Presentazione di PowerPoint - Istituto Comprensivo Portoferraio

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Classe I C
Natural-mente Elba
Docenti:
Carlo de Lauro
Laura Marchetti
Luciano Melani
Anno Scolastico 2009-2010
Classe IB
Classe I E
La geografia dell'Isola d’Elba
La nascita dell’Isola d'Elba, in analogia
con le altre isole dell'arcipelago
toscano, sarebbe legata ad un
fenomeno di deriva che nel Miocene
inferiore, 16 milioni di anni or sono,
avrebbe provocato il distacco della
microplacca corsa-sarda dalla
Provenza, cioè dalla Francia
meridionale. In seguito, circa 7 milioni di
anni fa, durante il Miocene medio
superiore, si sarebbero manifestate
intense attività vulcaniche.
Che all'Elba immersioni ed emersioni si
siano succedute nel tempo è
testimoniato dalla presenza di depositi
marini che sono ubicati a qualche
centinaia di metri sul livello del mare.
L'isola d'Elba è quindi la più grande
striscia di terra rimanente dell'antico
tratto che collegava la penisola italiana
alla Corsica, dopo le altre isole
dell'Arcipelago Toscano.
La geografia dell'Isola d’Elba
L'Elba è collocata aldilà del piccolo
braccio di mare chiamato “Canale
di Piombino” che, per quanto
modesto e tranquillo per la maggior
parte dell'anno, ha fatto sì che essa
si sia conservata fresca nella sua
natura valorizzando tutti i suoi aspetti
positivi. L'Elba è la terza delle isole
italiane per estensione, è situata a
42° 47' 12'' di latitudine nord e 10° 16'
28'' longitudine est da Greenwich.
Ha una superficie di 224 kmq
caratterizzati da uno sviluppo nord
sud di km 18 (Capo Vita-Punta dei
Ripalti), est ovest di km 27 (Punta
Nera-Capo
Pero)
e
da
un
andamento altimetrico che la rende
interessante per le prospettive visive
di carattere montano che riesce ad
offrire con i 1019 m di altitudine del
Monte Capanne.
La geografia dell'Isola d’Elba
Del gruppo fanno anche parte la
cresta delle Filicaie e delle
Calanche con altitudine tra gli 850
e i 900 m s.l.m., che hanno una
notevole
importanza
proprio
perché fra tutti i rilievi elbani sono
quelli che ospitano un maggior
numero di specie vegetali di
grande rilevanza scientifica. Lo
sviluppo costiero è di 147km con
un
alternarsi
continuo
di
promontori, baie, penisole e
calette che vanno dalle rocce
granitiche a strapiombo sul mare
con fondale limpidi e profondi ad
ampie spiagge sabbiose e bassi
fondali, che si estendono anche
oltre il chilometro.
L'isola d'Elba è la più grande
dell'arcipelago toscano e assieme
alle altre isole dell'arcipelago
(Pianosa, Capraia, Gorgona,
Montecristo, Giglio, Giannutri) fa
parte del Parco Nazionale
dell'Arcipelago Toscano.
L'isola è divisa in 8 comuni: Portoferraio,
Campo nella Elba, Capoliveri, Marciana,
Marciana Marina, Porto Azzurro, Rio Marina
e Rio nell'Elba, per un totale di circa 30.000.
Le coste settentrionali sono bagnate dal Mar
Ligure, quelle orientali dal Canale di
Piombino, quelle meridionali dal Mar Tirreno
e quelle orientali dal Canale di Corsica.
Dai maggiori rilievi dell'isola scendono
numerosi corsi d'acqua a regime torrentizio.
Durante il periodo estivo le precipitazioni si
riducono al minimo. Spesso quelli di minore
lunghezza e portata si seccano, lasciando il
letto asciutto.
