LO SPAZIO E IL TEMPO DOPO EINSTEIN SILVANO TAGLIAGAMBE ORISTANO I.I.S.S. DE CASTRO 18/12/2015 1 La TEORIA DELLA RELATIVITÀ RISTRETTA O SPECIALE 3 MAXWELL VERSUS NEWTON Le equazioni di Maxwell determinano una velocità: la velocità della luce. Ma la meccanica di Newton non è compatibile con l’esistenza di una velocità fissa, perché quella che entra nelle equazioni di Newton è sempre l’accelerazione, non la velocità. Nella fisica di Newton la velocità è sempre un concetto relativo, velocità di qualcosa rispetto a qualcos’altro: non esiste la velocità di un oggetto in sé, esiste solo la velocità di un oggetto rispetto a un altro oggetto. Una possibilità è che ci sia una specie di substrato universale rispetto al quale la luce si muove a quella velocità: ma tutti i tentativi sperimentali, compiuti alla fine del XIX secolo, di usare la luce per misurare la velocità della Terra rispetto a questo ipotetico substrato sono falliti. LA SOLUZIONE DI EINSTEIN: IL PRESENTE ESTESO La soluzione di Einstein consiste nel mettere a nudo l’intrinseca contraddittorietà del concetto di simultaneità assoluta. Assumendo, con Maxwell, che quella della luce sia una velocità fissa e partendo dal presupposto che essa sia anche la velocità massima possibile, ne deriva che se io sono sulla Terra e tu sei su Marte, io ti faccio una domanda e tu mi rispondi appena senti quello che ti ho detto, a me la tua risposta arriva un quarto d’ora dopo che ti ho fatto la domanda: il tempo impiegato dalla luce per compiere il tragitto dalla Terra a Marte e ritorno. Gli avvenimenti che si verificano entro questo quarto d’ora per noi che siamo sulla Terra non sono né passati, né futuri. Questa è una sorta di zona intermedia, nel senso che non appartiene né al passato, né al futuro. È un presente esteso, la cui durata dipende dalla distanza spaziale: rispetto alla Luna è di qualche secondo, rispetto alla Galassia di Andromeda è di due milioni di anni. Quando Terra e Marte convergono in un incontro ravvicinato la loro distanza si ferma a 0,618 Unità Astronomiche, pari a 92.451.500 chilometri. La figura descrive quello che in fisica si chiama “spaziotempo”: l’insieme del passato e del futuro rispetto a un evento, ma anche di quello che non è “né-passato-né-futuro”, che non è un istante, ma ha una durata. Sulla Galassia di Andromeda, la durata di questo “presente esteso”, di questa zona intermedia tra passato e futuro rispetto a noi è di due milioni di anni. Tutto quello che accade durante questi due milioni di anni non è né passato né futuro rispetto a noi. Se su Andromeda vivesse una civiltà avanzata che a un certo punto decidesse di inviare una flotta di navi spaziali a farci visita, non avrebbe alcun senso chiedersi ora se la flotta sia già partita oppure no. L’unica domanda con un senso sarebbe quando potremo ricevere il primo segnale da questa flotta. Fonte: Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014. La teoria della relatività speciale di Einstein ci costringe dunque a prendere atto del fatto che la differenza tra presente e nonpresente (che non è osservabile, proprio come ciò che è collocato «là», nello spazio dell’altrove, ma solo «rammemorabile» o «anticipabile») è dello stesso tipo della differenza qui/là e che l’«ora» può essere trattato allo stesso modo del «qui» e il passato o il futuro allo stesso modo del «là». Sulla base di calcoli rigorosi questa teoria afferma, ad esempio, che se un individuo a 10 miliardi di anni luce da noi si allontanasse da noi a 16 km/h il suo «ora-istantaneo» includerebbe fatti per noi accaduti 150 anni fa, simultanei al 1863. Analogamente, se si avvicinasse a noi alla stessa velocità di 16 km/h il suo «ora» includerebbe eventi che per noi avverranno tra 150 anni, e dunque nell’anno 2163. Emergono così tutte le aporie e le difficoltà del «presentismo», la concezione che fa coincidere ciò che esiste con ciò che esiste nel presente. Per l’ovvio principio di transitività che sembra implicito nel significato stesso di esistere o essere reale, tutto ciò che è reale per l’osservatore posto a 10 miliardi di anni luce da me, in quanto è nel suo presente a distanza, deve essere reale anche per me: se è nel suo «ora» deve essere anche nel mio, il che significa che il mio «ora» deve essere esteso, nel caso dell’esempio che è stato fatto, sia a eventi accaduti 150 anni fa, sia a eventi che accadranno fra 150 anni. L’«ora» ha dunque lo stesso ruolo del «qui», e come il «qui» va esteso e integrato con il riferimento al «là», cioè all’altrove, l’«ora» deve essere esteso e integrato con il riferimento sia a «ieri» che a «domani». LA SOLUZIONE DI EINSTEIN: IL PRESENTE ESTESO L’idea di presente esteso indica dunque che spazio e tempo sono intimamente legati e si fondono in un concetto unico di spaziotempo. In virtù di questo nuovo concetto dire “qui e adesso” ha senso, mentre dire “adesso” per designare fatti che “stanno accadendo ora, simultaneamente” in tutto l’Universo è qualcosa che non ha senso. Allo stesso modo, nella nuova meccanica, il campo elettrico e il campo magnetico si fondono in un concetto unico, quello di campo elettromagnetico. L’EQUIVALENZA TRA MASSA ED ENERGIA Si fondono anche i concetti di energia e massa, per cui anziché due leggi separate, la conservazione della massa, verificata dai chimici in tutti i processi, e la conservazione dell’energia, che segue direttamente dalle equazioni di Newton, abbiamo una sola legge di conservazione: ciò che si conserva è la somma di massa ed energia. Einstein si rese dunque conto che massa ed energia sono due facce della stessa entità: e comprese che la massa, da sola, non si conserva, e l’energia, così com’era concepita allora, da sola non si conserva. L’una si può trasformare nell’altra. LA TRASFORMAZIONE DELLA MASSA IN ENERGIA Un rapido calcolo