Lo spazio nell`economia e nella teoria economica

Post - n°3 - Spazio
Abstract
Come ogni scienza sociale anche l’economia ha un suo modo di disegnare gli spazi. Sulla base dello schema proposto da Harvey (2004)
si prova ad analizzare come lo spazio è considerato all’interno della
teoria economica. Particolare rilievo è dato all’impatto che ha il crescente uso di tecniche statistiche e matematiche sulla concezione spaziale. Interrogandosi sui limiti di questa concezione, nella seconda
parte si passa ad esaminare l’espansione spaziale dell’economia capitalistica. L’approccio teorico qui seguito si basa prevalentemente
sui lavori di Jason Moore: si sostiene che l’economia capitalistica ha
bisogno di espandere la frontiera per poter avviare il processo di
accumulazione. È in questa chiave di lettura che vanno inquadrate le rivoluzioni agricole, che hanno reso possibile la riattivazione
dell’accumulazione fornendo cibo, energia e materie prime a basso
costo. Si dimostra così che l’economia classica non può arrivare a
simili conclusioni perché non ha mai avuto una concezione dialettica dello spazio, che per Harvey, invece, rappresenta il punto di
partenza della sua teoria.
The concept of space in economic theory
As for other social sciences, also in economics space matters. Building upon Harvey’s theory (2004) the present work intends to
analyze how space is considered within the economic theory. A
particular focus is given on the usage of mathematical and statistical tools on the conception of space and their limits. Jason Moore,
in his works, discusses how one capitalistic economic system needs
to expand geographically in order to begin the accumulation process. According to this point of view the agricultural revolution
can be considered as a starting point of the accumulation process,
in fact it resulted in cheaper supplies of food, energy and raw materials. However, it must be underlined that the classic economic
theory would never come to such a conclusion as it does not imply
a dialectic conception of space that Harvey instead considers to be
fundamental.
Lo spazio
nell’economia
e nella teoria
economica
testo di Bruno Bonizzi
immagini di Scott Cambell
107
Introduzione
“Imagine two people (Octavio and Abby) with a fixed amount
of resources between the two of them ‒ say, 10 liters of water
and 20 hamburgers. If Abby takes 5 hamburgers and 4 liters of
water, then Octavio is left with 15 hamburgers and 6 liters of
water. The Edgeworth box is a rectangular diagram with Octavio’s origin on one corner (represented by the O) and Abby’s
origin on the opposite corner (represented by the A). The width
of the box is the total amount of one good, and the height is the
total amount of the other good. Thus, every possible division
of the goods between the two people can be represented as a
point in the box.”1 Con queste parole centinaia di studenti di
economia hanno fatto il loro primo incontro con la teoria dell’equilibrio economico generale. L’economia descritta nei modelli di
base che utilizzano l’oggetto descritto, la cosiddetta scatola di
Edgeworth, è un’economia puro scambio: due individui possiedono alcune risorse di base rappresentabili come coordinate
nella scatola (che di fatto è una sovrapposizione di due grafici
cartesiani) e se le scambiano. Grazie a questa scatola si possono
individuare le possibilità di scambio dei beni tra gli individui e
si possono determinare le cosiddette allocazioni Pareto-efficienti
(ossia quelle che non permettono ad uno di migliorare la propria condizione senza peggiorare quella dell’altro), tra le quali si
trova il cosiddetto equilibrio (l’unico insieme di prezzi e quantità
in cui entrambi sono al massimo della loro felicità raggiungibile
dalle dotazioni di base). Il modello rappresentato dalla scatola di
Edgeworth è un utile esempio di come la teoria economica pone la
questione degli spazi: si tratta della stilizzazione e mappatura di
una relazione economica, pertanto della rappresentazione dello
spazio in cui essa avviene. Riconoscendo come tre le fondamentali concezioni di spazio – quelle nel presente numero della
rivista Post – ossia spazio assoluto, relativo e relazionale, quale
di queste è la concezione utilizzata maggiormente dai teorici
dell’economia? Si può intuire che in realtà la risposta non è così
semplice, né da esempi come la scatola di Edgeworth (che rientrano comunque, benché arcaici, nella teoria economica mainstream), né tanto meno se si prendono in considerazione esempi di
teoria economica provenienti dal campo delle teorie alternative.2
È senza dubbio vero, infatti, che l’acquisto di un chilo di pane
avviene in un certo momento in un certo luogo preciso, ma lo
Lo spazio nell’economia e nella teoria economica
108
studio dell’economia nel suo complesso è tipicamente uno studio di una dinamica continua nel tempo e multidimensionale
nello spazio. Possiamo studiare una singola transazione, o un
bilancio annuale di un’impresa, o un trend triennale di uno Stato
sotto un certo Governo, o l’intera storia economica del mondo: si allarga e cresce così sia la dimensione spaziale, sia quella
temporale. Come la teoria economica rappresenta tutto questo?
