Di moda o efficace? Virtù e limiti del benchmarking come strumento

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Elementi di analisi macroeconomica
delle relazioni industriali.
Modello contrattuale, produttività
del lavoro e crescita economica
Leonello Tronti
(Istat)
Università di Roma Tre, A.a. 2016-17
Argomenti

La questione: crescita lenta e decrescita, produttività
bloccata, impoverimento prima relativo e poi assoluto










Gli effetti sul mercato del lavoro
Cos’è la crescita economica?
Qual è il ruolo delle relazioni industriali nella crescita economica?
Il quadro teorico di riferimento: il modello di crescita della
produttività di Sylos Labini
Distribuzione funzionale del reddito e regola di Bowley
Il modello contrattuale italiano e lo scambio politico
masochistico
La rottura della «regola d’oro» dei salari e i suoi effetti
Consumi, investimenti e cooperazione per la crescita
Controprova: la redistribuzione dai salari ai profitti
Fuori dal tunnel in cinque passi.
2
La questione:
prima crescita lenta
e poi decrescita,
prima impoverimento relativo
e poi assoluto.
E ora?
3
Crisi finanziaria e crisi
dell’economia reale
 Ben prima dell’insorgere della crisi finanziaria
internazionale, l’economia reale del nostro
Paese è entrata in un sentiero di declino
relativo di lungo termine.
 Nel periodo 1995-2007 (prima della crisi), la crescita
media annua del Pil è stata:
 dell’1,6% in Italia,
 del 2,4% nella media dell’Eurozona.
 In altri termini, già prima della crisi l’Italia ha
perduto in media, nei confronti dell’Eurozona
(di cui è la terza economia) 0,8 punti l’anno,
per la bellezza di 13 anni di fila.
Leonello G. Tronti
4
Pil pro capite in parità di poteri d’acquisto in
rapporto alla media europea – Anni 1995 e
2006 (numeri indice in base media Ue15=100)
159
160,0
1995
140,0
139
136
2006
130
120,0
110
106
100,0
78
68
65
60,0
56
48
40,0
59
37
79
102
109
102
108
105 106
109
109 109
117
118
118
108
98
94
92
91
80,0
103
100
99 100
114
113 114
112
130
89
79
70
62
62
64
44
40
32
28
20,0
a
a
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Fonte: Eurostat
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G
G
St
gn
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e
P
R
5
Pil pro capite in rapporto alla media europea
– Differenze 2007-1995 (pil pro capite in ppa;
differenze tra numeri indice media Ue15=100)
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat
Leonello G. Tronti
6
Negli anni della crisi le cose
peggiorano…
•
La crisi finanziaria fa emergere in modo ancor più evidente il
declino dell’economia italiana, tenuto per troppi anni sotto
silenzio, declino che dal 2008 al 2014 da relativo rispetto
all’Eurozona (crescita più lenta) diventa assoluto (decrescita).
•
Nel biennio 2008-2009 (crisi finanziaria) la caduta del pil è per
l’Italia -3,3 per cento l’anno, quella dell’Eurozona -2,0%
(differenza = -1,3 p.p. l’anno);
•
Nel biennio 2010-2011 (lieve ripresa) la crescita italiana è
dell’1,2%, quella dell’Eurozona dell’1,7 (-0,5 p.p. l’anno);
•
Nel 2012-2013 (recessione) la caduta media italiana è -2,3%,
quella dell’Eurozona -0,6 (-1,7 p.p. l’anno);
•
Nel 2014 (nuova ripresa) l’economia italiana si contrae
ulteriormente contratta dello 0,4%, mentre l’Eurozona cresce
dello 0,9% (-1,3 p.p.).
Leonello G. Tronti
7
Dal 2015 il declino torna relativo
•
•
Solo nel 2015 l’Italia riuesce a riagganciare la crescita
dell’Eurozona, seppure in termini molto blandi (0,8 per cento
contro 1,6 per cento).
Nel 2016 il risultato migliora lievemente per l’Italia (0,9 per
cento), ma anche per l’eurozona (1,7%).
•
In tutto, nel ventennio tra il 1995 e il 2016, il Pil italiano è
cresciuto dell’11,6% - meno di un terzo di quello dell’Eurozona,
aumentato del 36,2%.
•
In altri termini, l’economia italiana ha accumulato un ritardo di
24,6 punti percentuali di Pil rispetto alla media dell’Eurozona.
Leonello G. Tronti
8
Pil reale (a prezzi costanti) (1995-2016)
Fonte: Eurostat
Leonello G. Tronti
9
Dal 2015 il declino torna relativo
•
Se l’Italia fosse cresciuta come la media degli altri paesi dell’euro,
ora avremmo un Pil di un quarto più elevato: 408 miliardi di euro
in più.
•
Ovvero, all’attuale quota del lavoro nel reddito (42,2%), il reddito
di un dipendente sarebbe in media superiore di 10.864 euro
l’anno, 905 euro al mese. E, senza alcuna tassa né taglio alla
spesa pubblica, avremmo un debito pubblico ridotto dal 134 al
107% del Pil.
•
L’Italia non può rinunciare alla crescita. Se dal 2017 in poi
tornasse a crescere come prima del 2008 (1,5 per cento l’anno),
ci vorrebbero comunque ancora cinque anni per tornare al livello
di reddito del 2007, cumulando così 14 anni di blocco! Una
stagnazione ben più lunga di quella del ’29, che impiegò solo sei
anni a recuperare il livello di reddito iniziale.
Leonello G. Tronti
10
Da notare
Come analizzare la
differenza di risultato
dell’economia italiana?
Leonello G. Tronti
11
Cos’è la crescita?
Leonello G. Tronti
12
Partiamo dalla produttività

La produttività è la grandezza economica che mette in rapporto:
 i risultati del processo produttivo (output),
 con gli input del processo produttivo, ovvero ciò che partecipa al
processo.

Tutto ciò che entra nel processo produttivo è importante,
 ma qualcosa è più importante del resto.
 In particolare, è più importante ciò che permette di aggiungere
valore alle materie prime, ai beni intermedi impiegati e ai servizi
utilizzati nel processo produttivo, cioè:




20/01/2017
il lavoro, l’opera di chi partecipa direttamente al processo produttivo,
il capitale (non soltanto i soldi, ma gli uffici, i macchinari, i mezzi di trasporto, i
servizi, le tecnologie, l’organizzazione ecc. utilizzati nel processo),
il «capitale umano» (ovvero le conoscenze, esperienze, abilità e capacità relazionali
che i lavoratori utilizzano nel processo).
Non è inutile notare che di queste capacità relazionali fa parte
anche la qualità delle relazioni industriali.
Leonello G. Tronti
13
Produttività ed efficienza
 La produttività esprime l’efficienza di un processo
produttivo, di un’impresa, un settore o un’intera economia,
 Nell’economia attuale, sempre più terziarizzata e legata alla
produzione di beni immateriali (conoscenza, informazione,
comunicazione, finanza, salute ecc.), anche la produttività
si smaterializza, e va misurata come rapporto tra:


il valore che il processo produttivo aggiunge alle materie
prime, ai beni intermedi e ai servizi esterni consumati nel
processo produttivo (o valore aggiunto)
e la quantità di servizi di lavoro (offerti dai lavoratori), che
nel complesso dell’attività dell’impresa utilizzano:
 i servizi di capitale umano (offerti dagli stessi lavoratori
e dal sindacato)
 e i servizi di capitale (offerti dall’imprenditore).
20/01/2017
Leonello G. Tronti
14
La produttività è importante?

