Disagio e tregue - Sindacato Nazionale Scrittori

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Disagio e tregue
IL Vertici/Libri Editrice in Palermo, 1986
Prefazione di Alfio Inserra
Ritornato alla coscienza, durante le tregue dal suo male, per ritrovarsi immerso nel
turbinoso plancton dell’universo atomistico, il grande Lucrezio percepiva Essere e
Tempo, assaporando (assorbendo quasi) e l’uno e l’altro “per fragmenta rerum”.
Si elevava allora sulle cose della vita e del mondo e arroccato nel suo promontorio
epicureo, alto su un mare in tempesta, contemplava la dimensione magmatica e
travagliante della natura e dell’umano, con spirito libero e al riparo da ogni male.*
Altre tregue (e da insania di diversa natura) scandiscono il “πolelv” di Francesco
Federico, ma ci sembra che un non dissimile “per intervalla” segni il tempo del
raccolto poetico per il nostro giovane autore.
Questo ricorrente malessere sembra coincidere con la sua memoria di poeta (Cfr.
“da L’Imbroglio – 14 poesie non poesie” Palermo, 1979) e resta nux di un itinere in
cui apparenti metamorfosi connotano una univoca polivalenza: “stupore”, “crisi” e
“letargo” sono trances e poussees di una “insania” che soffoca e ottunde, (“La
sorpresa assurda di non poterti parlare”) che svuota di sé fino a non vedere, a non
credere: “ l’imbarazzo di vivere…quando nel cielo mancano le stelle”.
Slittando da questo alienante abrivo che sospinge meccanicamente dall’oggi al
domani, Federico si risolve da un malessere di tipo sartiano con frenate di lirica
atarassia che, lungi dall’essere rassegnazione passiva, fanno piuttosto da
“promontorio” lucreziano, sosta e riflessione su un agitato “mare intimum”.
(“ Stranamente è andata via la zavorra / la stanchezza delle abitudini…”).
E’ questa lettura di sé una sorta di psicanalisi freudiana che salvi con i medicamenti
della Musa: gli unici che consentano qualche tregua. Isola beata a cui approdare, con
fatica di braccia dopo aver a lungo (e a disagio) nuotato in un oceano-vita che resta
per il nostro “una incodificabile condizione ambigua”.
Il discorso poetico di Francesco Federico, si fa man mano sempre più lucido e
personale. L’approdo a questa utopica Atlantis che è poesia come “stagione di
parole” segna un placebo, condizionante della tregua medesima.
Il lucreziano “ mare” sporco di catrame, si fa vieppiù minaccioso e “interiore”
(“rabbia endemica che logora”) e solo per trasmutazione lirica può diventare “mare
di coralli” e la paura del naufragio convertirsi in “smania” di vivere, desiderio di
viaggiare, sede di sogni e comunque, valenza: “non dirmi che la memoria è
labirinto…”.
In al modo, anziché far autobiografismo di maniera, Federico, assorbendo
magistralmente la lezione di Cardarelli ( forse anche in via mediata, da altri poeti),
- ermetizza – una condizione di vivere che nel trascorrere delle stagioni (e delle
parole) resta tregua e consapevolezza spesso ironica, ma subito liricamente
appercepibile (tanto basta !) di un altrimenti irrisolvibile disagio. (“Ristagna il
logorio fastidioso / tra l’inerzia / e il cancro delle abitudini”).
Tale ironia, nel gioco metro-ritmico di un lessico chiaro ed essenziale, si fa bisturi
tagliente e opera contro la propria voglia di illudersi: “Non è tempo di lune d’agosto e
di amori / sono ancora attraccato in questo porto / di alchimie e ipotesi / e non so
quanto durerà / questa tregua” .
Questa “Stagione di parole”, rivissuta per molti versi tra intimo e familiare,
(quasiché gli altri affetti siano dei quasi-amore) si adombra talvolta di certe
malinconie turgheneviane che suggeriscono, dietro al dissapore del quotidiano, una
rischiosa (ma pur convinta) corsa alla dissolvenza dei valori, come a voler condurre
le ricordate turbe esistenzialiste a più pericolosi apparentamenti di stampo
nichilistico: “Il malumore che costringe alla resa / questo breve transito tra anonimi”;
che poi tali (anonimi) possano diventare anche il padre o il fratello, con cui si
intessono colloqui intensamente poetici, non è – a nostro avviso – ipotesi d
sottoscrivere.
L’anonimato è, se mai il denominatore i cui risolvere gli altri quasi-amore nella
positività di una atmosfera memoriale, ove la poesia (che combatte il nichilismo)
riesca comunque a temprare lo spirito, tabulando musivamente (quasi un usus-lusus
cromatico) di “lampare gialle sul mare”, “verdi prati di mimose ”, “uve e profumi /
nel tuo giardino di piaceri” hortus nel quale “occhi neri dopo la notte” o “azzurri di
mare” e “corpo come sole rosso d’agosto” vivono breve ora in sogni di cristallo che
un ennesimo e (per converso) crudele moto di disagio torna a scomporre (tessere
senza più forma) in una meno ammaliante messa a fuoco, tra “amore e sesso”, nervi
ed istinto.
Così, tra sussunzioni e paure, confessioni e sussulti, Francesco Federico prosegue
il suo itinerario poetico e, borghesianamente “convencido de caducidad” approda ad
un suo discorso del sociale (o discorso del “suo” sociale), fatto sulla / alla sua gente
delusa, alla sua “isola di grano”, coinvolte in un altrettanto enigmatica incongruità
(stavolta storica), disarmante come quella che aveva reso insapido il ”lanx”
esistenziale.
“Case distrutte” e “Paesi svuotati” sono esiti altrettanto laceranti (e più al poeta
che non sa soggiacere ai sofemi della diatriba politica) che si allineano ad ispessire il
disagio; nuovi aculei, alle cu ferite cercare lenimento ad alibi per non soccombere,
nella coscienza di “Questo ambiguo procedere per inerzia”, di questo tout - coeur
“costante provvisorio”.
Eppure il Nostro non desiste; non ripone il suo calamo, approfitta di ogni”tregua”
per riprendere parola.
Anche se costretto a sanguinare, ché (come dice Sefèris) “la memoria, dove la
tocchi, duole”; anche se (come dice egli stesso a conclusione di questa raccolta)
“nulla posso dirti senza inganno / nonostante l’inganno”, Federico ritrova l’ora ed il
ramo su cui cantare, usignolo tra le fronde e le insidie della foresta e della notte, pur
di ripetere inesaustivamente “cada die todo”, perché il poeta è sempre un
“embriagado diòs del suceder”.**
* Parimenti Dante si stava gloriosamente suso in celo “Da tutte queste cose sciolto” (Paradiso,
Canto XI, vv.7-11).
** Juan Ramon Jimenez, Il poeta e la parola (da “la estacion total”).
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