Da un altro punto di vista, possiamo pensare agli spazi delle relazioni economiche. Una tendenza decisamente attuale in questo
periodo di globalizzazione, difficilmente contestabile, è che essi
paiano ingrandirsi. Il volume delle attività economiche è infatti
in costante aumento, nonostante i ricorrenti periodi di crisi, e
il loro peso all’interno delle relazioni sociali è indubbiamente
sempre maggiore. Quale tipologia concettuale di spazio è più
adatta a catturare questo fenomeno? Nella prima sezione sarà
trattata la rappresentazione degli spazi nel campo della teoria
economica, richiamandone l’evoluzione storica e discutendone
nello specifico le metodologie (caratterizzate da un crescente
uso di tecniche matematiche e statistiche) secondo le categorie
spaziali proposte. Nella seconda sezione verrà trattata la questione dell’espansione economica, discutendone le caratteristiche
spaziali e le interpretazioni che le teorie economiche concorrenti provano a darvi.
1. Lo spazio nella teoria economica
1.1. Storia del pensiero economico
Poiché l’analisi spaziale dipende anche dalla dimensione storico-temporale (in particolare se non ci limitiamo alla concezione
di spazio assoluto), è senza dubbio utile inquadrare le concezioni
spaziali della teoria economica in chiave storica.
L’economia politica è una disciplina relativamente giovane, comunemente la si fa partire da Adam Smith, quindi dalla seconda metà del XVIII secolo. Essa nasce in concomitanza alla
nascita di un sistema economico nuovo, quello di tipo capitalistico. Il concetto cardine per tutti quelli che sono comunemente
chiamati economisti classici (compresi i fisiocratici, che in realtà
non ne sono comunemente inseriti) è quello di surplus, ossia la
quantità di prodotto in eccesso che risulta dopo un processo
produttivo, reintegrati i fattori di produzione (Lunghini 1996).
L’economia capitalistica è caratterizzata dall’accumulazione di
questo sovrappiù, ossia dal suo reinvestimento per aumentare
ulteriormente la produzione. È pertanto molto chiaro ai classici la storicità del capitalismo, la sua novità rispetto ai sistemi
economici precedenti, dunque la necessità di dover introdurre
analisi e strumenti nuovi per il suo studio. Anche gli studi economici di Marx rientrano nel filone dei classici, tuttavia la sua
è una Critica dell’economia politica: l’intento è infatti di spiegare l’origine del sovrappiù capitalistico, lo fa con la sua teoria del
valore-lavoro.
Qualcosa però a fine ‘800 cambia, con l’avvento dei cosiddetti
marginalisti, appartiene a questo tipo di analisi la scatola di Edgeworth della citazione iniziale. Pur mantenendo alcuni presupposti filosofici precedenti – in un certo senso ricalcando Smith
sulla questione della mano invisibile (motivo per cui la teoria
economica che ha le sue radici nel marginalismo è chiamata anche neoclassica) – i marginalisti si distanziano molto dai classici,
in particolare in base ai loro principi di individualismo metodologico, completamente opposti alle precedenti analisi, che erano
invece tipicamente di classe (anche se a questo concetto solo
Marx ha dato una definizione e una valenza così importante).
La teoria economica diventa uno studio di preferenze individuali,
dotazioni iniziali e scelte di fattori produttivi, che ottimizzate
raggiungono un equilibrio sul mercato. Ogni individuo è – per
lo meno nei modelli di base – isolato e razionale, indipendentemente dalla realtà storica, ha delle preferenze e si relaziona
economicamente con altri individui solo in termini di scambi
formalmente paritari. Fondamentale a tal fine è l’espressione di
tutto questo in forma aritmomorfica: la correttezza formale e la
rappresentabilità matematica e grafica della realtà sono alla base
della ricerca economica dei marginalisti.3
Le idee dei marginalisti presero molto piede, vennero sviluppate
e ampliate, ma non erano – e non sono – in grado di spiegare
le crisi; quando questa si manifesta in tutta la sua potenza alla
fine degli anni ‘20, la teoria economica neoclassica sembra vacillare. È in questo contesto che si spiega la fondamentale opera
di Keynes: La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta (1936). La dimensione analitica del libretto di Keynes4
è totalmente diversa da quella in voga ai suoi tempi: Keynes,
infatti, non condivide l’impostazione dell’individualismo metodologico, ma analizza l’economia a partire dai grandi aggregati,
tipicamente gli Stati. È per questo che l’origine della macroeconomia è tradizionalmente riposta nella fondamentale opera
keynesiana.
L’opera di Keynes, reinterpretata in termini matematici dall’economista John Hicks, apre la fase della cosiddetta sintesi neoclassica, la teoria economica dell’età d’oro keynesiana (1943-1973
circa): sembrava che ogni cosa, con l’inserimento di elementi
keynesiani (o per meglio dire adattamenti della sua opera alla
teoria economica preesistente), fosse stata spiegata, che si potessero evitare le crisi e altri avvenimenti spiacevoli come la disoccupazione.
La crisi economica degli anni ’70 mise nuovamente in difficoltà
la teoria economica, le teorie monetariste di Friedman presero così
molto piede: esse riducevano di molto il ruolo dello Stato nell’economia e ponevano la Banca Centrale come unico vero istituto pubblico in grado – e in dovere – di intervenire, contenendo
l’inflazione ed espandendo costantemente la moneta in linea
con la crescita naturale della produzione (Brancaccio 2009).5
La fase che ne segue è comunemente chiamata neoliberismo (neoliberalism in inglese6) ed arriva fino alla crisi dei giorni nostri.
