Raspanti - Progetto Culturale

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FIGURE DELLA SPIRITUALITÀ CRISTIANA:
PLURALITÀ IN DIALOGO*
di
Don Nino Raspanti
1. DELIMITAZIONE DEL TEMA
Punto focale della presente comunicazione è l’esistenza delle persone che hanno accolto il
messaggio evangelico nella comunione viva del corpo di Cristo nella chiesa cattolica, prescindendo
da questa o quell’individualità nel presente o nel passato. Lo sforzo dell’attenzione consisterà,
pertanto, nel rimanere fedele al dato storico nella sua concretezza, non solo per rispettarlo ma
soprattutto per valorizzarne la forza e lo spessore che gli sono propri, in quanto avvenimento nel
quale riconosciamo la congiunta azione di Dio e dell’uomo. Nella sua materialità il dato presenta
una vasta gamma di esistenze credenti, che si connotano talvolta con tratti tanto distanti fra loro, da
suscitare la domanda se e come esse possano conciliarsi e convivere sotto la comune aggettivazione
di cristiane. L’inevitabile interrogativo è se e in che modo si possano distinguere degli elementi
costanti e altri variabili in questa gamma di esistenze. La domanda tuttavia non si ferma al semplice
dato della molteplicità, perché essa ne implica un’altra sul come riconoscere che una singola
esistenza, considerata in se stessa, possa definirsi cristiana, se essa sia giudicabile con riferimento a
dei criteri e nella sua qualità. Senza una soddisfacente risposta a questi interrogativi si corre il
rischio di ingenerare una totale confusione e di favorire la convinzione che la vita cristiana consista
in una caotica accozzaglia di forme, lasciate ovviamente alla libertà delle persone e del soffio
sempre nuovo dello Spirito, da regolare in ultima istanza, ma solo estrinsecamente, per via
giuridico–disciplinare da parte dell’autorità ecclesiastica.
In tal modo però nutro forti dubbi che il dato venga compreso, con il rischio reale che la varietà
sia minacciata nella sua espressione, mettendo in pericolo la fede stessa: a questo punto infatti essa
sarebbe rinnegata nella sua possibilità di divenire accadimento umano. Tenterò di tenere la
riflessione ancorata all’oggetto della sua osservazione, cioè al concreto e al singolare, nella sua
complessità o, meglio, nella sua estrema semplicità, che per sua natura non si lascia interamente
catturare dall’atto secondo qual è quello riflesso. In altri termini ci si deve guardare dal pericolo di
separarsi dal proprio oggetto, il vissuto di fede, per concepirlo astrattamente, classificandolo
all’interno di una generica quanto vuota tipologia di esistenze credenti, scivolando tacitamente nella
presunzione che originaria sia la tipologia creata dal nostro pensiero, perché giustificata da una
logica riflessione. Non si tratta neppure, in modo semplicistico, di estrarre dalla rivelazione e dalla
storia della spiritualità alcune caratteristiche comuni, proprie di ogni esistenza cristiana, per
*
Bibliografia: Y. CONGAR, Proprietà essenziali della chiesa, in Mysterium salutis VII, pp. 439-707; D.
WIEDERKEHR, La chiesa come luogo di una multiforme esistenza cristiana, in Mysterium salutis VIII, pp.416-484; B.
FORTE, La chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della chiesa, comunione e missione, Cinisello Balsamo 1995; G.
MOIOLI, Esperienza cristiana, in DE FIORES - GOFFI (a cura di), Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline,
Roma 1978, pp.536-542; ID., L’esperienza spirituale. Lezioni introduttive, a cura di C. Stercal, Glossa, Milano 1992.
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distinguerle da altre, proprie solo di alcuni grossi filoni spirituali, e altre ancora, peculiari di singole
personalità, malgrado tratti così distinguibili possano ritrovarsi in questo o quel santo. Non bisogna
in altri termini imbastire una tipologia a partire da una semplice constatazione fenomenologica,
sebbene il rilevamento dei fenomeni sia un momento necessario della ricerca. D’altra parte, non
bisogna pensare ad una tipologia normativa o prescrittiva, che dica in anticipo quali vie debbano
percorrersi, preconfezionando gli itinerari e la loro compatibilità con le altre esperienze nella chiesa.
