CENNI DI LINGUISTICA DAL LATINO ALLE LINGUE ROMANZE •Se c’è una cosa veramente difficile da stabilire con precisione è quando e come nasce una lingua: perché parliamo e scriviamo in italiano? Come mai il latino, che è madre comune delle lingue romanze, ha generato l’italiano, il francese, il rumeno, lo spagnolo e via dicendo, lingue tutte così diverse tra loro? •Qualsiasi lingua non nasce in un preciso momento, ma è il frutto di un lento processo secolare che tiene conto di fattori storici, linguistici e culturali. Così è avvenuto nel passaggio dal latino alle lingue romanze e poi al volgare italiano, un lungo percorso che ha le sue radici nella tendenza sempre più marcata alla semplificazione. •Una precisazione è d’obbligo: di latino non ce n’era uno solo. Una cosa era il latino “colto”, un’altra quello “popolare”, proprio della lingua d’uso. Tra i due registri linguistici esistono varie divergenze, tuttavia non si tratta di due lingue diverse, ma di due aspetti della stessa lingua. LATINO CLASSICO E LATINO VOLGARE •Alla base delle lingue romanze non sta il latino classico, ossia il latino usato dagli scrittori con finalità colte e rimasto pressoché immutato nei secoli, anche in seguito all’azione conservatrice operata dalla scuola e dalla Chiesa, bensì quello volgare più popolare, utilizzato nella vita quotidiana e soggetto pertanto ad una continua evoluzione, anche per il progressivo ampliamento degli orizzonti del mondo romano. •Con il disgregarsi della società imperiale e con la conseguente crisi sociale che ne derivò, la scuola divenne di fatto incapace di assicurare il mantenimento della norma classica: il latino volgare (il cosiddetto “sermo vulgaris”), meno sorvegliato e più aperto a innovazioni espressive, si andò dunque sviluppando affiancando la lingua classica, riservata alle classi più colte e ponendosi così come una sorta di anello intermedio tra il latino classico e le lingue neolatine. •Al lessico del latino volgare, più semplice e rispondente a necessità concrete della vita quotidiana, la nostra lingua ha attinto una gran parte di vocaboli, soprattutto quelli di uso più comune, mentre le parole di registro più colto o attinenti i linguaggi tecnici e settoriali derivano quasi sempre dal lessico classico (e costituiscono i cosiddetti “latinismi”). •Nei seguenti esempi si può notare come alcune parole derivino direttamente dal latino classico (e sono quelle di registro più colto), altre dal latino volgare ( e sono quelle di uso più comune): •dal latino classico domus (= la casa) →→ domestico, domicilio •dal latino volgare casa (= la casa) →→ casa •dal latino classico equus (= il cavallo) →→ equino, equestre, equitazione •dal latino volgare caballus (= il cavallo) →→ cavallo •dal latino classico ignis (= il fuoco) →→ igneo, ignifugo •dal latino volgare focus (= il fuoco) →→ fuoco DAL LATINO ALL’ITALIANO •All’interno delle lingue romanze, l’italiano è una delle lingue che maggiormente si richiamano al modello latino, tanto che alcune parole presentano lo stesso suono in entrambe le lingue (ad esempio mare, dea, rosa, luna, bene, male...). I fenomeni che caratterizzarono il passaggio dal latino volgare all’italiano furono molteplici; di seguito vengono descritti soltanto i mutamenti più significativi, ovvero quelli che riguardano: – la fonologia (dal greco foné = “suono” e lògos = “studio”), ovvero la parte della grammatica che studia i fonemi, cioè i suoni di una lingua; – la morfologia (dal greco morphé = “forma” e lògos = “studio”), ovvero la parte della grammatica che studia le parole in quanto parti di un discorso, classificandole (articolo, sostantivo, aggettivo, pronome, verbo, avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione) e descrivendone le forme (genere, numero, modo, tempo...); – la sintassi (dal greco sun = “con” e tàxis = “ordine”), ovvero la parte della grammatica che studia la combinazione delle parole nel discorso, le loro diverse funzioni nella frase semplice e nel periodo; – la