Non è compito di una disamina breve sulla concezione dello
spazio economico definire i tratti del neoliberismo, né stabilire
come si evolverà la teoria economica, ora che probabilmente è in
atto un’altra crisi strutturale del capitalismo. Di certo si può dire
che per ora, nonostante la crisi, la teoria economica sembra essere
poco propensa a cambiamenti radicali.
1.2. Lo spazio nella teoria
Dopo aver ricordato brevemente l’evoluzione della teoria economica, si possono qui richiamarne i tratti fondamentali che
possono esserci utili per la definizione dei suoi spazi. Azzardo
questi punti: 1) la teoria economica deve essere il più possibile
generale e schematica; 2) per essere generale la teoria economica
deve essere formalmente rigorosa ed espressa il più possibile
in forma matematica o grafica; 3) eventuali discordanze con la
realtà devono indurre ad un ripensamento del modello, in cui
devono essere introdotti gli elementi di imperfezione, sempre
sotto forma rigorosamente formalizzata.7 Dati questi punti, bisogna cercare di capire quale è la tipologia di spazio più adatta
a definirla. Prendiamo come esempio la scatola di Edgeworth, di
Post - n°3 - Spazio
cui sopra. Secondo la definizione di Harvey (2004) lo spazio assoluto è “uno spazio fisso [...] generalmente rappresentato come
una griglia preesistente immobile suscettibile di una misura
standardizzata e calcolabile”. Sembra l’esatta definizione della
scatola di Edgeworth: spazi prefissati in cui avvengono gli scambi – misurabili – ai cui punti nello spazio corrispondono varie
allocazioni specifiche.
Sempre Harvey ci dice che lo spazio assoluto “socialmente è
lo spazio della proprietà privata”, presupposto fondante della
scatola stessa e di tutta la teoria dell’equilibrio economico generale. Prendiamo un altro esempio più generico dalla macroeconomia, la domanda aggregata: nel caso più semplice8 è la somma
di investimenti, consumi e spesa pubblica. Il contesto spaziale
in cui si muove è dunque quello di uno stato-nazione preciso
e delimitato, i cui confini sono delineati. Da questi due casi,
pur molto semplici, parrebbe che la concezione dello spazio
che si ha nel campo della teoria economica sia di quello assoluto.
La formalizzazione matematica rafforza questa impressione: la
matematica è, per sua natura, astrazione.
Per quanto i presupposti di una teoria possano essere realistici,
la logica e la misurabilità matematica rimangono un’astrazione
che è tanto più grande e visibile nelle scienze sociali. Gli spazi
matematici, almeno quelli della matematica utilizzata in economia, sono spazi assoluti.9 Abbiamo così individuato la posizione
di gran parte degli spazi della teoria economica all’interno della
matrice proposta da Harvey: lo spazio assoluto sembra dominare
la teoria economica.
La cosa è invece un po’ meno pacifica di quanto sembri. Prendiamo un altro esempio da una branca dell’economia molto
importante negli ultimi tempi: l’econometria. L’analisi econometrica prende le mosse dalla statistica, ci si trova così in uno
dei passaggi più importanti che sussistono tra realtà e teoria:
la raccolta e l’elaborazione dei dati. Ora, i dati sono etimologicamente qualcosa di esternamente prefissato, non contestabile,
perché appunto dato. La raccolta dei dati tuttavia pone dei problemi di ordine pratico: è tecnicamente impossibile calcolare i
parametri reali d’intere popolazioni, si usa pertanto il sistema
del campionamento, ossia si prende un numero prefissato – e
appositamente calcolato – di variabili aleatorie (generalmente
di persone) assolutamente casuali e indipendenti. Tuttavia “è
difficile (e costoso) usare un campione ‘assolutamente casuale’.
Si usano perciò campioni ‘rappresentativi’, cioè ricostruiti in
base a categorie demografiche.” (Livraghi 2009). È facilmente
comprensibile come questa scelta, di fatto soggettiva, possa creare facilmente distorsioni fin dalla fase di raccolta dei dati. Le
maggiori possibilità di errore si hanno tuttavia nell’elaborazione
e nell’interpretazione dei dati. In statistica vale infatti il noto
caso della legge dei due polli, il cui senso può essere ricavato anche dalla provocatoria frase “l’uomo medio ha una mammella
e un testicolo”: la tendenza ad appiattire la realtà eliminando le
differenze può essere molto pericolosa, l’essere medio con una
mammella ed un testicolo può essere significativo sul piano statistico, ma naturalmente non ha alcuna utilità per l’analisi del
mondo reale. Prendiamo come esempio, più nello specifico, uno
dei modelli econometrici più semplici: la regressione lineare semplice. Essa correla due variabili aleatorie – e nei casi concreti due
serie di dati – costruendo la retta che meglio approssima la loro
relazione, stimando i parametri che la definiscono. Ammesso
– invero un po’ irrealisticamente – che la raccolta dei dati sia
stata fatta in base ad un vero campionamento casuale, il punto
fondamentale è capire l’eventuale direzione della correlazione:
nonostante il modello preveda una variabile dipendente e una
indipendente, infatti, la correlazione non implica necessariamente che una sia causa dell’altra. Capire questa direzione, se
esiste, è compito dell’interpretazione dei dati stessi.