Questo rischio, non sempre evitato, conduce allo scacco la teologia con le sue formule dinanzi
all’eclatante multiformità innovatrice dell’esistenza credente, perché essa al più cercherà di
abbracciare la vastità del dato storico in un generale concetto, sia pure teologicamente significativo,
ma appiattendo e perdendo irrimediabilmente la ricchezza della singolarità e la vitalità della
comunione, che si esaltano reciprocamente solo riuscendo a cogliere il loro nativo intreccio.
Un ultima precisazione preliminare: nel titolo si dice “figure”, un termine con una connessa
visione di don G. Moioli che fornisce una soluzione interessante, e che mi sembra utile sviluppare
secondo il solco da lui stesso indicato della dimensione ecclesiale dell’esperienza cristiana, perché
ciò arreca maggior luce alla presente questione. Per meglio approssimarsi alla comprensione della
polarità individualità–multiformità dell’esistenza cristiana, sarà bene infatti riprendere anche alcuni
luoghi della riflessione ecclesiologica, ad esempio quello che considera la chiesa un mistero di
comunione. Per ragioni di spazio non daremo sufficiente attenzione, benché sia parte integrante del
dato, alle specificità dei rapporti: a quelli tra il singolo credente, le aggregazioni, la chiesa
particolare, la chiesa universale, nei quali concretamente si situa l’esperienza cristiana; tralasceremo
quindi anche quel capitolo della teologia spirituale che va sotto il nome di scuole di spiritualità.
2. LE COMPONENTI ANTROPOLOGICHE E TEOLOGICHE DEL DATO
L’incontrovertibile dato di partenza mostra che la situazione storica con i relativi mutamenti
producono un altrettanto mutamento e un arricchimento nelle forme dell’esistenza cristiana, le quali
si riferiscono tutte all’unico messaggio evangelico, accogliendolo nello scorrere dei tempi.
Fermiamo anzitutto l’attenzione sul versante antropologico del vissuto credente. Una consolidata
serie di riflessioni filosofiche ci aiuta a comprendere quanto lo spessore storico e culturale, nel
quale la persona vive, sia per lei strutturale e determinante, fornendo le indispensabili condizioni
nelle quali si esercita la sua libertà. Per questa via scopriremmo facilmente i motivi antropologici
per i quali il singolo non può esaurire le infinite possibilità del messaggio evangelico, e
corrispondentemente ammettere che la molteplicità delle esistenze esprime poliedricamente la
ricchezza del messaggio. La persona e la sua libertà, d’altronde, non si esauriscono né si
identificano con le condizioni storiche del loro esercizio, anzi per se stesse tendono all’universale,
per quanto si individuino nella storicità, non rimanendo per questo menomate né pregiudicando la
tensione all’universale e la possibilità concreta di apertura e di accoglienza di esso. A ciò fa
riscontro, con le dovute differenze, il dato teologico dell’incarnazione del Verbo divino
nell’esperienza storica di Gesù. La persona umana esiste e raggiunge la propria perfezione non
prescindendo dalle condizioni storiche in cui esercita la propria libertà, ma solo attraverso di esse;
in esse dunque, e soltanto in esse, si specifica e si esalta la sua singolarità. Nel caso dell’esistenza
cristiana perciò la libertà, nella quale si attua e in cui ultimamente consiste la singolarità della
persona, si esercita nel far proprio, nell’assumere in quelle condizioni, in quel finito, coniugandolo
con essi, il messaggio che le giunge ed in cui si manifestata la chiamata divina.
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È parte integrante del dato di partenza, inoltre, la relazione tra le persone, che non è marginale
nell’esistenza personale. Senza entrare nelle discussioni su quanto e come la relazione
interpersonale sia condeterminante nei riguardi del singolo, non ci si può però fermare ad una
concezione individualistica del soggetto, concezione che solo superficialmente o secondariamente e
comunque in forma estrinseca afferma questa connessione relazionale; essa invece è originaria nella
persona fino al punto che il suo cammino verso la propria pienezza si snoda e si intreccia
indissolubilmente con la presenza di altre persone che con lei interagiscono. Da ciò in teologia ne
risulta fortemente condizionata, ad esempio, la concezione dell’unità del genere umano, altrimenti
ridotta a puro fatto biologico o meramente funzionale ai vari generi di aggregazioni umane. Anche
in questo caso è utile richiamare il dato teologico della solidarietà in Cristo, che si dispiega in una
storia di accoglienza e di rifiuto del suo Spirito, e che ha nella chiesa il proprio segno e il proprio
strumento. Su ciò si ritornerà sotto.