permette a Einstein di capire quanta energia si ottenga trasformando un grammo di massa. Il risultato, dato dalla famosa formula E = mc2 è importante per gli sviluppi futuri che avrà: l’energia in cui si trasforma un grammo di materia è enorme, un’energia uguale a quelal di milioni di bombe che scoppino insieme o, se pensiamo a scopi pacifici, sufficiente per illuminare le città e a far girare le industrie di un intero Paese per mesi. 1 La TEORIA DELLA RELATIVITÀ GENERALE 27 «Aiutami, Marcel, sennò divento pazzo!». È il 10 agosto 1912 quando Albert Einstein spalanca la porta del suo grande amico Marcel Grossmann – un matematico da poco divenuto rettore del Politecnico di Zurigo, a soli 34 anni – e implora il suo soccorso. Di anni, Einstein, ne ha uno in meno: il fisico tedesco è infatti nato nel 1879 a Ulm, una piccola città del Baden-Württemberg. Ma di fama ne ha già molta di più. Soprattutto da quando la sua teoria della relatività ristretta, elaborata nel 1905, è stata accreditata dal fisico più autorevole di quei tempi, Max Planck. Con quella teoria un giovane e sconosciuto impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, Albert Einstein appunto, aveva mandato in soffitta i concetti di spazio e di tempo assoluto e aveva dimostrato che energia e materia sono due facce di una medesima medaglia. In poche settimane di lavoro quel ragazzo di appena 26 anni aveva abbattuto alcuni dei pilastri su cui, da un paio di millenni, si reggeva la filosofia occidentale e su cui, da un paio di secoli almeno, si reggeva la fisica di Isaac Newton.Eppure è solo due anni dopo, nel 1907, che nella mente di Albert Einstein si accende la lampadina più luminosa e il giovane fisico matura quella che lui stesso definisce «l’idea più felice della mia vita». Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. Perché questo scoramento? Il motivo è semplice: a cinque anni dall’idea più felice della sua vita il giovane fisico non è riuscito ancora a scrivere l’articolo in cui annuncia al mondo la sua nuova teoria della relatività generale. Einstein non è un fisico analitico. Non procede per deduzione matematica da un assunto. Lui è un fisico che crea mediante l’intuizione. Come lui stesso dirà, la sua mente prima produce l’immagine fisica e poi formalizza la teoria (riducendola a una formula matematica, appunto). Così ha fatto nel 1905 con la relatività ristretta. E così sta facendo ora con la relatività generale. Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. Il fatto è, però, che nel 1905 sono passate pochi giorni, forse poche ore o pochi minuti tra l’intuizione per immagine e la formalizzazione. Ora sono passati cinque anni e lui non è ancora riuscita a tradurre l’immagine – la più felice della sua vita – in una formula matematica. Come mai? Anche a questa domanda si può rispondere abbastanza facilmente. Nel caso della relatività ristretta, la matematica necessaria a formalizzare l’idea fisica era semplice. Alla portata di un giovane fisico. Nel caso della relatività generale, Einstein se ne rende conto, c’è bisogno di “nuova matematica”. E lui non è un matematico creativo: non sa crearla quella nuova matematica. Ecco perché, quel 10 agosto 1912, ritornando al Politecnico di Zurigo dopo un anno trascorso presso l’università di Praga, spalanca la porta dell’ufficio di Grossmann e grida, disperato: «Aiutami, sennò divento pazzo!». Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. Marcel Grossmann è un matematico. Un matematico creativo. Ma neppure lui sa come creare la matematica specifica di cui ha bisogno Einstein. Ma, conoscendo la sua materia, sa dove cercarla, quella matematica difficile e astrusa. E così indirizza l’amico verso due matematici italiani: Tullio Levi Civita e il suo maestro, Gregorio Ricci Curbastro. Il secondo, Ricci Curbastro, ha già inventato la “nuova matematica” di cui ha bisogno Einstein: è il calcolo differenziale assoluto. Con il discepolo, Levi Civita, l’ha poi sviluppata.Grato, Albert Einstein studia il calcolo differenziale assoluto di Ricci ed entra in contatto – un lungo contatto epistolare – con Tullio Levi Civita. Ma non è facile tradurre la banale idea dell’uomo in caduta libera che non sente più il suo peso in una formula matematica che contenga una nuova teoria della gravitazione universale. Non è facile neppure con l’aiuto di Grossmann e di Levi Civita. Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. Occorre ancora molto fatica. Molto studio matto, anche se non più disperato. In soldoni, occorrono altri tre anni e tre mesi prima che Albert Einstein riesca a tradurre in una formula l’idea più felice della sua vita. Finalmente nel 1915, cento anni fa, il fisico tedesco, ormai trasferitosi a Berlino, elabora in maniera formale la teoria della relatività generale e con un’equazione riesca a descrivere come la materia (col suo campo gravitazionale) curva lo spaziotempo. L’equazione – che tra l’altro contiene un operatore matematico che, in onore a Ricci Curbastro, si chiama “tensore di Ricci” – costituisce una delle conquiste più alte mai effettuate dalla ragione umana. Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. UN PROBLEMA ULTERIORE Il problema che Einstein dovette affrontare dopo la formulazione della sua teoria della relatività ristretta è determinato dal fatto che questa sua teoria non quadra con quanto sappiamo sulla gravità: l’esistenza di una velocità limite, quella della luce, non è compatibile con l’idea di una forza, quella di gravità appunto, che agisce a distanza istantaneamente fra corpi che non si toccano. Per venire a capi di questa contraddizione occorre ipotizzare che anche la forza di attrazione fra il Sole e la Terra e fra gli oggetti che cadano debba essere attribuita a un campo, quello gravitazionale appunto. Questa ipotesi comporta un radicale mutamento dell’idea di spazio, che non può più essere concepito come un grande contenitore vuoto, piatto e fisso, ma, essendo un campo, è qualcosa che si muove e ondeggia, una sorta di gigantesco mollusco flessibile (la metafora è di Einstein). UN PROBLEMA ULTERIORE Newton aveva cercato di spiegare perché le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una «forza» che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro : l’aveva chiamata «forza di gravità». Come facesse questa forza a tirare le cose da lontano, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone rigido per l’Universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto questo «spazio» contenitore del mondo, neppure era dato sapere. Ma pochi anni prima della nascita di Albert, due grandi fisici britannici, Faraday e Maxwell, avevano aggiunto un ingrediente nuovo al freddo mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica. LA PIÙ BELLA DELLE TEORIE La teoria di Einstein descrive come si curva lo spazio intorno a una stella e intorno al nostro Sole. la Terra non gira attorno al Sole perché tirata da una misteriosa forza a distanza, come ipotizza Newton, ma perché sta correndo dritta in uno spazio che s’inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono forze misteriose generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a far ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio è incurvato intorno a loro. LA PIÙ BELLA DELLE TEORIE Sempre a causa di questa curvatura, la luce devia. Einstein predice che il Sole devii la luce. Nel 1919 viene compiuta la misura, e risulta essere vero. Non è solo lo spazio a incurvarsi, ma anche il tempo; e Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Si misura, e risulta essere vero. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui. È solo l’inizio. Quando una grande stella ha bruciato tutto l’idrogeno, si spegne e quanto resta viene schiacciato sotto il proprio stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Sono i famosi buchi neri. Oggi sono osservati nel cielo a centinaia. LA PIÙ BELLA DELLE TEORIE Ma non basta. Lo spazio intero può distendersi e dilatarsi; anzi, l’equazione indica che non può stare fermo, deve essere in espansione. Nel 1930, l’espansione dell’universo viene effettivamente osservata. E la stessa equazione predice che l’espansione debba essere nata dall’esplosione di un giovane universo piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang. Ancora una volta, nessuno ci crede, ma le prove si accumulano, fino a che nel cielo viene osservata la radiazione cosmica di fondo: il bagliore diffuso che rimane dal calore dell’esplosione iniziale. E ancora, la teoria predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare, e gli effetti di queste «onde gravitazionali» sono osservati nel cielo sulle stelle binarie, e combaciano con le previsioni della teoria con la sbalorditiva precisione di una parte su cento miliardi. E così via. A ispirare questa teoria fu un’idea in apparenza banale. Un’immagine. Eccola, come la racconta Einstein medesimo nella sua Autobiografia: «Stavo seduto in una poltrona nell’Ufficio Brevetti di Berna, quando all’improvviso mi ritrovai a pensare: se una persona cade liberamente, non avverte il proprio peso. Rimasi stupefatto. Questo pensiero così semplice mi colpì profondamente e ne venni sospinto verso una teoria della gravitazione». Sulla base di questo principio, già nel 1907, Einstein sente di poter elaborare una teoria della relatività più generale di quella formulata nel 1905, perché in grado di spiegare anche il comportamento dei corpi soggetti alla forza di gravità. Detta in altri termini, Einstein comprende di poter elaborare una nuova teoria della gravitazione universale in grado di spiegare, a differenza di quella di Isaac Newton, anche il comportamento dei corpi che viaggiano a velocità prossime a quelle della luce. Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. Ecco dunque l’immagine, come la racconta Einstein medesimo nel manoscritto intitolato Grundgedanken und Methoden der Relativitätstheorie in ihrer Entwicklung dargestellt (Concetti fondamentali e metodi della teoria relativistica illustrati nel loro sviluppo) da lui originariamente preparato per rispondere all’invito rivoltogli nel 1919 dalla rivista ‘Nature’ di scrivere l’articolo di apertura di un numero dedicato alla relatività, poi uscito il 17 febbraio 1921. Nel gennaio dell’anno seguente l’articolo era pronto ma era così lungo che dovette essere sostituito da uno molto più breve che alla fine fu pubblicato. Il manoscritto originale, che si trova ora alla Pierpont Morgan Library a New York, è del massimo interesse perché, come sottolinea Abraham Pais, “a un certo punto spiega come nel 1907, nel preparare un articolo di rassegna, fosse stato indotto a chiedersi in quale modo la teoria newtoniana della gravitazione dovesse essere modificata perché le sue leggi si accordassero alla relatività ristretta”. Cediamo dunque la parola ad Einstein: “Fu allora che ebbi il pensiero più felice della mia vita, nella forma seguente. Il campo gravitazionale ha solo un’esistenza relativa, in modo analogo al campo elettrico generato dall’induzione magnetoelettrica. Infatti per un osservatore che cada liberamente dal tetto di una casa, non esiste - almeno nelle immediate vicinanze – alcun campo gravitazionale. In effetti, se l’osservatore lascia cadere dei corpi, questi permangono in uno stato di quiete o di moto uniforme rispetto a lui, indipendentemente dalla loro particolare natura chimica o fisica (in questo genere di considerazioni, ovviamente, si trascura la resistenza dell’aria). L’osservatore di conseguenza ha il diritto di interpretare il proprio stato come uno ‘stato di quiete’. Grazie a questa idea, quella singolarissima