Il clima dell'isola presenta
prevalentemente caratteristiche
mediterranee, fatta eccezione per il Monte
Capanne dove gli inverni tendono ad essere
moderatamente freddi. Le precipitazioni
sono concentrate nel periodo autunnale e
risultano essere abbastanza contenute. La
variata altimetria delle diverse catene
montuose, la latitudine e l'influsso del mare,
favoriscono un clima particolarmente mite.
La flora e la fauna dell’Isola d’Elba
Dominano le piante sempreverdi, che
possiedono foglie coriacee, protette da
un’epidermide robusta e impermeabile; oppure
piante con foglie ridottissime, talora trasformate
in spine, o del tutto mancanti, come nel caso
delle ginestre. Delle grandi foreste di leccio che
un tempo ricoprivano le isole dell’Arcipelago
oggi sopravvivono solo pochi boschi. Sono
endemiche dell’Elba il fiordaliso del Monte
Capanne, la viola ed il limonio. Altre piante
presenti sull’isola d’Elba sono tipiche della
macchia mediterranea: corbezzolo, lentisco,
biancospino, castagno, eucaliptus, mirto, ecc.
Per quanto concerne la fauna, tra i più
rappresentativi endemismi, possono essere
citati i molluschi gasteropodi. Sono inoltre
endemismi di rilievo la farfalla, il grillo, la
lucertola, la vipera. I mammiferi terrestri sono
quelli tipici dell’ambiente mediterraneo. Diffusa
è anche la presenza del coniglio selvatico. E’ di
assoluta rilevanza la nidificazione del falco
pellegrino. L’Isola d’Elba annovera la presenza
delle più numerose colonie del rarissimo
gabbiano corso.
La realizzazione
di un erbario
Realizza una PRESSA
utilizzando due tavole
uguali, forate ai vertici e
quattro bulloncini con
rispettivi galletti.
I galletti sono delle specie di bulloncini con due
alette, facilissimi da avvitare e svitare con le
dita, senza chiavi inglesi o altri strumenti.
La pressa
per l’erbario
Svita i galletti della
pressa, sfila la tavola
superiore e metti le
piante una sull’altra, tra
fogli di carta di giornale
Semi, frutti o radici carnose impossibili
da schiacciare, sistemali in sacchetti
di carta e falli seccare a parte; i frutti
molto ricchi di acqua seccano
difficilmente, puoi però disegnarli o
fotografarli.
La pressa
per l’erbario
Riposiziona la tavola
superiore della pressa e
avvitala con forza
Una pressa ancora più
semplice da realizzare è
costitutita semplicemente
da due tavole che metterai
in pressione mettendoci
sopra dei pesi
L’essiccazione
Disponi la pressa in
un luogo asciutto
per la prima
settimana cambia
ogni giorno i fogli
di carta;
successivamente
potrai farlo ogni
due giorni
fino a quando le
piante saranno
completamente
secche.
Nei primi giorni la pianta è “floscia”
quindi puoi sistemare meglio fiori e foglie,
Una volta essiccate le
piante posizionarle al
centro di un cartoncino
e fissarle in tre-quattro
punti con del nastro
adesivo o colla oppure
come si fa per gli erbari
scientifici dell’università,
con delle spille e un
nastro di carta
Il risultato è un bellissimo libro sulle piante,
scritto da te e illustrato con piante vere.
Puoi anche realizzare un erbario che è una raccolta di foglie di
diverso tipo, magari per confrontarne la forma o il tipo di margine
(liscio, seghettato, ecc.), o di piante appartenenti ad una stessa
famiglia.