Nella risposta propria di questa o quella persona, si pensi soprattutto alle risposte esemplari dei
santi, ciò che è centrale e non periferico né ornamentale, è esattamente il distintivo che conferisce a
ciascuna esistenza credente modalità proprie di vivere e di credere. La singolarità è il coniugio tra il
messaggio divino e l’accettazione di fede di quest’uomo, nel quale sono incluse la sua formazione e
la sua cultura, il groviglio di situazioni storiche nelle quali si è imbattuto e il fascio di relazioni
umane dalle quali è stato interpellato. Tale coniugio è come la punta di diamante attraverso la quale
si incide nel tempo la Parola divina nell’attimo in cui si fa carne, creando un linguaggio nuovo,
generatore di nuova civiltà. Il cristiano, infatti, accoglie nell’obbedienza il Verbo che irrompe nella
sua esistenza, il quale getta una luce nuova non solo su di lui, ma con lui anche e soprattutto sul
mondo che lo circonda e con il quale egli si sa strettamente connesso. Nel Verbo, infatti, tutto è
stato creato e tutto esiste in vista di lui. Il cristiano, allora, si trova ad essere partecipe di questa
visione del cosmo e della storia, non astratta o generica, ma che coinvolge i fatti e le situazioni a lui
contemporanee: una visione nuova per lui che fino ad allora li contemplava esclusivamente alla luce
della propria capacità umana, quindi con occhi ciecuzienti. Da qui l’enorme sforzo, che è servizio
alla verità contemplata, di dover dire di nuovo l’eterno e l’indicibile nel tempo o, meglio, ridire il
tempo alla luce dell’indicibile; è la reinterpretazione e ridefinizione dello spazio intorno a sé in un
nuovo universo, abitabile per altri. Tutto viene ridetto, ogni cosa rinominata, perché nuove
connessioni sono state intraviste, per le quali un nuovo senso della realtà risplende.
Il campo privilegiato in cui si dispiega questo dinamismo è la traditio fidei. In ogni atto della
consegna non accade una trasmissione passiva o meramente oggettuale, bensì ogni persona
ricevendo e trasmettendo la fede è chiamata ad un processo creativo che impegna totalmente e
radicalmente la sua libertà; anzi l’appropriazione della fede da parte di una persona, l’atto di quel
coniugio è la stessa traditio fidei: accogliere la Parola e comprendere la propria missione,
ridefinendo appunto tutto ciò che circonda nel senso di quella Parola, non sono in ultimo due atti
diversi o, comunque, per quanto assistiamo ad un cammino che anche psicologicamente si estende
nel tempo in uno sviluppo e in una storia di consapevolezza e di realizzazioni, più o meno coerenti,
tuttavia siamo in presenza di un processo fortemente unitario. Il dinamismo, infatti, parte e si
sostanzia di un vedere più chiaramente, meglio, di un vedere la realtà nella sua verità, perché è un
vedere in Gesù risorto. Fa capolino a questo punto un interrogativo, connesso certamente con quelli
nostri di fondo, che dobbiamo solo accennare. Per quanto la consegna della fede vada soprattutto e
primariamente concepita nel vasto ambito della chiesa, il fatto che essa avvenga in questa forma di
appropriazione personale sia da parte dell’uomo e della generazione che trasmette sia da quella di
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chi riceve, non si corre il rischio di sminuirla relativizzandola in un qualunque soggettivismo? Se ci
ricolleghiamo all’originaria sorgente della tradizione in Gesù e negli apostoli, troviamo non solo
che non si corre il paventato pericolo del soggettivismo, ma anche che questa forma dell’esperienza
cristiana e della sua trasmissione è l’unica possibile sia per motivi antropologici sia per motivi
teologici; in altri termini è l’unico modo perché ogni volta si partecipi all’atto originario
dell’esperienza di Gesù, al quale in ultimo partecipa ogni appropriazione personale della fede. Ecco
perché la fede non si consegna da una persona all’altra in parte o secondo una soggettività che ne
distrugga l’oggettività, richiedendo successivamente un processo di ricomposizione di parti o un
supplemento di altri punti di vista per conquistare la sua verità. Non è questo il senso della
comunione ecclesiale, come vedremo in seguito.
