Un nuovo libro sul capitalismo

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Un nuovo libro sul capitalismo.
E’ da qualche settimana in libreria un nuovo libro sul capitalismo che è già un successo
internazionale. Sebbene sia di quasi mille pagine e di non facile lettura per i non addetti ai lavori è
anche da noi fra i libri più venduti per la saggistica ( Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo,
Bompiani). L’autore è direttore di studi all’ “Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales” (EHSS)
di Parigi e professore nell’ “Ecole d’économie de Paris”. Questo libro, bestseller in Francia per le
Editions du Seuil, ha acceso molte discussioni e polemiche non solo in Europa ma anche negli Stati
Uniti con l’intervento di alcuni Premi Nobel. Ho letto il libro nell’edizione originale francese che mi
è stata regalata prima della pubblicazione in Italia. A questa perciò si riferiscono le prossime
citazioni.
Piketty è un economista originale rispetto alle scuole correnti e osserva le mutazioni del
capitalismo a partire dal basso, cioè dai suoi effetti sociali, dalle trasformazioni dei rapporti di
ineguaglianza che produce attraverso nuovi sistemi di accumulazione del capitale. E’ anche
originale perché, a differenza di molti suoi colleghi, si rifiuta di isolarsi in un ragionamento
rigidamente e settorialmente economico. “Non concepisco altro posto per l’economia – scrive –
che come sotto-disciplina delle scienze sociali, accanto alla storia, alla sociologia,all’antropologia,
alle scienze politiche e a tante altre……. Non amo molto l’espressione ‘scienza economica’ che mi
sembra terribilmente arrogante e che potrebbe far credere che l’economia abbia raggiunto una
scientificità superiore, specifica, distinta da quella delle altre scienze sociali. Preferisco nettamente
l’espressione ‘economia politica’, forse un po’ ‘vecchiotta’, ma che ha il merito di illustrare ciò che
mi pare essere la sola specificità accettabile dell’economia nell’ambito delle scienze sociali, cioè la
visione politica, normativa e morale” (p. 945). Frequentemente, nota ancora Piketty, la scientificità
dell’economia è affidata a “un uso smoderato dei modelli matematici, che spesso non sono che
una scusa per occupare spazio e mascherare la vacuità del prodotto” (p. 946). Per contro la ricerca
nelle scienze sociali “non ha la vocazione di produrre certezze matematiche confezionate e
sostituirsi al dibattito pubblico democratico e contraddittorio” (p. 941).
Se vogliamo perciò esaminare le trasformazioni del capitale e del capitalismo in uno
scenario più vasto attraverso i contributi e i profili di varie scienze sociali, scrive il nostro autore, è
il fenomeno dell’ineguaglianza sociale che ci deve interessare e che ci aiuta a comprendere i
fenomeni di accumulazione del capitale e della sua gestione del potere. Anche sul piano storico
sarà così possibile per esempio individuare i “molteplici parallelismi” ma anche le differenze fra
passato e presente, “fra la struttura della proprietà nella ‘Belle Epoque’ e quella dell’inizio del XXI
secolo”.
La ripartizione delle ricchezze è stata sempre una delle questioni più vive e dibattute e ha
funzionato come indicatore della dinamica di accumulazioine del capitale. Oggi lo è in particolare
perché, ha affermato Piketty in una recente intervista, la ricchezza dei privati che, negli anni ’70,
corrispondeva a due volte e mezzo il reddito nazionale risultava raggiungere, all’inizio della crisi, il
livello di sette volte quel reddito. Una conferma si è avuta infatti in questi ultimi giorni dal
governatore della Banca d’Italia Visco, che ha affermato che negli ultimi anni “la diseguaglianza è
cresciuta a livelli senza precedenti” (Corriere della Sera, 13.10.2014).
Dietro la ripartizione delle ricchezze si nasconde dunque il fenomeno dell’ accumulazione
del capitale. Un importante meccanismo di accumulazione del tardo capitalismo, nota Piketty, sta
nel fatto che l’imprenditore “tende inevitabilmente a trasformarsi in redditiere e a dominare
sempre più fortemente coloro che non posseggono che il loro lavoro. Una volta costituito il
capitale si riproduce da solo, più rapidamente di quanto si accresca la produzione. Il passato divora
l’avvenire” (p: 942). In questo modo il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze
insostenibili, arbitrarie, che rimettono radicalmente in questione i valori meritocratici sui quali si
fondano le nostre società democratiche”(p.16). E’ vero che la crescita moderna e la diffusione
delle conoscenze “hanno permesso di evitare l’apocalisse marxista, ma non hanno modificato le
strutture profonde del capitale e delle ineguaglianze, o almeno non nella misura che si è potuta
immaginare nei decenni ottimisti che hanno fatto seguito alla seconda guerra mondiale” (Ivi).