La lettura dell’eventuale rapporto di causalità dipende dunque
dalla prospettiva di chi interpreta i dati, in altre parole dal sistema di riferimento. Tanto meglio riusciamo a interpretarla se
consideriamo che la dimensione temporale (la quarta dimensione tipica dello spazio relativo) può essere un’efficace coordinata aggiuntiva per i dati stessi. Sapere il dove sono stati
presi i dati è importante, ma è anche molto importante capire
il quando: dunque il contesto storico-geografico. Queste considerazioni ci potrebbero indurre a considerare gli spazi dei dati
come spazi relativi. Ma interpretare i dati significa anche leggere i rapporti sociali che sottostanno ai dati stessi, conducendoci
così allo spazio relazionale. Prendiamo ad esempio alcuni dati
sull’andamento economico di due aziende vitivinicole in uno
stesso arco di tempo, una cooperativa e una sede locale di una
multinazionale che produce prodotti alimentari. I dati ci dan-
109
no un andamento economico – poniamo – analogo, eppure è
chiaro che i risultati, anche solo intuitivamente, li consideriamo
diversi: la loro diversità è appunto relazionale. Gli spazi adibiti
a coltivazioni possono effettivamente essere assolutamente gli
stessi: le tecnologie, i guadagni e i costi economici possibili, la
produttività del lavoro, ovvero tutte le variabili relative dal punto di vista dell’investimento, potrebbero essere analoghe.
Diverso è tuttavia lo spazio relazionale tra persone che viene a
crearsi: in un caso si tratta di una cooperazione al fine dell’autoconsumo (o quanto meno, del consumo della comunità di appartenenza), nell’altro si tratta di un rapporto di lavoro salariato.
Un uguale andamento economico di queste due aziende può
dare quindi luogo a considerazione molto diverse. L’interpretazione dei dati ci porta quindi ad aperture verso le concezioni
spaziali relazionali e relative. L’analisi dei dati mantiene maggiormente quella “tensione dialettica” (Harvey 2004) presente
nel rapporto tra le varie concezioni spaziali.
Si tratta tuttavia di un’apertura dal forte carattere soggettivo,
poiché non si tratta di uno spazio che è già di per sé presente
nella teoria dello studio dei dati (che si caratterizza al contrario
per un formalismo rigoroso di stampo prettamente matematico), ma di uno spazio che è affidato all’interpretazione, uno
spazio che può quindi essere negato. Ci può infatti essere chi
confina i dati nello spazio assoluto, dando loro una valenza oggettiva e non discutibile.
La predominanza dello spazio assoluto rimane pertanto generalmente una caratteristica della teoria economica contemporanea.
Questo fatto rende possibile il mantenimento di un rigore
formale maggiore, è una delle ragioni grazie alla quale l’economia mantiene un profilo scientifico comune: i corsi universitari di economia sono simili ovunque, così come la ricerca
scientifica è suddivisa in aree di interesse più o meno uguali
in tutto il mondo. Al di là delle questioni epistemologiche, il
punto cruciale è capire se la riduzione della concezione spaziale
nella teoria riduce o meno la comprensione che la teoria ha della
realtà. Ad esempio, poiché il mercato non è quadrato e non è
sempre fisicamente predefinito, l’approssimazione fornitaci dalla scatola di Edgeworth è qualcosa che ci aiuta a capire meglio o
ci preclude la comprensione, questo perché elimina particolari
essenziali? Lasciamo da parte per ora questa domanda.
Lo spazio nell’economia e nella teoria economica
110
In apertura:
Sopra:
Scott Cambell
Scott Cambell
Dirty deedsbills, 2010
Rosebills, 2008
intaglio laser su monete da un dollaro
intaglio laser su monete da un dollaro
US, 7 x 15,5 cm
US, 7 x 15,5 cm
Courtesy: The Flat - Massimo Carasi,
Courtesy: The Flat - Massimo Carasi,
Milano. © Scott Campbell
Milano. © Scott Campbell
2. L’espansione spaziale dell’economia
Passiamo ad esaminare il problema da un altro punto di vista,
se vogliamo, più empirico. Osservando le relazioni economiche
senza preconcetti, che idea possiamo farci della sua natura spaziale? Una prima possibile risposta è che i confini delle relazioni
e delle attività economiche non siano fissi, ma in perenne mutamento. Dandoci una prospettiva storica, potremmo aggiungere
che tendenzialmente mutano in crescendo, in altre parole che
l’economia pare espandersi. Pochi infatti potrebbero negare che
esista ciò che viene chiamato comunemente crescita, ossia l’aumento del volume delle attività economiche. Ma qual è la dimensione materiale di questa espansione? Possiamo rispondere
a questa domanda partendo dal metodo di misurazione della
crescita: la crescita infatti è misurata come aumento del prodotto
interno lordo (PIL), ovvero la somma del valore di tutte le merci
prodotte. Questa definizione ci dice che l’espansione dell’economia è in buona sostanza misurabile come un’espansione della
quantità di merci prodotte dalle imprese.