L’economia divina dell’antico e del nuovo patto con la chiamata a diverse forme di esistenza, a
svariati servizi, mostra che la multiformità dell’esistenza cristiana non è solo un risultato della
componente umana, ma può esser ricondotta a Dio stesso. D’altronde se ogni esperienza cristiana ha
origine dalla vocazione e missione di Gesù e dal dono del suo Spirito, allora la partecipazione nel
processo credente di appropriazione–trasmissione della fede all’atto storico di Gesù non fa che
confermare che tale multiformità fa parte del piano divino, prima ancora di essere un prodotto
necessario delle condizioni del ricettore umano. Inoltre ancorché il ricettore umano sia determinante
con la variabilità delle sue condizioni, ciò è senz’altro riconducibile al piano divino medesimo, al
quale risalgono anche le disposizioni di tali condizioni. Se non dovessimo ammettere questa
possibilità in Dio stesso, allora essa sarebbe da attribuire semplicemente alla componente umana, la
quale diverrebbe fattore di decadimento nel momento stesso in cui è elemento di molteplicità.
Apriremmo così una cesura irrimediabile che attraversa, dividendole, l’esperienza cristiana e
l’esperienza di Gesù, a questo punto disomogenee, oppure incrineremmo l’esperienza di Gesù
stesso, che non sarebbe esperienza di Dio nella sua interezza. Per altro risulterebbe impossibile
abbracciare l’esperienza cristiana nell’unico piano divino, se non reintroducendo una divisione in
essa tra qualcosa di essenziale e perenne e qualcosa di caduco e di cangiante, del tutto ininfluente
sull’essenza di quell’esperienza. Piuttosto, come la missione di Gesù si scolpisce in lui attraverso la
sua personale risposta al Padre per opera dello Spirito nel concreto storico, analogamente nel
credente la risposta è caratterizzata dalla partecipazione personalizzante dello Spirito con
riferimento all’esperienza di Gesù. La partecipazione all’atto storico di Gesù e un’analogia del
processo che avviene nel fedele rispetto a quello che avvenne in Gesù hanno il comune
denominatore dello Spirito Santo come agente primario ed unico. Gli ovvi motivi antropologici
della multiformità dell’esistenza cristiana trovano in ultimo il loro fondamento nell’esperienza di
Gesù, dove si incontra Dio che diventa un singolare storico, determinato e concreto, facendolo
assurgere a normativo, escatologico, assoluto.
La questione della distanza storica tra Gesù ed il credente, che immediatamente si apre, trova
nell’azione personalizzante dello Spirito la sua soluzione. A motivo di questa distanza, infatti, e
perché la risposta del credente sia pienamente rispettosa della sua libertà, non potremmo
immaginare l’esperienza cristiana come pura ripetizione materiale della vicenda storica di Gesù,
bensì solo come memoria creativa di quell’avvenimento storico, assoluto e normativo. Il cristiano è
dunque memoria di Cristo secondo una modalità totalmente propria e singolare, che per questo non
supera, bensì rispetta la storicità. Nello Spirito si apre questo spazio della memoria di Gesù, nel
senso che l’avvenimento di Gesù è capace di determinare la figura del credente cristiano nella sua
attualità storica, ed insieme apre a lui la possibilità di porsi come coerenza creativa a Colui del
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quale egli deve essere memoria. L’intera storia della salvezza può intendersi come un testo che lo
Spirito scrive attraverso la risposta del singolo credente da lui medesimo suscitata e che disegna in
un modo o nell’altro i tratti dell’esperienza di Gesù.
3. LA FIGURA DEL CRISTIANO
Dopo aver tentato di comprendere il dato della varietà delle esistenze cristiane nelle sue
componenti antropologiche e teologiche, tentiamo una soluzione degli interrogativi di apertura. Il
riferimento originario ed intenzionale alla rivelazione in Gesù per l’azione dello Spirito dà la
possibilità di parlare di vere e proprie linee strutturanti dell’esistenza cristiana, che determinano una
figura di credente. Non dobbiamo intendere tali linee e la figura corrispondente come un tornare a
riaffermare una sorta di essenzialismo o apriorismo, cioè la definizione di uno schema astratto e
precostituito o normativo che un credente deve seguire. Non si vuole nemmeno affermare che la
figura di credente sia quasi un nocciolo di ogni esistenza cristiana sul quale si appongono delle
variazioni accidentali che mutano con il mutare delle condizioni storiche e personali del credente.