Le piante della
macchia
mediterranea
Viburno
Lauro
(Viburnum tinus)
(Laurus nobilis)
Pino
(genere Pinus)
Ulivo
(Olea europea)
Salvia
(Salvia officinalis)
Rosmarino
(Rosmarinus officinalis)
Nespolo del giappone
Ginepro comune
(Eriobotrya japonica)
(Juniperus communis)
Leccio
(Quercus ilex)
Corbezzolo
(Arbutus unedo)
Pungitopo
(Ruscus aculeatus)
Cipresso
(Cupressus pyramidalis)
Edera
(Hedera helix)
Abete rosso
(Picea abies)
Tuia gigante
(Thuja plicata)
Mirto
Abete bianco
(Abies pettinata)
(Myrtus communis)
La classificazione delle foglie
Gli alunni hanno
classificato le foglie in
base a:
•forma;
•margine;
•disposizione delle
nervature;
•semplici o composte;
•presenza o assenza di
picciolo.
La
classificazione
delle foglie
La classificazione
delle foglie
La classificazione
delle foglie
L’agricoltura
sull’Isola d’Elba
I castagneti
Nel territorio di Marciana, verso settentrione,
si estendono vasti boschi di castagni. Le piante
venivano coltivate soprattutto per avere
legname piuttosto che frutta. Erano circa 600 ha
di castagneti dai quali si ricavavano appena
4218 hl di castagne, ma che vantano piante
alte e ben dritte, le quali fornivano lunghe travi
e ottimo legname per i lavori dei bottai, per la
costruzione di tini e botti da vino, delle quali vi
era una grande richiesta, vista la grande
produzione e il commercio di questo prodotto.
Si dice che i castagni siano stati piantati nel
medioevo come riserva di legname per la
costruzione di alcune parti di barche e di navi.
Le varietà di castagne coltivate sono quattro:
marroni, carpinesi, scarlinesi, selvane. La prima è
più adatta per il frutto che è grosso e saporito, ma
poco serbevole; le altre producono legname.
Si raccoglievano alla fine di settembre e inizio
ottobre e si smerciavano fresche nei mercati
dell'Isola su quello della vicina città di Livorno. Non
si usava essiccarle. La poca farina di castagne che
si consumava, 200 q all'anno, veniva importata da
continente. I castagni si espandono tutt'ora nella
direzione della Zanca per almeno 2 km di
lunghezza e 1 km di larghezza.
I castagneti
Il castagno si moltiplica per seme. Si seminano nel
semensaio alla distanza di almeno un metro l'una
dall'altra ed a 10 centimetri di profondità.
Dopo tre o quattro anni si trapiantano i piccoli
castagni in un terreno scassato a fosse, alla distanza
di 9-10 metri l'uno dall'altro secondo la fertilità del
suolo.
L'anno successivo saranno innestati. Le pianticelle
saranno ripulite dai succhioni; la stessa operazione
sarà fatta anche ai castagni adulti.
La raccolta si fa d'ottobre raccogliendo prima le
castagne cadute da sole, poi abbacchiando le
rimanendo sugli alberi. Si tolgono dai ricci, si portano
a casa e si conservano in due strati: verdi o secche.
Per conservarle verdi si mescolavano alla sabbia
e si sotterravano in un luogo asciutto. Per seccarle si
portavano in un piccolo fabbricato posto in genere
nel castagneto, si gettavano sopra ad una specie di
palco e vi si accendeva sotto un fuoco con legna
ricoperte di ricci dell'anno precedente. Questa
copertura mantiene un fuoco lento che produce
molto fumo.
L'abbacchiatura avveniva in un primo momento
da terra con lunghe pertiche, poi si saliva sulle
piante con le scale e, adoperando una pertica più
corta, si battevano i ricci rimasti sui rami più alti,
nessuna castagna doveva essere perduta.
Gli oliveti
La moltiplicazione dell'olivo avviene per seme,
per ovolo o per talea. Migliori risultati dà la
riproduzione per seme ottenuta dai noccioli
spolpati e seccati, ma in questo caso bisogna
provvedere successivamente all'innesto. Il quarto
- quinto anno dall'impianto l'olivo comincia a
dare qualche frutto e nel suo lungo periodo di
sviluppo e in quello successivo e assai più lungo
di fruttificazione il contadino attendeva con la
massima
diligenza
alla
potatura,
alla
concimazione, alla cura delle malattie e alla lorra
contro i vari parassiti.
