La cittadinanza attiva
di Giovanni Moro*
dalla Guida all’Attenzione Annuale 2000-2001 “E ti vengo a cercare…”
Che cosa significa cittadinanza? Quali sono i suoi confini? Partiamo da una considerazione molto
semplice: al di là di tutte le definizioni, al cuore del concetto di cittadinanza, c'è l'idea di essere
sovrani. Una sovranità che si concretizza in un esercizio di responsabilità.
Certamente la cittadinanza nasce in alternativa alla sudditanza; quindi il passaggio dall'essere
sudditi all’essere cittadini ha in sé l'idea generale di sovranità; significa, in qualche modo, essere
padroni in casa propria.
La cittadinanza si incarna nella dimensione dell'ordinarietà. Perché non può essere un fatto astratto,
ma deve essere un'esperienza in carne ed ossa. Penso che ciò sia uno dei risultati del crollo del muro
di Berlino, della fine cioè di un mondo in cui si confrontavano sistemi di idee e di modalità di
organizzazione della vita sociale radicalmente alternativi. Oggi ci possiamo porre con serenità il
problema del livello di democrazia, della quota di democrazia, del tasso di democrazia della vita
quotidiana. Tuttavia di fronte a questa caratterizzazione della cittadinanza come concretezza e
quotidianità, c'è il paradosso di affermare che è proprio questo aspetto ad essere in crisi. Perché?
Provo a spiegarmi con esempi concreti.
Se dei cittadini oggi si organizzano per svolgere a proprie spese, in modo del tutto volontario,
funzioni di interesse pubblico, quasi sempre, anziché essere ringraziati o lodati, sono multati o
puniti. È il caso di quello che ha davanti a casa le strisce pedonali che non si vedono più ed è
pericoloso per lui attraversare la strada; avverte il Comune, chiede che vengano riverniciate, e
siccome nessuno gli dà risposta, alla fine compra la vernice e il pennello e fa il lavoro. A quel punto
arriva il Comune e lo multa.
C’è una storiella interessante scritta da un grande studioso di politica americano che dà l'idea di
quanto la questione sia complicata, anche dal punto di vista teorico. Potremmo chiamarla la
parabola del signore e della signora cittadino modello. Scrive questo studioso americano: “Ci
potremmo chiedere a cosa potrebbe assomigliare la vita se i cittadini seguissero fino in fondo
l'imperativo di essere coinvolti nelle vicende pubbliche. Dove potrebbero trovare il tempo per le
attività familiari, gli hobby, la lettura e il relax? Immaginiamo la vita familiare del signore e della
signora cittadino modello che osservano tutti i doveri circa la partecipazione: le sere di lunedì e
martedì partecipano alle riunioni del locale comitato per il servizio fognario, perché è chiaro che
senza un’adeguata igiene la comunità non può sopravvivere; i pomeriggi del mercoledì e del
giovedì sono impiegati per occuparsi dei problemi di polizia (la sicurezza pubblica dopotutto è
essenziale per la qualità della vita); i venerdì sono riservati all'inquinamento che minaccia così
fortemente il nostro modo di vivere; i sabati sono riservati alla salute mentale, perché se la gente
non ha la testa a posto non può fare niente di buono; la domenica, invece, si tengono riunioni sulla
mancanza di partecipazione. La settimana naturalmente ha lasciato il signore e la signora cittadino
modello profondamente insoddisfatti perché essi si sono dovuti occupare di altro mentre il Medio
Oriente si deteriora, le foreste vengono abbattute e le Nazioni Unite si indeboliscono. La prossima
settimana promette di essere ugualmente movimentata, dal momento che la signora cittadina
modello deve correre ad un meeting del consiglio sulla delinquenza giovanile. Lei tuttavia ha
mancato di accorgersi che la figlia non è venuta a casa per due giorni ed è stata appena arrestata in
un’operazione antidroga. Il signor cittadino modello invece, è dovuto essere di nuovo assente dal
lavoro perché nessun uomo con una moralità può permettersi di dimenticare la riunione in cui il
comitato dell'assistenza decide come occuparsi delle famiglie indigenti. L'azienda per cui lavora
tuttavia, ostinatamente indifferente all'impegno civico del signor cittadino modello, insiste che egli
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deve occuparsi di più del suo lavoro o considerare la possibilità di appartenere anch'egli alla schiera
dei disoccupati. Il signor cittadino modello aveva programmato di portare il figlio a fare
un'escursione, ma aveva troppo da fare per preservare l'equilibrio ecologico della regione; lasciato a
se stesso il ragazzo ha cominciato ad andare con una banda di giovani ed è stato arrestato per furto
con scasso. Con entrambi i figli in prigione, il signore e la signora cittadino modello si
consoleranno con il pensiero che avranno più tempo e motivazioni da spendere sui problemi delle
istituzioni carcerarie”.
