Il trattato di pace italiano

annuncio pubblicitario
Il trattato di pace italiano
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
di Antonio Varsori
La questione del trattato di pace, siglato nel
febbraio 1947, influenza ampiamente la politica
estera di Roma e il ruolo internazionale dell’Ita­
lia tra la fase conclusiva della seconda guerra
mondiale e i primi anni cinquanta.
Col procedere della guerra, sia gli esiliati antifa­
scisti che taluni ambienti conservatori (la mo­
narchia, i capi delle Forze Armate, alcuni circo­
li vaticani) si resero conto ben presto che la pa­
ce imposta dalle potenze vincitrici avrebbe pe­
santemente influito non solo sulla posizione in­
ternazionale dell’Italia, ma anche sui suoi equi­
libri interni. La caduta di Mussolini e le trattati­
ve per l’armistizio furono anche la conseguenza
delle speranze nutrite dalla monarchia di riusci­
re a evitare una pace punitiva grazie al rovescia­
mento delle alleanze.
La fine del conflitto evidenzia le difficoltà della
posizione internazionale dell’Italia, soprattutto
per quanto riguarda le questioni territoriali. Le
speranze di Roma parvero appuntarsi sugli Sta­
ti Uniti, mentre la Gran Bretagna fu sovente
considerata ostile alle rivendicazioni italiane.
Le clausole del trattato di pace parvero confer­
mare i peggiori timori di Roma, e il governo e
la pubblica opinione espressero forti risenti­
menti per l’atteggiamento dell’Unione Sovietica
e, soprattutto, della Gran Bretagna.
La firma del trattato di pace lasciava d’altro
canto aperti tutta una serie di problemi gravi,
dal futuro di Trieste alla sorte delle ex colonie,
che sarebbero stati risolti solo tra la fine degli
anni quaranta e l’inizio del decennio successivo.
Facendo buon uso delle fonti archivistiche,
l’autore appunta la sua attenzione sui rapporti
tra Italia e Gran Bretagna, sottolineando il fat­
to che il trattato di pace provocò tra Londra e
Roma una specie di piccola ‘guerra fredda’ che
durò fino alla metà degli anni cinquanta.
Italia contemporanea”, marzo 1991, n. 182
The question o f the Peace Treaty, signed in Fe­
bruary 1947, largely influenced Rome’s foreign
policy and Italy’s international role between the
last stage o f World War II and the early 1950s.
As the war went on, both the anti-Fascist exiles
and some conservative groups (the Monarchy,
the leaders o f the Armed Forces, some Vatican
circles) soon realised that the peace, which was
likely to be imposed by the victorius powers,
would have deeply influenced, not only Rome’s
international position, but also the internal po­
litical balance. Mussolini’s overthrow and the
armistice negotiations were also the consequen­
ces o f the hopes nurtured by the Monarchy to
be able to avoid, through a reversal o f allian­
ces, a punitive peace.
The end o f the conflict stressed the difficulties
o f Italy’s international position, in particular as
far as territorial questions were concerned. Ro­
me’s hopes seemed to focus on the United Sta­
tes, while Britain was often regarded as hostile
to Italy’s claims. The clauses o f the peace treaty
appeared to confirm Rome’s worst fears and
the Italian government and public opinion dee­
ply resented the attitude o f the Soviet Union
and, in particular, o f Great Britain.
The signature o f the peace treaty on the other
hand left unsettled a series o f serious problems,
from the future o f Trieste, to the fate o f the
former colonies, which were destined to be sol­
ved only between the late 1940s and the early
1950s.
Making good use o f archival sources, the au­
thor focuses his attention on the relations bet­
ween Italy and Britain, stressing the fact that
the Peace Treaty issue originated a sort o f mi­
nor ‘cold war’ between London and Rome,
which lasted till the mid-1950s.
