges Picot nel
1916. Ma la Siria era la parte più sviluppata culturalmente e socialmente della parte araba
dell’impero ottomano, e non era facile assoggettarla. Per questo venne mutilata di varie parti, alcune
delle quali, dotate in origine di un’autonomia sostanziale in una più ampia realtà politica, divennero
fortemente conflittuali tra loro una volta assemblate in un piccolissimo Stato col nome di Libano.
La spartizione concordata “tra gentiluomini” tra Sykes e Picot era stata messa in forse dall’iniziativa
delle truppe arabe organizzate da Lawrence (ovviamente legate alla Gran Bretagna o almeno a un
settore del suo gruppo dirigente), che erano riuscite a entrare prima delle stesse truppe regolari
britanniche (e a maggior ragione di quelle francesi) sia a Damasco sia a Beirut. La cavalleria araba
era entrata a Damasco sotto il comando del figlio di Hussein della Mecca, Feisal, che tentò di
assumere la corona di re di Siria, contrastato ferocemente dai francesi, che fecero leva sia sulla Gran
Bretagna, pretendendo il rispetto degli accordi (che fossero stati presi alle spalle dei popoli, e degli
stessi alleati arabi, poco importava), sia sui sentimenti repubblicani degli intellettuali siriani e in
genere della popolazione urbana. A Beirut era entrato un brillante inviato di Hussein, il generale
arabo Shukri Pascià Agiubey.
Naturalmente non era solo la Francia a essere preoccupata, ma la stessa Gran Bretagna, soprattutto
perché il generale Allenby non aveva visto di buon occhio l’operazione organizzata da Lawrence e
temeva che ottenendo troppi successi finisse per sfuggire di mano.
La Gran Bretagna aveva cominciato la sua penetrazione in Mesopotamia fin dal 1830, approfittando
dello scarso controllo del governo di Costantinopoli sulle zone periferiche dell’impero. Il colonnello
Chesney era stato in quell’anno incaricato dal governo anglo-indiano di studiare la navigabilità
dell’Eufrate ai fini di un più breve collegamento fra il Mediterraneo e il Golfo Persico (e
ovviamente l’India). L’Egitto in quegli anni era infatti in una fase di consolidamento e di
espansione, che lo rendeva molto più pericoloso dell’impero ottomano da cui si stava
progressivamente sganciando. Il passaggio attraverso l’istmo di Suez poteva dunque diventare meno
facile o più costoso. Già nell’anno successivo vi fu una prima esplorazione preliminare del terreno,
Più recentemente, nell’ultimo decennio, ci sono stati anche conflitti tra curdi rifugiatisi in Iraq dalla Turchia e quelli
locali.
12
16
mentre nel 1835-1837 fu organizzata una regolare spedizione, accompagnata da esplorazioni di
larghi tratti della Mesopotamia orientale da parte di ufficiali e funzionari inglesi. Negli anni Settanta
il governo inglese propose a quello di Costantinopoli di costruire una ferrovia lungo il corso del
Tigri, e nel 1879 Cameron attraversò la Mesopotamia per studiare il tracciato di quella ferrovia.
Negli anni tra il 1850 e il 1870 infatti la Gran Bretagna aveva ottenuto la concessione per altre
ferrovie nell’impero ottomano, che avevano assicurato profitti notevoli. Ma negli anni Ottanta la
Deutsche Bank aveva conquistato i favori del sultano e ottenuto di poter costruire i primi tronchi
della ferrovia che doveva congiungere il cuore dell’impero a Baghdad e poi Basra, scalzando i
britannici da quell’area.13 In questo quadro si colloca l’invenzione da parte di emissari britannici del
Kuweit – staccato dal vilayet di Basra e reso “Emirato indipendente” sotto protezione britannica,
quando era ancora solo un villaggio a cui facevano capo poche migliaia di beduini. L’intenzione era
di bloccare l’accesso della ferrovia tedesca al Golfo Persico.
L’attenzione del governo anglo-indiano per quell’area era cominciata dunque da molto tempo, e fin
dai primi anni della prima Guerra mondiale truppe britanniche erano penetrate in Mesopotamia,
anche per proteggere l’approvvigionamento di petrolio dalla prima raffineria della zona, nell’isola
persiana di Abadan nello Shatt al-Arab. Alcuni reparti britannici erano arrivati a Basra, e poi a
Ctesifonte, a 40 chilometri da Baghdad, ma nel 1916 erano stati accerchiati per 146 giorni nel
villaggio di Kut el-Amara, e si erano dovuti arrendere senza condizioni ai turchi, dopo aver perso
decine di migliaia di uomini. Solo nell’ultima fase della guerra i britannici erano riusciti di nuovo a
penetrare nella zona, e ne avevano occupato una parte prima della fine della guerra. Insomma,
nessuno poteva dubitare che quell’area fosse considerata di vitale importanza soprattutto per il
mantenimento del dominio sull’India.14
Scheda
La Francia nel Libano
A Beirut i francesi avevano cominciato a mettere piede alla metà del secolo XIX, col pretesto della
protezione accordata ai cattolici maroniti (mentre i britannici appoggiavano e armavano i drusi). I due
gruppi religiosi (ma diventati praticamente anche gruppi etnici, dato che praticavano una rigida
endogamia da secoli) avevano convissuto per molti secoli a stretto contatto, ciascuno con la sua piena
autonomia amministrativa e religiosa rispettata dai rappresentanti del sultano. Avevano cominciato a
combattersi (di fatto per “conto terzi”) solo nel 1840-1841. A facilitare i conflitti in quegli anni fu
indirettamente la crisi sociale provocata dalla rapida distruzione delle tradizionali attività manifatturiere e
artigianali in seguito al massiccio afflusso di merci europee (più che triplicate in pochi anni) dopo la
forzata apertura dei porti ottomani alle navi britanniche prima e poi di altre potenze imposta nel 1838.15
Nel 1860 una serie di scontri provocati da emissari francesi avevano portato a un bagno di sangue tra le
diverse comunità che aveva offerto il pretesto a Napoleone III per inviare le sue truppe a Beirut, invano
contrastato da Inghilterra e Russia. È in seguito a quell’intervento che ci fu il primo tentativo di imporre
un assetto politico diverso da quello tradizionale: una commissione internazionale, formata da tutte le
principali potenze europee, concordò nel 1861 un nuovo statuto per il Libano (Réglement organique),
che aboliva il dualismo dei qa’im maqam (uno per i drusi e uno per i maroniti) e introduceva un
governatore unico nominato da Istambul, assistito da dodici rappresentanti delle sei comunità religiose
principali (maroniti, drusi, sunniti, sciiti, greci ortodossi e greci uniati). La lottizzazione venne
meticolosamente prevista a tutti i livelli dell’amministrazione locale. Il Réglement organique, ritoccato
nel 1864, rimarrà in vigore fino al 1914, e sarà poi alla base di una macchinosissima Costituzione, che
sarà elaborata dai francesi tra il 1920 e il 1926 e che è rimasta sostanzialmente in vigore fino
Rosa Luxenburg, L’accumulazione del capitale, Einaudi, Torino 1980, p. 440.