D'inverno, dopo il raccolto delle olive, si
provvedeva alla ripulitura delle piante con l'aiuto
di una scure e per far legna per il camino. A fine
marzo era il momento adatto per la potatura e la
ripulitura di tutte le piante.
Durante il mese di maggio, per la fioritura, si
provvedeva a irrorare le foglie con il solfato di
rame. Questo trattamento serviva a preservare le
foglie e i germogli dalla fumaggine, una malattia
che riveste la pianta di una polvere nera,
fuligginosa.
Gli oliveti
Gli oliveti, un tempo, erano scarsi e scarso
era il frutto che davano: le piante si
sviluppavano molto bene, ma poiché non
venivano curate a dovere, sia per
l'inesperienza che per la trascuratezza, presto
si ammalavano ed il frutto cadeva prima del
tempo. Le loro principali varietà sono la
mignola (o gramignola) e la frantoia. Molti
olivastri, nati attraverso i semi, si incontravano
in diverse parti dell'Elba: gli elbani pensavano
che quelle olive fossero di cattiva qualità e
dessero dei frutti cattivi: la verità è che per
trascuratezza non facevano né potatura né
innesti.
Il nemico più terribile dell' ulivo è il freddo
perché resiste a 12°C sotto zero. Ma teme
ancor più un ritorno di freddo in primavera, il
che è tutt'altro che insufficiente, perché è
sufficiente un po' di neve trattenuta dalle
foglie, allorché cominciano a smuoversi i primi
germogli, per provocare la caduta delle foglie
stesse e talvolta la morte della pianta.
Ma in condizione di clima favorevole l'olivo
è capace di vivere parecchi secoli. Frantoio,
moraiolo, leccino, punteruolo o trillo sono le
principali razze di olivi diffuse nella nostra isola.
Gli oliveti
Secondo
la
coltivazione
tradizionale,
la
concimazione si faceva in ogni stagione: con il
letame al momento dell'aratura e con la sbottinatura,
a primavera, versando mezzo barile di pozzo nero in
una buca fatta attorno alla pianta.
Era tradizione iniziare la raccolta delle olive a
partire dall'ultima settimana di novembre o comunque
non più tardi del 13 dicembre, a Santa Lucia. La
brucatura delle olive è considerato il metodo di
raccolta più razionale in quanto permette il distacco
dei frutti senza danneggiarli. L'operazione consiste nel
far scorrere sui rami un rastrellino, una specie di
pettine di legno o di metallo, oggi di plastica, che
provoca il distacco dei frutti più rapidamente,
trascinando tuttavia una notevole quantità di foglie.
I cestini ricolmi di olive si versavano nelle balle di
canapa, che venivano trasportate a casa e distese in
una stanza arieggiata; dopo 8-10 giorni le olive si
imballavano di nuovo per portarle al frantoio. Prima
della macinazione, per non rendere l'olio amaro,
bisognava selezionare il fogliame estraendolo a mano
o vagliando le olive con appositi setacci detti vagli.
La viticoltura (l’origine)
L'origine della viticoltura risale a tempi molto
antichi; studi paleontologici dimostrerebbero che
la pianta sarebbe già diffusa sul nostro pianeta
prima della comparsa dell'uomo.
Si dice che la vite sarebbe arrivata in certe
zone dell'Italia centro settentrionale circa tremila
anni fa, trasferitavi dalla Sicilia dove era coltivata
almeno mille anni prima. Comunque la coltura
ebbe una vera e propria espansione dopo il III
secolo a.C. con l'affermazione del dominio
romano sul bacino del Mediterraneo in un
ambiente particolarmente adatto alla vite.