lessicologia (dal greco lèxis = “parola”), ovvero la parte della grammatica che studia l’insieme delle parole di una lingua, analizzandone la formazione, i raggruppamenti per aree di significato, i valori espressivi. •MUTAMENTI FONETICI: Nel latino classico la pronuncia delle vocali (a, e, i, o, u) si differenziava per la durata (o “quantità”) lunga o breve: le vocali lunghe erano pronunciate con un tempo doppio rispetto a quelle brevi (a lunga = aa; a breve = a). La differenza di durata consentiva di distinguere parole omografe: ad esempio, la parola liber con la ī significa “libero”, mentre con la ĭ significa “libro”. Già nel latino volgare, alla quantità delle vocali si sostituì il timbro, per cui le vocali brevi furono in genere pronunciate aperte (dènte da dĕntem), le lunghe chiuse (stélla da stēlla). Inoltre, nel passaggio dal latino all’italiano, le vocali atone (ossia che si trovavano in sillabe non accentate) caddero, come ad esempio in: calidum → caldum → caldo alterum → altrum → altro mentre i dittonghi latini ae – oe –au scomparvero o si ridussero a semplici vocali. Ad esempio: rosae → rose poenam → pena aurum → oro •MUTAMENTI MORFOLOGICI: Il latino è una lingua flessiva, ossia determina la funzione della parola nella frase mediante apposite desinenze che variano a seconda della funzione che si vuole esprimere: ogni sostantivo, aggettivo e pronome muta dunque desinenza a seconda del “caso”, ossia della funzione logica svolta nella frase. Per quanto riguarda la morfologia nominale e pronominale, in italiano invece la funzione della parola all’interno della proposizione è espressa mediante preposizioni che lasciano inalterata la parola stessa. Di conseguenza, in latino l’ordine delle parole nella frase è libero; in italiano, invece, diventa essenziale a far capire il ruolo sintattico. La progressiva scomparsa delle declinazioni si nota già nel latino volgare: gradualmente le funzioni espresse dai casi vengono interpretate mediante il ricorso all’uso di preposizioni e all’ordine fisso delle parole. Altri aspetti significativi sul piano delle differenze morfologiche sono: • la scomparsa del neutro, un genere che in latino designava le realtà inanimate. Nel passaggio dal latino all’italiano, i sostantivi di genere neutro sono diventati per lo più di genere maschile. Ad esempio: mare, is → il mare animal, animalis → l’animale •la formazione dell’articolo determinativo e indeterminativo, assenti in latino. Dall’aggettivo dimostrativo ille, illa, illud (quello, quella) deriva il nostro articolo determinativo “il, la”: progressivamente il pronome dimostrativo perse la sua funzione indicativa (quello, quella) per assumere un valore più vicino a quello dell’articolo determinativo italiano. Dall’aggettivo numerale latino unus, una, unum (uno, uno solo) deriva invece l’articolo indeterminativo “un, uno, una”: ille lupus → il lupo unus lupus → un lupo illa rosa → la rosa una rosa → una rosa • una diversa formazione della forma passiva del verbo. In latino la forma passiva del verbo era sintetica, cioè costituita dall’unione del tema verbale con le desinenze proprie del passivo (laud–or = io sono lodato, laud–aris = tu sei lodato, laud-atur = egli è lodato). In italiano, invece, la forma del passivo è perifrastica, cioè formata da più parole, unendo il participio passato del verbo con le voci dell’ausiliare “essere” (laudatus sum = io sono lodato; laudatus es = tu sei lodato; laudatus est = egli è lodato). •DIFFERENZE LESSICALI: Il latino costituisce la base più ampia dei vocaboli della nostra lingua: è stato calcolato che il lessico italiano è rappresentato per circa tre quarti da parole derivanti dal latino. Il passaggio dal latino all’italiano è avvenuto principalmente attraverso due linee: quella della tradizione ininterrotta e popolare del latino volgare, con il suo lessico concreto e specifico, e quella interrotta e dotta, che ha recuperato dal latino classico alcune parole che si erano perdute o avevano cambiato il loro significato