D. Fromkin, op. cit., pp. 227-231.
15
Erano gli anni della Guerra dell’oppio, che impose l’apertura dei porti cinesi a tutte le merci britanniche, compreso
appunto l’oppio appositamente coltivato nell’impero indiano (1840-1842), e della analoga spedizione del commodoro
statunitense Perry nei porti giapponesi (1853), che ne impose l’apertura a partire dall’anno successivo. Sulle
conseguenze catastrofiche di quella nuova fase della penetrazione europea nei vecchi imperi extraeuropei si veda il
documentatissimo libro di Mike Davis, Olocausti tardovittoriani. El Niño, le carestie e la nascita del Terzo Mondo,
Feltrinelli, Milano, 2002.
13
14
17
all’esplosione della guerra civile nel 1975 (nominalmente anche dopo quella data, pur se ovviamente del
tutto inapplicata). I rapporti tra le diverse comunità, diventati assai più complessi perché il Libano su cui
la Francia aveva ottenuto il mandato dalla Società delle Nazioni non corrispondeva ai confini
amministrativi tradizionali, ma aveva incorporato (per staccarli dal resto della Siria a cui erano sempre
state legate) le regioni di Tripoli, Tiro e Sidone, quasi completamente mussulmane come la stessa città di
Beirut.
La Costituzione nella sua ultima versione ritoccata nel 1946 (Patto nazionale) prevedeva che ai maroniti
spettasse automaticamente la carica di presidente della Repubblica e di comandante dell’esercito, ai
sunniti quella di Primo ministro, agli sciiti la presidenza del parlamento, ecc. (sacrificando soprattutto i
drusi). Per mantenerla in vigore, e continuare a distribuire i seggi parlamentari tra le varie comunità
religiose attribuiti nel 1946 in base all’ultimo censimento fatto (nel 1932!), che vedeva ancora una
lievissima preponderanza cristiana, il Libano non ha più effettuato un censimento dopo quello del 1932.
Nel 1989 è stato ritoccato il criterio di distribuzione dei seggi, attribuendone il 50% ai cristiani, e il resto
ai musulmani, ma sempre sulla base di valutazioni empiriche e non di rilevazioni dirette (i maroniti
risultano, secondo molte fonti, ridotti a poco più del 15%, per minor tasso di natalità, emigrazione, ecc.,
ma continuano ad avere assegnata la presidenza della Repubblica). Una Costituzione, dunque, che
rappresenta un regalo avvelenato della Francia a quel piccolo paese male assemblato.
Alle origini del nazionalismo arabo: il tentativo dell’Egitto
La comparsa di un nazionalismo arabo contrapposto al carattere prevalentemente turco dell’impero
ottomano può essere fatta risalire all’impresa di Napoleone in Egitto del 1798-1799. Pur essendo
legata a una vicenda europea, in particolare al conflitto con la Gran Bretagna, che aveva spinto a
tentare di interrompere o comunque rendere più lenti e costosi i collegamenti tra Inghilterra e India,
la facile conquista francese di Egitto e Siria (in cui era compresa la Palestina) aveva reso evidente la
fragilità militare di quell’impero ottomano che, fino a poco più di un secolo prima, era apparso
come una grande potenza in grado di minacciare periodicamente l’Europa attraverso i campi di
battaglia dei Balcani.
Napoleone aveva dovuto ritirarsi precipitosamente per tornare in Europa; ma della crisi evidente
della forza militare della Porta avevano preso atto sia l’Inghilterra, che inizierà presto la sua
penetrazione diretta, sia la Russia, che intensificherà i suoi sforzi per conquistare i territori periferici
dell’impero ottomano abitati da slavi e comunque da cristiani (con l’obiettivo finale di
impossessarsi degli Stretti per assicurare lo sbocco nei mari caldi alla propria flotta, bloccata dai
ghiacci per molti mesi all’anno nei porti baltici), sia e soprattutto Mehmet Ali, un comandante di
origine albanese inviato in Egitto per fronteggiare Napoleone, ma che dopo la partenza delle truppe
francesi si consolidò come sovrano di fatto di una larga porzione dell’impero abitata in prevalenza
da arabi.