L’affermazione di un capitalismo finanziario ha poi semplificato le forme di accumulazione.
Come fatto globale e con il suo progressivo distacco dall’economia reale, come ho anticipato nel
mio libro sul capitalismo (C. Mongardini, Capitalismo e politica nell’era della globalizzazione,
Milano, F. Angeli, 2007), esso ha riproposto la tesi di Marx, secondo cui l’accumulazione del
capitale privato porterebbe ad una concentrazione sempre più consistente di ricchezza e potere in
poche mani. La questione della ripartizione delle ricchezze che ne consegue è perciò “troppo
importante per essere lasciata ai soli economisti, sociologi, storici e altri filosofi. Essa interessa
tutti…….”. Ciascuno “dal posto di osservazione che occupa, vede cose importanti sulle condizioni di
vita degli uni e degli altri, sui rapporti di potere e di dominio tra gruppi sociali, e si forma la propria
concezione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è” (p.17). Vale a dire qui si formano le idee e le
scelte politiche, qui si creano gli orientamenti sui quali si giudica l’azione di un governo.
Allora anche l’assetto globale dello sviluppo economico entra in discussione. L’Europa di
oggi, questa Europa culla del capitalismo, non riduce la tendenza alla crescita delle diseguaglianze
perché manca di un ordine politico capace di controllare e regolare i processi di accumulazione del
capitale. Gli errori di rotta dell’Europa incentivano anziché limitare la dissoluzione di un ordine
democratico e liberale. Aver creato “una moneta senza Stato e una Banca Centrale senza governo”
ha dato vita a una forma di anarchia senza limiti che favorisce e incrementa i grandi capitali privati.
Al contrario, scrive Piketty, l’unione monetaria avrebbe dovuto condurre naturalmente a una
unione politica, fiscale, di bilancio, una unione progressivamente più stretta e politicamente
uniformata. L’uscita da questa prospettiva e la visione inerte delle banche centrali hanno mandato
in frantumi la politica monetaria e evidenziato la totale incapacità di azione della struttura
istituzionale europea proprio mentre, a seguito della crisi del 2008, “tutti hanno riscoperto il ruolo
cruciale di queste istituzioni nel caso di una grave crisi” (p.912).
Particolarmente grave questa crisi si è manifestata nell’Europa del Sud, dove l’impossibilità
di manovre monetarie non ha permesso ai singoli Stati di svalutare la moneta per ristabilire la
competitività e rilanciare l’attività economica. Ciò “ha bloccato l’economia e favorito la
speculazione sui tassi di interesse in una misura tale che basta un momento di panico per creare
movimenti di grandissima portata” (p.915). La politica monetaria dei paesi del mediterraneo ha
bisogno di maggiore elasticità e non può essere vincolata al carro di altri senza esserne succube
economicamente e politicamente. Così in mancanza di una struttura politica di bilancio e di
equilibrio “è difficile immaginare una soluzione durevole alla crisi della zona euro”. La necessità di
sopravvivere da parte degli Stati finisce col gravare sul debito pubblico “che in questa epoca è
costato molto caro alle finanze pubbliche”. Ridurre questo debito idealmente si può “con un
prelievo progressivo e eccezionale sul capitale privato o, in mancanza, con l’inflazione” ma questo
“richiede tuttavia un parlamento sovrano e un dibattito democratico” (p.933). Nelle relazioni con
l’UE è evidente per lo Stato la necessità di rinegoziare la propria autonomia finanziaria. O, per altro
verso, come è stato scritto recentemente, la funzione dello Stato “si reinventa con più Europa” per
garantire le compensazioni dell’ordine democratico (v. Guido Rossi in “Il Sole24Ore”,21.9.2014).
Tuttavia non può esistere una democrazia anche economica “senza una reale trasparenza
contabile e finanziaria e senza una informazione condivisa”. E questa trasparenza “non è
semplicemente una questione fiscale ma egualmente e soprattutto una questione di governo
democratico e di partecipazione alle decisioni” (pp. 938-39).
Piketty è un giovane economista ma il successo del suo libro e le discussioni, che esso ha
sollevato e solleverà ancora, testimoniano che egli ha toccato uno dei nodi essenziali per
comprendere lo sviluppo attuale del capitalismo, ha centrato il complesso problema sociale e
politico di una realtà ora guidata e controllata da una economia finanziaria in cui il denaro vende e
compra solo se stesso non dovendo poi rendere conto a nessuno. Il libro farà ancora molto
discutere e resta certamente un punto di riferimento per nuovi studi sul capitalismo.
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