- Storia e cenni sul Kung Fu Shaolin Si dice che il buddhismo sia ufficialmente penetrato in Cina durante il I sec. D.C. e, dopo circa trent’anni di adattamenti, intesi ad adeguarlo ai codificati insegnamenti del Confucianesimo e del Taoismo, i cinesi l’accettarono come proprio. Fu l’inserimento di credenze taoiste nel Buddismo cinese a gettare le fondamenta della scuola del Buddismo Ch’an, antenato della filosofia Zen. Il Buddismo non sostituì le due religioni cinesi precedenti, ma al contrario fornì uno schema spirituale alternativo, nella cornice del quale il Confucianesimo cinese, così ben strutturato, poté fondersi con l’aspirazione taoista alla filosofia mistica, dando origine a una religione indigena insieme formale e introspettiva. Durante il III, IV e V sec d.C., una vera e propria folla di maestri buddhisti indiani Mahayana superò la catena dell’Himalaya penetrando in Cina, per diffondervi ciascuno la propria versione del pensiero buddista. Dal canto loro i cinesi si diedero all’importazione di “sutras” sanscriti indiani esprimendo concetti filosofici indiani mediante termini cinesi preesistenti; in altre parole, fu come se si piantassero pioli indiani cilindrici in fori cinesi quadrati. Poiché finora non è stato elaborato nessun mezzo più efficace per distruggere l’originalità di idee straniere, che non sia quello di tradurre parola per parola in approssimazioni indigene, il buddismo cinese divenne, da molti punti di vista, una semplice rielaborazione di filosofie cinesi preesistenti, e questo fino a quando non giunse in Cina dall’India un monaco speciale di nome Bodhidharma, i cinesi lo chiamano Ta Mo, i giapponesi Daruma Tahishi; questa figura appare alle radici di tutte le piu grandi scuole di Zen e di Arti Marziali. Una tradizione Zen vuole che il Buddha un giorno, seduto sul Picco dell’Avvoltoio, si vide offrire un fiore e si sentì rivolgere la richiesta di tenere una predica sulla legge. Prese il fiore e tenendolo davanti a sé a braccio teso, lentamente ne fece girare il gambo tra due dita senza dire nulla. A questo punto il più sagace dei suoi discepoli sorrise con comprensione; e così nacque il silenzioso insegnamento Zen. Si vuole che quel sorriso muto si sia trasmesso a una serie di ventotto patriarchi buddisti indiani successivi, conclusa dal famoso Bodhidharma (470 ca. – 534 d.C.) che nel 520 si recò in Cina e vi fondò la scuola del Buddismo Ch’an, divenendo il primo patriarca cinese. Alcuni testi asseriscono che Bodhidharma prima di diventare Bodhisattwa (illuminato) era membro della Shatria, e quindi un nobile guerriero dell’India. Ciò spiegherebbe perché utilizzò anche le Arti Marziali per addestrare i suoi monaci. Bodhidharma introdusse in Cina il concetto indiano di meditazione, chiamato “dhyana” in sanscrito, “Ch’an” in cinese e “Zen” in giapponese, che doveva dare l’inizio di uno stile di vita che ancora oggi si conserva inalterato per coloro che riescono a percepirne il senso. Bodhidharma era senza dubbio una figura storica, e d’altra parte almeno personalmente non avanzò nessuna pretesa di patriarcato, in effetti si distinse più per le sue caratteristiche individuali che non per i tentativi di promulgare un’ortodossia. IL MESSAGGIO DI BODHIDHARMA Bodhidharma, giunto in Cina durante il regno dell’Imperatore Liang Wu della dinastia Liang, si recò al tempio Kuan Shao a canton, ma Il Governatore della città, Shaou Yon lo raccomandò all’Imperatore, il quale lo invitò a corte. L’incontro tra i due non risultò felice in quanto, essenzialmente, il reale e nuovo apporto che questo monaco dava era il suo originale concetto di meditazione molto distante dai principi cristallizzati del buddhismo mahayano che si era diffuso in Cina, sino a quel tempo. L’Imperatore, infatti, vantando con molta vanagloria i propri meriti di cultore del Buddismo tradizionale, non lo accolse con il rispetto ch’Egli meritava. Bodhidharma, si vide costretto a non prestargli ascolto e riprese il proprio cammino. Secondo la