Mohammed Ali (Mehmet Ali è la trascrizione turca) approfittò della situazione di caos creata in
Egitto dalla fine dell’occupazione francese nel 1801. Nell’ultimo anno di permanenza nel paese le
truppe francesi avevano suscitato continue rivolte, represse ferocemente, e alla fine si erano dovute
arrendere a una coalizione tra britannici (le cui truppe erano però prevalentemente composte da
indiani), e turchi. Ma le truppe turche solo in parte rispondevano al sultano: una parte di esse erano
quelle feudali dei mamelucchi (in origine schiavi, diventati col tempo mercenari avidissimi) che
dominavano l’Egitto. I britannici, alleatisi con il sultano per cacciare i francesi, intendevano però
prenderne il posto scalzando l’autorità della Porta e quindi si appoggiarono ai mamelucchi, che mal
sopportavano i timidi tentativi di modernizzazione dell’esercito ottomano. Tuttavia anche i
britannici dovettero ritirarsi dall’Egitto alla fine del 1802, in base al trattato di Amiens che sanciva
una tregua al conflitto con la Francia. A scontrarsi per il potere in Egitto rimasero i mamelucchi,
che erano però odiatissimi dalla popolazione per le loro violenze e rapine, e Mehmet Ali, che rivelò
un talento di abile politico: dopo una breve alleanza con i mamelucchi, a cui erano giunti aiuti da un
emissario di Napoleone, il colonnello Sebastiani, li scacciò dal paese, sospingendoli verso l’alto
Egitto, presentandosi come un difensore del popolo egiziano, che era più volte insorto contro i
18
francesi prima e poi contro il bey mamelucco Osman Bardisi. Una riunione degli sceicchi convocata
nell’università el Azhar “per abolire le tasse” elesse Mehmet Ali vicegovernatore. Tuttavia, dopo
una nuova rivolta che scacciò il governatore turco Korshid, Mohammed Ali rimase padrone
dell’Egitto, pur rendendo formalmente omaggio al sultano lontano. Negli anni successivi il sultano
Selim III tentò più volte di richiamare Mohammed Ali a Costantinopoli, ma ogni volta dovette
recedere. Nel 1807 il sultano fu deposto e ucciso da una ribellione di giannizzeri contrari alla
riorganizzazione dell’esercito.
Nel frattempo il potere di Mehmet Ali si era notevolmente consolidato. Nel gennaio 1807 un
tentativo inglese di forzare i Dardanelli e sbarcare a Istambul per costringere la Porta a espellere
l’ambasciatore francese Sebastiani, divenuto nel frattempo generale, che stava riorganizzando
l’esercito e dirigeva con l’aiuto di diversi ingegneri europei la costruzione di nuove fortificazioni, si
rivelò impraticabile; la flotta britannica si spostò allora verso le coste egiziane scegliendo un’altra
strada per indebolire il sultano. Ma il contingente britannico sbarcato ad Alessandria e che aveva
tentato di occupare Rosetta, sulla via del Cairo, fu fatto a pezzi dalle truppe di Mohammed Ali
spalleggiate da contadini e beduini. Nel settembre dello stesso anno le truppe inglesi dovevano
ritirarsi e Mohammed Ali, con un prestigio fortemente accresciuto, poteva dedicarsi a sradicare il
potere dei feudatari mamelucchi arroccati nell’alto Egitto, a cui aveva dovuto temporaneamente
chiedere aiuto. Tra il 1807 e il 1812, avviava una riforma agraria che spezzava il potere economico
dei latifondisti, ma rafforzava quello di un’amministrazione centrale largamente coincidente con la
sua persona, sicché i contadini avevano ricavato un modestissimo miglioramento da essa. Nel
marzo 1811, alla vigilia della partenza per una spedizione in Arabia sollecitata dalla Porta per
distruggere il potere della setta wahhabita, Mohammed Ali organizzò una parata militare al Cairo, e
con un trucco fece riunire i 500 mamelucchi che si preparavano per la parata in una fortezza, dove
furono circondati dalle truppe a lui fedeli e massacrati. Subito dopo la popolazione fu incoraggiata a
saccheggiare le case dei mamelucchi, continuando il massacro anche dei loro parenti e amici. Il
potere di questa casta era stato cancellato.
Mohammed Ali aveva avviato allora una profonda riforma dell’esercito, modellato su quello
napoleonico e inquadrato da alcuni brillanti ufficiali italiani e francesi. Dopo la restaurazione
borbonica ne ebbe a disposizione parecchi altri, di notevoli capacità. Dopo aver concluso
felicemente la campagna di Arabia, e - con maggiori problemi a causa del clima - una spedizione
nel Peloponneso (l’ultima fatta per conto del sultano), l’Egitto di fatto indipendente si lanciò alla
conquista della Siria (comprendente anche Palestina, Libano) con l’obiettivo di unificare per lo
meno tutta la parte araba dell’impero ottomano. Ma la crescita impetuosa della sua forza militare
(nel 1830 c’erano già circa 180.000 soldati inquadrati modernamente, più 40.000 uomini di unità
irregolari) era vista con sospetto non solo da Costantinopoli, ma anche dalle potenze europee, tanto
più che si intrecciava con altre riforme modernizzatrici: vennero istituite scuole laiche in arabo,
scuole superiori di medicina, veterinaria e ingegneria, mentre molti giovani dopo i primi studi nel
paese venivano inviati a studiare in Europa; furono aperti moderni ospedali militari e civili, e nel
1822 entrò in funzione la prima tipografia, che pubblicava libri in arabo, turco e persiano, e anche
un primo giornale egiziano.16
La potenza egiziana in ascesa fu fermata però da interventi delle potenze europee, che trovarono
spesso l’unità contro di essa. Nel 1827 la flotta egiziana (ancora formalmente al servizio del
sultano) era stata distrutta davanti a Navarino, nel Peloponneso, da quelle di Russia, Francia e Gran
Bretagna e, anche se nel giro di pochi anni Mohammed Ali riuscì a dotarsi di nuovo di una flotta
moderna, aprendo cantieri navali ad Alessandria con l’aiuto di ingegneri europei, l’avvertimento era
chiaro: non sarebbe stato consentito all’Egitto di diventare una forza in grado di arginare il
disfacimento dell’impero ottomano e di raccoglierne l’eredità.
Interessante notare che Mohammed Ali aveva governato l’Egitto per quasi dieci anni grazie alla sua intelligenza, pur
essendo analfabeta. Solo a 45 anni imparò a leggere, e si dedicò con passione e sistematicità allo studio di altre
esperienze di modernizzazione, come quella di Pietro il Grande in Russia.
16
19
Anche la conquista egiziana della Siria, iniziata nel 1831, fu bloccata da tutte le potenze europee,
compresa Austria e Prussia, che dopo molti sgambetti reciproci si erano trovate finalmente
d’accordo contro il pericolo di un risanamento del “grande malato” (come veniva chiamato l’impero
ottomano), e imposero un compromesso: a Mohammed Ali veniva riconosciuta una sovranità
ereditaria di fatto sull’Egitto e il Sudan (pur imponendo un riconoscimento simbolico dell’autorità
del sultano), ma egli veniva costretto a riconsegnare all’autorità della Porta Siria, Cilicia, Arabia,
Creta e Palestina.