28
Antonio Varsori
Introduzione
Nel noto discorso, tenuto alla conferenza
della pace di Parigi il 10 agosto 1946 di fron­
te ai rappresentanti delle nazioni vincitrici, il
presidente del Consiglio e ministro degli
Esteri italiano, Alcide De Gasperi, tra l’altro
affermava: “dei 78 articoli del trattato [di
pace italiano] la più parte corrisponde [...]
alla guerra fascista e alla resa: nessuno [alla]
cobelligeranza”. E il leader democristiano
proseguendo dichiarava: “il carattere puniti­
vo del trattato risulta anche dalle clausole
territoriali”1. De Gasperi denunciava quindi
la durezza della clausole economiche e,
quanto agli aspetti militari del documento,
sosteneva tra l’altro:
Basti qui riaffermare che la flotta italiana, dopo
essersi data tutta alla cobelligeranza e aver opera­
to in favore della causa comune per tre anni e fi­
no a tutt’oggi sotto propria bandiera agli ordini
del Comando supremo del Mediterraneo, non
può oggi, per ovvie ragioni morali e giuridiche,
venir trattata come bottino di guerra2.
L’appello, ancora pieno di accenti di spe­
ranza, lanciato da De Gasperi al termine del
suo discorso, non riusciva a celare la pro­
fonda delusione italiana nei confronti del
documento che i vincitori, in particolare i
quattro “grandi”, stavano per elaborare nel­
la forma definitiva. Le parole del leader de­
mocristiano sintetizzavano al contempo al­
cune fra le caratteristiche della posizione as­
sunta dalle autorità di Roma nei riguardi del
trattato, nonché la centralità che esso rive­
stiva per la politica estera e per la definizio­
ne del ruolo internazionale della nuova de­
mocrazia italiana. Sulla questione del tratta­
to di pace si concentravano non solo l’atten­
zione del governo e della diplomazia italiani,
ma anche l’interesse e i sentimenti di larghi
settori dell’opinione pubblica, ai cui occhi la
sorte delle colonie, della Venezia Giulia, o
della flotta, apparivano spesso altrettanto
importanti quanto la ricostruzione economi­
ca o il futuro politico della penisola. Il trat­
tato di pace, firmato il 10 febbraio 1947 e
ratificato dall’Assemblea costituente il 31
luglio dello stesso anno, lasciava d’altronde
insolute alcune questioni, dalla sistemazione
delle ex colonie a quella di Trieste, che
avrebbero condizionato per lungo tempo
l’azione internazionale di Roma.
Come queste brevi considerazioni lasciano
facilmente intendere, il tema della posizione
italiana nei riguardi del trattato di pace rap­
presenta argomento complesso, nel cui am­
bito interagirono numerosi ‘attori’ e variabi­
li di ordine interno e internazionale in un ar­
co di tempo particolarmente ampio. Nel
contesto di questo contributo l’analisi non
può dunque risultare che sintetica e in qual­
che modo incompleta. L’attenzione si è con­
centrata su una serie di eventi e di prese di
posizione ritenuti particolarmente significa­
tivi, nel tentativo di dare risposta ad alcuni
dei non pochi interrogativi di carattere sto­
riografico che questo tema d’indagine sem­
bra porre agli studiosi. Si è cercato in ma­
niera specifica di individuare quale fu l’at­
teggiamento italiano verso le principali que­
stioni poste dal trattato e come si sviluppò il
rapporto tra le posizioni dei vincitori, fra lo­
ro spesso differenziate, e la politica estera
formulata dall’Italia uscita dal ventennio fa ­
scista. Non sono state infine trascurate,
nei limiti del possibile, le conseguenze che
l’elaborazione del trattato di pace italiano
ebbe sulle relazioni bilaterali tra Roma e
Londra.
Come è noto, solo di recente è apparso
uno studio di carattere complessivo sul trat­
1 II testo di questo discorso, ad esempio, in Giuseppe Brusasca, Un uomo solo in difesa dell’Italia, Roma, Movi­
mento anziani della Democrazia cristiana, 1985, pp. 9-16.