Nelle campagne toscane ed anche all'Elba si
produceva molto mosto, senza distinguere il
bianco dal nero e spremendo moltissime qualità
di uva mischiate assieme e capaci di produrre,
con una lunga e disordinata fermentazione, un
vino aspro e di bassa gradazione, mal
conservabile e quindi difficoltoso anche per il
trasporto. Il viticoltore toscano, assecondato
dallo stesso proprietario, fintantoché il prezzo del
vino si manteneva elevato, tendeva ad ottenere
il massimo prodotto possibile, curandosi poco
della qualità.
La viticoltura (le fasi)
Lo scasso del terreno era la prima cosa da fare:
tutto il terreno si doveva rivoltare, raggiungendo
una profondità non inferiore ad un metro. Si
lavorava a terreno asciutto usando la vanga e
estraendo la terra con la pala.
Completato lo scasso, bisognava spianare il
terreno, nettarlo dai sassi, dalle erbacce, dai
rovi, ecc.
Sul terreno così preparato si tendevano tante
corde quanti dovevano essere i filari da
impiantare, distanti da loro non meno di due
metri; quando si doveva lavorare il terreno con
gli animali occorreva che le file fossero disposte
ad almeno due metri e mezzo fra loro. Nelle
zone collinari, spesso impervie dell'Elba, i piccoli
appezzamenti terrazzati, chiamati lenze, le viti
venivano piantate a gruppi di due o quattro, i
capannelli, sostenuti da pali o canne legati con
ginestre o giunchi.
Nei terreni di pianura più fertili e freschi si
preferiva piantare le barbatelle ed era buona
norma farlo d'autunno. Nelle terre poco
profonde e aride si ottenevano migliori risultati
piantando i maglioli nella tarda primavera,
perché il terreno, già scaldato dalla buona
stagione, favoriva un più rapido sviluppo delle
radici.
Prima che la fillossera invadesse i nostri vigneti non
c'era bisogno di ricorrere all'innesto; piantato il
magliolo si aspettava il primo anno per vedere
qualche segno di vegetazione. Poi lo si lasciava
sul terreno per altri due anni durante i quali
continuava a vegetare e ingrossare il tronco. A
questo punto si facevano alzare i tralci: il magliolo
era diventato una nuova vite.
Oggi si piantano vitigni già innestati ma fino a non
molti anni fa l'innesto rappresentava una fase
successiva alla messa a dimora dei maglioli o
delle barbatelle.
La viticoltura (l’innesto)
Tre i sistemi d'innesto più adottati: a occhio, a spacco, e
a succhio.
Con il sistema a occhio si incideva la corteccia con un
taglio a T in un punto molto vicino al terreno e si inseriva la
gemma o occhio nel taglio, legando strettamente il tutto
con la rafia, in modo da lasciar libera la gemma.
Con il sistema a spacco si uccideva la vite, dopo il terzo
anno dall'impianto, tagliandola di netto con un paio di
forbici a due tagli. Poi si spaccava il tronco con un coltello
da innesto e vi si inseriva una o due mazze a seconda della
grossezza del fusto.
L'innesto a succhio, detto pure ad anello, consisteva nel
tagliare la vite da innestare recidendola orizzontalmente e
tagliando alla sua estremità un anello di corteccia da
sostituire con un altro di uguale diametro portante una
gemma.
La potatura avviene nel periodo invernale da gennaio a
marzo. Deve essere drastica, lasciando due occhi per
tralcio. Bisogna concimare generosamente, come ricorda
questo curioso proverbio:
La prima vite la potò un asino con una
boccata, poi gli voltò il culo e ci fece una
bella cacata.
La vite (i parassiti)
Quella che chiamiamo viticoltura tradizionale è durata fino alla
seconda metà del XIX secolo quando comparvero in Europa alcuni
parassiti, che misero in serio pericolo la coltivazione.
Soprattutto uno di essi, la fillossera, si dimostrò un nemico
inesorabile. La sua puntura innestava un processo che, aiutato da
funghi e batteri, determinava l'insorgere di un marciume che
conduceva alla morte della pianta.