Negli stessi anni il tentativo di creare uno Stato moderno in Mesopotamia da parte di Daud Pascià,
che nel 1817 aveva cercato di seguire l’esempio di Mohammed Ali, fu prima indebolito dall’azione
congiunta di alcune rivolte curde appoggiate dallo Scià dell’Iran e della flotta della Compagnia
delle Indie Orientali (che nel 1821 aveva risalito i fiumi iracheni bloccando le comunicazioni tra
Baghdad e Basra per ripristinare le “Capitolazioni” annullate da Daud), e poi sconfitto
definitivamente nel 1831 da un’invasione di truppe persiane e turche.17
Quanto all’Egitto, la dinastia dei Khedivè eredi di Mohammed Ali sarebbe rimasta nominalmente in
piedi fino alla destituzione di Faruk nel 1952, ma il processo di modernizzazione e di sviluppo
economico sarebbe stato definitivamente spezzato attraverso il meccanismo del debito
internazionale, che avrebbe portato nel 1882 alla creazione di un vero e proprio protettorato
britannico “temporaneo”, cioè fino “al ristabilimento dell’ordine”. Ma il disordine era portato
proprio dalla penetrazione dei capitali europei.18
Una dinastia straniera
Il sistema di controllo inglese sull’Egitto, alla fine della prima Guerra mondiale, sarebbe stato il
modello per i protettorati sul resto del Vicino Oriente. L’unica differenza è che, mentre Mehmet Ali
non era stato “inventato” ma costretto con la forza a sottomettersi, nelle altre regioni dell’area i
sovrani furono portati direttamente dall’esterno.
Alla testa dell’Iraq è stato collocato Feisal I (uno dei figli di quello sceriffo Hussein della Mecca a
cui Lawrence, aveva promesso un “grande regno arabo”), arrivato nel paese con la sua corte di
fedeli beduini.19
Henry St. John Philby, uno dei maggiori esploratori britannici dell’Arabia e consigliere di Abdullah,
aveva osservato che in nessuna parte del mondo arabo la famiglia dello sceriffo Hussein aveva
ottenuto un briciolo di amore dalle popolazioni sulle quali regnava.20
Un altro dei numerosi figli di Hussein, Abdallah, diventò re della Transgiordania, uno Stato se
possibile ancora più artificiale, come abbiamo visto. Egli fu sentito ugualmente come uno straniero
nel paese affidatogli, su cui regnava appoggiato quasi esclusivamente sulle tribù beduine che lo
avevano seguito dal cuore dell’Arabia, inquadrate da ufficiali britannici (tra cui spiccherà il
comandante in capo della Legione araba, John Bagot Glubb, detto Glubb Pascià, che guiderà le
truppe arabe alla disfatta durante la prima Guerra arabo-israeliana del 1948-1949).
17
Vladimir Lutsky, Storia moderna dei paesi arabi, Teti, Milano, 1975, pp. 83-85.
Una descrizione degli effetti catastrofici della penetrazione dei capitali europei nel mondo afroasiatico è in M. Davis,
Olocausti tardovittoriani, cit., pp. 12-13 e 111-112 per quanto riguarda in particolare l’Egitto. Ma il meccanismo
economico della distruzione di economie relativamente sane e in pieno sviluppo si può trovare soprattutto in Rosa
Luxenburg, op. cit., pp. 429-439.
19
Thomas Edward Lawrence, La rivolta del deserto, Mondadori, Milano, 1991 (prima ediz. 1929) ha ricostruito più
sinteticamente che nel fin troppo famoso I sette pilastri della saggezza ma ugualmente non senza abbellimenti letterari,
la sua versione della missione tra i beduini dell’Hegjaz. Una ricostruzione rigorosa (e assi meno romantica) della
vicenda di Lawrence, inquadrata nei conflitti tra le diverse correnti che si scontravano nella politica estera britannica, è
invece quella che si può trovare nel bel libro di David Fromkin, Una pace senza pace, cit. Si veda ad esempio, alle pp.
95-96, la feroce descrizione della stupidità e mediocrità dei funzionari britannici che dal Cairo influenzavano la politica
del loro paese in tutta l’area.
20
René Kalisky, Storia del mondo arabo, vol. II, Il risveglio e la ricerca dell’unità, Bertani, Verona, 1972, p. 105.
18
20
Nel corso di quella guerra, attraverso incontri segreti con esponenti sionisti tra cui il futuro primo
ministro di Israele Golda Meir (Golda Meyerson), Abdallah tratterà alle spalle dei palestinesi la
spartizione della Giordania. Sarà per questo ucciso da un giovane patriota palestinese nella moschea
al-Aqsa di Gerusalemme il 20 luglio 1951. Gli succederà – dopo un breve intermezzo in cui
nominalmente diventò re il figlio Talal, infermo di mente – il nipote non ancora diciottenne
Hussein, che, nonostante numerose crisi in cui dovrà ricorrere a volte al diretto aiuto militare
britannico, regnerà fino al 1999, quando salirà al trono l’attuale re, suo figlio Abdallah Ibn Hussein,
che secondo alcuni aspirerebbe oggi a beneficiare del possibile crollo del regime di Saddam
Hussein ricostituendo un unico regno hashemita su Giordania e Iraq (è una delle “soluzioni” per il
post Saddam presa “seriamente” in considerazione a Washington, data la debolezza degli oppositori
iracheni).