La produttività è la variabile fondamentale del progresso economico:


Infatti è solo grazie all’aumento della produttività (attraverso l’istruzione
e la formazione dei lavoratori, la divisione e specializzazione del lavoro,
il miglioramento dell’organizzazione, il conseguimento di economie di
scala, l’innovazione tecnologica ecc.) che è possibile contrastare i
limiti allo sviluppo imposti dalla scarsità delle risorse.
Ed è solo grazie all’aumento della produttività che è possibile
incrementare le risorse a disposizione dell’impresa per:
Utilizzi degli aumenti di produttività
Ridurre i prezzi, a beneficio dei consumatori
Aumentare i salari o ridurre gli orari, a beneficio dei lavoratori
Aumentare i profitti, a beneficio degli imprenditori o degli
azionisti
Una qualunque combinazione delle alternative precedenti
20/01/2017
Leonello G. Tronti
15
Idee sbagliate

Va poi sottolineato con forza, per combattere equivoci
purtroppo molto diffusi, che l’indicatore statistico principale
della produttività del lavoro – dato dal rapporto tra i risultati
del processo produttivo (output) e l’input di lavoro umano
necessario a produrlo:


non è in alcun modo un indicatore dell’impegno dei lavoratori
nel processo produttivo (produttività dei lavoratori),
ma è invece un indicatore sintetico dell’efficienza dell’intero
processo produttivo, come risultato di un’adeguata combinazione
di input di lavoro, di capitale umano e di altri tipi di capitale (fisico,
finanziario, organizzativo ecc.):


20/01/2017
Difficilmente un basso livello di produttività del lavoro è dovuto ad un
impegno limitato dei lavoratori;
Quasi sempre è dovuto alla mancanza di investimenti dell’impresa in
capitale umano, fisico, organizzativo ecc.
Leonello G. Tronti
16
Una semplice rappresentazione
formale della crescita (scomposizione)
𝑌 = 𝐿 + 𝜋 + 𝐿𝜋
 NB: il puntino soprascritto indica tassi di variazione %.
 La scomposizione, che altro non è che
un’identità (e dunque non propone relazioni di
comportamento tra le variabili), indica che la
crescita del prodotto (𝑌) è pari alla somma:


della crescita dell’input di lavoro (𝐿)
e dell’aumento della produttività del lavoro (𝜋)

20/01/2017
(oltre a un termine di interazione tra i due, 𝐿𝜋, di entità
trascurabile).
Leonello G. Tronti
17
Esiste un tradeoff «ricardiano» tra
produttività e occupazione?

La scomposizione rende evidente che, perché cresca l’occupazione, è
necessario che il prodotto cresca più della produttività del lavoro:


In formula, 𝐿 > 0 ↔ 𝑌 > 𝜋, ovvero: la variazione dell’occupazione è maggiore
di zero se e solo se la variazione del prodotto è maggiore della variazione
della produttività.
E anche, 𝐿 = 𝑌 − 𝜋, ovvero: la variazione dell’occupazione è pari alla
differenza tra la variazione del prodotto e quella della produttività.
 Da queste relazioni dobbiamo trarre la conclusione che la produttività è
nemica dell’occupazione?



No, questo vincolo è presente all’impresa in ogni intervallo di tempo,
Ma è proprio la crescita della produttività che rende l’impresa competitiva
e sostenibile, perché consente di contenere i prezzi e di aumentare
i volumi di produzione e, con essi, l’occupazione.
L’aumento dell’occupazione dipende dall’aumento del prodotto, che a
sua volta dipende da quanto cresce la produttività.
20/01/2017
Leonello G. Tronti
18
Produttività dell’impresa e probabilità di
aumentare l’occupazione, per classi di addetti
dell’impresa (terzo trimestre 2013-terzo
trimestre 2015)
70,0
60,6
60,0
58,2
56,4
50,0
42,5
43,5
40,9
38,6
40,0
51,9
50,1
49,1
45,8
43,9
43,4
35,2
32,1
30,0
27,5
25,2
21,0
20,0
10,0
10,5
10,4
10,0
14,8
12,9
14,3
9,1
6,5
8,5
0,0
0-2
3-4
5-9
10-14
Micro
Imprese nel quarto superiore della distribuzione della produttività
15-19
Piccole
20-49
50-149
150-249
Medie
Imprese nei tre quarti inferiori della distribuzione della produttività
250+
Grandi
Differenza (punti percentuali)
Fonte: Istat, Rapporto competitività 2016.
Leonello
G. Quartili
Tronti calcolati all’interno di ciascun settore. Livelli
19 di
Produttività misurata in termini di valore aggiunto per
addetto;
probabilità espressi in termini percentuali
Produttività,
prodotto e occupazione
Leonello G. Tronti
20
Produttività oraria in Italia,
Germania ed Eurozona (1995-2012)
Leonello G. Tronti
Fonte: Eurostat
21
In Italia la produttività ristagna
dal 1995 ed è ferma dal 2000
• Nell’insieme, tra il 1995 e il 2014 la produttività oraria
(per ora lavorata):
• è cresciuta del 27% in Germania,
• del 24% nella media dell’Eurozona,
• e soltanto del 5,5% in Italia, ovvero meno di un quarto di
quanto accadeva nei paesi euro.
• Ricordiamo che, nello stesso periodo, il Pil italiano è
cresciuto del 9% in Italia e del 27% nell’Eurozona.
• Come si lega la crescita della produttività a quella del
prodotto?
Leonello G. Tronti
22
Il contributo della
produttività alla crescita
 Poiché 𝑌 = 𝐿 + 𝜋, possiamo
facilmente calcolare i contributi
percentuali che l’occupazione e la
produttività offrono alla crescita del
reddito:
 𝑐𝐿 =
 𝑐𝜋 =
𝐿
∙ 100
𝑌
𝜋
∙ 100
𝑌
Leonello G. Tronti
23
Crescita del prodotto lordo e contributi della
produttività e dell’occupazione nei paesi europei.
1995-2008 (su ogni colonna il valore % del contributo della
produttività alla crescita del pil)
07
39,9
Contributo occupazione
06
Tasso di crescita medio annuo del pil
Contributo produttività
05
59,0
04
7,3
03
62,9
43,8
72,4
UK
NL
SVE
54,6
73,3
42,7
59,4
55,5
02
60,6
52,2
54,0
FRA
POR
51,5
46,3
BEL
EU15
65,3
11,0
01
00
ITA
GER
Fonte: Eurostat
DK
CH
AUS
Leonello G. Tronti
NOR
SPA
FIN
GRE
ISL
IRL
24
Pil per ora lavorata (produttività oraria del lavoro) in
rapporto alla media europea – Differenze tra 2007 e
1995 (Differenze tra numeri indice in base media
Ue15=100)
Fonte: Eurostat
25
Quali sono gli effetti della crisi
sul mercato del lavoro?
26
Prodotto, produttività,
occupazione e volume di lavoro
(numeri indici, I/2008=100)
Fonte: Istat, Conti nazionali e Forze di lavoro
27
Occupazione e disoccupazione
Fonte: Istat, Forze di lavoro
28
Disoccupati, inattivi e inoccupati
(persone in età 15-64; numeri indice, I-2007=100)
Fonte: Istat, Forze di lavoro
29
Perché cresce la produttività?
30
La visione mainstream
(neoclassica)
Leonello G. Tronti
31
La visione neoclassica



Fa discendere il concetto di produttività dalla funzione di produzione, più
complessa ma anche più discutibile della semplice identità-scomposizione vista nella
prima lezione.
Inserisce infatti, tra i fattori di produzione, non solo il lavoro, ma anche il capitale,
e anche un terzo elemento, la produttività totale (o multifattoriale), che
rappresenta il contributo offerto al prodotto, in modo non distinguibile, dalla
combinazione dei due fattori, lavoro e capitale.

La produttività totale, pur essendo un elemento residuale e di non chiarissima
identificazione (Robert Solow la definisce «la misura della nostra
ignoranza»), viene generalmente identificata come quella parte del progresso
tecnico che non è incorporata:



né nel lavoro (migliore qualificazione dei lavoratori),
né nei macchinari (miglioramento tecnologico).
Si tratta, in altri termini, di un concetto di «progresso tecnico»,
ma sarebbe meglio dire tecnologico, ampio e confuso, che
mette insieme cose molto diverse, come l’innovazione
organizzativa, le relazioni industriali, le economie di scala ecc.
Leonello G. Tronti
32
È possibile distinguere le produttività
«parziali»?
 La visione neoclassica propone quindi un modello che
vorrebbe poter distinguere le produttività parziali,

riferite da un lato al lavoro e dall’altro al capitale,
 dalla produttività totale,
 riferita all’interazione tra lavoro e capitale, o ad un non
meglio specificato progresso tecnologico non
incorporato.
Leonello G. Tronti
33
Ecco il modello nella sua versione
più semplice
Leonello G. Tronti
34
Punti rilevanti del modello 1
1.
I fattori di produzione (L, K) hanno complessivamente rendimenti costanti
(non ci sono economie di scala): a+b=1.
2.
Le elasticità del prodotto ai fattori (a, b) non derivano da una
misurazione statistica di quanto aumenti il prodotto all’aumentare delle
quantità dei fattori utilizzati nel processo produttivo,