legge sperimentale secondo cui, in un campo gravitazionale, tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione, veniva improvvisamente ad acquistare un significato profondo. Precisamente, se vi fosse anche un solo oggetto che cadesse nel campo gravitazionale in modo diverso da tutti gli altri, allora, grazie a esso, un osservatore potrebbe accorgersi di trovarsi in un campo gravitazionale e di stare cadendo in esso. Se però un oggetto del genere non esiste, come si è mostrato sperimentalmente con grande precisione, allora l’osservatore non dispone di elementi oggettivi che gli consentono di stabilire che si trova in caduta libera in un campo gravitazionale. Piuttosto ha il diritto di considerare il proprio stato come uno stato di quiete e il proprio spazio ambiente come libero di campi, almeno per quanto riguarda la gravitazione. L’indipendenza dell’accelerazione di caduta dalla natura dei corpi, ben nota sperimentalmente, è pertanto un solido argomento in favore dell’estensione del postulato di relatività a sistemi di coordinate in moto non uniforme l’uno relativamente all’altro”. Questo pensiero, che porta Einstein a immaginare idealmente il nostro Universo come privo di qualsiasi gravità, è frutto, ancora una volta, di un’astrazione spinta fino al punto estremo di liberarsi, concettualmente, di aspetti ardui da affrontare per stabilire il controllo cognitivo su ciò che resta. Solo dopo essere riusciti a farlo ci si affida agli aspetti più semplici per riannodare il filo con quelli difficili precedentemente accantonati. La chiave di questo processo di pensiero, come sottolinea Kip Thorne, è costituita dalla riduzione dello spazio preso in considerazione esplicitata dalla precisazione “nelle immediate vicinanze”. Si immagina dunque che l’osservatore in caduta libera dalla sua casa sia piccolo e che altrettanto ridotto sia il suo “quadro di riferimento”, cioè il laboratorio ideale, contenente tutti le attrezzature e gli strumenti di misurazione necessari per ogni tipo di rilievo che si desideri effettuare. È evidente che quanto più piccole sono queste dimensioni tanto minore sarà la differenza della forza esercitata dall’attrazione gravitazionale sulle diverse parti del corpo, in particolare su quelle esterne e sul centro, sino a rendere insignificante e non rilevabile questa differenza. Se le dimensioni sono quelle di una formica tutte le parti del corpo saranno talmente vicine le une alle altre da far sì che la direzione e la forza che l’attrazione gravitazionale esercita su questo corpo saranno esattamente le stesse. Ecco perché non si avverte il peso e la gravità sembra scomparsa, per cui la sensazione è quella della caduta libera. Quadri di riferimento piccoli e in caduta libera nel nostro Universo dotato di gravità sono dunque equivalenti a quadri inerziali in un universo privo di gravità, per cui è possibile uno spostamento dell’attenzione dalla forza di gravità e dalla sua incidenza sul moto del laboratorio a quadri di riferimento che si muovono liberamente grazie alla loro inerzia, non spinti né attratti da alcuna forza e che pertanto continuano a procedere sempre in avanti nello stesso stato di moto uniforme inerziale. Una volta acquisito il pieno controllo su questo spostamento e sull’ibridazione che ne scaturisce tra il linguaggio della gravitazione e quello in termini di quadri inerziali, e delle immagini mentali associate all’uno e all’altro, che risultano interscambiabili senza che ciò incida sulle previsioni formulate, è possibile ritornare al livello di maggiore complessità ed esprimere in modo più profondo e preciso il principio della relatività: “ogni legge fisica deve essere formulata in termini di misurazioni effettuate in un quadro di riferimento inerziale. Poi, una volta enunciata di nuovo in termini di misurazioni effettuate in qualsiasi altro quadro inerziale, la legge fisica deve assumere esattamente la stessa forma matematica e logica del quadro originario. In altre parole, le leggi della fisica non devono fornire alcun mezzo per distinguere un quadro di riferimento inerziale (uno stato di moto uniforme) da un altro”. 3 LA FORZA E L’EFFICACIA DELLE IMMAGINI 46 GALILEO: IL SIDEREUS NUNCIUS Il Sidereus Nuncius non segna soltanto la nascita della scienza moderna: esso può essere considerato anche la fase iniziale di quella che possiamo chiamare una “strategia dello sguardo” da parte della ricerca. Pubblicato a Venezia il 12 marzo 1610 presuppone l’alleanza di naturale e artificiale, il potenziamento dell’occhio con strumenti tecnologici. Nei mesi precedenti, Galileo si era infatti dedicato al perfezionamento tecnico del cannocchiale, ideato nel 1608 in Olanda da Hans Lippershey, e nella sua opera è assai scrupoloso nel definire le caratteristiche fondamentali del suo strumento. GALILEO: IL SIDEREUS NUNCIUS Quando lo volge al cielo, scopre qualcosa che gli permette di smontare e rivoluzionare la conoscenza del suo tempo: e la cosa interessante è che egli correda i resoconti delle sue osservazioni con disegni tratti direttamente dall’osservazione col telescopio: alla comunicazione attraverso la scrittura abbina dunque, rinforzandola considerevolmente e rendendola assai più immediata e diretta, quella per immagini, attraverso riproduzioni estremamente accurate, da lui stesso disegnate, della superficie della luna nelle diverse fasi d’illuminazione solare, per dimostrare che la superficie lunare non è affatto liscia, uniforme e di sfericità esattissima ma al contrario scabra e disuguale, con rilievi di diverse altezze, piena di cavità e di sporgenze non altrimenti che la faccia stessa della terra. GALILEO: IL SIDEREUS NUNCIUS Il ricorso a queste figure risponde alla seconda componente della strategia di Galileo: quello di rendere il più possibile capillarmente