Sono invece linee emergenti dal riferimento intenzionale dell’esistenza cristiana a un dato oggettivo
e rivelano la capacità del dato di polarizzare e connotare un’intera esistenza. Queste linee
strutturanti o, per dirla con Moioli, nodi dinamici sono, quindi, altrettanti elementi costitutivi della
rivelazione, capaci di dar forza ed energia all’esistenza cristiana in diverse direzioni. Sono delle
linee che si ritrovano tutte nelle diverse esistenze credenti, sebbene materialmente in modo non
identico, alcune cioè fortemente sottolineate e altre meno, che costituiscono quindi una sorta di
specifico dell’esistenza cristiana, così come ci viene descritta nella rivelazione.
Per ritrovarle e per capirne la dinamica interroghiamo la rivelazione quale dato oggettivo, ma
teniamo ben presente il vissuto del credente, immettendoci all’interno di esso per capire come si è
determinato nel suo svolgimento in riferimento al Vangelo, come ha colto gli interrogativi della
storia e come le scelte conseguenti siano state da esso ispirate. Bisogna introdursi nel dinamismo
della ricerca della vocazione, nel discernimento del volere divino e della sequela di Gesù, nelle
risposte e nelle scelte approntate, quando giudicate coerenti con quella sequela e operate in
obbedienza a quella volontà. Si tratta di verificare se in una singola esperienza la persona ha colto e
recepito integralmente o parzialmente o in maniera distorta il messaggio evangelico, rispondendo
così al piano divino oppure no. Si riesce in tal modo a valutare anche la qualità delle singole
esistenze credenti. È pur vero che la persona abbia potuto cogliere il messaggio a partire da un
aspetto di esso, sottolineando una prospettiva in corrispondenza alla propria sensibilità e alle
interpellanze del suo ambiente, ma partendo da quella si deve capire come ella sia riuscito ad
accoglierlo nella sua integrità. Inoltre, non sempre si ritrova nel singolo cammino credente una
formula precisa che palesi le linee di cui parliamo; ma non cerchiamo una verifica di semplici
formule, bensì l’intelligenza di un’esistenza che si è sviluppata attorno a un punto fisso ben preciso,
consapevolmente assunto, che equivale pienamente a quello che la chiesa crede come integrante del
messaggio evangelico. Da una tale analisi si intende come un’esistenza sia riuscita ad inscriversi
nell’ambito della rivelazione–tradizione cristiana con una connotazione e un apporto propri. È
ovvio d’altronde che una singola esistenza credente non potrebbe essere pienamente compresa
secondo quello che essa stessa ha inteso essere e qualificata, quindi, nel suo specifico cristiano, se
non si riuscisse ricondurla e a raffrontarla con la rivelazione, e specificamente col punto focale di
essa, che è Gesù di Nazaret. Cosa che avviene non comparando i tratti materiali dell’una e
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dell’altra, ma cogliendo con la mediazione della riflessione i loro tratti intenzionali.
Le linee strutturanti sono riconducibili al riferimento a Gesù Cristo, con al centro il suo mistero
pasquale, e alla dimensione ecclesiale nella quale l’esistenza cristiana si dispiega. Il riferimento a
Gesù di Nazaret significa il riconoscimento e l’accettazione di lui come il Messia e il Figlio di Dio;
l’esperienza storica di quest’uomo–Dio assume per il credente un valore assoluto, in quanto unica e
definitiva mediazione di Dio. Ciò porta con sé non solo l’obbedienza ai suoi comandi, ma
soprattutto l’accettazione libera del perdono e della riconciliazione da lui operata nella Pasqua, non
dissociabile dal riconoscimento dell’esser peccatori nella partecipazione responsabile al mistero di
iniquità operante nel mondo. E ancora, la necessità di lasciarsi determinare non da un sentimento di
Dio, per quanto forte ed interiore, ma dalla Parola divina che entra e trasforma la storia e nella storia
interpella. Da qui si intuisce il superamento di alcune false opposizioni, che la tradizione cristiana
conosce e che nuocciono alla determinazione dell’autentica figura di credente. Ci si riferisce ad
opposizioni quali interiorità ed esteriorità, azione e contemplazione, vita religiosa e vita mondana.