In Toscana i primi segni di invasione della fillossera apparvero, nel
1888, all'isola d'Elba, a Pitigliano (Grosseto) e a Gaiole (Siena). Il
problema venne risolto impiantando nuovi vigneti con varietà
americane i cui polloni si erano dimostrati resistenti alla fillosera e
utilizzandoli come “portainnesti” cioè innestando su di essi le
antiche varietà produttrici di uva pregiata.
In aggiunta alle avversità atmosferiche come la pioggia o la
grandine, la vite è soggetta all'attacco di parassiti animali e
vegetali, due dei quali capaci di produrre danni molto gravi: l'oidio
e la peronospora.
L'oidio si combatte in modo sicuro con lo zolfo, facendo il primo
trattamento poco prima della fioritura e un secondo trattamento
una decina di giorni dopo la stessa. Lo zolfo assolve una funzione
curativa contro l'oidio a differenza del ramato (una miscela di
solfato di rame e calce, denominata “ poltiglia bordolese”) che ha
una funzione solo preventiva nei confronti della peronospora.
La peronospora colpisce la vite dalla primavera all'autunno ed è
il calore e soprattutto l'umidità a favorirne lo sviluppo, per cui il
trattamento andava ripetuto più volte.
La viticoltura (la vendemmia)
Logica vuole che la vendemmia abbia inizio
quando l’uva è matura, ma spesso c’era, in
passato, la tendenza ad anticiparla non senza
inconvenienti più o meno gravi nei confronti dei
risultati finali. Ecco perché, a evitare danni di
vendemmie intempestive, vigevano speciali
norme statutarie mantenute in genere fino alla
rivoluzione francese col nome di “Bandi
vendemmiali”, vere e proprie ordinanze che
fissavano, anno per anno e luogo per luogo, il
giorno in cui era consentito dare inizio alla
vendemmia.
Prima di vendemmiare c'erano però alcune
operazioni preliminari da compiere relative alla
preparazione dei vasi vinari. Si provvedeva al
lavaggio e alla ripulitura interna e esterna del
fustame in legno, il quale doveva essere
assolutamente liberato da ogni possibile difetto
come il fradicio, l'odore di muffa e di acido.
Bisognava ammannire tutte le bigonce
disponibili, riempiendole d'acqua per farle
rinvenire, in modo da far rigonfiare il legno delle
doge e consentirne la tenuta.
La viticoltura (la vendemmia)
Fare gli scelti era dunque il primo atto della
vendemmia e consentiva nello scegliere e
cogliere solo grappoli di uva nera delle varietà più
adatte a governare il vino. Contemporaneamente
si scioglieva l'uva per il moscato.
Queste uve si facevano appassire disponendole
su stoie o cannicci sorretti da un apposito castello
fatto con quattro tronchi squadrati tenuti in piedi
da altrettanti basamenti di pietra. Il corbello
cilindrico senza manici, fatto di larghe strisce di
legno intrecciate e portato a spalla sorretto da
una corda, serviva a raccogliere i grappoli nei
panieri per poi versarli nelle bigonce o nel tinello
posto sul carro. Rovesciando l'uva nelle bigonce si
provvedeva ad ammostarla con appositi bastoni
in modo da frangere i chicchi, diminuire il volume
e, di conseguenza, fare un minor numero di viaggi,
col carro, alla tinaia di fattoria. Le bigonce
ammostate non dovevano tuttavia essere troppo
colme per evitare da un lato di perdere parte del
mosto durante il viaggio e dall'altro per limitarne il
peso e poterle alzare fino al tino al quale si
dovevano rovesciare. L'uso dell'ammostatoio era
diffuso nella maggior parte della Toscana, ma in
misura minore nelle zone estreme.
Il vino all’Elba nel XVIII secolo
La produzione del vino ha origini lontanissime.