Feisal era arrivato a Baghdad dopo essere stato cacciato da Damasco dall’arrivo delle truppe
francesi, ma anche dalle aspirazioni popolari a fare della Siria una repubblica che non avrebbe
comunque accettato un re straniero paracadutato dall’esterno. Lo aveva capito uno degli artefici
dello sciagurato assetto del Vicino Oriente, Wyndham Deedes, l’uomo più esperto di questioni
ottomane del controspionaggio inglese al Cairo, che aveva scritto che c’erano tre gruppi principali
di arabi e che la Gran Bretagna non sarebbe stata in grado di accontentare tutti e tre. C’era Hussein,
che aspirava a un grande regno su tutta l’area, ma che era contrastato da molti altri arabi e da tutti i
turchi (di lì a poco anzi sarebbe stato cacciato anche dalla sua Mecca da un’offensiva di Ibn Saud,
che aveva puntato sugli Stati Uniti anziché sulla Gran Bretagna); c’erano gli arabi dell’Iraq, che
volevano l’indipendenza per sé ed erano assolutamente contrari all’aspirazione del governo
britannico dell’India che pensava di annettersi la regione e governarli; c’erano i siriani, la cui
principale aspirazione era che non si lasciasse campo libero agli odiati francesi. “Non è affatto
facile capire le ragioni di questa violenta inimicizia”, scrisse in un rapporto, ma si doveva prenderne
atto, anche se ciò entrava in conflitto coi propositi della Francia e inaspriva i rapporti tra le due
grandi potenze coloniali.21
L’alto commissario Mc Mahon, che proveniva dal governo dell’India, era preoccupato che una
mossa maldestra innescasse disordini nazionalististi. Ma, confidò proprio a Wyndham Deedes, la
sua paura non era che il progetto della rivolta araba fallisse, ma al contrario che riuscisse e che
prendesse una piega pericolosa per la Gran Bretagna.22
Se la Palestina è stata felicemente definita da Massimo Massara una terra “troppo promessa” (e si
riferiva alle promesse effettuate contemporaneamente da Lawrence agli arabi e da lord Balfour ai
sionisti), ciò vale anche per tutta l’area, di cui i contemporanei accordi Sykes-Picot prevedevano
una spartizione diretta tra Gran Bretagna e Francia. Va detto che la situazione era complicata dai
sottili giochi tra diverse personalità e centri di potere (l’Egitto, l’India, ecc.) che influenzavano la
politica britannica, ricostruiti magistralmente da David Fromkin, con una particolare attenzione al
ruolo di Churchill.
Anche Jacques Dauphin, un francese che ha vissuto per molti anni in Iraq, ha ricostruito gli scontri
tra le diverse “scuole” della diplomazia britannica: quella “arabizzante” (Hogarth, Stirling e
naturalmente Lawrence), che puntava su Hussein; quella “indiana”, che voleva un’occupazione
diretta dell’Iraq. Uno dei suoi esponenti, sir Percy Cox, aveva scritto che “occupando la
Mesopotamia abbiamo inserito un cuneo nel mondo islamico. Abbiamo ostacolato la creazione di
una Unione musulmana del Vicino Oriente che avrebbe potuto divenirci ostile”.23 Per questo
proponeva un controllo diretto, con l’obiettivo di ostacolare una saldatura con il resto del mondo
arabo. Non c’è male come franchezza.
Un terzo gruppo, rapidamente sconfitto, puntava a privilegiare l’emiro del Neged, Ibn Saud, ma nel
1918 la morte accidentale del capitano Shakespeare, distaccato come consigliere preso Saud,
indeboliva questa terza possibile opzione.
21
Ivi, p. 209.
Ivi, p. 211.
23
J. Dauphin, Incertain Irak, cit., pp. 40-41.
22
21
La soluzione scelta era una combinazione tra le prime due: forte presenza della Gran Bretagna, ma
concedendo benevolmente una parvenza di semindipendenza sotto Feisal, che prendeva possesso
del paese il 23 agosto 1921. Il 2 marzo dello stesso anno la Società delle Nazioni aveva affidato alla
Gran Bretagna il mandato sull’Iraq (“per prepararlo all’indipendenza”).
Le prime rivolte contro la presenza britannica
Tuttavia la presenza britannica nel paese aveva già suscitato nel 1919 una forte rivolta curda, sotto
la guida di Sheikh Mahmud, che era stato subito esiliato in India, ma era tornato già nel 1922,
proclamandosi re del Kurdistan. Per bloccare il tentativo di secessione, la Raf bombardò più volte
varie città, e in particolare Sulaimanya, epicentro dell’insurrezione.24 Ma la resistenza di Sheikh
Mahmud durerà fino al 1930, e sarà poi continuata per molti anni anche in altre zone, compresa
quella di Mossul, da Sheikh Ahmad di Barzan.25
Mentre Gertrude Bell continuava a sottovalutare il pericolo di una sommossa indigena, il suo
superiore Arnold Wilson (contro cui la brillante archeologa e pessima politica continuava a
complottare) era allarmatissimo, soprattutto per l’assottigliarsi dei reparti di cui disponeva a causa
della smobilitazione e del taglio delle spese militari provocato dalla grave crisi economica del
dopoguerra. Prima dello scoppio generalizzato di rivolte in tutto il paese, già nell’estate del 1919
c’era stato uno stillicidio di uccisioni di ufficiali britannici: in settembre erano stati uccisi tre
giovani capitani nel Kurdistan e in ottobre un funzionario di grande esperienza, inviato al loro posto
dal governo indiano, era stato anch’esso assassinato. Nella primavera del 1920 altri sei ufficiali
erano periti in agguati e altri funzionari civili erano stati rapiti e poi uccisi. Venne chiamato a
risolvere la situazione il colonnello Gerald Leachman, che aveva un brillante curriculum di
avventure e prodezze leggendarie nei deserti dell’Arabia. Ma in agosto cadde in un’imboscata e la
sua morte incoraggiò a passare dalle azioni isolate a una vera e propria rivolta, a cui si unirono
anche alcuni ex ufficiali della cavalleria di Feisal. Alcuni degli insorti proclamarono un governo
provvisorio. Ci vollero molti mesi e numerosi rinforzi per recuperare il controllo del paese.
Nel marzo 1921 era stata intanto elaborata dai britannici una Costituzione dell’Iraq, ricalcata... su
quella della Nuova Zelanda (!), ma che non aveva soddisfatto nessuno. Tutti gli anni Venti sono
costellati di rivolte, a cui partecipano curdi e contadini del sud, borghesia sunnita e religiosi sciiti di
Najaf e Kerbala, che proclamano la Jihad contro gli inglesi.