Si possono intendere questi binomi come dei campi di tensione, per così dire, costitutivi della
condizione terrena dell’essere umano, i quali al di fuori di Cristo tendono a trasformarsi in divisioni
laceranti nell’uomo e nelle sue istituzioni storiche, mentre in Cristo uomo nuovo trovano la loro
armonia e diventano sorgente di ricchezza. In lui si comprende che essi sono come due facce di una
medaglia o come il diritto e il rovescio di un tessuto; per tal ragione non solo non sono separabili,
ma non sono nemmeno accostabili, l’uno accanto all’altro, né sovrapponibili, l’uno sopra l’altro, né
riunificabili dopo una separazione, l’uno di fronte all’altro fino a combaciare: essi sono, invece, un
solo tessuto, una sola medaglia, stando insieme dorso a dorso. Proprio questa posizione crea il
campo di tensione, armonizzato in Cristo, con la possibilità che un versante o una faccia sia la
possibilità e la manifestazione storica dell’altro.
4. LA DIMENSIONE ECCLESIALE
La dimensione ecclesiale, quale linea strutturante dell’esistenza cristiana, si pone in unità e in
logica conseguenza con il riferimento a Gesù Cristo ed insieme trova una rispondenza nella
costitutiva relazionalità dell’uomo credente. Ogni esistenza umana avviene nell’intrecciarsi radicale
delle relazioni interpersonali, e quella cristiana si caratterizza non solo per l’essere immessa in
questo intreccio storico, ma anche per il suo svilupparsi in una moltitudine connessa e strutturata,
che è la chiesa, luogo in cui le relazioni e la stessa relazionalità si connotano per il loro riferirsi
all’assoluto di Gesù Cristo. Per tal ragione la chiesa è lo spazio vitale necessario in cui si origina, si
sviluppa e sfocia l’esistenza personale di fede; questa dunque dal suo costituirsi è in riferimento
intenzionale, più o meno esplicito, a quella. Nella chiesa, infatti, il credente vive l’armonia
dell’uomo nuovo, a motivo della natura misterica della comunità ecclesiale, cioè il suo essere
totalmente abitata ed agita dallo Spirito del Risorto con determinate condizioni di appartenenza.
Egli vive, in una modalità storica piena, il lasciarsi interpellare dalla Parola, quale autorità
determinante esterna a lui, a motivo della struttura gerarchica della chiesa, come pure attua nella
storia, in tensione escatologica, l’estrema conseguenza cui conduce quell’ascolto, cioè la comunione
con Dio nella riconduzione del cosmo e della storia a lui, a motivo dei sacramenti. Abolire uno dei
poli del campo di tensione di cui sopra si parlava, generalmente quello dell’esteriorità o dell’azione,
a vantaggio di un’interiorità o maggiore profondità, non rende possibile un’esistenza di fede, cioè
non consente affatto la presunta maggiore intensità di comunione con Gesù di Nazaret, proprio
perché altera e tradisce i tratti e le condizioni di quell’avvenimento assoluto e normativo, non
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permettendo di porsi come memoria creativa con riferimento all’avvenimento. Diversamente da lui,
non si accetta pienamente lo spessore della storicità con il rischio dell’esposizione e
dell’affidamento agli uomini, che questo comporta, e, nel caso specifico della chiesa, non si riesce a
cogliere la sua natura misterica, scorgendo la presenza del Signore che traspare e si manifesta nella
mediazione umana e storica, né in ultimo si realizza la volontà di lui manifestata nella parola, che
mira alla comunione con gli uomini in una storia concreta e visibile e, di conseguenza, degli uomini
tra di loro.