diffusa e interattiva la visione risultante da questa alleanza tra l’occhio e il canocchiale, coinvolgendo il senso comune nella rivoluzione epistemologica che ne scaturiva. Con questa sua rivoluzione Galileo dunque non solo vede, ma vuole far vedere a chiunque sia interessato che il mondo è diverso da quella che la conoscenza fino a quel momento disponibile ci proponeva. Il 1610 può quindi essere considerato, come ha sottolineato Pietro Greco, l’anno d’inizio della stagione in cui la verità si può vedere, e non solo dedurre con logica astratta, anziché matematizzata. P. Greco, L’astro narrante. La luna nella scienza e nella letteratura italiane, Springer, Milano, 2009. LE FIGURE DEL SIDEREUS NUNCIUS KIP THORNE: INTERSTELLAR Questa “strategia dello sguardo” di Galileo è stata ripresa e riproposta, valendosi dei più aggiornati mezzi messi a disposizione dallo sviluppo tecnologico, da Kip Thorne, uno dei più autorevoli fisici contemporanei, collega e amico di Stephen Hawking. È grazie ai suoi studi sulla forza delle onde gravitazionali e su quali indizi possiamo cercare dalla Terra che è stato possibile sviluppare l’esperimento che ha permesso di confermare la previsione di Einstein dell'esistenza delle onde gravitazionali - sottili increspature nello spaziotempo prodotte da oggetti massicci che sfrecciano nel cosmo. KIP THORNE: INTERSTELLAR Alla sua attività di ricercatore autorevole e impegnato Kip Thorne ha abbinato la funzione di rigoroso divulgatore scientifico e, soprattutto, di attivo ideatore e realizzatore di una nuova forma di “strategia dello sguardo”, basata sull’alleanza di scienza e fantascienza, di ricerca scientifica e cinema. Egli è infatti stato dapprima il consulente scientifico di Robert Zemeckis per il film Contact (in cui la scienziata Ellie Arroway, interpretata da Jodie Foster, riesce a viaggiare attraverso un tunnel spaziotemporale) e poi la mente rigorosa dietro l’impressionante rappresentazione di viaggi interspaziali, buchi neri, relatività nei piani temporali e molto altro offerta da Interstellar, film di fantascienza made in USA e ambientato in un ventunesimo secolo alternativo in cui la terra è devastata da terribili piaghe atmosferiche. KIP THORNE: INTERSTELLAR Questo film era in cantiere già dal 2006, quando la Paramount Pictures l'aveva affidato a Steven Spielberg, per consegnarlo successivamente nel 2013 nelle mani di Christopher Nolan che l’ha portato a compimento nel 2014 vincendo il premio Oscar 2015 per i migliori effetti speciali. Con l’aiuto decisivo di Thorne sul piano teorico e delle tecnologie più avanzate che gli hanno consentito di realizzare questi effetti Nolan è riuscito a costruire un universo visivamente elegante, straordinario e potente, giocando con cognizione di causa con la relatività generale, le leggi fisiche della gravità e dello spazio-tempo, e fornendo una descrizione estremanente curata di molti dettagli scientifici. Il senso complessivo dell’operazione è stato spiegato da Thorne in un libro con introduzione di Nolan, uscito in concomitanza con il film, dal titolo The science of Intestellar, pubblicato solo negli Stati Uniti, dove vengono descritte con precisione e rigore tutte le teorie utilizzate nella sceneggiatura. KIP THORNE: INTERSTELLAR L’obiettivo è quello di spiegare che gli effetti visivi proposti per la prima volta nella pellicola, soprattutto per quanto riguarda wormholes, buchi neri, viaggi interstellari, si fondano sulle più avanzate teorie scientifiche di cui disponiamo e ci forniscono una rappresentazione accurata delle leggi fisiche che governano il nostro universo e dei fenemeni davvero sorprendenti che esse rendono possibile Proprio richiamandosi a questa pubblicazione e facendo un consuntivo della sua opera, Nolan può dunque affermare: "I miei film sono sempre legati a standard elevati perché sollevano problemi che non sono presenti nei lavori degli altri registi, il che mi va bene. Kip Thorne, l'astrofisico che ha collaborato alla sceneggiatura di Interstellar, ha scritto un libro sulla scienza del film in cui spiega ciò che è reale e ciò che è mera speculazione, perché ovviamente larga parte del plot è speculazione”. CUNICOLO SPAZIO-TEMPORALE CUNICOLO SPAZIO-TEMPORALE CUNICOLO SPAZIO-TEMPORALE CUNICOLO SPAZIO-TEMPORALE KIP THORNE: INTERSTELLAR Al di là del valore artistico del film, sul quale si è molto discusso, quello che è importante sottolineare è che con questa collaborazione a un’opera cinematografica comunque ardita e coraggiosa Thorne si propone come erede della “strategia dello sguardo”, inaugurata da Galileo con il Sidereus Nuncius. Il suo proposito infatti è manifestamente quello di dilatare e potenziare la capacità di vedere e di immaginare degli spettatori, contribuendo a metterli in condizione, anche in questo caso, di vedere la verità scientifica, anziché limitarsi a dedurla e a comprenderla con la logica astratta e con la capacità di astrazione della mente. 