sono semplicemente ipotizzate acriticamente uguali alla rispettiva quota
distributiva nel valore aggiunto, in base all’assunzione teorica che:
a)
b)

il mercato sia concorrenziale
e paghi ai fattori L e K la loro produttività media.
Dunque il modello assume che il mercato sappia giudicare correttamente,
attraverso la loro remunerazione, quanto ciascun fattore contribuisce alla
realizzazione del valore aggiunto.
Leonello G. Tronti
35
Punti rilevanti del modello 2
3.
Le produttività parziali, del lavoro e del capitale:
𝑌
𝑌
𝜋𝐿 = 𝑎 𝐿
e
𝜋𝐾 = 𝑏 𝐾
 sono indicatori relativamente poco importanti, perché
l’aumento dell’impiego di L e di K si trasferisce al prodotto
secondo coefficienti predeterminati (a e b).
4.
Ciò che nel modello conta davvero, invece, è c, la produttività
totale:
𝑌
𝑐= 𝑎
(𝐿 ∙ 𝐾𝑏 )
 che rappresenta, come abbiamo notato, il frutto dall’interazione
tra lavoro e capitale,
 e nella formula è residuale (è infatti l’unica
grandezza ignota della funzione di produzione).
Leonello G. Tronti
36
La produttività totale:
 È uguale al rapporto tra il valore aggiunto e il prodotto
delle quantità dei fattori, ciascuna quantità elevata
all’elasticità del prodotto al fattore, che è approssimata
dalla quota distributiva del fattore nel valore aggiunto.
 Della produttività totale (il cui valore, come detto, non è
rilevabile direttamente) si può quindi ottenere per
differenza, per ogni periodo, la variazione percentuale,
nel modo seguente:
𝑐 = 𝑌 − (𝑎𝐿 + 𝑏𝐾)

NB: il puntino soprascritto indica tassi di variazione %.
Leonello G. Tronti
37
Punti di grave debolezza

Il calcolo richiede molte, forse troppe assunzioni «eroiche», in
particolare sulle elasticità fattoriali (a, b),



Siamo, in altri termini, di fronte ad un ragionamento circolare:
1.
2.
3.

Tra le quali quella (fattuale) che l’economia sia concorrenziale (e non oligopolistica),
e quella (teorica) che i fattori siano remunerati alla loro produttività media.
il mercato giudica correttamente e remunera i fattori secondo la loro produttività
parziale;
ma il modello basa il calcolo della produttività parziale dei fattori sulla loro remunerazione
di mercato;
Dunque non è possibile stabilire se il mercato è davvero capace di valutare correttamente
o meno la produttività parziale dei fattori (l’apporto di ciascun fattore al valore del
prodotto).
Il tutto per ottenere un risultato che in fin dei conti ha una capacità
euristica modesta:

Mettiamo che il modello sia, per qualche caso, corretto.

A cosa serve? È davvero possibile aumentare, ad esempio,
la produttività del lavoro senza avere effetti anche su quella
del capitale, o viceversa?
Leonello G. Tronti
38
Valore aggiunto, input produttivi e misure
di produttività. Totale economia
Fonte: Istat, Misure di produttività
39
Valore aggiunto e misure di
produttività. Totale
economia
Fonte: Istat, Misure di produttività
40
La visione europea
dell’«austerità espansiva»
Leonello G. Tronti
41
Una diversa argomentazione macroeconomica: la
teoria delle «riforme strutturali» per la crescita
Liberalizzazione dei mercati
di prodotti e servizi
Flessibilizzazione del
mercato del lavoro
Contenimento prezzi
Moderazione salariale
Incremento competitività
Aumento del potere
d'acquisto
Aumento esportazioni
Aumento dei consumi
Innovazione
Incremento
produttività
Crescita
Mercato del prodotto
Elaborazione basata su Blanchard, Giavazzi, 2002
Mercato del lavoro
Leonello G. Tronti
42
Da dove viene la crescita?
 In questo modello l’impresa è spinta ad innovare
dalla concorrenza,
 L’innovazione e la concorrenza, a loro volta, consentono
e spingono l’impresa ad accrescere la produttività,
 L’aumento di produttività consente di contenere i
prezzi, e dunque di aumentare la competitività di
beni e servizi.
 La crescita deriva:
1. dalla maggior penetrazione nei mercati internazionali
2. e dall’aumento dei consumi sul mercato interno
consentito da una moderazione dei prezzi interni
inferiore a quella dei salari.
Leonello G. Tronti
43
Il cuore del modello
 Nel modello delle Riforme strutturali i motori della crescita
sono due:
1. La concorrenza (che stimola anche l’innovazione),
2. E il rapporto cruciale tra la dinamica dei salari e
quella dei prezzi al consumo (ovvero la dinamica dei
salari reali) con un ruolo di rilievo, e diverso, delle
relazioni industriali.
 La crescita salariale dev’essere moderata, per evitare
spinte inflazionistiche e mantenere la competitività
internazionale,
 Ma le imprese debbono «spendere» almeno in parte i
guadagni di produttività per contenere la dinamica dei
prezzi al consumo al disotto di quella salariale, e
assicurare così la crescita
della domanda interna.
Leonello G. Tronti
44
Come funziona nei fatti: domanda interna e domanda
estera (1° trimestre 2006-1° trimestre 2016)
Dati Istat, Conti trimestrali
45
106,0
40,0
104,0
38,0
Pil a prezzi costanti
(asse di sinistra)
Pil a prezzi costanti (I/2006=100)
102,0
36,0
100,0
34,0
Rapporto % esportazioni/
consumi (asse di destra)
98,0
32,0
96,0
30,0
94,0
28,0
92,0
26,0
90,0
Rapporto % tra esportazioni e consumi (entrambi a prezzi costanti)
L’ «austerità espansiva» non funziona:
cadono i consumi e la crescita cade con
loro
24,0
I
II
III IV
2006
Dati Istat, Conti trimestrali
I
II
III IV
2007
I
II
III IV
2008
I
II
III IV
2009
I
II
III IV
2010
I
II
III IV
2011
I
II
III IV
2012
I
II
III IV
2013
I
II
III IV
2014
I
II
III IV
2015
I
2016
46
Sono davvero solo
concorrenza e innovazione
a spingere la produttività?
Un approccio differente,
basato sull’economia classica
Leonello G. Tronti
47
Secondo Paolo Sylos Labini
 La produttività del lavoro cresce se l’impresa
deve riorganizzarsi.
 E questo accade quando l’impresa:
1. è trainata dall’espansione del mercato,
2. è spinta da un aumento del costo del lavoro
superiore a quello del prezzo dei macchinari,
3. è spinta da un incremento del clup (costo del
lavoro per unità di prodotto) superiore a
quello dei prezzi.
4. A fronte di queste forze «di mercato»,
l’effetto degli investimenti è modesto.
48
Il modello di Sylos Labini
(1984…2005)
  a 
b
Y
 c( w  p ma )  n  d (clup  p )  m 

 
 


Effetto Smith
Effetto Ricardo
Costo assoluto del lavoro
eIt

Investimenti pregressi
(con m<n,t)
NB: il puntino soprascritto indica tassi di variazione %.
49
Verifiche econometriche del
modello realizzate da PSL
Fonte: Corsi e Guarini, 2007, p. 21.
50
1. L’“effetto Smith”

Per Adam Smith l’aumento delle capacità produttive del lavoro:



L’intuizione di Adam Smith precorre di secoli le analisi sul ruolo
della domanda nella determinazione della crescita della
produttività;



dipende dalla divisione del lavoro,
che a sua volta dipende dall’estensione del mercato.
L’estensione del mercato interno, ad esempio, dipende dalla dinamica
dei salari e quindi da quella degli investimenti e della spesa
pubblica,
Mentre l’estensione del mercato estero traina la crescita della
produttività nelle imprese esportatrici.
Dunque, sono la crescita del pil (nei suoi diversi componenti) o
quella dei mercati esteri a determinare la dinamica della
produttività, e non viceversa.
51
L’“effetto Smith” e le
invenzioni
 Per Paolo Sylos Labini (2004), nella valutazione
del funzionamento dell’ «effetto Smith» nei
confronti del progresso tecnico è necessario
distinguere
 Le “grandi invenzioni” (degli scienziati)
 dalle “piccole invenzioni” (di lavoratori e
imprenditori).
 Sono le piccole invenzioni ad essere endogene
e più facilmente attivate dall’ «effetto Smith»,
 e quindi in generale più continue e più
importanti ai fini della crescita economica.
52
La legge di Verdoorn (a)



L’«effetto Smith» combina il ruolo della domanda con quello del
progresso tecnico in termini di divisione e specializzazione del
lavoro.
Le analisi successive sull’influenza della crescita sulla
produttività si sono soffermate anche sui rendimenti di scala
crescenti, legati alla dimensione delle imprese e alle economie
di scala, in termini sia fisici, sia organizzativi.
La «legge di Verdoorn» (dall’economista olandese Petrus
Johannes Verdoorn), evidenzia, per l’appunto, che
un’accelerazione della produzione aumenta la produttività a
causa di rendimenti crescenti .