Già tremila anni fa l'Elba si presentava come
un immenso vitigno che occupava anche le
colline più impervie. Particolare è il caso di
Rio Marina, dove un'ampia zona mineraria
sottoposta per secoli alle escavazioni del
ferro, conserva ancora il toponimo di
Vigneria.
Una
notizia
storica
che
specifica
l'abbondanza della produzione del vino, ci
viene da Plinio il Vecchio che nella “Storia
della Natura” definisce l'Elba “Vini Ferax”.
Il commercio del vino era molto sviluppato
già nel terzo secolo a.C. L'Elba mantenne la
produzione
del
vino
anche
quando
Domiziano emanò il decreto di abbattimento
delle viti per destinare più ampie superfici alla
coltivazione del grano. Gli Ilvates sapevano
benissimo che i terreni non erano adatti alla
produzione dei cereali e del resto già gli
Etruschi importavano il grano dal Lazio, dalla
Liguria e persino dalla Francia del Sud, ossia
dalle regioni che acquistavano i vini elbani.
Il vino all’Elba nel XVIII secolo
Nel Medioevo il vino dell'Elba allietava la mensa dei
Papi. I contratti tra istituzioni attribuiscono alle
superfici coltivate a vigneto un valore nettamente
superiore agli altri beni immobili e nelle pratiche di
successione gli eredi si contengono la cantina “Cum
Palmento“. Gli statuti delle comunità locali dettano
regole rigorose per la tutela dell'agricoltura e
conferma la rilevanza economica della vite.
L'incremento demografico viene assorbito sopratutto
dal settore agricolo. L'estrazione del vino cresce
naturalmente e determina lo sviluppo di una
marineria velica già fiorente: si contano 245
bastimenti di padroni elbani che solcano le acque
del Mediterraneo, ma si spingono anche in
Inghilterra, in Scozia e in Irlanda. L'incremento
demografico è costante: nel 1832 l'Elba conta già
16.219 abitanti fino a raggiungere 21.446 nel
censimento granducale nel 1852. E' questo il periodo
di massima espansione delle superfici coltivate a
vigneto e si censiscono 320.000 viti con una
produzione di circa 100.000 q di vino. Due anni dopo
iniziano i guai. La crittogama infesta i vitigni e causa
la rovina di molte famiglie, che sono costrette ad
abbandonare l'isola: dal comune di Capoliveri
partono centinaia di emigranti verso l'Australia,
mentre dal versante occidentale i flussi migratori si
dirigono in Argentina e Venezuela.
Gli aranceti all’Isola d’Elba
La pianta di agrumi ha origini antichissime e ha
nei secoli caratterizzato tutto il paesaggio dell'area
mediterranea. Abbondanza e prosperità sono da
sempre associate a questi frutti, dono della natura
e degli dei.
Il cedro fu il primo frutto del genere Citrus giunto
in Europa dall'Asia sud-orientale. Si diceva che lo
coltivassero per il profumo nei giardini pensili di
Babilonia.
Il limone, originario forse della Malesia, arrivò in
Europa verso la metà del 1° secolo d.C.
Le arance arrivarono molto più tardi: originarie
della Cina meriodionale, vennero fatte conoscere
nel Mediterraneo dagli Arabi. Le primissime arance
arrivate in Europa erano della specie amara,
mentre quelle dolci si diffusero forse alla fine del
XV secolo. Le arance amare, dalla polpa troppo
agra e amarognola per essere mangiata cruda,
ma adoperata per fare marmellate, erano
conosciute nel Medioevo come “melangoli”.
Quanto ai mandarini (Citrus nobilis), essi
giunsero in Europa soltanto all'inizio del 1800.
Da un documento sappiamo che la presenza
degli agrumi all'Elba è attestata verso la metà del
1700. Sappiamo che nel febbraio del 1782 un
grandissimo freddo fece gelare tutte le piante
degli agrumi e la maggior parte delle piante degli
ulivi su tutto il territorio dell'isola.