e le ha adattate all’italiano, spesso modificandone l’aspetto fonetico o il senso originario. Questa situazione ha comportato la presenza in italiano di numerosi doppioni: uno di registro più popolare, l’altro di tono più elevato. Spesso, infatti, da una stessa radice latina abbiamo esiti diversi: da plebem derivano sia “pieve” (tradizione popolare) che “plebe” (tradizione dotta). Spesso, nel passaggio dal latino all’italiano, il significato delle parole resta invariato (rosa = la rosa; stella = la stella; amicitia = l’amicizia); altre volte invece vi è un cambiamento di significato dalla parola latina a quella italiana. E’ questo il caso dell’aggettivo captivus (“prigioniero”), che è passato ad indicare in italiano “scellerato, malvagio, cattivo”, perché i cristiani definivano captivus diaboli (“prigioniero del diavolo”) chi si macchiava di gravi colpe. •MUTAMENTI SINTATTICI: Dal punto di vista della sintassi del periodo, il latino classico predilige la subordinazione (o ipotassi), per cui da una proposizione indipendente (o principale) dipendono varie subordinate che ne chiariscono e ne ampliano il senso. Nel passaggio dal latino classico a quello volgare e poi alle lingue romanze, la struttura del periodo tende a semplificarsi e la coordinazione ( o paratassi) prevale sulla subordinazione. DAL VOLGARE ALL’ITALIANO •A differenza dell’italiano, una lingua sostanzialmente “pacifica”, il cui prestigio è stato nel tempo solo letterario e mai politico, il latino è stato invece una lingua “aggressiva”, imposta ai popoli con la forza della dominazione. L’unica lingua straniera che i Romani rispettarono e fecero propria fu il greco, mentre le altre lingue, ritenute barbare, finirono per essere spodestate dal latino, con il quale in parte si fusero. •Tuttavia, già a partire dall’età tardo-imperiale (III-IV secolo d.C.), all’interno del latino si vengono a determinare: –un processo di differenziazione linguistica, per cui la lingua parlata in una certa regione dell’Impero non è la stessa di altre regioni; –una frattura tra lingua scritta e lingua parlata, in seguito alla quale il latino scritto tende a cristallizzarsi ed a mantenere il suo ruolo di lingua colta, mentre il latino volgare ha un’evoluzione diacronica dalla quale nascono, nell’arco di quattrocinque secoli, le lingue romanze, dette anche “volgari”, trasformazioni di un particolare registro stilistico del latino in realtà linguisticamente autonome. •Tra il V e l’VIII secolo le invasioni dei Goti, dei Longobardi e dei Franchi lasciano nel lessico tracce del loro passaggio: così il germanico werra (mischia) scalza il classico bellum. Si entra in un’epoca “buia”: l’uso della scrittura si perde e il lessico diventa minimo ed estremamente concreto. Il linguaggio si fa poverissimo, si imbastardisce, diventando così grossolano e disadorno da sembrare addirittura infantile. •Continua intanto il processo di differenziazione linguistica che porterà, nello stesso arco di tempo, alla formazione delle lingue romanze, in particolare: –nell’area iberica: castigliano (spagnolo), portoghese, catalano; –nell’area francese: provenzale (lingua d’oc) e francese (lingua d’oil); –nell’area italiana: vari dialetti, tra cui sarà destinato ad emergere il toscano. •La nuova realtà linguistica appare con chiarezza con la rinascita degli studi voluta da Carlo Magno: al Concilio di Tours (813) è evidente la necessità di tradurre le prediche in francese ed in tedesco perché siano comprese dal pubblico. Sempre in Francia, pochi anni dopo, si giunge al primo documento in volgare romanzo, il cosiddetto giuramento di Strasburgo, pronunciato il 14 febbraio 842 per sancire l’alleanza tra gli eserciti di Ludovico il Germanico e di Carlo il Calvo. I due erano figli di Ludovico il Pio, successore di Carlo Magno e con questo patto rafforzavano l’alleanza contro il terzo fratello, Lotario. Il giuramento venne redatto in volgare francese (“romana lingua”) ed in tedesco perché fosse compreso dai rispettivi eserciti.