tradizione si stabilì, successivamente, in un Tempio sul picco Shao Shih dei monti Songshon a Teng Fon Hsien, nella provincia di Honan. Il suo nome era Tempio SHAO LIN, la cui traduzione in italiano è Tempio della Giovane Foresta. Questo tempio era stato edificato nel 377 d.C. per ordine dell’Imperatore Wei, il quale lo affidò ad un buddista chiamato Pao Jaco per scopi religiosi. Con il passare dei giorni, Bodhidharma osservò che i monaci erano in una stato fisico pessimo e di conseguenza anche psichicamente e spiritualmente non avevano grandi chance per ottenere considerevoli risultati, così decise di prendersi cura di loro e di addestrarli e nel giro di pochi anni ne fece il Tempio Buddhista Ch’an più importante della storia, così importante da contrastare anche la popolarità dello stesso Imperatore. La leggenda racconta che bodhidharma stette in solitaria meditazione per i successivi nove anni, seduto davanti a una roccia e si tagliò le palpebre per restare sveglio e far si che la sua attenzione non vacillasse mai. Naturalmente, anche questa può essere considerata una metafora, ciò che il Santo Monaco voleva insegnare era il concetto della “Presenza”, la capacità di ESSERE vigile costantemente, cosa molto differente dall’ormai cristallizzato buddismo mahayano che invece raccomandava lo studio dei sutra, e quindi l’indottrinamento. A quanto sembra, Bodhidharma sarebbe passato sostanzialmente inosservato agli occhi dei contemporanei, e nelle “Biografie dei sommi Sacerdoti”, opera compilata nel 645, dove per la prima volta se ne fa menzione, è semplicemente incluso in una lista di devoti buddhisti. Successivamente se ne trova traccia ne “La trasmissione della Lampada”, una raccolta di scritti e testimonianze Zen che risale al 1400. In effetti Bodhidharma, al pari del Buddha, sembra non aver lasciato nessun resoconto scritto dei suoi insegnamenti, sebbene sussistano due saggi da più parti attribuitigli, e che probabilmente riflettono lo spirito delle sue idee circa la meditazione. Di questi due libri si è parlato molto; alcuni monaci attuali asseriscono che le copie originali vengono conservate gelosamente tuttora nel tempio. In particolare molti maestri di Arti Marziali asseriscono che il primo classico si è interessato di forza fisica e di salute ed è stato chiamato il classico del cambiamento del muscolo “Yi-Gin Ching”. Il secondo libro, la pulizia dei nervi e del midollo osseo denominato “HSI Sui Ching”, interessato allo sviluppo della resistenza interna. Comunque siano andate le cose realmente, possiamo essere certi che Bodhidharma si assicurò che i monaci fossero addestrati in modo uniforme sul piano psichico, fisico e spirituale, con la massima convinzione che i tre fattori umani sono imprescindibili. La leggenda racconta che insegnò 18 esercizi che rafforzarono considerevolmente i monaci, oggi vengono chiamati SHO PA LO HAN SHOU, Le diciotto mani di Buddha. E’ interessante notare che tutte le scuole di Arti Marziali Cinesi, così come di Qi Gong asseriscono di custodire la versione originale di queste tecniche, ma esse sono tutte differenti tra loro. Il nostro buon senso, ci dice che sicuramente Bodhidharma fece praticare degli esercizi ai monaci in quanto l’addestramento spirituale non poteva prescindere da quello fisico. Non ci può essere evoluzione spirituale senza lavorare anche sul corpo. I monaci spesso viaggiavano per acquistare cibo, e sicuramente vivevano in zone isolate quindi ben presto ebbero la necessità di difendersi dai briganti e non ci fu molto da fare per utilizzare le stesse tecniche a scopo di difesa personale. Infatti un corpo e una mente addestrati possono usare tranquillamente qualsiasi tecnica per difesa. Inoltre la leggenda vuole che Bodhidharma si sia ispirato ai movimenti di cinque animali: la tigre, la gru, il serpente, il leopardo ed il drago. Oggi gran parte del Kung-fu deriva dallo studio di questi animali. La leggenda è sempre molto distante dalla realtà anche perchè solo dal 1835 