Gli aranceti all’Isola d’Elba (l’aranceto murato)
La figura dell'aranceto chiuso da un muro,
percorso da ingegnosi sistemi di irrigazione,
ricorre dalle sponde africane alle coste
spagnole, a quelle italiane, al Medio Oriente.
All'isola d'Elba gli aranceti tendono a
scomparire sopraffatti dall'espansione edilizia,
dalle difficoltà e dai costi di manutenzione. Sono
molto più numerosi di quanto si creda. Si trovano
lungo le strade principali, all'interno dei poderi e
dei giardini delle ville o lungo il mare. Molto
numerosi erano a Portoazzurro, oggi lasciano il
posto alle pizzerie, come a Bagnaia presso un
residence. Sono rimasti piccoli aranceti
all'interno dei giardini di molte ville dell'isola: Villa
Anna, Villa Damiani, Villa San Marco, Casa del
Duca, Villa Tonietti al Cavo.
Altri aranceti sono diffusi in altre parti dell'isola,
in zone riparate, protetti da alti muri o da fitti
intrecci di canne. Alla presenza dell'aranceto si
accompagna sempre la presenza di una struttura
per la raccolta e la distribuzione dell'acqua:
pozzo di raccolta e canaline sotterranee o a
cielo aperto. E' dunque la presenza dell'acqua
una delle ragioni che ha consentito lo sviluppo e
la ricchezza di tanti agrumeti.
Gli aranceti all’Isola d’Elba (Acquabona e Monserrato)
Nella settecentesca villa dell'Acquabona,
l'elemento che risale alla storia più antica è
l'aranceto, un vero giardino nel giardino.
L'area dove sorge la tenuta è ricchissima
d'acqua ed al confine dell'aranceto scorre il
fosso Acquabona.
Il giardino della villa, oltre a molte piante da
frutto, contava ben 73 piante di agrumi!
Poco prima del santuario di Monserrato a
Portoazzurro s' incontra in giardino di casa
Romagnoli. All'interno di un muro di cinta
continuo si apre un giardino complesso,
composto da un frutteto, un pergolato d'uva e
un agrumeto modellato come un vero giardino
arabo-spagnolo. Notevole è il sistema di
irrigazione, a partire da un pozzo che
raccoglie l'acqua dalla montagna e la
distribuisce per scorrimento attraverso canali
in cotto. Questa modalità per l'irrigazione si
ritrova in importanti giardini del periodo
prenapoleonico, per cui si può ipotizzare che
questi sistemi di irrigazione siano arrivati
all'Elba con l'arrivo degli Spagnoli e che il
giardino di Monserrato risalga alla fine del
Settecento.
Gli aranceti all’Isola d’Elba (la Chiusa e Villa Letizia)
La settecentesca Villa Foresi, la Chiusa, domina
la baia di Portoferraio, è circondata da ampi
vigneti, delimitati da un muro di cinta. Intorno
alla villa si aprono due giardini di aranci murati.
Il primo, di dimensioni più ridotte, era fin
dall'epoca del primo nucleo abitativo, il
giardino chiuso che proteggeva dai venti le
piante di agrumi. Il secondo, situato in un
angolo suggestivo, protetto dal vento e in una
situazione privilegiata, era un antico aranceto
caratterizzato da una efficiente rete di canaline
dove l'acqua, che nel giardino sgorga da una
sorgente, andava ad irrigare le piante di
agrumi addossate al muro.
Sotto Colle Reciso, di fronte alla baia di
Portoferraio, si trova Villa Letizia, vecchia casa
elbana che conserva un giardino segreto, ricco
di acqua per irrigare la numerosa collezione di
agrumi.
La pratica della coltivazione degli agrumi
sopravvive oggi in alcune aree, tra cui, nel
versante Ovest, a Pomonte e zone limitrofe, e
nella parte opposta dell'isola, a Rio Marina nella
valle del Riale; entrambe le località sono
caratterizzate dall'abbondante presenza
d'acqua.
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