I britannici indiranno una specie di plebiscito sotto controllo militare che doveva sancire
l’accettazione di Feisal come re, ma senza che ci fosse la possibilità di esprimersi liberamente; solo
i distretti curdi di Kirkuk e Sulaimanya riusciranno a esprimere un voto contro il re fantoccio. I
deputati di quei distretti d’altra parte rifiuteranno a lungo di sedere in parlamento.26
Se tutte le rivolte erano nettamente antibritanniche, la maggior parte di esse erano basate su
rivendicazioni localistiche, o su progetti poco concreti, come quello di chiamare sul trono il fratello
di Feisal, Abdallah, che non era certo il migliore della famiglia, prospettando per una fase
successiva un’unione anche con la Siria.
A Feisal, nell’ottobre 1922, i britannici promisero comunque la piena indipendenza, che verrà in
realtà concessa solo nel 1932, al momento dell’ammissione del regno nella Società delle Nazioni. Il
controllo britannico sarà garantito tuttavia, anche dopo quella data, dalla presenza a fianco del re di
Nuri Said, un generale di origine mesopotamica dell’esercito turco, che si era unito alla rivolta di
Hussein e che rimarrà sempre legatissimo alla Gran Bretagna, di cui tutelerà gli interessi in modo
così zelante, che soprattutto su di lui si scatenerà la furia popolare durante la rivoluzione del 1958.
24
L. Schrader, op. cit., pp. 33-35 e M. Galletti, op. cit., pp. 155-163.
Si riaccenderà poi nel 1945 per l’attrazione della Repubblica curda di Mahabad, sorta nel Kurdistan iraniano contando
sull’appoggio sovietico, che sarà prima concesso e poi negato in seguito a un accordo con lo Scià. Questa vicenda avrà
conseguenze negative durature sul movimento comunista in Iran e indirettamente anche sull’orientamento politico dei
curdi iracheni. Si veda, per l’Iran, la scheda al termine del capitolo.
26
Ivi, p. 48.
25
22
Il nuovo Stato sarà caratterizzato comunque da una grande instabilità, che si manifesterà in forme
diverse, ma in primo luogo con frequenti omicidi politici e tentativi di colpi di Stato.
La Società delle Nazioni intanto era stata chiamata a più riprese a pronunciarsi sulla questione dei
confini tra Turchia e Iraq, e più in generale sulla rivendicazione turca della zona di Mossul, e sui
confini incerti con l’Iran. Ma il peso della Gran Bretagna fece risolvere ogni questione con
risoluzioni che escludevano la fondatezza dei reclami turchi e iraniani. Più semplice la questione del
confine con la Transgiordania, regolato da un accordo ratificato dai due re fratelli e preparato dai
funzionari britannici che spadroneggiavano in entrambi i paesi. Anche il confine con il Kuweit
venne definito da una commissione mista composta in prevalenza da ufficiali britannici che
“rappresentavano” le due parti.
La pressione britannica sul governo fantoccio si farà sentire così pesantemente che il Primo ministro
Jafar al-Askari nel dicembre 1927 sarà costretto a firmare a Londra (sotto minaccia di deportazione
e di esilio per lo stesso Feisal) un testo di accordo che definiva l’Iraq “Stato indipendente e
sovrano”, ma assegnava all’Inghilterra il diritto di essere “informata” preventivamente di ogni
progetto di legge. Quando il testo dell’accordo sarà conosciuto a Baghdad provocherà un incendio
nell’opinione pubblica e le dimissioni di diversi ministri.
Anche il successivo Primo ministro Abdul Muhsin Saadoun, dilaniato tra la fedeltà al suo paese e
gli obblighi impostigli dal Mandato britannico, finirà per uccidersi nel novembre 1929. Diventerà il
simbolo del patriottismo iracheno, consacrato da statue e parchi e portato ad esempio agli studenti.
La sfiducia della Gran Bretagna nei confronti dello stesso Feisal e dei suoi collaboratori (a parte
Nury Said) farà sì che l’esercito iracheno sarà mantenuto pressoché disarmato. Nel 1921 esisteva
una sola unità di 234 uomini, in cui lo stesso Feisal si era arruolato come soldato semplice. Nel
1927 c’erano ormai una scuola di fanteria, una di artiglieria e una di trasmissioni, ma tutti i quadri
superiori dovevano formarsi in Gran Bretagna. Dopo l’indipendenza l’esercito era cresciuto ancora
e al momento della “rivoluzione del 1936” (e della repressione delle minoranze) contava su una
brigata di cavalleria, quattro divisioni di fanteria, una brigata di guardie di frontiera, una piccola
unità di blindati leggeri e alcuni apparecchi aerei.27
La repressione delle minoranze etniche e religiose
Lo scopo di questo potenziamento dell’esercito era evidente: poter fronteggiare
contemporaneamente una rivolta curda nel nord e una sciita nel sud. Ed era una preoccupazione
fondata. Le rivolte curde si ripetono periodicamente, ma presto compaiono altri pericoli.
Oltre alle proprie minoranze storiche, l’Iraq deve fronteggiare il problema degli Assiri (come
vengono chiamati gli ultimi seguaci dell’eresia nestoriana), sfuggiti alla assimilazione forzata
imposta dal regime turco, e che si sono rifugiati soprattutto nella regione di Mossul.28 Nel corso
della prima Guerra mondiale si erano legati alla Gran Bretagna, ma negli anni successivi le avevano
fornito spesso truppe mercenarie contro le rivolte degli arabi, verso cui manifestavano una specie di
disprezzo, sicché si erano creati forti risentimenti della maggioranza degli iracheni nei confronti di
questa minoranza, per giunta arrivata piuttosto recentemente da ogni angolo dell’antico impero
ottomano. Delusi successivamente dalla politica dei dominatori, avevano accolto favorevolmente
alcuni agenti francesi, che avevano fatto promesse mirabolanti. Nel 1933, alcune migliaia di loro,
che avevano tentato precedentemente di rifugiarsi in Siria per ottenere protezione, terre e alloggio, e
27
J. Dauphin, op. cit., pp. 62, 64 e 71.
Nestorio era un monaco siriano divenuto vescovo di Costantinopoli nel 428, ma era stato deposto nel 431 dal concilio
di Efeso,perché era stato ritenuto eretico il suo rifiuto di considerare Maria “madre di Dio” (egli proponeva invece di
definirla “madre di Cristo”, per riferirne la maternità alla sola natura umana del Cristo). La sua eresia si era diffusa
largamente nei secoli succesivi. Una parte dei nestoriani avevano tuttavia accettato l’autorità del vescovo di Roma, e
furono chiamati Caldei, mentre quelli rimasti autonomi furono chiamati Assiri.