esistono libri che narrano di questi avvenimenti. Così molto della nostra conoscenza delle Arti Marziali cinesi è stata costruita su una tradizione orale. A noi non interessa il come, ma sicuramente il perché Bodhidharma sottopose i suoi monaci ad un particolare tipo di addestramento che essenzialmente mirava al raggiungimento della realizzazione di se stessi; al completo utilizzo delle capacità umane, che a quanto pare sono ben più estese di quanto solitamente immaginiamo. Il Tempio di Bodhidharma acquistò così tanta notorietà da compromettere la stessa egemonia dell’Imperatore. Infatti, nel tempio si insegnava a vivere in pace, lontano dalla violenza della politica e della guerra. I nobili propositi dei Monaci Shaolin fecero si che la popolazione cominciò ad adorarli e a prenderli come punto di riferimento non solo religioso ma anche sociale e politico. Ciò, negli anni a venire provocò l’odio degli imperatori e l’inevitabile persecuzione fino alla distruzione più volte ripetuta dei vari templi. I Maestri di Arti marziali spesso parlano delle opere di Bodhidharma solo da un punto di vista dell’addestramento fisico e psichico riferito alle pratiche del Kung-fu, ma in realtà le cose erano ben diverse. Il principale obiettivo di questi monaci era l’evoluzione spirituale, il raggiungere la divinità dentro se stessi, e le Arti Marziali erano semplicemente un piccolo aspetto della loro vita. Purtroppo oggi ciò che rimane della tradizione Shaolin è solamente il Kung-fu e a nostro avviso ciò è riduttivo e deviante. Se avete la possibilità di assistere a spettacoli dei moderni Monaci Shaolin, potete vedere grandissime abilità fisiche e psichiche frutto di estenuanti addestramenti ma il tutto si discosta radicalmente da ciò che era il messaggio di Bodhidharma. Maestri Zen, invece, evidenziano come il passo più frequentemente citato nelle opere di questo Santo Monaco, e che si direbbe racchiudere in sé la sua vera originalità, è la sua lode alla Meditazione, ovvero “pi-kuan”, letteralmente “contemplazione del muro”. Si vuole che il termine si riferisca appunto, come sopra descritto, ai nove anni durante i quali Bodhidharma sarebbe rimasto a guardare una parete rocciosa, la cui metafora potrebbe essere l’attenzione che va posta agli ostacoli che la ragione accumula nel sentiero dell’illumunazione, finché la mente non sia riuscita a superare le facoltà razionali. Ecco come vengono riferite le sue parole in merito: “Quando uno, abbandonando il falso e abbracciando il vero e, in semplicità di spirito, sta nel pikuan, scopre che non c’è né egoità né alterità; allora egli non sarà guidato da istruzioni letterarie, poiché è in silenziosa comunicazione con il principio stesso, libero da discriminazioni concettuali, essendo egli sereno e non agente.” L’importanza attribuita alla meditazione ed al rifiuto della ragione costituiscono la base filosofica della nuova scuola cinese del Buddismo Ch’an. Rifacendosi senza dubbio ai primi veri insegnamenti di Gautama, la nuova Scuola costituiva la negazione di tutto il bagaglio metafisico di cui il Buddismo Mahayana era andato caricandosi nel corso dei secoli e, com’è ovvio, urtò immediatamente contro l’ostilità delle sette maggiormente consolidate. Ritengo che quanto sopra descritto è attualissimo in quanto molto spesso ci perdiamo in inutili cognizioni e regole, dimenticando la nostra reale essenza. I Seguaci di Bodhidharma cercarono di seguire le orme del loro Maestro anche se poi i cultori di Arti Marziali (monaci e non) seguirono la strada del perfezionamento tecnico (anch’esso molto interessante) ma molto distante dalle loro radici. Uno dei primi e più ardenti seguaci di Bodhidharma fu Hui-k’o (487 – 593), il quale, stando a “La trasmissione della Lampada”, attese invano nella neve, davanti al monastero di Shaolin, nella speranza di essere ricevuto da Bodhidharma. Alcuni anni dopo, quando Bodhidharma si apprestò a lasciare la Cina, lasciò all’allievo la propria copia del “Lankavatara Sutra”, incaricandolo