Se l’espansione dell’economia pare essere una caratteristica
difficilmente negabile degli ultimi due secoli, allora l’aumento
della produzione è in un certo senso caratteristica chiave del
modo di produzione di questo periodo. Allo stesso modo Marx
(2008) dice: “La ricchezza delle società nelle quali predomina il
modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane
raccolta di merci’.”.
L’economia di tipo capitalistico è dunque contraddistinta dal
processo di accumulazione. È questo un concetto di base condiviso sia dagli economisti critici, sia dal mainstream. Cominciando dai primi, possiamo fare riferimento agli schemi di riproduzione marxiani, per i quali l’accumulazione è originata dalla
parte del plusvalore utilizzato per investire, tendenza imperativa per il capitalista: “lo sviluppo della produzione capitalistica
rende necessario un aumento continuo del capitale investito in
un’impresa industriale, la concorrenza impone a ogni capitalista
individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere
continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può
espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva.”
(ibid.).
Come si evince dagli schemi di riproduzione stessi, non c’è, tut-
Post - n°3 - Spazio
tavia, nessuna ragione per la quale tale accumulazione debba
avvenire in modo equilibrato: l’equilibrio è possibile, ma si tratta
di un caso. Comunque, “quando la produzione si è espansa oltre
la possibilità di una realizzazione profittevole” (Fine e SaadFilho 2010), la crisi esplode e – se non contrastata – genera
svalutazione sia del capitale che del lavoro: bancarotta, riserve di
merci invendute, disoccupazione di massa o anche vera e propria distruzione fisica (merci bruciate e lavoratori che muoiono
di fame), specie se accompagnata da guerre (Harvey 2001).
Esistono tuttavia delle possibilità per il capitale di poter riavviare il processo di accumulazione evitando le nefaste conseguenze della svalutazione: una di queste è il cosiddetto spatial fix di
Harvey (1982). Tale concetto, secondo la tipologia di svalutazione, assume diverse forme: l’esportazione di interi processi di
produzione e lavoro in altre regioni per sfuggire ad una crisi
locale, l’apertura di nuovi mercati stranieri per le merci in caso
di domanda interna insufficiente, la ricollocazione di nuovi sedi
produttive in zone con grande manodopera a basso costo (in
caso di offerta di lavoro interna insufficiente o costosa e organizzata in sindacati). Grazie all’espansione nello spazio, la crisi
è – anche se spesso solo in parte – evitata e il processo di accumulazione continua. Uno dei grandi meriti di questa teoria, oltre
ad aiutare la nostra comprensione delle crisi, è la spiegazione
di come l’economia capitalistica non si espanda solo nel tempo ma anche nello spazio: ogni regione “sotto la minaccia della
svalutazione […] cerca di utilizzarne altri per alleviare i suoi
problemi interni” (ibid.). In questo modo dunque Harvey spiega, collegando la sua teoria con l’intero corpus teorico marxiano,
come l’insieme delle relazioni capitalistiche si sia progressivamente espanso.
È possibile espandere ulteriormente la portata di questa teoria
attraverso il lavoro di Moore (2001, 2009 e 2010). Il punto di
partenza è la considerazione di Marx per la quale “supposto che
le altre circostanze restino invariate, il saggio del profitto decresce
o aumenta in ragione inversa del prezzo della materia prima”,
mentre “quanto più sviluppata è la produzione capitalistica, tanto più grande è la relativa sovrapproduzione di macchinario e di
altro capitale fisso, tanto più frequente la relativa sottoproduzione
di materie prime vegetali e animali” (Marx 2008). Pertanto “una
costante priorità del capitalismo è quella di far calare il prezzo
delle materie prime, espandendo contemporaneamente il volume materiale della produzione delle merci” (Moore 2009).
È per questo che, storicamente, i periodi di grande espansione
sono sempre stati accompagnati da rivoluzioni agricole, ossia da
uno sviluppo tecnologico accompagnato da espansioni spaziali
tali da produrre un’ondata di cibo, energia e materie prime a
basso costo.
Le risorse non sono però infinite, per sostenere l’accumulazione
è necessario intensificarne progressivamente lo sfruttamento (ossia aumentare la produttività) per “ottenere di più da di meno nel
breve medio-periodo. Ma ottenere di più da di meno non significa ottenere qualcosa dal niente” (ibid.): l’espansione spaziale rimane ancora una volta l’unica possibile soluzione del problema.
Si ha così un’applicazione del concetto di spatial fix rispetto
alla questione ecologica: l’accumulazione del capitale è legata al
doppio processo di espansione spaziale e di capitalizzazione della
natura. L’espansione spaziale conosce tuttavia dei limiti, poiché
lo spazio assoluto del mondo è incontestabilmente limitato, sia
in senso orizzontale (nuovi continenti da occupare), sia in senso
verticale (nuove risorse naturali da poter sfruttare): “Oggi rimangono senza dubbio spazi relativamente non condizionati
dalla violenza della merce. Ma il loro peso relativo nel sistemamondo è incomparabilmente minore oggi […].” (Moore 2010).