2 G. Brusasca, Un uomo solo, cit., p. 15.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
tato di pace italiano3. Negli ultimi anni, co­
munque, è apparsa una serie di significativi
lavori su aspetti specifici della pace italiana:
dai volumi di Diego De Castro, Giampaolo
Valdevit e Antonio Giulio De Robertis sulla
questione giuliana4, all’opera di Giovanni
Bernardi sulla flotta5, a quelle di Gianluigi
Rossi e di Angelo Del Boca sulle colonie6, ai
contributi di Anthony E. Elcock e Enrico
Serra7, per non citare il meno recente volu­
me di Mario Toscano, sull’Alto Adige8, a
29
quelli dello stesso Serra sul contenzioso itaio-francese9, alle valutazioni di Roberto Morozzo della Rocca sulle riparazioni verso
l’Urss10, alle ricerche ài Ilaria Poggiolini e di
E. Timothy Smith sull’atteggiamento ameri­
cano11, agli ormai numerosi contributi di na­
tura più generale sulla politica estera italiana
fra la caduta del fascismo e il dopoguerra, di
studiosi quali, fra gli altri, Elena Aga Rossi,
Ennio Di Nolfo, Brunello Vigezzi12. Tale
produzione storiografica, nonché la disponi-
3 Cfr., ad ogni modo, Basilio Cialdea e Maria Vismara (a cura di), Documenti della pace italiana, Roma, Edizioni
politica estera, 1947; Giuseppe Vedovato, Il trattato di pace con l ’Italia, Firenze, Leonardo, 1947, e B. Cialdea,
L ’Italia e il trattato di pace, in Marco Bonanni (a cura di), La politica estera della repubblica italiana, vol. II, Mila­
no, Comunità, 1968, pp. 349-418. Cfr. infine il recente volume di Ilaria Poggiolini, La diplomazia della transizio­
ne. Gli alleati e il problema del trattato di pace italiano, Firenze, Ponte delle Grazie, 1990.
4 Antonio Giulio M. De Robertis, La frontiera orientale italiana nella diplomazia della II guerra mondiale, Napoli,
Edizioni scientifiche italiane, 1982; Id., Le grandi potenze e il confine giuliano 1941-1947, Bari, Fratelli Laterza,
1983; Diego De Castro, La questione di Trieste. L ’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Trieste,
Lint, 2 voli., 1981; Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto loca­
le, Milano, Angeli, 1986. Vanno ricordati inoltre i meno recenti: Jean-Baptiste Duroseile, Le conflit de Trieste
1943-1954, Bruxelles, Institut de Sociologie de TUniversité Libre de Bruxelles, 1966; Bogdan C. Novak, Trieste
1941-1954. The Ethnic, Political and Ideological Struggle, Chicago, The University of Chicago Press, 1970; nonché
il recente contributo di Robert G. Rabel, Between East and West: Trieste, the Unitet States and the Cold War,
1943-1954, Durham, Duke University Press, 1988.
5 Giovanni Bernardi, La Marina, gli armistizi e il trattalo di pace, Roma, Stato Maggiore della Marina, 1979. Cir­
ca le clausole militari in generale cfr. le interessanti pagine in Leopoldo Nuti, L ’esercito italiano nel secondo dopo­
guerra 1945-1950, Roma, Stato Maggiore Esercito - Ufficio Storico, 1989, pp. 83-110.
6 Gianluigi Rossi, L ’Africa italiana verso l ’indipendenza (1941-1949), Milano, Giuffrè, 1980; Angelo Del Boca, Gli ita­
liani in Africa orientale, vol. IV, Roma-Bari, Laterza, 1984; Id., Gli italiani in Libia, vol. II, Bari-Roma, Laterza, 1988.
7 Anthony E. Elcock, The History o f the South Tyrol Question, London, Michael Joseph, 1970; Enrico Serra (a
cura di), L ’accordo De Gasperi-Gruber nei documenti diplomatici italiani ed austriaci, Trento, Regione autonoma
Trentino Alto Adige, sd.
8 Mario Toscano, Storia diplomatica della questione dell’A lto Adige, Bari, Laterza, 1968. In proposito andrebbero
inoltre ricordati i recenti lavori in lingua tedesca di R. Steininger.
9 Enrico Serra, La diplomazia italiana e la ripresa dei rapporti con la Francia (1943-1945), vol. II, in J.-B. Duroselle e E. Serra (a cura di), Italia e Francia 1939-1945, Milano, Ispi-Angeli, 1984. Cfr. inoltre Pierre Guillen, Les rivendications territoriales françaises contre l ’Italie à la fin de la seconde guerre mondiale, in Aa.Vv., Enjeux et puis­
sances. Pour une histoire des relations internationales au X X siècle, Paris, Publications de la Sorbonne, 1986, pp.
271-282.
10 Roberto Morozzo Della Rocca, La politica estera italiana e l ’Unione Sovietica (1944-1948), Roma, La Goliardi­
ca, 1985, p. 175 sgg.; nonché Id., Le relazioni economiche italo-sovietiche nel dopoguerra (1945-1948), “Storia del­
le relazioni internazionali”, 1989, n. 1, pp. 79-96. Cfr. inoltre le osservazioni in Salvatore Sechi, Tra neutralismo ed
equidistanza: la politica estera italiana verso l’Urss 1944-1948, “Storia contemporanea”, 1987, n. 4, pp. 665-712.