Il punto è che quando la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica viene assunta come un'idea
assoluta, si verificano questi paradossi. La partecipazione quotidiana, attiva, responsabile per
quanto giusta nella teoria, non è in realtà un valore di semplice identificazione. La dimensione
ordinaria della cittadinanza, allora, non è un punto di partenza ma è un punto di arrivo. Rispetto
all'Italia di venti anni fa, certo, le cose sono migliorate, c’è la consapevolezza che tanti problemi
non possono essere fronteggiati senza il contributo dei cittadini. Ma c'è come un muro invisibile che
ancora non è stato abbattuto.
LA CITTADINANZA “TRADIZIONALE”
Se è operazione complessa ricostruire un modello di cittadinanza a partire dall’esperienza e
dall’ordinarietà, va rilevato che anche la concezione tradizionale di cittadinanza oggi è in crisi.
Nella concezione classica europea, la cittadinanza è un principio di distinzione tra chi sta dentro e
chi sta fuori: i cittadini hanno certi diritti, i non cittadini non li hanno. La visione tradizionale della
cittadinanza concretizza l’idea di sovranità nell'esercizio del diritto di voto. Questa visione
tradizionale che dava del cittadino un’interpretazione così improntata alla sottostima, è però andata
in crisi ed è stata superata dagli eventi. Si pensi ai fenomeni come la globalizzazione, che è proprio
il superamento dell'idea di potere distinguere facilmente chi sta dentro e chi sta fuori; o ai fenomeni
migratori: in alcuni paesi, come in Germania, si sta ridiscutendo la legge sulla cittadinanza perché
non è più tanto chiaro, in base alle regole tradizionali, come è possibile distinguere con facilità chi
sta dentro e chi sta fuori. Fenomeni migratori e globalizzazione mettono in discussione la
cittadinanza come principio di inclusione ed esclusione. Altri fenomeni, poi, mettono in crisi la
cittadinanza come sistema di rapporti, di relazioni tra individui e lo stato: per esempio la crisi di
efficacia degli stati nazionali, la loro crescente difficoltà di svolgere le proprie funzione, come per
esempio di regolazione di conflitti. I sistemi di welfare, che sono tipicamente una concretizzazione
della idea tradizionale della cittadinanza, sono un po' tutti in difficoltà, per tante ragioni: dalla
incapacità di individuare dei bisogni, a quella di dare risposte personalizzate.
UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA CITTADINANZA.
La nuova idea di cittadinanza prevede un esercizio diretto di poteri e di responsabilità del cittadino
nelle politiche pubbliche, in azioni, programmi, attività che intendono risolvere i problemi di
interesse comune. Questo nuovo tipo di cittadinanza che si gioca nella dimensione quotidiana –
perché questi problemi di interesse pubblico hanno a che fare con la vita quotidiana – è un
superamento dell'idea tradizionale di cittadinanza, che tuttavia rimane ancora molto forte. La nuova
idea di cittadinanza è un modo d’essere degli individui, prima ancora che riguardare qualche
organizzazione. C’è poi un passaggio successivo, quello della cittadinanza attiva: una forma
strutturata, organizzata di esercitare la propria responsabilità di cittadini. I campi di azione sono
un’infinità: dalla riforma della pubblica amministrazione all’assistenza agli anziani, dalla lotta alla
povertà alla tutela dell'ambiente...
Le funzioni che in questi ambiti le organizzazioni della cittadinanza attiva svolgono sono
riconducibili all'idea dell'esercizio di poteri, di specifici poteri. Ne possiamo riconoscere almeno
cinque.
Primo: un potere di produrre informazioni sulla realtà. In Italia, per esempio, le discariche gestite
dalla mafia, discariche di rifiuti tossici, si sono cominciate a chiudere quando un’organizzazione di
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cittadini ha cominciato a fare un rapporto annuale sulle eco-mafie, in cui venivano indicate, in
modo analitico, quali erano queste situazioni.
Secondo: un potere di cambiare le coscienze. Mi sovviene l'esperienza che abbiamo fatto in questi
anni di lotta contro l'idea che negli ospedali si potesse scioperare negli stessi modi in cui si
scioperava nelle fabbriche, non andando a lavorare.
Terzo: un potere di far funzionare le istituzioni: spesso le istituzioni funzionano non in base alla
loro missione ma in base ad altre logiche.
Quarto: un potere di cambiare le situazioni che creano problemi, per esempio eliminando
fisicamente le barriere architettoniche laddove ci siano, anche, se è necessario, con i picconi o con il
cemento. Oppure, in un altro senso, creando dei servizi, come quello che fanno per esempio le
comunità di accoglienza, le comunità di recupero di situazioni come le tossicodipendenze, creando
cioè quei servizi senza i quali certi diritti dei cittadini non sono attuabili.