Una conclusione malthusiana? Non proprio. Ciò che viene detto, infatti, non è che la sopravvivenza dell’umanità sia naturalmente minacciata dalla mancanza di nuovi spazi, ma che tale
mancanza segna i limiti relativi di relazioni sociali specifiche
dell’umanità in un certo periodo storico: “I limiti storici […] del
primo capitalismo furono raggiunti a metà del XVIII secolo;
si trattò di limiti storico-ecologici all’accumulazione del capitale
[…] non [di] limiti assoluti.” (Moore 2009). In sostanza, riprendendo il filo centrale della nostra discussione, si trattò di limiti
spaziali relazionali. È in questo senso che va interpretato il concetto di capitalismo come sistema ecologico oltre che economico
(Moore 2001), ossia come “complesso di relazioni sociali che
determinano anche il rapporto natura-società” (Moore 2010).
Le condizioni di riproduzione sociale del capitalismo passano
dunque anche attraverso il modo in cui la natura è organizzata
e prodotta.10
Gli spazi del capitalismo come sistema ecologico sono dunque
111
storicamente determinati, ogni fase storica in cui si manifesta è
un differente regime ecologico, i cui limiti sono da ricercare all’interno delle relazioni sociali che lo costituiscono. Per superare
questi limiti tali spazi vanno rivoluzionati: “Ogni invenzione
epocale ha anche segnato una radicale rivoluzione nell’organizzazione dello spazio globale e non solo nelle tecniche di produzione, […] il ‘motore a vapore’, ad esempio, era impensabile
senza […] le miniere di carbone […] e l’espansione coniale di
insediamenti bianchi nel XIX secolo.” (ibid.); una rivoluzione
degli spazi relativi e relazionali.
L’espansione spaziale ha anche il suo aspetto assoluto: è innegabile infatti che gli esseri umani siano notevolmente numericamente aumentati (di circa sei volte negli ultimi duecento
anni) – fisicamente occupando più spazio – e che gli spatial fix
abbiano ingrandito la parte di terra occupata dagli uomini. In
fin dei conti, le merci occupano uno spazio materiale oltre che
relazionale.
Ancora una volta l’espansione spaziale dell’economia è dunque
difficilmente confinabile in una sola delle definizioni di spazio,
ma mantiene la già citata tensione dialettica.
Potrebbe la teoria economica mainstream raggiungere conclusioni simili? La condivisione dell’idea che l’espansione contraddistingua l’economia degli ultimi duecento anni è mostrata dalla
grande enfasi posta sulle varie teorie della crescita. Esse mantengono naturalmente tutti i tratti tipici che abbiamo delineato
nella prima sezione, ossia una grande formalizzazione concettuale espressa principalmente sotto forma di formule matematiche. Uno dei presupposti su cui si basano queste teorie (compresa la nuova teoria della crescita) è la funzione di produzione
neoclassica:
Y = f(K, L), ossia il prodotto (Y) è una certa funzione positiva del
capitale (K) e del lavoro (L). Gli apporti dei due fattori di input11
sono determinati da coefficienti specifici. In sostanza, la produzione è una questione tecnica in cui i vari fattori contribuiscono
in maniera diversa secondo la tecnologia utilizzata. Il progresso
tecnologico è dunque la chiave della crescita: “in un’economia
con progresso tecnologico […], la produzione cresce nel tempo […] al tasso [del] progresso tecnologico” (Blanchard 2009).
Non a caso, anche la questione dello sfruttamento delle risorse
è spiegata in questi termini: tecnologie migliori utilizzeranno
Lo spazio nell’economia e nella teoria economica
112
minori quantità di risorse naturali e questo impedirà – o rallenterà – i nefasti effetti ambientali della produzione. L’oggetto di
studio è in ogni caso un’economia singola, la quale ha un certo
tasso di risparmio, una certa funzione di produzione, un certo tasso di progresso tecnologico e un certo tasso di aumento demografico. Questi valori possono essere influenzati dalle decisioni di
questa economia in termini di apertura allo scambio sui mercati
internazionali, ma essa è l’oggetto di studio singolo ed indipendente, con confini precisi: uno spazio assoluto.
La crescita capitalistica (in altri termini, l’accumulazione) è inoltre vista come proseguimento naturale dell’organizzazione economica precedente: nell’Inghilterra settecentesca vi fu “arretramento considerevole della percentuale di ricchezza consumata”
(Cattini 2006), ciò consentì risparmi da investire in nuove tecnologie che determinarono “vistosi aumenti di produttività”
(ibid.). Rivoluzione tecnologica insomma, accompagnata da
risparmio e da un clima politico favorevole.