«Nel lungo periodo una variazione del volume della produzione, diciamo di
circa il 10 per cento, tende ad essere associata con un aumento medio della
produttività del lavoro del 4,5 per cento» (Verdoorn, 1949, p . 59).
53
La legge di Verdoorn (b)
 La legge di Verdoorn


si differenzia dall’ "ipotesi usuale... che la crescita della
produttività sia principalmente spiegata dal progresso delle
conoscenze in campo scientifico e tecnologico" (Kaldor, 1966, p .
290), come tipicamente ipotizzato nei modelli di crescita
neoclassici (ad esempio, il modello di Solow),
Ed è invece solitamente associata con i modelli di causazione
cumulativa della crescita, in cui è la domanda piuttosto che
l'offerta a determinare il ritmo dell’accumulazione.
 Un ‘coefficiente di Verdoorn’ vicino a 0,5 si trova anche
nelle successive stime della legge.


Nicholas Kaldor (1966, p. 289) riporta un coefficiente pari a 0,484,
E Sylos Labini, come abbiamo visto, riporta nelle sue stime
dell’«effetto Smith» su diversi paesi, periodi e settori, coefficienti
con un valore medio di 0,43 (in Italia il coefficiente medio è più
alto: 0,55).
54
Kaldor e Thirlwall: il ruolo
della domanda estera

Nicholas Kaldor (1966) e Anthony Thirlwall (1979) hanno
applicato la legge di Verdoorn anche a modelli di crescita
export-led:






Per un dato paese un'espansione del settore delle esportazioni può causare
una specializzazione nella produzione di prodotti destinati all'esportazione.
La specializzazione aumenta il livello di produttività e il livello delle
competenze nel settore esportatore (divisione e specializzazione del lavoro).
Ciò può quindi portare ad una riallocazione di risorse dal settore non
esportatore, meno efficiente, al settore esportatore, più produttivo;
La riallocazione conduce a prezzi più bassi per i beni esportati e a una
maggiore competitività delle esportazioni.
L’aumento di produttività quindi porta all’espansione dell’export e alla
crescita della produzione.
A volte la legge di Verdoorn viene chiamata legge o effetto di
Kaldor-Verdoorn.
55
Andamento del Pil e del
monte salari a prezzi correnti
Fonte: calcoli su dati Istat
56
Il ruolo delle relazioni
industriali
 Con riferimento a questo aspetto della funzione di
produttività di Sylos Labini, è evidente che:


nel mercato interno, sono gli incrementi salariali – come
estensione dei consumi delle famiglie - a trainare la
crescita della produttività e non viceversa.
Questo effetto, in termini diretti, è tanto maggiore quanto
più le imprese operano nel settore dei beni di consumo.
 L’effetto di traino della produttività da parte dei salari,
però, non vale per le imprese esportatrici.
 Le relazioni industriali sono pertanto vincolate, nella
crescita delle retribuzioni, alla considerazione degli effetti
espansivi degli aumenti salariali sui mercati di
riferimento.
57
2. L’“effetto Ricardo”

Per Ricardo la produttività cresce come effetto di un risparmio
diretto del coefficiente di lavoro a parità di produzione,

Il risparmio diventa necessario quando si verifica un aumento del
costo relativo del lavoro,


Ossia un aumento del costo del lavoro rispetto al prezzo delle macchine.
La sostituzione può provocare nel breve periodo, in presenza di
una domanda stagnante o rigida rispetto al prezzo, la c.d.
«disoccupazione tecnologica» (o «ricardiana»).

Punti di contatto con Marx: «Le macchine corrono là dove c’è lo
sciopero».

Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente del costo
relativo del lavoro, con un ritardo medio tra 2 e 3 anni, è pari a
0,43.

Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,41.
58
Un’analogia con l’effetto Ricardo per le
imprese internazionali (un altro tipo di
prezzo relativo del lavoro)
 Nel caso di imprese che operano a livello
internazionale, a parità di mercato di sbocco, la
redditività aziendale (nb: non la produttività)
può crescere
 attraverso un processo di sostituzione di lavoro
nazionale più costoso con lavoro localizzato in paesi
esteri, di qualità comparabile ma meno costoso.
 Un processo di questo tipo aumenta la
redditività modificando la distribuzione del
valore aggiunto tra salari e profitti,
 Ma non modifica la produttività dell’impresa.
Leonello G. Tronti
59
Andamento del prezzo
relativo del lavoro
Fonte: calcoli su dati Istat
60
Il ruolo delle relazioni
industriali
 Con riferimento al prezzo relativo del lavoro il ruolo delle
relazioni industriali è quello di trovare un giusto
equilibrio tra:


il livello di pressione salariale che spinge l’impresa a modernizzarsi
e a riorganizzare i processi produttivi (la cosiddetta wage whip, o
frusta salariale),
E le previsioni di estensione del mercato che l’impresa o il settore
possono attendersi sulla base dell’aumento di produttività.
 I margini per aumenti salariali senza ripercussioni
occupazionali sono presenti in mercati in espansione o in
mercati poco contendibili, dove la spinta della
concorrenza al taglio dei costi del lavoro è debole.
61
3. Il costo assoluto del
lavoro

Il movimento del costo assoluto del lavoro è dato dalla differenza tra
la variazione del clup e quella dei prezzi del prodotto.



Il costo del lavoro per unità di prodotto in termini nominali (clup) è dato dal
rapporto tra il costo del lavoro per unità di lavoro e la produttività del lavoro
(clup=cl/π).
Si noti che il clup è un rapporto tra una grandezza nominale (il costo del
lavoro per unità di lavoro) e una grandezza reale (la produttività del
lavoro).
Il clup è comunemente considerato uno dei principali indicatori di
competitività di costo del sistema economico così come dell’impresa.


Ma poiché la sua variazione è fortemente determinata dall’andamento dei prezzi,
rispetto ai quali il numeratore è indicizzato, ne rende la lettura poco agevole ai fini
della diagnosi delle cause della dinamica della competitività.
Il costo assoluto del lavoro, scelto come indicatore di competitività da
Sylos Labini, misura pertanto l’andamento del costo del lavoro non in
termini nominali, ma in relazione ai prezzi di beni e servizi.
62
Costo assoluto del lavoro e
distribuzione del reddito - 1
 La quota del lavoro totale (corretta per gli indipendenti) nel reddito
(Ql) si può scrivere nel modo seguente:
W  ( N i  w) ( N d  N i )  w N  w w 1
Ql 



  clup  p 1
Yp
Yp
Yp Y p
N
 dove Nd è l’occupazione dipendente, Ni quella indipendente, w il costo
del lavoro unitario, Y il prodotto, p i prezzi, N l’occupazione totale e
clup è il costo del lavoro per unità di prodotto.
 Possiamo quindi esprimere la quota del lavoro come rapporto tra il
clup e i prezzi del prodotto:
𝑐𝑙𝑢𝑝
𝑄𝑙 =
𝑝
Leonello G. Tronti
63
Costo assoluto del lavoro e
distribuzione del reddito - 2

In termini di tassi di variazione abbiamo:

Poiché il moltiplicatore sul lato destro dell’equazione è molto prossimo
all’unità, possiamo notare che la variazione della quota del lavoro totale
approssima la variazione del costo assoluto del lavoro.
Inoltre, dall’equazione possiamo ricavare la condizione di stabilità:


 1 




Ql  (clup  p )  
 1  p 
Q l  0  clup  p
Che indica che la quota sarà stabile se la variazione del clup sarà pari a quella
dei prezzi; e inoltre:
Q l  0  clup  p

ovvero la quota crescerà/diminuirà se e solo se la variazione del clup sarà
superiore/inferiore a quella dei prezzi.
Leonello G. Tronti
64
Costo assoluto del lavoro/
quota del lavoro corretta
Fonte: calcoli su dati Istat
65
Effetti del rapporto tra variazione
del clup e inflazione
 Se il clup cresce meno dell’inflazione, il costo assoluto
del lavoro si riduce e le imprese aumentano i loro
margini di guadagno,
 Se, invece, il clup cresce più dell’inflazione, il costo
assoluto del lavoro aumenta,



E gli imprenditori tentano di salvaguardare i propri guadagni
riducendo l’occupazione o riorganizzando la produzione per
rendere i lavoratori più produttivi.
In genere l’effetto dell’aumento del costo assoluto del lavoro sulla
dinamica della produttività è piuttosto rapido (qualche trimestreun anno)
Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente del costo
assoluto del lavoro, con un ritardo di 1 anno, è pari a 0,18.

Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,15.
66
Costo assoluto del lavoro
Fonte: calcoli su dati Istat
67
Il ruolo delle relazioni
industriali
 Con riferimento al costo assoluto del lavoro va notato
che, per il singolo comparto e/o la singola azienda, ciò
che conta ai fini dell’alterazione della distribuzione del
reddito ai fattori


Non è l’andamento dei prezzi al consumo (che conta invece
per i lavoratori),
E nemmeno quello generale dei prezzi di beni e servizi,

Ma conta invece l’andamento dei prezzi dei prodotti del
comparto o dell’impresa.
 L’impresa o il comparto si troveranno pertanto spinta a
riorganizzarsi se i propri prezzi crescono meno del clup.

E la contrattazione dovrebbe considerare l’entità della
spinta salariale in relazione a questi prezzi, non a quelli
generali.
68
4. Gli investimenti pregressi

Si tratta degli investimenti realizzati negli anni precedenti (t=2
anni);




gli investimenti correnti, infatti, sono troppo recenti per causare
effetti produttivi di rilevo, e pertanto svolgono un ruolo economico
soltanto dal lato della domanda, in termini di ampliamento del
mercato dei beni capitali (effetto Smith).
Mentre soltanto gli investimenti realizzati in precedenza
influenzano sia la capacità produttiva, sia la crescita della
produttività nel periodo corrente.
In generale, infatti, i nuovi beni capitali impiegano 2 anni a
integrarsi nei processi produttivi al punto da accrescerne la
produttività.
Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente degli investimenti
pregressi, con un ritardo di 2 anni, è pari a 0,08.

Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,06.
69
Andamento degli
investimenti fissi lordi
Fonte: calcoli su dati Istat
70
Coefficienti dei regressori nelle stime di PSL della Funzione di produttività
Effetto Smith
Effetto Ricardo
(Prezzo relativo del lavoro)
Costo assoluto del lavoro
Investimenti pregressi
Media tutte le stime Media stime Italia Ritardi
0,43
0,55
0,43
0,41
2-3 anni
0,18
0,08
0,15
0,06
1 anno
2 anni
71
Il modello di Sylos Labini in
un grafico
Fonte: calcoli su dati Istat
72
La distribuzione funzionale
del reddito:
La “regola di Bowley”
73
La regola di Bowley - 1

A seguito dei suoi studi sui redditi in Gran Bretagna (Bowley e
Stamp, 1927), è associata al nome di Arthur Bowley l’ipotesi che
la quota del lavoro nel reddito Ql si mostri sostanzialmente
costante nel tempo,


principio divenuto in seguito noto come “legge o regola di Bowley”.
La distribuzione funzionale del reddito (tra quota del lavoro e
quota del capitale) occupa un ruolo preminente nella teoria
economica con il contributo degli economisti post-keynesiani, che
la considerano come dipendente dal tasso di crescita del
prodotto.


Nel breve periodo, un incremento del tasso di crescita dell’economia
non viene compensato dalla dinamica salariale e comporta quindi uno
spostamento della distribuzione a favore dei redditi da capitale. La
contrattazione sindacale tende a riportare la distribuzione
all’equilibrio precedente.
Gli economisti post-keynesiani forniscono così un’interpretazione
delle variazioni di breve periodo della distribuzione funzionale dei
redditi, che si accompagna però con la previsione di una costanza
delle quote di reddito nel lungo periodo (legge di Bowley).
74
La regola di Bowley - 2

Date le diverse propensioni al risparmio di lavoratori e imprenditori, la
manovra della distribuzione funzionale del reddito consente di portare i
risparmi ad eguagliare gli investimenti necessari per conseguire:
a) il pieno impiego
b) o il tasso di crescita del prodotto desiderato.

Di qui l’importanza fondamentale della politica dei redditi per la crescita e
l’occupazione. Il tema è stato recentemente ripreso con forza in relazione
al tema della disuguaglianza e dell’enorme arricchimento dell’1 per cento
più ricco della popolazione negli ultimi 30 anni (v. Piketty, 2013).

Per Nicholas Kaldor (1957) la stabilità nel tempo della distribuzione
funzionale del reddito, insieme con un flusso di investimenti tale da
assicurare la costanza del rapporto tra capitale e reddito, assicurano:



la coincidenza del tasso di crescita del rapporto capitale-lavoro con quello della
produttività del lavoro
e la costanza del saggio di profitto.
Queste condizioni, prescrittivamente, consentono all’economia di
percorrere un sentiero di crescita stabile e bilanciata (balanced growth).
75
Il modello di «crescita
bilanciata» di Kaldor (1957) - 1


Il modello di Kaldor indica che, se le quote del lavoro e del
capitale nel reddito (QL e QK) sono costanti nel tempo e il
rapporto capitale-prodotto (K/Y) è anch’esso costante, anche il
saggio di profitto (P/K) sarà costante:

se 𝑄𝐿 = 0, allora 𝑄𝐾 =

e se
𝑃
𝑌
=0e
𝐾
𝑌
𝑃
𝑌
= 0,
= 0, allora
𝑃
𝐾
= 0.
Ma perché il rapporto capitale-prodotto sia costante è
necessario che il tasso di crescita del rapporto capitale-lavoro
(K/NT) coincida con quello della produttività del lavoro (Y/NT),

ovvero che lo stock di capitale (K) cresca nella stessa misura del reddito (Y),
attraverso l’opportuno flusso di investimenti:

𝐾 = 𝑌 solo se
𝐾
𝑁𝑇
=
𝑌
𝑁𝑇
, ovvero solo se
𝐾
𝑌
= 0.
76
La «crescita bilanciata» di Kaldor - 2
 Il tasso di crescita della produttività pertanto,
che assicura la crescita dell’economia, rimane
costante soltanto in presenza di quote
distributive costanti (legge di Bowley),
 ovvero:


di investimenti tali da eguagliare la crescita del rapporto
capitale-lavoro a quella della produttività del lavoro e da
mantenere costante il rapporto capitale-prodotto.
e di retribuzioni reali che crescono nella stessa misura della
produttività del lavoro («regola d’oro» dei salari),
77
Salario, produttività e regola di Bowley

Sia w il salario di fatto, ND l’occupazione dipendente, Y il reddito reale
totale e p i prezzi; la quota del lavoro, o quota del lavoro dipendente
nel reddito (QL), può essere definita nel modo seguente:
1
𝑌
1
𝑝
𝑄𝐿 = 𝑤 ∙ 𝑁𝐷 ∙ ∙ ,

da cui, moltiplicando e dividendo per l’occupazione totale NT, e
sostituendo la produttività del lavoro  al reddito per occupato,
abbiamo:
1 1
𝑄𝐿 = 𝑤 ∙ 𝑛𝐷 ∙ ∙ ,
𝜋
𝑝

dove nD indica l’incidenza dell’occupazione dipendente sul totale.

Da questa equazione si ricava agevolmente la «regola d’oro» o
condizione di crescita salariale che assicura l’invarianza della quota del
lavoro:
𝑄𝐿 ≈ 0 ↔ 𝑤 − 𝑝 ≈ 𝜋 − 𝑛𝐷 .