di continuare l’insegnamento sulla meditazione. Oggigiorno lo Hui-k’o con un braccio solo è considerato il secondo patriarca del Ch’an. Da una attenta lettura dei “Lankavatara”, testo sanscrito del primo secolo, si intuisce che trattasi di un’indispensabile summa dei primi insegnamenti Ch’an sulla funzione dell’antimente. Stando a questo sutra: “l’intelligenza trascendentale si manifesta quando la mente intellettuale tocca il proprio limite e, se le cose devono essere conosciute nella loro vera ed essenziale natura, il processo di mentalizzazione…deve essere trasceso facendo appello a una facoltà cognitiva superiore. Siffatta facoltà risiede nella mente intuitiva, che come abbiamo visto costituisce il nesso tra la mente intellettuale e la Mente Universale.” In merito all’autorealizzazione mediante la meditazione, il sutra afferma che: “i discepoli possono magari ritenere che si riesca ad accelerare il raggiungimento della meta del quietismo sopprimendo completamente le attività del sistema mentale. Si tratta di un errore… la meta della tranquillizzazione deve essere raggiunta, non già sopprimendo ogni attività mentale, bensì sbarazzandosi di discriminazioni e attaccamenti.” Tale testo, in una con le idee taoiste cinesi T’ang, divenne il fondamento filosofico del primo Ch’an. In effetti lo Zen tradizionale è in larga misura debitore della sua spensierata irriverenza ai primi Taoisti, nei quali l’amore per la natura si univa a un salutare disprezzo per le ponderose elucubrazioni filosofiche contenute in dotti sutra confuciani oppure indiani. I taoisti erano anche contrari agli attaccamenti, com’è comprovato dall’esortazione del famoso Chuang Tzù, il pensatore taoista del IV sec. a.C., cui si devono gran parte dei fondamenti filosofici dell’atteggiamento tipicamente cinese verso la vita: “Non essere un’incarnazione della fama; non essere un ricettacolo di schemi; non essere un iniziatore di progetti; non essere depositario di saggezza…sii vuoto, questo è tutto. L’Uomo Perfetto si serve della propria mente come di uno specchio – senza perseguire nulla, senza nulla accogliere con entusiasmo, rispondendo ma non accumulando.” Bodhidharma, che praticava la meditazione della “contemplazione del muro”, probabilmente nulla sapeva di Taoismo, ma sembra aver avvertito giustamente che la Cina poteva essere la patria ideale del Buddismo del non attaccamento. I cinesi del periodo T’ang (618-907) in effetti trovarono nei suoi insegnamenti un sistema singolarmente congeniale alla loro filosofia millenaria del Tao, vale a dire “La Via”. Non si è mai riusciti a stabilire con assoluta precisione se il Ch’an fosse in effetti Buddismo camuffato da Taoismo, ovvero Taoismo camuffato dal Buddismo; quel che è indubitabile è che contiene elementi dell’uno e dell’altro, e comunque costituì la prima genuina confluenza di pensiero cinese e indiano. In esso le idee indiane di meditazione e non attaccamento si combinavano con la pratica cinese della riverenza e del misticismo della natura, atteggiamento fondamentalmente estraneo al grande corpus della filosofia indiana, induista come buddista succeduta a Gautama, al Buddha. In altre parole il messaggio di Gautama trovò seguito in Cina grazie ad un terreno fertile in grado di accoglierlo e diffonderlo. Taoisti celebri come Chuang Tsù e Lao tse (autore del famosissimo libro Tao te Ching) da un pezzo avevano dimostrato l’inefficacia dell’indagine logica sulla mente; a questo, i maestri Ch’an aggiunsero l’insegnamento buddista, essere la mente incapace di comprendere la realtà esterna, dal momento che è essa stessa l’unica realtà. La mano non può afferrare se stessa; l’occhio non può vedere se stesso; la mente non è in grado di percepire se stessa. Com’è ovvio, l’introspezione logica, per quanto profonda, non può comprovare tale verità; ne consegue che la mente razionale deve abbandonare la sua ricerca senza scopo e limitarsi a fluttuare con l’esistenza, di cui non è che una parte indifferenziata.