È chiaro che in questo quadro non vi è nulla di simile a ciò che
in letteratura critica viene chiamata accumulazione primitiva, la
trasformazione sociale di contadini in lavoratori salariati senza
terra, il che poté avvenire “con i mezzi disponibili nelle società
pre-capitaliste” (Bernstein 2010), ossia senza ricorrere al mercato, nel caso inglese con le celeberrime enclosures. Nulla vi è
dunque di naturale nello sviluppo del primo capitalismo12: esso è
frutto dell’emergere di una classe che rivoluzionò gli spazi. Le
terre inglesi non erano assolutamente cambiate, ma lo erano le
relazioni sociali che ne organizzavano l’utilizzo.
Di nuovo la teoria economica mostra la sua predilezione nel
concepire spazi assoluti. Non esiste uno spazio relazionale del
capitalismo come sistema economico globale, esiste l’economia
di un certo luogo del mondo delimitato da confini precisi (ad
esempio l’Inghilterra) nei quali si presentano certi fattori che
portano alla crescita. Tali fattori sono quindi la causa che più
o meno deterministicamente porterà allo sviluppo. L’uomo è
un fattore di produzione come gli altri, con il suo lavoro e, in
alcune versioni recenti, con il suo capitale umano, ovvero tutto
il suo bagaglio culturale, intellettuale ed emozionale. L’aspetto
relazionale dei rapporti umani non è dunque l’unità di analisi,
come è invece per l’economia politica classica.
Scott Cambell
Heart, 2010
intaglio laser su monete da un dollaro US,
63,5 x 53,3 x 2,5 cm
Art Collection UniCredit
Courtesy: The Flat - Massimo Carasi, Milano. © Scott Campbell
Conclusioni
Alla fine della prima sezione, ci si è chiesti se l’approssimazione spaziale, utilizzata nei principali modelli di teoria economica, consentiva una maggiore comprensione (grazie alla logica
schematica formale) oppure una minore comprensione (qualora questo schematismo trascurasse particolari importanti) di
quanto avviene nel mondo reale. Trattando il tema dell’espansione dell’economia nello spazio, abbiamo visto che lo schematismo dei modelli si riflette nella predilezione della teoria
economica per gli spazi assoluti come principio. È probabilmente questa una caratteristica già contenuta in sé nel principio
dell’individualismo metodologico: un individuo singolo e isolato
come unità di studio occupa uno spazio assoluto, poiché rap-
presenta un’entità completa di per sé. Oltre all’individuo, con
le sue preferenze e le sue dotazioni, altro ruolo chiave è dato
alla tecnologia, specificamente rappresentata dalla funzione di
produzione neoclassica.
Questi tre elementi, preferenze, dotazioni e tecnologia, sono in ultima analisi le basi della teoria economica mainstream per spiegare
fondamentalmente tutti i fenomeni economici (Hahn 1982).
Una buona sintesi dell’approccio critico è descritta invece da
Brancaccio (2009): “Non soltanto il sistema economico esiste
prima e indipendentemente dal singolo individuo, ma a sua
volta l’individuo risulta condizionato dal sistema in virtù del
ruolo e delle funzioni che si troverà a ricoprire in esso.”. Da
questa semplice definizione, l’apertura ad una concezione relazionale dello spazio è evidente: sono principalmente le relazioni tra gli individui che determinano le loro scelte e preferenze.
Rispondendo alla domanda lasciata da parte prima, si può dire che
lo schematismo della teoria economica mainstream non è capace di
cogliere questa concezione spaziale: di fatto tutti i fenomeni sono
tendenzialmente ricondotti all’interno di confini spaziali assoluti.
Tuttavia, come si è già visto in più esempi, gli spazi del mondo
non sono né solo assoluti, né solo relativi, né solo relazionali. La
negazione di questi due ultimi aspetti non può che essere un limite della teoria stessa. L’aderenza al principio metodologico, per
il quale sono le tecniche formali matematiche a determinare la
scientificità di un’analisi, rende ancor più marcato questo riduzionismo. L’utilizzo di queste tecniche può essere senza dubbio utile
nell’affrontare i problemi, ma il solo affidamento alle stesse non è
sufficiente a spiegare i fenomeni sociali.
Citando Einstein, questo punto è splendidamente espresso da
Lunghini (1996): “‘la difficoltà di analizzare il processo della
vita non risiede nella complicazione della matematica, ma nel
fatto che tale processo è troppo complesso per la matematica.
Il capitalismo, come tutti gli altri sistemi economici che l’hanno preceduto e che saranno prodotti dall’evoluzione continua
della società umana, è una forma di vita’. Alcuni aspetti del suo
funzionamento si adattano perfettamente all’analisi matematica, per altri la matematica risulta essere uno strumento troppo
rigido e troppo semplice.” Nell’aspetto assoluto degli spazi l’utilizzo della matematica è di grande aiuto, nelle parti relative e
relazionali dobbiamo affidarci ad altri metodi.
Post - n°3 - Spazio
Bibliografia
Bernstein, H. (2010) Class dynamics
of agrarian change, Fernwood, Winnipeg.
Blanchard, O. (2009) Macroeconomia, tr. it di
F. Giavazzi e A. Amighini, Egea, Bologna.
Brancaccio, E. (2009) La crisi del pensiero
unico, Franco Angeli, Milano.
Cattini, M. (2006) L’Europa verso il mercato
globale, Egea, Milano.