La quota dei salari nel reddito resta costante solo se la retribuzione
media reale cresce nella stessa misura della produttività del lavoro, al
netto della variazione dell’incidenza dell’occupazione dipendente.
78
Legge di Bowley e «regola
d’oro» dei salari
 La diapositiva precedente dimostra che la legge
di Bowley si verifica soltanto se:
 la crescita del salario reale eguaglia la variazione
della produttività del lavoro («regola d’oro»),
 al netto della variazione dell’incidenza
dell’occupazione dipendente sul totale (che nel breve
periodo può essere considerata pari a zero).
 Questa condizione vale tanto a livello macro, per
l’intera economia, quanto a livello micro, per la
singola impresa.
79
Incentivo alla cooperazione
e stimolo ai consumi
 Oltre ad essere uno dei pilastri della ‘crescita
bilanciata’ à la Kaldor, la legge di Bowley:
 preserva l’incentivo chiave alla cooperazione tra i
partner sociali finalizzata al miglioramento della
produttività e alla crescita,
 e consente il massimo aumento dei consumi delle
famiglie raggiungibile senza esercitare pressioni
inflazionistiche sul saggio di profitto.
80
La regola di Bowley - 3
 La regola di Bowley può essere pertanto assunta come
“regola aurea della politica salariale”, perché:

in parità di altre condizioni, assicura la massima crescita dei
salari (e della domanda interna) compatibile con l’assenza di
pressioni sul saggio di profitto e, quindi, sui prezzi.
 Questa condizione comporta come corollario che le
retribuzioni reali crescano nell’esatta misura della crescita
della produttività del lavoro («regola d’oro» della politica
salariale),


Ciò non tanto per un’implicita identificazione dei lavoratori
come unici autori della crescita della produttività,
ma per gli effetti delle retribuzioni sui consumi e sulla
crescita.
81
Il modello contrattuale
del Protocollo di luglio 1993.
Lo “scambio politico masochistico”
82
L’architrave del nostro modello
contrattuale: il Protocollo di luglio 1993
 Il meccanismo di negoziazione dei salari
previsto dal Protocollo di Luglio 1993 prevede
quattro pilastri:
1. Due sessioni annue di concertazione
trilaterale (tra Governo, Organizzazioni
datoriali e Sindacati) della manovra di
politica economica:


13/11/2015
una («di primavera») in preparazione del DPEF
(oggiDEF)
e una («d’autunno») in preparazione della legge
Finanziaria (oggi di Stabilità).
Leonello G. Tronti
83
Il Protocollo di luglio 1993 - 2
 Il Protocollo prevede poi due livelli negoziali, specializzati e
non sovrapposti:
2. Il Contratto nazionale di categoria (o CCNL, Contratto
Collettivo Nazionale di Lavoro) (primo livello), che
stabilisce gli aumenti degli importi tabellari (minimi)
per i diversi livelli di inquadramento, legati all’inflazione
programmata (ma non solo);

Con una forma di «politica salariale d’anticipo» (tasso di
inflazione programmata e recupero degli scostamenti);
3. Il contratto decentrato, a livello aziendale o
territoriale (secondo livello), che fissa il salario di
risultato, destinato alla crescita del potere
d’acquisto delle retribuzioni, legato a obiettivi di
produttività, profittabilità e qualità a livello locale.
13/11/2015
Leonello G. Tronti
84
Il Protocollo di luglio 1993 - 3
4. L’ultimo pilastro (la seconda parte del Protocollo) non
contiene regole ma indica invece un programma di
ammodernamento delle imprese e potenziamento
del lavoro, attraverso:




Investimenti in ricerca e sviluppo,
Diffusione delle nuove tecnologie,
Formazione dei lavoratori.
Questo pilastro costituisce una sorta di scambio politico tra le
imprese e i lavoratori:


I lavoratori accettano una regolazione stringente della dinamica
salariale
In cambio le imprese utilizzano i risparmi sul costo del lavoro per
modernizzare le imprese e renderle solide e competitive nei
confronti della globalizzazione.

Si noti che manca qualunque riferimento alla stabilità delle quote
distributive.
85
Ma la concertazione della manovra economica (1°
pilastro) non è mai divenuta prassi corrente
 Esperienze di concertazione («partecipazione dall’alto»)
sparse e poco significative fino al Patto di Natale (1998),

che decentra la concertazione a livello regionale, in
combinato disposto con la riforma del Titolo V (1999).
 Il Patto per l’Italia (2002) non viene firmato dalla Cgil.

Viene a mancare il presupposto dell’unità sindacale.
 In seguito il governo passa dalla concertazione della
politica economica al «dialogo sociale» e poi abbandona
l’idea stessa della concertazione della politica economica.
 Nel 2012 il governo Monti inaugura una prassi di nonconcertazione.
13/11/2015
Leonello G. Tronti
86
La contrattazione di secondo livello
(3° pilastro) non è mai decollata

Secondo l’indagine Invind della Banca d’Italia (D’Amuri e
Giorgiantonio, 2013), la contrattazione decentrata copre all’incirca il
21% delle imprese al di sopra dei 20 addetti nel settore privato
dell’economia.


Restano quindi privi di contrattazione decentrata:



Queste imprese rappresentano oltre il 70% degli addetti nel settore
dell’industria in senso stretto e quasi il 60% nel comparto dei servizi non
finanziari (sempre delle imprese sopra i 20 addetti).
circa il 30% degli addetti dell’industria e più del 40% degli addetti dei
servizi nelle imprese sopra i 20 addetti (che occupano il 42% dei dipendenti
dell’economia),
E, oltre a questi, quasi tutti i dipendenti delle imprese sotto i 20 addetti
(che sono il 58% dei dipendenti dell’economia).
La contrattazione decentrata, dunque, copre soltanto il 25-30%
dei lavoratori dipendenti, in quanto lascia scoperto almeno il 7075% [≈58%+(35%*42%)], che non ha strumenti per aumentare il
proprio potere d’acquisto.
87
E il 4° pilastro…
 È rimasto nel libro dei sogni:
 Nessun Governo e nessun Parlamento hanno mai
provato a varare nemmeno un elemento del grande
piano di ammodernamento delle aziende e di
potenziamento del lavoro previsto dalla seconda
parte del Protocollo.
 Né tantomeno vi hanno provveduto autonomamente
le parti sociali.
 Così, di 4 pilastri è rimasto in piedi solo il
secondo: i contratti nazionali ancorati
all’inflazione.
88
Analisi formale
del modello contrattuale
italiano
89
In formule
90
Modello contrattuale
e regola di Bowley
91
Modello contrattuale e regola di
Bowley - 2
 In termini discorsivi, se la produttività cresce,
il Protocollo di luglio ’93 affida la possibilità di
rispettare la regola di Bowley a due
condizioni:
1. che la contrattazione decentrata (aziendale o
territoriale) sia diffusa a tutte le imprese, e quindi sia
disponibile per tutti i dipendenti una voce retributiva
flessibile, aggiuntiva rispetto alle voci stabilite dal
contratto nazionale di categoria;
2. che il salario di secondo livello cresca in misura tale
da eguagliare la dinamica della retribuzione di fatto
reale (comprensiva di primo e secondo livello
retributivo) alla variazione della produttività del
lavoro.
92
Efficacia della contrattazione
decentrata e regola di Bowley
 Le due condizioni sono in generale poco
probabili,
 in particolare nel sistema produttivo italiano,
che è caratterizzato
 da un gran numero di imprese piccole e
piccolissime
 (su un totale di 4,4 milioni, circa 4 milioni sono fino
a 9 addetti, di cui circa 3 milioni fino a 3 addetti),
 dove la contrattazione collettiva incontra (e
incontrerà sempre) notevoli difficoltà a svilupparsi,
 a meno che la contrattazione non sia territoriale
anziché aziendale.
93
La depressione salariale
italiana in termini comparati
Fonte: Eurostat
94
Il modello contrattuale,
dunque, tutela i profitti
 I contratti nazionali di categoria non remunerano gli
aumenti di produttività ma si limitano a prevenire la
perdita di potere d’acquisto del salario fondamentale.
 Gli incrementi di produttività vengono invece
remunerati solo quando derivano da specifici accordi
siglati in sede decentrata, aziendale o (assai più di
rado) territoriale, e solo se si registrano i risultati
attesi.