28
23
non avevano trovato un’accoglienza decente, avevano quindi tentato di rientrare in Iraq,
scontrandosi con successo con un battaglione iracheno che cercava di bloccarli.
Era l’occasione che i militari aspettavano per recidere “l’ascesso assiro”, con un massacro effettuato
dalle truppe regolari insieme alla tribù beduina degli Shammar. 29 Né la Gran Bretagna, né la
Francia, che pure aveva fatto sperare nella sua protezione, fecero qualcosa per fermarlo, e la Società
delle Nazioni, che aveva mandato precedentemente una commissione di inchiesta, non batté ciglio.
La notizia dei massacri, degli stupri, di 60 villaggi su 64 distrutti nel Dohok e nel Cheikhan, pare
abbia turbato re Feisal, che si trovava in Europa, prima per una visita ufficiale a Londra, poi per
cure in Svizzera. Rientrato a Baghdad contro il parere dei medici, viene contestato dalla plebaglia
aizzata dai militari, che chiede lo sterminio totale degli assiri, e acclama il principe ereditario Ghazi.
Il re tuttavia rifiuta di abdicare e lascia il paese il 2 settembre 1933, salutato solo da qualche
ministro. Suo figlio Ghazi rientra nello stesso giorno da Mossul, dove è andato a passare in rivista le
truppe irachene reduci dalla facile vittoria, e viene acclamato da migliaia di persone. Il 7 settembre
Feisal, che è da qualche giorno a Berna, muore improvvisamente per un collasso cardiaco e nello
stesso giorno il figlio viene proclamato re. Dopo la morte, Feisal, che non era mai stato amato,
ottenne improvvisamente una grande popolarità. La sua salma venne accolta da grandi
manifestazioni di dolore già dalla folla palestinese al momento dello sbarco a Haifa, e poi a
Baghdad, dove gli verrà eretto un piccolo mausoleo. Il figlio Ghazi morirà pochi anni dopo,
nell’aprile 1939, in un incidente d’auto, che la popolazione crederà non accidentale e che attribuirà
a un complotto della Gran Bretagna. Il nuovo re Ghazi in realtà non dava fastidio a nessuno, e si era
rivelato incapace di tirar fuori il paese dall’anarchia militare. Ma sarà ricordato dall’estrema destra
con nostalgia come il “vincitore degli Assiri”...
Intanto nel 1935 erano stati invece gli sciiti a muoversi, reagendo all’imprigionamento “per
agitazione” di un loro predicatore a Rumaythah, a mezza strada tra Baghdad e Basra. Il tentativo di
liberarlo scatenò una repressione feroce, in cui si distinse il generale Bakr Sidqi, di origine curda.
La rivolta dilaga in tutto il sud, e viene risolta con i bombardamenti e la corte marziale.30
Successivamente toccherà agli yeziditi. 31 Nel 1933, al momento di un referendum per decidere se
la loro regione, il Djebel Sindjar, doveva essere annessa alla Siria che la rivendicava, essi avevano
optato per l’Iraq. Ma l’anno successivo il tentativo di imporre la leva militare obbligatoria provocò
una rivolta in nome di antichi privilegi concessi loro dall’impero ottomano (che esentava volentieri
le minoranze religiose dal servizio militare). Gli yeziditi chiedevano casomai di poter formare una
loro unità speciale: era una richiesta motivata dal timore che aveva questa minoranza esigua,
perseguitata per secoli e fortemente calunniata dalle altre confessioni religiose, di trovarsi a contatto
con uomini di altre religioni. Anche qui la repressione sarà feroce e colpirà ugualmente appartenenti
ad altre confessioni, tra cui alcuni notabili cristiani che avevano appoggiato Daud Daud, sceicco di
Mihirkam, il quale aveva iniziato la rivolta attaccando i posti di polizia dello Djebel. Il comandante
delle truppe irachene era sempre Bakr Sidqi. 32
Bakr Sidqi sarà poi protagonista di un colpo di Stato nell’ottobre 1936, nel corso del quale sarà
ucciso Jafar al-Askari cognato di Nuri Said. Sidki verrà però ucciso a sua volta da un soldato
insieme al capo dell’aviazione, il maggiore Mohamed Ali Jawad, nell’agosto 1937. Di omicidi
politici ce ne saranno moltissimi, in quegli inquieti anni Trenta: tra essi quello di Rustum Haydar,
ministro delle Finanze, considerato onestissimo, e fedele collaboratore di Feisal. Venne abbattuto
durante un’udienza da un fanatico squilibrato, che tuttavia sembrava essere influenzato dalle
tendenze pronaziste, che troveremo in scena tra poco.
Scheda
Gli Shammar sono una tribù di beduini nomadi che si spostano tra la Giordania, la Siria, L’Arabia Saudita e l’Iraq.
Ivi, pp. 90-91.
31
Per informazioni sugli Yeziditi si veda la nota 6.
32
Ivi, pp. 94-95.
29
30
24
Un cenno storico sull’Iran
Come l’Afghanistan, l’Iran era stato nel XIX secolo al centro di uno scontro tra russi e britannici, che
tuttavia avevano trovato meno drammaticamente forme di “condominio”. Nel 1906 era iniziata una fase
di nazionalismo influenzato dalla Rivoluzione russa del 1905, e lo Scià Muzaffar-uddin aveva dovuto
concedere la Costituzione, ma il figlio Mohammad Ali, nel 1908, aveva fatto bombardare il Parlamento e
arrestato i capi costituzionalisti, scatenando una feroce guerra civile. Nel 1917, per fronteggiare il
pericolo di un’influenza russa diventata ormai sovietica, i britannici avevano appoggiato Reza Khan, un
rozzo ma prestigioso militare, che da capo dei cosacchi era diventato ministro della Guerra. Sempre con
l’appoggio britannico si era proclamato Scià nel 1925. Era poi stato destituito dai suoi stessi protettori
britannici nel 1941, perché sospettato non a torto di simpatie per il nazismo. Al suo posto era stato
nominato imperatore il figlio Reza Pahlavi, appena ventenne, con l’accordo di britannici e sovietici, a cui
l’Iran era divenuto indispensabile per ricevere rifornimenti e, in genere, per tutte le comunicazioni dirette
con gli alleati (non a caso a Teheran si tenne una delle conferenze dei grandi).