4 LA CONCEZIONE DELLO SPAZIO E DEL TEMPO NELLA TEORIA PIÙ BELLA 66 Nonostante la sua bellezza questa teoria, che assunse la sua forma definitiva nel 1915, recava con sé un difetto di fondo che non poteva essere ignorato agli occhi degli scienziati: non aveva (ancora) alcuna verifica empirica. Questo difetto fu superato nel giro di quattro anni. Nel 1919, infatti, un astronomo inglese, Arthur Eddington, grazie a un’eclisse, verificò che la luce di una stella lontana è deviata dal campo gravitazionale del Sole proprio dell’angolo previsto dalla relatività generale del tedesco Albert Einstein e non dell’angolo previsto dalla teoria della gravitazione universale dell’inglese Isaac Newton. Il 7 novembre il Times di Londra, non senza rammarico, riconobbe in prima pagina: “Rivoluzione nella scienza. Nuova teoria dell’universo. Demolita la concezione di Newton”. Quello stesso giorno Einstein divenne il fisico di gran lunga più famoso del pianeta. Un mito, che ancora oggi risulta del tutto inossidabile. LE FORZE FITTIZIE Per chi è a bordo di una vettura che sta accelerando e si versa un bicchiere d’acqua la situazione non è la medesima di chi si trova fermo a casa propria o a bordo di un aeroplano che vola a velocità costante. L’acqua, infatti, non cadrebbe regolarmente, ma formerebbe un arco la cui forma sarebbe determinata dalla direzione e dall’intensità dell’accelerazione. Questo esperimento molto semplice che ognuno può fare viaggiando in macchina rileva senza ambiguità che l’auto non si sta muovendo a velocità costante, ma sta accelerando. Se si postula invece che la vettura sia ferma bisogna postulare l’esistenza di una forza misteriosa che spinge le cose a volte verso il davanti e a volte verso il dietro della vettura medesima. Forse di questo genere, che si manifestano solo in sistemi di riferimento accelerati, sono chiamate fittizie e sono proporzionali a m, a prescindere da come il sistema di riferimento acceleri e da come l’oggetto si stia muovendo. LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA In questo caso la “forza di gravità” percepita da chi sta all’interno della capsula è un esempio per eccellenza di forza fittizia, ma per lui non ha nulla di fittizio: per lui è una forza reale, così come c’è un pavimento reale e un soffitto reale ed è autentica la distinzione tra su e giù. A meno di riuscire a dare un’occhiata all’esterno della capsula (cosa che violerebbe le premesse di questo esperimento mentale) il viaggiatore non ha alcun modo di distinguere se la capsula sia in accelerazione costante nello spazio vuoto o se sia immobile all’interno del campo gravitazionale terrestre. Le due situazioni sono indistinguibili. Un sistema di riferimento accelerato non è di conseguenza assolutamente distinguibile da un sistema stazionario immerso in un campo gravitazionale. LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA Prima che il razzo che tira la capsula con una forza costante, dando luogo a un’accelerazione costante, si metta in moto l’occupante della capsula fluttua al suo interno e per lui non c’è alcuna ragione per distinguere pavimento e soffitto. Appena il razzo comincia a esercitare la sua spinta una delle pareti della capsula si avvicina a lui che ci va a urtare rimanendoci incollato, perché l’accelerazione costante dell’abitacolo ha rotto la simmetria tra le pareti e ha messo fine alla possibilità di fluttuare all’interno. Se inoltre l’occupante gettasse in aria una matita questa “cadrebbe” sul pavimento: questa situazione, vista dall’esterno, si spiega che il pavimento si muove verso la matita fino alla loro collisione, mentre dall’interno essa è l’effetto della forza gravitazionale. LA GRAVITÀ COME FORZA FITTIZIA Se ora l’occupante lascia andare due oggetti di peso molto differente, come una matita e un’ipotetica palla di cannone, li vedrebbe cadere fianco a fianco e colpire il pavimento nello stesso istante. Per gli osservatori esterni questo sarebbe ovvio: i due oggetti non si muovono, mentre è il pavimento che si sta muovendo “verso l’alto” per venire loro incontro: è quindi evidente che li colpirà nello stesso istante. Ma dal punto di vista dell’occupante della capsula il fenomeno si verifica perché la gravità possiede la proprietà fondamentale che Galileo fu il primo a dimostrare: cioè che tutti gli oggetti, quale che sia la loro massa, cadono con la stessa accelerazione. Per lui quindi la gravità non ha nulla di fittizio, ma è una forza reale. IL PRINCIPIO DI EQUIVALENZA Einstein chiamò “principio di equivalenza” questa nuova versione radicalmente estesa del principio di relatività. Con questo voleva dire che c’era un’impossibilità di distinguere la gravità dall’accelerazione. Supponiamo ora che la capsula sia sospesa 100 km sopra la Terra mantenuta perfettamente immobile da un meccanismo. Per l’occupante la forza gravitazionale permea la sua capsula esattamente come lo farebbe sulla superficie della Terra con l’unica differenza che a quella altitudine la gravità e un po’ minore. Ma se a un tratto il meccanismo di ferma e lascia andare la capsula che comincia a precipitare tutti gli oggetti al suo interno cominciano a cadere nello stesso modo e con la stessa velocità. Per l’occupante non esiste più un pavimento né un soffitto: egli sperimenta l’assenza di peso, la sensazione di gravità zero e dato che tutto sta cadendo verso la Terra alla stessa velocità per lui nulla sta cadendo e tutto (compreso lui stesso) sta fluttuando. IL PRINCIPIO DI EQUIVALENZA È qui che interviene quello che Einstein definì il pensiero più felice della sua vita: ossia che il campo gravitazionale, ha un’esistenza solo relativa”, dove “relativa” significa qui che l’esistenza del campo dipende dal sistema di riferimento in cui si è collocati, e in particolare che in almeno un sistema di riferimento questo campo non esiste per nulla. Giunto a questo punto, proprio come aveva fatto nel 1905 con la relatività ristretta, Einstein estese questo principio in modo da ritenerlo valido non per la sola meccanica, ma per ogni tipo di esperimento fisico: “Un sistema di riferimento accelerato non è distinguibile, per mezzo di qualunque esperimento fisico, da un sistema di riferimento non accelerato immerso in un campo gravitazionale. Non si capisce infatti perché si dovrebbe assumere, senza alcuna necessità, un tipo di relatività per gli effetti meccanici e un tipo differente per il resto della fisica. EFFETTI GRAVITAZIONALI SULLA LUCE Immaginiamo ora che l’occupante della nostra capsula in movimento accelerato accenda una torcia elettrica che emette un raggio di luce perfettamente orizzontale, cioè parallela al “pavimento” dell’abitacolo. Gli