PESTE E LETTERATURA TUCIDIDE E LA PESTE DI ATENE Racconta la Guerra del Peloponneso (431- 404 a.C.), durante la quale Atene visse la catastrofe della peste, cominciata dal porto del Pireo. "Non ne conosco le cause, descriverò solo gli effetti“, scrive. Persone sane avvertivano improvvisi calori al capo, occhi infiammati, sangue e fetore in bocca, piaghe esterne e interne, sete, dolori, insonnia, diarrea, morte tra il settimo e il nono giorno. I sopravvissuti avevano perso estremità, parte dei genitali, occhi e memoria. Gli animali ghiotti di carne umana la evitavano oppure ne morivano: scomparvero cani e animali domestici. Inevitabile la fine: isolati si moriva senza soccorso, soccorrere significava contagiarsi. Veniva dal contado gente che girava per le vie, occupava i luoghi dei morti, entrava nei templi, espandeva il contagio. Sofferenza e paura distruggevano rispetto per luoghi e tradizioni. I morti erano più dei vivi e, mancando ai vivi tempo, forza e mezzi per il rito funebre, molti mettevano il proprio morto su una pira altrui e vi davano fuoco, o lo gettavano sulla pira dove già bruciava un cadavere e se ne andavano. I pochi scampati erano presi da un’illusione di immortalità, ma il senso generale era l’abbandono, l’assenza di leggi e di religione, in cui pareva lecito e impune ogni delitto e sacrilegio. C’era chi, impadronitosi di sostanze dei morti, cercava di cavare il massimo piacere dalla vita, poiché il futuro era la morte. Questi effetti saranno il tragico denominatore comune di tutte le cronache. LUCREZIO E LA PESTE DI ATENE Più di tre secoli dopo, nel poema De rerum natura Lucrezio analizza con la luce della ragione le angosce di morte, malattia, guerra, la paura degli dei. Descrive movimenti e combinazioni degli elementi nei fenomeni della natura: nell’aria ci sono i semi di ogni cosa, quindi anche delle malattie; il clima e le condizioni della terra favoriscono o causano il diffondersi dei mali. De rerum natura vuol dire “L’origine di ciò che esiste”: chi degli eventi conosce l’origine ne controlla anche il percorso e col sapere raggiunge, l’imperturbabilità del saggio (atarassia). Descrive anche lui la desolata rievocazione della peste di Atene, sottolineando che bisogna usare la ragione per comprendere la realtà. BOCCACIO E LA PESTE DI FIRENZE Il Decameron si apre sulla peste a Firenze del 1348: il grandioso affresco di orrori e guasti nel dissolvimento delle regole civili fa da introduzione alle cento novelle raccontate da dieci giovani che hanno deciso di vivere in campagna per "fuggire i disonesti esempi degli altri". Alla violenza fisica e morale del morbo essi contrappongono il diritto a vivere, ma la spensieratezza sarà regolata, ogni giornata sarà scandita da orari e compiti: un tempo per pregare, un tempo per nutrirsi, per danzare, per riposare, un tempo per narrare. E nel narrare è libertà dell’immaginazione, ma la parola rimane decorosa, la malizia elegante, i doppi sensi sottili e intelligenti. A Firenze Boccaccio deve fare i conti con l’immenso Dante della Commedia, che tra l’altro egli ammira e venera: e dunque, quale inferno migliore della peste da contrapporre al paradiso di gioventù e natura? Peccato che l’introduzione sia letta sempre meno: ma a chi la legge essa trasmette l’ideale dell’autore: raccontare vivendo e vivere narrando. Con eleganza. MANZONI E LA PESTE DI MILANO Manzoni descrive nei Promessi sposi la peste del 1629-30 a Milano. "La peste, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto, entra nel milanese e nel resto dell’Italia con le bande alemanne". Il medico Settala, che aveva conosciuto quella del 1576, diede l’allarme, ma non fu ascoltato; il 18 di novembre il governatore Ambrogio Spinola ordinò pubbliche feste per la nascita del primogenito di Filippo IV. Non sembrò grave nemmeno che un soldato italiano, che aveva portato in casa vestiti e masserizie di soldati tedeschi, il giorno dopo si trovò un bubbone e al quarto giorno morì. Quando il lazzaretto affollatissimo non garantiva più isolamento né cure né cibo, solo allora tra il popolo e l’autorità si diffuse la parola ‘peste’; dunque in principio la parola viene censurata, poi la si introduce di sbieco (‘febbri pestilenziali’), infine peste ma non proprio, e infine peste-peste ma già si aggiunge l’idea di "malefizio e venefizio": un’altra fuga dalla parola. E l’autore commenta "molte parole fanno lo stesso corso costosissimo e lento, mentre sarebbe meglio osservare ascoltare paragonare pensare prima di parlare, ma quest’ultima è più facile". L’ignoranza della dinamica del contagio, e insieme il bisogno di spiegarselo, portarono a credere che fossero gli untori a propagare il male. Certo a pensare non aiutò il governatore quando, con la peste palese e manifesta, per festeggiare la pace su un fronte della guerra, ordinò una processione di ringraziamento. Il cardinale Federigo Borromeo si oppose energicamente, ma poi dovette cedere, anzi acconsentì a che rimanessero esposte per otto giorni le reliquie di san Carlo. Ne seguì una vertiginosa crescita del numero dei morti, che finalmente indusse a credere al contagio. Dei 250.000 abitanti di Milano sopravvissero 64.000. http://www.storia.rai.it/articoli/la-pestenera/23859/default.aspx