All’alleanza con Gran Bretagna e Stati Uniti l’Urss sacrificò due repubbliche sovietiche sorte nel
Kurdistan (a Mahabad) e nell’Azebaigian iraniani (un’altra repubblica dei soviet era sorta
spontaneamente già nel 1918 nel Ghilan).
Ma il destino dell’Iran sarebbe stato segnato dalla sconfitta del grande tentativo democratico avviato da
Mohammad Mossadeq, che nel 1951 aveva nazionalizzato il petrolio iraniano e aveva avviato una serie
di riforme per utilizzare la preziosa risorsa per lo sviluppo del paese. Era intervenuta subito la Cia, che
aveva organizzato un colpo di Stato basato sui settori più conservatori dell’esercito e sulle tribù arretrate
legate da vincoli familiari a Reza Pahlavi (che intanto era prudentemente fuggito a Roma). Il colpo era
riuscito facilmente, anche per il settarismo del partito Tudeh (comunista), che aveva esitato ad
appoggiare Mossadeq, considerato antisovietico perché nel 1944 aveva presentato in parlamento una
risoluzione che vietava al governo di trattare nuove concessioni petrolifere mentre la guerra era in corso e
il paese era occupato (ed era proprio l’Urss che aveva tentato di ottenere l’autorizzazione a compiere
ricerche nelle regioni del Caspio iraniano che occupava). Il Tudeh avrebbe pagato caro in futuro il suo
atteggiamento nei confronti di un tentativo fortemente appoggiato dalle masse, ma lo pagò anche
immediatamente perché molti suoi militanti furono comunque assassinati dalle bande dello Scià appena
tornato al potere.
Comunque, in quella occasione emerse chiaro che Reza Pahlavi, pur essendo arrivato al trono come
uomo dei britannici e col consenso sovietico, si era appoggiato ormai sull’imperialismo più forte ed
efficace, quello statunitense. L’Iran diventerà (insieme a Israele) il principale gendarme
dell’imperialismo nell’area, con un esercito sproporzionato, che assorbiva quella parte del ricavato del
petrolio che non veniva sperperata nel lusso della famiglia imperiale e dei suoi clienti, ma che non
riuscirà a bloccare la rivoluzione nel 1979.
Di rivoluzione infatti si è trattato, anche se è sfociata quasi subito in un regime medievale e intollerante.
Rivoluzione perché a sfidare un esercito potentissimo e una polizia segreta che sembrava onnipotente
erano stati milioni di uomini e donne scalzi e a mani nude. Se la direzione del movimento è stata presa da
quegli ayatollah che pochi decenni prima non avevano nessun peso politico è perché, sotto la guida di
Komeini, avevano assunto un atteggiamento durissimo e fermo di opposizione allo Scià, mentre la
sinistra, che aveva avuto un grande ruolo nei decenni precedenti (a partire dagli anni Venti, in cui
l’influenza della Rivoluzione russa era stata fortissima sui lavoratori dell’industria petrolifera, ma anche
sui ceti medi urbani), era stata ridimensionata e screditata dalle oscillazioni tra ribellismo insurrezionale
e adattamento al regime, dovute alle mutevoli esigenze della burocrazia sovietica.
Khomeini aveva guadagnato un enorme prestigio per la sua fermissima e al tempo stesso semplice e non
mediata opposizione allo Scià, perché era stato esiliato e braccato, perché la polizia dello Scià gli aveva
ucciso il figlio primogenito e prediletto, suo stretto collaboratore. Per questo le grandi masse scese in
piazza a mani nude gli avevano delegato il potere al suo rientro, e le formazioni della sinistra
filosovietica o maoista, che pure avevano lottato insieme agli integralisti, furono messe rapidamente e
senza difficoltà da parte. Alcune delle misure introdotte, come l’obbligo dello shador e la punizione
severissima dell’adulterio, considerate insopportabili nelle città, sono state accettate in qualche misura
nelle campagne dove lo shador era già in uso e le donne, invecchiate precocemente per il durissimo
lavoro, erano state spesso abbandonate come “vedove bianche” dai mariti emigrati. Ma il regime degli
ayatollah non si caratterizzava solo per questi aspetti, bensì anche per l’efficacia del sistema
assistenziale, appoggiato sui beni delle moschee, e per alcune misure calmieratrici che hanno difeso gli
strati più poveri, che le hanno considerate un netto progresso rispetto alla situazione esistente sotto lo
Scià. Contrariamente all’immagine stereotipata presentata in Occidente, nei primi venti anni del regime
l’analfabetismo è stato ridotto di oltre la metà (dal 63,4% del 1975 al 31,4% del 1996, l’istruzione
25
secondaria è passata dal 46,7% al 59,8% della popolazione, e quella universitaria dal 5,0% al 12,7%
nello stesso periodo. I libri pubblicati: nel 1975, 3.027, nel 1991, 10.753 titoli.
Va ricordato anche il carattere antimperialista della propaganda, ma anche di alcuni gesti spettacolari
come l’occupazione dell’ambasciata statunitense con la presa di ostaggi e la pesante umiliazione inflitta
ai protettori dello Scià. La guerra contro l’Iraq, anche se il suo proseguimento dopo la cacciata degli
invasori dal territorio iraniano è stato criminale, era stata inizialmente e ha continuato ad essere
presentata come una lotta difensiva contro il “piccolo diavolo” Saddam Hussein, al servizio allora del
“grande diavolo”, gli Stati Uniti.
Nonostante le pretese dei settori più conservatori del clero, l’Iran si è progressivamente liberato in parte
della cappa di piombo integralista, grazie al livello culturale di uno settore notevole della sua
popolazione urbana e alla complessità della società. La vittoria di Sayed Khatami nelle elezioni del 1997
e poi in quelle del 2001 è stata determinata dall’appoggio netto soprattutto delle donne e dei giovani,
stanchi dell’uniformità imposta nel primo periodo dopo la cacciata dello scià.
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