osservatori all’esterno diranno che questo raggio si sposta in direzione costante rispetto alle stelle lontane mentre la capsula che lo circonda “sale” a velocità sempre maggiore. Da questa accelerazione “verticale” costante della capsula segue che il suo occupante all’interno vedrà il raggio di luce abbassarsi verso il pavimento con rapidità sempre maggiore mentre attraversa la capsula a una velocità orizzontale costante. In altre parole: per lui il raggio di luce seguirà una curva e non una linea dritta. EFFETTI GRAVITAZIONALI SULLA LUCE Per il principio di equivalenza questo fenomeno che si osserva in un sistema accelerato come la capsula dovrà osservarsi anche in una laboratorio sulla terraferma immerso in un campo gravitazionale. Ciò condusse Einstein a fare previsioni di alcuni fenomeni celesti fino ad allora neppure ipotizzati, come la minuscola deflessione dei raggi luminosi provenienti da una stella lontana nel loro passaggio vicino al Sole, il cui campo gravitazionale è forte. Nel 1919, durante un’eclissi totale, una spedizione inglese guidata dal fisico Arthur Eddington osservò effettivamente, da due isole diverse nell’oceano Atlantico meridionale, questo fenomeno, fornendo una precisa conferma sperimentale alla teoria di Einstein. È una semplificazione impressionante del mondo. Lo spazio, come detto, non è qualcosa di diverso dalla materia, è una delle componenti materiali del mondo, è un’entità reale, come il campo elettromagnetico, che ondula, si flette, s’incurva, si storce. Noi non siamo contenuti in un’invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile (la metafora è di Einstein). Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché tirata da una misteriosa forza a distanza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina: è la natura curva dello spazio a far ruotare la Terra. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio è incurvato intorno a loro. Fonte: Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014. Le proprietà di uno spaziotempo curvo, in qualunque dimensione, sono descritte da un certo oggetto matematico, che oggi chiamiamo la “curvatura di Riemann”. Einstein, dopo avere imparato, con molta fatica, la matematica di Riemann (1826-1866), esposta in una ponderosa tesi di dottorato, di quelle che sembrano completamente inutili, scrive un’equazione per cui questa curvatura è proporzionale all’energia della materia. Cioè lo spazio si incurva di più là dove ci sia più materia. Questa equazione è l’analogo delle equazioni di Maxwell, ma per la gravità invece che per l’elettricità. Fonte: Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014. Ma non è solo lo spazio che s’incurva, anche il tempo. Einstein predice che il tempo sulla Terra passi più veloce in alto e più lento in basso. Si misura ed è vero. Perché? Perché anche il tempo non è qualcosa di universale e fisso, è qualcosa che si allunga e si accorcia secondo la presenza di masse vicine: la Terra, come tutte le masse, distorce lo spaziotempo rallentando il tempo nelle sue vicinanze. Fonte: Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014. IL PARADOSSO DEI GEMELLI Supponiamo di essere invitati a imbarcarci su una navicella spaziale che parte nell'anno 2015 e ritorna nel 2035. In pratica, stante il fenomeno della dilatazione dei tempi, ci viene offerta l'opportunità di scegliere quanto velocemente vogliamo «raggiungere» l'anno terrestre 2035, il che determinerà la nostra velocità rispetto alla Terra. Se siamo d'accordo nell'aspettare dieci anni, cioè nel voler comprimere venti anni in dieci, dobbiamo viaggiare a una velocità pari all'86% di quella della luce. Per ridurre la durata a due soli anni, invece, occorre raggiungere il 99,5% della velocità della luce. Possiamo notare come, a mano a mano che ci si avvicina alla velocità della luce, il «viaggio» fra gli anni terrestri 2015 e 2035 si accorcia (misurato da Terra il viaggio dura sempre vent'anni). Al limite, nel caso in cui viaggiassimo esattamente a velocità c, il viaggio sarebbe istantaneo. Tutte le stelle finiscono per spegnersi quando hanno bruciato l’idrogeno di cui dispongono: il combustibile che le fa bruciare. Il materiale che resta non è più sostenuto dalla pressione del calore e si schiaccia sotto il suo stesso peso. Quando questo succede a una stella abbastanza grande, la materia si schiaccia moltissimo e lo spazio si curva così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Così nascono i buchi neri. L’UNIVERSO È UNA TRE-SFERA Sulla superficie della Terra, se mi metto a camminare sempre diritto, non vado avanti all’infinito: torno al punto di partenza. Il nostro Universo potrebbe essere fatto nello stesso modo: se parto con un’astronave e viaggio sempre nella stessa direzione, faccio il giro dell’Universo e torno sulla Terra. Uno spazio tridimensionale fatto così, finito ma senza bordi, è chiamato “tre-sfera”. La 2-sfera, disegnata con un taglio che la divide in due parti Così come la 2-sfera può essere immaginata come 2 dischi (cioè due circonferenze piene) con i bordi in corrispondenza, la 3-sfera può essere immaginata come 2 bocce (cioè due sfere piene) con i bordi in corrispondenza. Proiezione stereografica degli elementi della 3-sfera: paralleli (in rosso), meridiani (in blu ) e ipermeridiani (in verde). Tutte le curve sono cerchi (alcuni di raggio infinito, quindi rette) e in proiezione appaiono intersecarsi sempre ad angolo retto. TEORIA DELLA RELATIVITÀ E MECCANICA QUANTISTICA Agli occhi di Einstein la sua teoria presenta tuttavia un problema di fondo. La mia equazione, dirà, è fatta per metà di marmo pregiato e per metà di legno scadente. La prima è la componente dell’equazione che descrive la gravitazione come un campo. Un campo continuo. La seconda è invece la componente che descrive la materia come