11 Ilaria Poggiolini, Gli americani e la politica estera di De Gasperi. Quale pace per l ’Italia?, in Ennio Di Nolfo,
Romain H. Rainero, Brunello Vigezzi (a cura di), L ’Italia e la politica di potenza in Europa (1945-1950), Milano,
Marzorati, 1988, pp. 635-654; E. Timothy Smith, From Disarmament to Rearmament: The United States and the
Revision o f the Italian Peace Treaty o f 1947, “Diplomatic History”, voi. 13 (1989) n. 3, pp. 359-382.
12 Cfr., ad esempio, i contributi di questi autori in Josef Becker e Franz Knipping (a cura di), Power in Europe?
Great Britain, France, Italy and Germany in a Postwar World 1945-1950, Berlin-New York, W. de Gruyter, 1986.
Più in generale cfr. E. Di Nolfo, R.H. Rainero, B. Vigezzi (a cura di), L ’Italia, cit.; nonché H. Woller (a cura di),
Italien und die Grofimachie 1943-1949, München, Oldenbourg, 1988.
30
Antonio Varsori
bilità di fonti documentarie inedite prove­
nienti da vari archivi hanno rappresentato
fondamentali punti di riferimento per la pre­
sente indagine.
Quale sorte per l’Italia?
Con il coinvolgimento nel secondo conflitto
mondiale la posizione della penisola nel futu­
ro assetto postbellico si pose in primo luogo
all’attenzione delle autorità inglesi. Tra la fi­
ne del 1940 e gli inizi del 1941 le gravi scon­
fitte militari italiane (da Taranto, alla Gre­
cia, all’Africa settentrionale) parvero con­
vincere Londra della possibilità che l’Italia
uscisse rapidamente dal conflitto attraverso
una pace separata. In quei mesi alcuni orga­
nismi britannici, dal Foreign Office allo Spe­
cial Operations Executive, si mostrarono in­
teressati a individuare l’interlocutore italiano
con cui negoziare la fine delle ostilità. Le
stesse disfatte italiane, il protrarsi e l’ina­
sprirsi della guerra, il sempre più stretto lega­
me fra Roma e Berlino convinsero gli inglesi
che l’Italia non era più un attore indipenden­
te, bensì un semplice satellite del Terzo
Reich. Non solo, Londra scopriva come l’I­
talia non fosse mai stata neppure “the least
o f the great powers”, ma un elemento mino­
re e ampiamente sopravvalutato del panora­
ma internazionale. La penisola divenne così
un mero oggetto della politica estera britan­
nica, per quanto un oggetto importante per il
suo situarsi nel Mediterraneo, principale tea­
tro di operazioni militari e tradizionale ambi­
to di influenza politica per Londra. Se tale
era la valutazione della posizione dell’Italia,
risultò ovvio per gli inglesi considerare la pe­
nisola come elemento di scambio nei rappor­
ti con gli stati e gli altri vari interlocutori po­
litici in questa area, basti pensare alle pro­
messe, seppur vaghe, di modifiche territoria­
li a favore della Jugoslavia o quelle di auto­
nomia nei confronti dei senussi della Cirenai­
ca. Risultava inoltre altrettanto ‘naturale’ ri­
tenere di poter privare l’Italia di quegli ele­
menti che Roma aveva considerato essenziali
per il suo ruolo di grande potenza, in parti­
colare l’impero coloniale, per ridurla a quel­
la più modesta funzione che il paese aveva
svolto subito dopo l’unificazione. Tale pro­
spettiva andava a vantaggio diretto di Lon­
dra, la quale avrebbe potuto rafforzare le
proprie posizioni nel Mediterraneo, nel Me­
dio Oriente e in Africa13. Né va trascurata la
spinta emotiva, largamente presente nell’opi­
nione pubblica inglese, al ridimensionamen­
to di una nazione che tanti fastidi aveva crea­
to agli interessi imperiali britannici sin dagli
anni trenta e che si era comportata slealmen­
te aggredendo la Francia e la Gran Bretagna
nel giugno del 194014. Londra si qualificava
dunque come attore principale nell’elabora­
zione della futura pace con l’Italia15. Né l’in­
gresso in guerra deH’Unione Sovietica e degli
Stati Uniti parvero modificare sensibilmente
questo scenario, almeno sino allo sbarco in
13 Cfr. Antonio Varsori, L ’atteggiamento britannico verso l ’Italia (1940-1943): alle origini della politica punitiva,
in Aa.Vv., 1944 Salerno capitale. Istituzioni e società, a cura di Augusto Placanica, Napoli, Esi, 1986, pp. 137-159.