La dimensione ecclesiale costituisce, dunque, uno di quei nodi in grado persino di strutturare
l’intera esistenza credente, in quanto la chiesa unita a Gesù Cristo è il luogo che la Parola ha
determinato, i sacramenti hanno costituito, e in cui questi a loro volta sono autenticamente ascoltati
e celebrati. Il dato teologico dell’unità della chiesa, sviluppato nella seconda metà del Novecento
secondo una teologia della comunione, può fornire l’ampio orizzonte nel quale comprendere il
concreto costituirsi del connettersi e del dialogare delle varie forme d’esistenza cristiana. Il dato
richiamato si riferisce soprattutto, ma non esclusivamente, al rapporto tra chiese, particolarmente tra
la chiesa universale e le chiese particolari, e non è in questo senso che a noi qui interessa. Tuttavia
in esso si mette a fuoco quella tensione tra il particolare e il tutto, per noi indispensabile,
contribuendo a focalizzare la tensione tra la chiesa in se stessa nelle sue diverse manifestazioni
storiche fino alla singola concrezione della persona. Ora l’unità della chiesa non è un’essenza
astratta, tematizzabile come una specie di residuo o comune denominatore tra i credenti, bensì un
fatto storico dato dal suo costituirsi a partire dalle differenze. Ciò accade perché ogni porzione,
come anche a suo modo il singolo credente, contiene il tutto ed è omogeneo al tutto, ma non è il
tutto, anzi per questo può concorrere a realizzare il tutto mediante ciò che in essa è singolare e
differente. I principi di unità della chiesa, infatti, non sono altri dai suoi principi di esistenza, che
sono anche i principi di ogni esistenza cristiana personale; si pensi anzitutto ai principi che
procurano e alimentano la vita cristiana: fede, amore, parola e sacramenti. Pur non potendo qui
soffermarci sulle necessarie precisazioni ecclesiologiche, possiamo parlare di una mutua
immanenza della chiesa, del singolo e delle varie forme intermedie di aggregazione, perché è lo
stesso mistero che vi si realizza e perché in ciascuno è presente il tutto; tale presenza del tutto in
ciascun credente e in ciascuna porzione dice necessariamente il loro riferimento intenzionale alla
chiesa universale, che ne è il compimento, facendo sempre salva la tensione escatologica. Per altro,
quantunque ogni membro della chiesa viva ed operi in un luogo e in un tempo determinati, i doni e i
ministeri che gli sono propri hanno un’intenzionalità universale, perché provengono dall’unico
Spirito e mirano a edificare una sola chiesa. Nel singolo, nel gruppo e, in misura diversa, nella
chiesa particolare non solo vi è la presenza, in modi diversi, del tutto, dell’intera essenza della
chiesa, ma proprio il loro diversificarsi implica l’ordine delle parti al tutto. A sua volta la totalità
non è l’essenza distillata della chiesa, ma il grande corpo che assume un aspetto proprio perché si
sostanzia e si costituisce di tutte le membra nella loro peculiarità. Il caso, singolare, certo, ma per
l’appunto tipico, del nesso tra Maria e la chiesa, mostra quanto sia possibile risolvere positivamente
questa tensione fra l’essenza universale della chiesa e la realizzazione individuale di un’esistenza
cristiana in essa: questo nesso, aldilà degli aspetti unici ed irripetibili, presenta il fondamentale e
comune dato tra le due entità: la comunione con il Cristo.
Non si può partire dal pensare la chiesa come una grande struttura, vuota e precostituita, nella
quale si vadano ad inserire le singole figure e le forme di vita cristiana; è vero piuttosto che queste
si sviluppano in modalità sempre nuove, che alla fine determinano l’aspetto concreto della chiesa ed
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il suo percorso nella storia. E per quanto esistano alcuni carismi istituzionalmente definiti che
formano le giunture del corpo, come quelli del prete e del vescovo, v’è sinanche una modalità
personale di vivere questi carismi che conferisce l’impronta concreta al cammino della chiesa nella
storia, dove l’azione dello Spirito condetermina con il singolo l’attuarsi del progetto di Dio. Ne fa
fede a tal proposito la possibilità di individuare nell’esistenza di alcune figure emblematiche di una
stessa epoca, operanti nella chiesa su piani diversi e in luoghi distanti fra loro, una consonanza che
prescinde da contatti storici, spesso mai avvenuti, e che significativamente denota la spinta dello
Spirito alla chiesa verso una precisa direzione. Dobbiamo concludere che l’apparente complessità
della varietà delle esistenze cristiane spinge inevitabilmente e per una forza interna verso
l’unità–comunione ed esige che si parli di complementarità. La prospetticità dell’esistenza cristiana,
che è sguardo sull’intero, è perciò strettamente correlata con le altre prospettive. È pur vero che
questa unilateralità prospettica deve essere responsabilmente assunta, con la scelta di un aspetto, di
un punto nodale ed una funzione ecclesiale determinata, per acquisire un profilo ed un’efficacia
propri. Ciò però nasce e si costituisce in un’opposizione relativa, cioè di relazione, alle altre
esistenze, ponendosi in rapporto con esse.