entità discreta e, quindi, discontinua. Il problema posto dal fisico tedesco quando descrive la duplice natura della sua formula può essere riassunto in questo modo. C’è una parte dell’equazione (che Einstein definisce marmo pregiato) che descrive il campo gravitazionale: un’entità diffusa nello spazio in modo continuo. L’altra parte dell’equazione (il legno scadente) è la massa, ovvero l’insieme di quelle unità discrete, le particelle, il cui comportamento viene descritto, con grande precisione, dalla meccanica quantistica e dalle teorie quantistiche di campo a essa correlate. Einstein, con la sua spiegazione nel 1905 dell’effetto fotoelettrico e la scoperta dei “quanti di luce” (i fotoni) e della loro ambigua dualità (si comportano sia da onde che da corpuscoli), è stato uno dei padri fondatori della fisica quantistica. La teoria dei quanti è stata formalizzata nella seconda parte degli anni ‘20 del secolo scorso. Da quel momento la fisica poggia su due pilastri: la relatività generale e la meccanica quantistica. E tuttavia le due grandi teorie non risultano, a tutt’oggi, conciliabili. Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. Molti fisici teorici, ancora oggi, pensano che occorre rimetterli in fase, quei due pilastri divergenti, se si vuole evitare che l’intero e maestoso edificio della fisica crolli su se stesso (come diceva amaramente Einstein pochi mesi prima di morire, nell’ultima lettera scritta all’amico di penna, l’ingegnere triestino Michele Besso). Il che significa che l’una o l’altra o entrambe le teorie (la relatività generale e la meccanica quantistica) sono incomplete e, dunque, da modificare. Ebbene, per quarant’anni lo stesso Einstein si è impegnato in questo tentativo e ha cercato una teoria unitaria – una teoria unitaria di campo continuo – che trasformasse il legno scadente in marmo pregiato. Non c’è riuscito. Ma ancora oggi quello della conciliazione tra le due teorie è il più grande problema aperto della fisica. Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. Perché poi Einstein consideri marmo pregiato la descrizione del campo continuo e legno scadente la descrizione della materia discreta è tema troppo complesso per raccontarlo in poco tempo. Qui ci limitiamo a dire che, malgrado Einstein abbia piena percezione di aver tagliato il traguardo più alto nella storia della fisica e, forse, dell’intera cultura umana, resta lucido. E umile. Riconosce i meriti, ma anche i limiti della sua teoria. Come abbiamo detto, questa lucida analisi lo porterà a cercare per il resto della sua vita, con la stessa determinazione che lo aveva portato a spalancare la porta dell’ufficio dell’amico Marcel e a chiedere aiuto, una teoria ancora più generale della relatività generale. Una nuova teoria dello spazio e del tempo fatta tutta di marmo pregiato. Una teoria del tutto di campo continuo, in grado di unificare in maniera completa e organica tutte le forze conosciute dell’universo. Questo obiettivo non riuscì però a centrarlo. Certo, a differenza di Einstein, oggi la gran parte dei teorici sembra più propenso a “sacrificare” il continuo e a “salvare” il discreto. Ovvero a trasformare il marmo pregiato in un altro materiale simile a quello che Einstein considerava legno scadente. In ogni caso c’è chi giura che risolvendolo il problema della compatibilità tra relatività generale e meccanica dei quanti si darebbe soddisfazione anche al problema della “singolarità iniziale” posto da Hawking (e da tanti altri). Non c’è modo migliore, per festeggiare i cento anni della relatività generale, che verificare come essa non sia affatto una teoria superata, ma una teoria viva. Che entra nel merito delle questioni aperte. Fonte: Pietro Greco, Relatività generale: l’idea più felice compie cent'anni, ‘Scienza in rete’, 25 novembre 2015. Dal punto di vista quantistico lo spazio è creato dall’interagire di quanti individuali di gravità, è il tessuto risultante dal pullulare continuo della trama di relazioni prodotta da queste interazioni. I quanti non abitano lo spazio, abitano l’uno nei paraggi dell’altro e lo spazio è il tessuto delle loro relazioni di vicinanza. La stessa cosa va detta a proposito del tempo, che a livello fondamentale non c’è: le cose cambiano solo in relazione l’una all’altra. È il tempo che nasce come conseguenza di queste interazioni. Come lo spazio, il tempo deve emergere dal campo gravitazionale quantistico. Il mondo descritto dalla meccanica quantistica è lontano da quello che ci è familiare. Non c’è più lo spazio che “contiene” il mondo e non c’è più il tempo “lungo il quale” avvengono gli eventi. Ci sono processi elementari in cui quanti di spazio e materia interagiscono tra loro in continuazione. Fonte: Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014. p. 159. Se pensiamo a un processo qualunque, per esempio lo scontro di due palle da biliardo sul tavolo verde, per trattare questo processo in gravità quantistica bisogna includere in esso lo spazio in cui le due palle sono immerse per tutto il tempo trascorso fra l’inizio del lancio e quella che vogliamo considerare la fine del processo, vale a dire la piccola porzione finita del grande “mollusco” di Einstein che riguarda il processo medesimo. La meccanica quantistica implica che fra il bordo iniziale di questa porzione dello spaziotempo, dove entrano le due palle, e il bordo finale, dove escono, non ci sono uno spaziotempo preciso e un percorso definito delle palle. Ci sarà invece una “nuvola” quantistica, nella quale “esistono insieme” tutti i possibili spazitempi e tutti i possibili cammini. E le probabilità di vedere uscire le palle in un modo o nell’altro sarà calcolata sommando tutti i possibili “spazitempi”. Fonte: Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014. p. 159. Alanis Morissette 1998