E infine un quinto potere: quello di promuovere partnership, collaborazioni, anche accordi con le
proprie controparti.
In inglese c'è la parola governance, intraducibile in italiano, che indica bene tutto ciò. Forme in cui
la produzione, l'attuazione di politiche pubbliche è il frutto dell'interazione, della cooperazione tra
soggetti pubblici, soggetti privati e soggetti sociali. È il superamento della visione tradizionale, i
cittadini diventano attori delle azioni statali e non sono più meri beneficiari.
La cittadinanza attiva non è una virtù. Credo sia un fatto, una cosa che può accadere, che dovrebbe
accadere, che accade sempre di più a milioni di persone che si trovano a fronteggiare difficoltà
quotidiane. Si può diventare cittadini attivi perché si incontra un problema, si incontrano delle
persone o perché una frana minaccia la tua casa e nessuno se ne occupa.
Non credo che ci sia un modello di cittadino, ma penso che dall'osservazione della realtà possano
essere definite delle caratteristiche. Una è la volontà di dare alla nozione di sovranità una
dimensione concreta, quotidiana; un’altra la capacità di svolgere un ruolo costruttivo nel governo
della società; c’è poi il senso della interdipendenza tra la propria condizione e quella di tutti gli altri,
il paradigma della reciprocità, della parità cioè nelle relazioni tra individui, e tra individui e società.
CITTADINANZA, POLITICA E GIOVANI.
C'è una correlazione tra la diminuzione della partecipazione elettorale e un aumento della
partecipazione civica. Meno cioè la gente va a votare, e più si impegna in varie forme di
cittadinanza attiva. Io non credo che questo sia una soluzione, ma che sia un problema. È anche
vero che questa divaricazione è prima di tutto nelle teste, nella cultura della classe politica del
nostro Paese. Questo fenomeno è stato definito della doppia agenda: l'agenda è l'insieme dei
problemi che sono considerati prioritari. In Italia è come se ci fosse una doppia agenda, un'agenda
della politica ed una dei cittadini. Il tema della giustizia è esemplificativo. Nell'agenda della politica
c'è, nel bene o nel male, il tema degli imputati, dei diritti degli imputati (non di tutti peraltro).
Nell'agenda dei cittadini invece c'è il tema delle vittime dei reati. Sono proprio due ordini di priorità
completamente differenti; non dico alternative, perché penso siamo tutti d'accordo che gli imputati
debbano avere dei diritti, ma pensiamo tutti che le vittime dei reati, le parti offese, le parti lese
debbano avere almeno tanti diritti quanti ne hanno gli imputati.
Se poi pensiamo alla disaffezione dei giovani per la vita politica, o per i temi della cittadinanza,
affrontiamo un problema nel problema. È una situazione grave, anche di abbandono e di marginalità
dei giovani che vengono appunto caricati di problemi sui quali non viene chiesta loro l'opinione e
sui quali non prendono nemmeno la parola. Per esempio sono i giovani che oggi, come lavoratori di
qualunque tipo siano, pagano le pensioni degli anziani e nessuno pagherà le loro pensioni quando
loro saranno anziani.
Credo che tre aree siano quelle su cui questi problemi si manifestano (e si tratta di aree in cui si può
e si deve fare qualcosa): una è quella della formazione (e quindi la scuola, l'università, la
formazione continua…). Un’altra è quella lavoro: in Italia si tende a difendere, per ragioni
politiche, quelli che sono garantiti, quelli che lavorano nelle grandi imprese, quelli che hanno il
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lavoro dipendente a vita, quelle cose cioè che i giovani non avranno mai. Sarebbe invece urgente far
funzionare, democratizzare, e rafforzare la condizione di chi lavora nelle nuove forme, secondo i
nuovi modelli. La terza area è quella del welfare: bisogna riuscire a far sì che si riesca, evitando
ogni conflitto intergenerazionale, a fare assumere misure e programmi favorevoli ai giovani. Ma
una cosa è certa: non c'è nessuno che possa risolvere i problemi dei giovani per loro conto.
Giovanni Moro: segretario generale del movimento CittadinanzAttiva dal 1989, sociologo della
politica, ha pubblicato interventi e testi sul ruolo dei cittadini e sulle politiche pubbliche. È autore
del Manuale di cittadinanza attiva (edito da Carocci nel 1998) ed è uno dei curatori del volume
“L’Italia dei diritti” (edizioni Cultura della Pace, 200). Da alcuni anni è editorialista del quotidiano
cattolico Avvenire.
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