Questa complementarità e questa opposizione relativa nel vissuto storico assumono aspetti sia di
convivenza armonica sia di contrasto aperto e persino aspro. L’appropriazione personale del
Vangelo, infatti, può comportare un’accentuazione della prospetticità anche ostinata, per opporsi al
tentativo di appiattimento e di ripetitività, insite tendenze di chi si rifugia nella rassicurante
accettazione passiva di modelli esistenti e reagisce negativamente alla novità. Dall’altro lato ogni
forma di esistenza cristiana, essendo ispirata dal medesimo Spirito per l’edificazione dell’unica
chiesa in vista del Regno, è costitutivamente aperta allo scambio e al dialogo, alla ricettività ed alla
correzione, perché consapevole di essere accoglienza di un Vangelo normante, che si concretizza
nella docilità al ministero apostolico con il suo specifico servizio all’unità ed alla comunione.
Questo implica che il dialogo e la complementarità non sono di immediata percezione e la loro
realizzazione non prescinde dalla mediazione ecclesiale; anche a questo proposito sono da evitare i
rischi del sentimentalismo e del sensazionalismo, come pure quelli della sfiducia e della chiusura.
La mediazione ecclesiale procede con la fatica del confronto e del discernimento1 della via giusta e
dell’autenticità di un’esperienza. Anche il dialogo tra le differenze va letto nel quadro antropologico
e teologico, al quale abbiamo fatto appello sopra, con la conseguenza dello sforzo della ricerca e
dell’ascolto del volere divino, con le dinamiche che gli sono proprie. Già Moioli aveva detto che il
riferimento fondamentale a Gesù Cristo apre la personalità cristiana a vivere la paradossale storicità,
che non prevede fughe di immediatismo, ma accetta lo spessore di essa con la fatica del
discernimento. Quanto all’atteggiamento del cristiano nel processo del discernimento non possiamo
non rifarci all’atteggiamento del Cristo, che sappiamo improntato totalmente alla carità verso il
Padre e verso gli uomini, che ha comportato quel concreto modo di donarsi e che rimane il criterio
sovrano di crescita e di comunione delle molte forme di esistenza cristiana. Ogni cristiano
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Vengono in mente, ad esempio, i criteri di ecclesialità per i movimenti ecclesiali che la CEI già dal 1981 (e poi ancora
nel 1993: Le aggregazioni laicali. Nota pastorale della Commissione episcopale per il laicato) ha definiti, e che sono
stati ripresi dalla Christifideles laici del Pontefice, criteri che nascono dal considerare la chiesa come mistero di
comunione missionaria: primato dato alla vocazione di ogni cristiano alla santità; responsabilità di confessare la fede
cattolica; testimonianza di una comunione salda e convinta; conformità e partecipazione al fine apostolico della chiesa;
impegno di una presenza nella società umana. Questi criteri vengono indicati per quelle aggregazioni che intendono
identificarsi nella essenza e nella missione della chiesa e comunque costituiscono, con i dovuti adattamenti, criteri che
definiscono la figura di credente cristiano.
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partecipando alla carità di Cristo, si dispone concretamente a stabilire rapporti di donazione
reciproca nell’ascolto e nel dialogo aperto, e soprattutto è pronto a riconoscere ed accogliere le
differenze; anzi solo nell’accoglienza e nell’ammirazione delle differenze si comprende in
profondità il piano provvidenziale. Perfino il lasciarsi correggere dall’autorità magisteriale, quale
concreta traduzione della sottomissione al Vangelo, è segno di estrema libertà ed estrema
obbedienza, consapevolezza di non essere proprietari di un dono ma semplici amministratori per il
bene di tutti, riproducendo così la carità di Cristo che si lascia spogliare nella completa docilità.
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