Questi vincoli creano di fatto una ‘clausola di salvaguardia dei
profitti’ che nel tempo si è dimostrata insostenibile tanto
quanto lo era, per i salari e vent’anni prima, la scala mobile
con il punto unico di contingenza.
95
Da un eccesso all’altro
 Il modello negoziale italiano pone il costo del mancato
aumento di produttività, in termini di corrispondente
stagnazione del salario reale, in capo ai lavoratori e non
alle imprese.
 Queste infatti, in assenza di pressione salariale (wage
whip), possono preservare i margini di profitto senza
dover ricorrere a impegnativi recuperi di produttività.


Gli imprenditori non affrontano costose riorganizzazioni alla
leggera, non sfidano il futuro con massicci investimenti, a meno
che non abbiano forti motivi per farlo,
tra i quali quello salariale (in termini tanto di pull macroeconomico
della domanda di consumi, quanto di push microeconomico della
frusta salariale) è, come abbiamo visto, uno dei più rilevanti.
96
Perché l’Italia si è data un modello
contrattuale favorevole alle imprese e
non ai lavoratori?
 Nel 1993 l’Italia si trovava nella doppia
condizione:
 Di dover fronteggiare la più grave crisi occupazionale
del dopoguerra
 E di dover “accomodare” l’ultima grande svalutazione
della lira (settembre 1992) in vista dell’entrata nel
“Club dell’euro” al primo turno.
 In realtà l’accordo prevedeva la sua revisione
dopo 5 anni (superata l’emergenza).
 Questa venne tentata dalla Commissione Giugni
(1997), le cui raccomandazioni di estensione della
contrattazione territoriale (a livello regionale,
provinciale, di distretto) sono però rimaste senza
esito.
97
Effetti macroeconomici
della rottura
della «regola d’oro»
della politica salariale
98
Effettivo funzionamento del modello
contrattuale (1 pilastro su 4)
 In condizioni di «normale funzionamento
dell’economia»,
 la produttività del lavoro cresce;
 e il modello tende ad aumentare la quota dei
profitti (ovvero a comprimere la quota del
lavoro) automaticamente, senza alcuna
negoziazione di contropartite in termini di
investimenti, occupazione, formazione,
riorganizzazione ecc.
 Paradossalmente, questa tendenza implicita si
può arrestare o riequilibrare solo con una
caduta della produttività del lavoro.
99
Effetto macroeconomico combinato
atteso dei due livelli negoziali
Casi possibili
Contrattazione
nazionale
(primo livello)
Produttività
del lavoro
Contrattazione
decentrata
(secondo livello)
Caso 1:
Normale
Mantiene il potere
d’acquisto delle
retribuzioni di base
Cresce
Non disponibile a tutti i
dipendenti e/o non in grado
di eguagliare la crescita
delle retribuzioni reali con
quella della produttività
Caso 2:
Non molto
probabile
Mantiene il potere
d’acquisto delle
retribuzioni di base
Cresce
Disponibile a tutti i
dipendenti e/o di importo
tale da eguagliare la
crescita delle retribuzioni
reali con quella della
produttività
Caso 3:
Improbabile
Mantiene il potere
d’acquisto delle
retribuzioni di base
Si ferma o si
riduce
Si ferma o distribuisce ai
salari aumenti maggiori
della crescita della
produttività
Quota del
lavoro nel
reddito
 Si riduce
 Rimane
stabile
 Cresce
100
Un rapporto inverso e anticiclico
tra produttività e quota del lavoro
 In altri termini, nel modello contrattuale
italiano, il combinato disposto:
 della rigidità verso il basso in termini reali
del salario “fondamentale” definito dai
contratti nazionali (primo livello)
 e della mancata diffusione della
contrattazione integrativa (secondo livello)
 stabilisce un rapporto inverso e
anticiclico tra crescita della produttività
e quota del lavoro nel reddito.
101
Il meccanismo perverso del
modello contrattuale
 Se la produttività cresce (come dovrebbe
accadere sempre), la scarsa diffusione della
contrattazione integrativa fa sì che i
guadagni di produttività vadano ad
aumentare la quota del capitale nel reddito.
 Se, viceversa la produttività si riduce (come
non dovrebbe accadere mai), la rigidità
verso il basso del salario reale
fondamentale torna a far crescere la quota
del lavoro.
102
Il legame inverso tra produttività del
lavoro e quota del lavoro nel reddito
(numeri indice, I/2006=100)
Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali trimestrali
103
Effetti
del modello contrattuale dimezzato
su consumi, investimenti, crescita,
cooperazione
per la produttività e la crescita
104
Produttività e quota del
lavoro



Dagli anni ‘80 al 2008, come ricorda l’Organizzazione Internazionale
del Lavoro, con la crescita della produttività, la quota del lavoro nel
reddito è caduta in Italia di 10 punti.
Con la crisi, in corrispondenza con la perdita di produttività, per gli
effetti descritti la quota ne ha riguadagnati 4.
Ma la dinamica dei salari, come abbiamo appreso dal modello di Sylos
Labini, influenza la produttività, e quindi la crescita:



attraverso l’effetto Smith (i consumi),
il prezzo relativo del lavoro (effetto Ricardo)
e il costo assoluto del lavoro (quota del lavoro).

E influenza anche, assieme alla crescita della domanda, la propensione
all’investimento.

In altri termini, la compressione della quota del lavoro operata
dal modello contrattuale «più che dimezzato» ostacola la
crescita.
105
Relazione tra livello della quota del lavoro
dipendente nell’anno t e crescita media del
pil nel Relazione
triennio
t_t+2 (anni 1971-2005)
tra quota del lavoro dipendente nel reddito e crescita media del pil nel triennio t-t+2
6
1972
Tasso di crescita del pil nel triennio successivo
5
vPIL t,t+2 = - 10,387 + 0,2599QL t
1978
R 2 corr. = 0,4327
1976
1971
1977
4
1974
1987
1986
1988
1973
1979
1984
3
1985
2
2006
2000
1995
1994
1
2005
1980
1993
1997
1975
1983
1989
1999
1998
1982
1990
1996
2004
2001
1992
1981
1991
2002
2003
0
42.0
44.0
Fonte: Istat, Conti nazionali
46.0
48.0
50.0
Quota del lavoro dipendente
52.0
54.0
56.0
106
La quota del lavoro influenza la crescita non
solo attraverso i consumi, ma anche
attraverso la propensione all’investimento
120.00
86.000
110.00
84.000
100.00
ln Ifl  15,124  4,4527 ln SL  
R 2  0,7205
82.000
90.00
80.000
80.00
78.000
70.00
Investimenti f.l./profitti lordi
Quota del lavoro (scala di destra)
76.000
60.00
50.00
74.000
1971
1975
Fonte: Istat, Conti nazionali
1979
1983
1987
1991
1995
1999
2003
107
Legge di Bowley e cooperazione
per la crescita - 1
 L’inapplicazione del Protocollo ’93 ha quindi creato un
meccanismo che viola la legge di Bowley, alterando
automaticamente la stabilità delle quote distributive,
 e istituisce un sistema di incentivi evidentemente
sfavorevole alla crescita economica:


Gli imprenditori trovano un equilibrio tra l’incentivo ad
occupare lavoro a basso costo (e bassa produttività) e
quello ad accrescere la produttività per spostare
automaticamente a loro favore la distribuzione del reddito;
I lavoratori sono esposti all’azzardo morale di poter
riequilibrare la distribuzione del reddito solo frenando la
produttività.
108
Regola di Bowley e cooperazione
per la crescita - 2
 In altre parole, il sistema istituzionale squilibrato di
regolazione delle retribuzioni abbatte i consumi, la
propensione all’investimento e l’incentivo per i
partner sociali a cooperare per la crescita.
 E il sistema economico viene sospinto dalle reciproche
convenienze dei partner sociali a imboccare un sentiero
di stagnazione economica.
 È per questo che lo ‘scambio politico’ alla base del «più
che dimezzato» modello contrattuale italiano non può
che definirsi, con le parole di Tarantelli, uno scambio
masochistico:
 un gioco in cui alla fine perdono tutti.
109
Controprova:
l’entità della redistribuzione
dai salari ai profitti
110
La redistribuzione del
reddito dai salari ai profitti
 Non è difficile calcolare l’entità della redistribuzione
di risorse dai salari ai profitti operata da questo
perverso meccanismo istituzionale.
 In prima approssimazione, e senza tener conto
degli effetti della distribuzione del reddito sulla
crescita, il computo può essere condotto in modo
controfattuale,

valutando la differenza tra il valore storico del monte
profitti e quello che si sarebbe verificato se i salari reali
fossero cresciuti nella stessa misura dei pur modesti
aumenti della produttività, e dunque lasciando inalterata la
quota del lavoro nel reddito.
111
Un contributo ingente
 Il contributo offerto dalla moderazione salariale
ai profitti è stato davvero ingente:
 a prezzi 2005, oltre 50 miliardi di euro già due anni
dopo la sigla del protocollo,
 fino a più di 75 miliardi l’anno nel triennio 2000-2002
 e attorno ai 68 miliardi l’anno tra il 2003 e il 2007.
 Soltanto con la crisi (tra il 2009 e il 2012), in
dipendenza dalla tenuta in termini reali dei
salari contrattuali a fronte della caduta della
produttività del lavoro, il contributo si è ridotto
a valori più ‘modesti’:
 tra i 30 e i 40 miliardi l’anno.
112
Contributo della moderazione salariale ai
profitti, a prezzi costanti 2005 (differenza tra il valore
storico del monte profitti e quello che sarebbe risultato dall’applicazione della quota
del lavoro del 1992; valori annuali e valori cumulati)
Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali
113
Il valore complessivo
 Il valore cumulato di questi ‘trasferimenti
impliciti’ operati automaticamente dal modello
contrattuale «più che dimezzato» dal 1993 al
2012 ammonta a ben 1.069 miliardi di euro a
prezzi costanti del 2005:
 circa 53 miliardi di euro l’anno!
 Ovvero circa 3.200 euro per dipendente l’anno;
 E circa 64 mila euro per dipendente, in termini
cumulati dal 1993 al 2012.
114
E l’Italia non cresce
 Si tratta di una cifra indubbiamente
ragguardevole, in grado di influire:
 non solo sul freno dei consumi e sull’aumento
dell’indebitamento delle famiglie,
 ma anche (e forse soprattutto) sui ritardi di
innovazione, i mancati investimenti, la sopravvivenza
di imprese marginali i cui prodotti o servizi
eccessivamente costosi continuano a gravare sui
bilanci delle famiglie e delle imprese competitive,
 sull’incapacità del «segmento sano» dell’apparato
produttivo di crescere sino a trainare fuori dal tunnel
l’intero Paese.
115
Per crescere è necessario che il potere
d’acquisto dei salari aumenti costantemente
 Il raffronto tra l’entità delle risorse trasferite e i
risultati dell’economia smentisce l’ipotesi di neutralità
della distribuzione del reddito ai fini della crescita.
 Il meccanismo perverso che ha garantito i profitti al di
là dei meriti di mercato nel lungo periodo ha minato,
per la cospicua parte del sistema produttivo esclusa
dalla contrattazione decentrata e dalla concorrenza
internazionale, l’incentivo a investire per migliorare la
qualità dei processi produttivi e dei prodotti.
 Il disincentivo ha influito tanto sulle scelte
imprenditoriali, garantite sul lato dei profitti, quanto
su quelle dei lavoratori, non remunerati in caso di
performance produttive migliori.
116
Un nuovo modello
contrattuale


Il 25 gennaio del 2016 Cgil, Cisl e Uil presentano alle
associazioni datoriali, al Governo e al Paese un progetto
unitario di riforma del sistema di relazioni industriali che mira a
realizzare “uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e
la qualità del lavoro”.
Il documento tocca molti ambiti di rilievo, con riferimento:






alla contrattazione (nazionale e decentrata),
alla politica salariale,
alla partecipazione e all’innovazione organizzativa,
al recepimento del Testo unico sulla rappresentanza
e alla validità erga omnes degli accordi.
Ad oggi sono in corso colloqui e trattative tra le tre
confederazioni sindacali e diverse associazioni padronali, ma
non ancora con Confindustria.

E il Governo ha dichiarato di voler intervenire con una legge che ampli le
competenze del secondo livello contrattuale.
117
Riformare
il modello contrattuale
in cinque passi
118
1. Coordinare la contrattazione
con la politica economica


Qui di seguito si avanza la proposta di cinque misure di riforma del
modello contrattuale, in linea con il documento unitario Cgil-CislUil, che favorirebbero la ripresa di un ruolo economico di sviluppo
da parte del sistema delle relazioni industriali e del modello
contrattuale, tale da porre termine agli attuali disincentivi alla
cooperazione per la crescita.
Il primo punto è la riproposizione, se non di una forma di
concertazione, almeno di momenti ben determinati di
coordinamento macro e microeconomico della contrattazione con
le politiche di sviluppo perseguite dal Governo.

Il coordinamento – nei termini della presentazione (senza negoziazione) da parte
del Governo ai partner sociali degli obiettivi della politica economica con la
richiesta esplicita di comportamenti coerenti – può riguardare:




Anzitutto l’evoluzione di prezzi e salari con le previsioni di inflazione e crescita dei consumi,
Quindi la crescita dell’occupazione e della produttività
e quindi il livello della quota del lavoro nel reddito.
Un coordinamento macro di questo tipo favorirebbe anche l’autocoordinamento
della contrattazione a livello di comparto, territorio e azienda.
119
2. Riorganizzare i luoghi di lavoro
 Contrattazione di linee guida di riorganizzazione dei
luoghi di lavoro (nuove tecnologie, organizzazione
flessibile, lavoro in team polifuzionali, rotazione
delle mansioni ecc.) per agevolare, dal lato
dell’offerta, l’uscita dalla crisi delle imprese in
condizioni più difficili,
 Possibilmente, nel quadro di una strategia di
politica industriale e di politica economica promossa
dal Governo (e dall’Unione Europea?),
 che insista sulle indispensabili riforme strutturali ‘sul
lato del capitale e dello Stato’ e non più ‘sul lato del
lavoro’.
120
3. Programmare la crescita del reddito,
della produttività e dei salari reali
 Contrattazione di:
 valori obiettivo di crescita del prodotto,
dell’occupazione e della produttività (produttività
programmata), finalizzati a ridurre il divario di
produttività tra l’Italia e i maggiori paesi partner
nell’euro in accordo con il coordinamento di cui al
punto 1,
 e crescita salariale reale in linea con essi, in relativa
indipendenza dai risultati effettivi,
 Per creare un forte stimolo – dal lato della
domanda – e responsabilizzare le imprese alla
riorganizzazione in accordo con le Linee guida di
cui al punto 2.
121
4. Contrattare la quota del lavoro
nel valore aggiunto
 La contrattazione di un rapporto prestabilito tra
crescita delle retribuzioni reali e crescita della
produttività del lavoro, in conseguenza degli
elementi di politica salariale di cui ai punti 1, 2 e 3,
equivale:

alla contrattazione di un valore obiettivo della quota del
lavoro nel valore aggiunto (quota del lavoro programmata),
a livello sia di comparto sia di azienda o territorio.
 Gli elementi positivi di questo risultato sono l’avvio
di un percorso di crescita stabile, che rafforzi gli
investimenti e favorisca l’uscita dalla presente
congiuntura deflazionistica.
122
5. Diffondere
la contrattazione territoriale
 Data la struttura dimensionale delle imprese
italiane e le forti limitazioni che essa impone
allo sviluppo della contrattazione aziendale,
 il sostegno alla domanda interna va realizzato
anche – se non soprattutto – attraverso
 lo sviluppo della contrattazione territoriale, a
livello regionale, provinciale, di distretto, filiera,
gruppo ecc.,
 E con la previsione di clausole incentivanti nella
contrattazione nazionale di categoria.
123
Partner sociali e governo
 Sotto i duri colpi della crisi, i partner sociali
stanno muovendo assieme, e in modo finalmente
unitario, passi importanti per il rinnovamento del
sistema di relazioni industriali
 e, sperabilmente, anche dell’apparato produttivo e
del modello di sviluppo.
 Spetta alle forze di governo:
 abbandonare gli strascichi di un ventennio perdente,
 accompagnare gli sforzi dei partner sociali
 e riprendere il ruolo di guida del progresso del Paese,
senza il quale l’uscita dal tunnel rimarrà un miraggio
irraggiungibile.
124
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 Si trova tutto all’indirizzo:
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