Fine, B. e Saad-Filho, A. (2010)
Marx’s capital, 5ª ed., Pluto, London.
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Basil Blackwell, Oxford.
Harvey, D. (2001) “Globalization and the
‘spatial fix’”, in Geographische Revue, n. 2, pp. 23-30.
Harvey, D. (2004) “Space as a key word”,
in Spaces of neoliberalisation: towards a theory
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Hettner lectures, n. 8.
Livraghi, G. (2009) “Il pollo di Trilussa
e gli inganni delle statistiche”,
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Lunghini, G. (1996) Riproduzione,
distribuzione e crisi, Unicopli, Milano.
Moore, J.W. (2000) “Environmental Crises
and the Metabolic Rift in World-Historical
Perspective”, in Organization
& Environment, n.13 (2), pp. 123-158.
Moore, J.W. (2009) “Ecology and the
Accumulation of Capital”, presentato
a Food, Energy, and Environment, Fernand
Braudel Centre, Binghamton, 9-10 October.
Moore, J.W. (2010) “The end of the road?
Agricultural revolutions in the capitalist
world-ecology, 1450-1510”, in Journal
of Agrarian Change, n. 10 (3), pp. 389-413.
Note
(1) È l’esempio che si trova attualmente cercando la voce Edgeworth box su Wikipedia.
Traduzione italiana: “Immaginate due persone, Ottavio e Abby, con un ammontare prefissato di risorse da dividere tra loro, diciamo
10 litri di acqua e 20 hamburgers. Se Abby
prende 5 hamburgers e 4 litri d’acqua, Ottavio avrà 15 hamburgers e 6 litri d’acqua. La
scatola di Edgeworth è un diagramma rettangolare con il punto di origine di Ottavio
in un angolo (rappresentata da O) e il punto
di origine di Abby nell’angolo opposto (rappresentato da A). La larghezza della scatola è l’ammontare totale di un bene mentre
l’altezza è l’ammontare totale dell’altro bene.
Dunque ogni possibile distribuzione dei
beni tra i due individui è rappresentata da un
punto della scatola”.
(2) Si useranno nel testo rispettivamente il termine economia mainstream ed economia critica.
(3) La ragione del termine marginalismo è
appunto quella del ricorso continuo al calcolo differenziale in modo da ottenere l’effetto
marginale di qualcosa: ad esempio l’effetto
di un’unità di lavoro in più sulla produzione
di una determinata merce è il prodotto marginale del lavoro.
(4) Si tratta decisamente di un libro breve, sebbene molto complesso e denso di contenuti.
(5) Per questo Friedman e i suoi allievi sono
stati definiti monetaristi.
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Biografie
(6) Il termine neoliberismo è a mio parere
fuorviante, dato che per certi versi è stato
molto poco liberista. Si veda, a tal proposito,
Bellofiore (2010).
(7) Un esempio su tutti sono le recenti teorie
sulle asimmetrie informative di Stiglitz.
(8) Nel caso cioè di un’economia chiusa, non
aperta allo scambio con l’estero.
(9) La matematica della teoria economica
è basata principalmente sull’ottimizzazione
statica e dinamica. In ultima analisi quindi
sul calcolo differenziale.
(10) Per produzione di natura, si intende il
modo in cui la natura entra a far parte del
processo di produzione capitalistico. Ossia
al suo grado di mercificazione, al grado di
capitalizzazione delle industrie estrattive ed
agricole, etc…
(11) Possono essere in realtà aggiunti altri
fattori di input, come terra e svariati altri tipi
di capitale (umano, sociale, naturale).
(12) Tralasciamo qui volutamente il dibattito
sull’argomento dell’origine del capitalismo e
prendiamo come riferimento la dinamica classica dell’accumulazione primitiva britannica.
Bruno Bonizzi, nato a Milano nel 1989.
Al momento studente iscritto al Master in
Political economy of Development alla School
of Oriental and African Studies, University of
London. In precedenza studente di Economia e
Scienze Sociali all’Università Bocconi.
I miei interessi vertono su varie tematiche
releative allo sviluppo del capitalismo
contemporaneo, con particolare riferimento a
paesi extra-europei.
Scott Campbell è nato a New Orleans,
Lousiana (1977). Vive e lavora a New York.
Tra le sue mostre personali ricordiamo nel
2011 No blesse oblige, presso OHWOW, Los
Angeles; 2010 If You Don’t Belong, Don’t Be
Long presso OHWOW Gallery, New York, e
nel 2008 Bury The Hatchet presso The FlatMassimo Carasi, Milano. Tra le sue mostre
collettive ricordiamo nel 2011 Scott Campbell
/ Steven Parrino / Raymond Pettibon, Marc
Jancou Contemporary, New York; nel 2009
a NEW YORK MINUTE: 60 Artisti
della Scena Artistica Newyorkese presso
MacroFuture, Roma e nel 2008 It Ain’t Fair,
a cura di Kathy Grayson e Deitch Projects,
presso OHWOW Gallery, Miami, in occasione
di Art Basel Miami.
Scott Cambpell è rappresentato in Italia da
The Flat-Massimo Carasi e in America da
OHWOW Gallery.
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