14 Cfr., ad esempio, l’osservazione nei diari di Sir Alexander Cadogan, sottosegretario permanente al Foreign Offi­
ce, subito dopo la dichiarazione di guerra italiana, in David Dilks (a cura di), The Diaries o f Sir Alexander Cado­
gan 1938-1945, London, Cassell, 1971, p. 210. Gli umori ostili all’Italia e agli italiani trovano riflesso inoltre negli
interventi di alcuni parlamentari alla Camera dei Comuni. Cfr., ad esempio, Parliamentary Debates o f the House
o f Commons, Hansards, voi. 378, col. 1481 (interrogazione di Mr. Mander); vol 379, col. 61 (interrogazione di Mr.
Adams), col. 597-598 (interrogazione di Miss E. Rathbone); voi. 382, col. 1187 (interrogazione di Sir A. Southly),
voi. 389, col. 1081-1082 (interrogazione del cap. Gammons).
15 Per l’evoluzione della posizione inglese cfr. anche Sir Llewellyn Woodward, British Foreign Policy in the Second
World War, vol. II, London, H.M .S.O., 1971, pp. 461-468.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
Sicilia. Se i sovietici apparivano ancora lonta­
ni dall’ambito mediterraneo, le autorità ame­
ricane, che pur nutrivano dubbi sull’emergere nella capitale inglese del concetto di pace
punitiva, non sembrarono contestare seria­
mente le tesi britanniche e si limitarono a at­
tenuare gli effetti di tale scelta sulla propa­
ganda alleata verso la penisola16.
Il tipo di pace che i vincitori avrebbero im­
posto all’Italia e il ruolo centrale che Londra
sembrava destinata ad avere furono due ele­
menti che si presentarono ben presto all’at­
tenzione degli italiani. I primi ad affrontare
tale questione furono quegli antifascisti che,
esuli negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, po­
tevano disporre di informazioni sull’evolu­
zione della politica alleata e erano in grado di
far sentire liberamente la loro voce. Attive, in
particolare in Nord America, furono perso­
nalità quali: Carlo Sforza, Alberto Tarchiani, Gaetano Salvemini, Randolfo Pacciardi,
Luigi Sturzo. Loro obiettivo comune, seppur
con ovvie e non marginali diversità di accenti,
per ciò che concerneva l’ambito internazio­
nale, era la restaurazione nel periodo postbel­
lico dell’Italia come elemento non di secondo
piano. Un’Italia che fosse stata liberata dal
fascismo e che avesse riacquistato istituzioni
democratiche non avrebbe dovuto, a loro
giudizio, subire una pace punitiva; al contra­
rio, avrebbe dovuto mantenere il ruolo di po­
tenza regionale nei due tradizionali ambiti
della politica estera del paese, l’Europa e il
31
Mediterraneo, rinunciando sì alle ambizioni
mussoliniane, ma non certo alle funzioni con­
quistate prima del 1922 dall’Italia liberale.
Queste valutazioni erano influenzate anche
da significative considerazioni di carattere
politico interno: un’Italia umiliata al tavolo
della pace sarebbe stata facilmente preda di
pericolosi contraccolpi di natura nazionalista
o rivoluzionaria, né gli esuli antifascisti, che
si proponevano quali leader dell’Italia libera­
ta da Mussolini, potevano presentarsi all’opi­
nione pubblica del paese condizionati, se non
asserviti, agli interessi dei futuri vincitori17.
Numerosi sintomi fecero ben presto ritenere
agli esponenti dell’emigrazione antifascista
che le intenzioni degli alleati, in particolare di
Londra, verso la penisola non fossero bene­
vole — Salvemini ad esempio parlò dell’in­
tenzione inglese di trasformare l’Italia in una
“colonia”18. A questo punto la strategia degli
esuli si diversificò. Da una parte personalità,
quali Salvemini e Pacciardi, persa ogni fidu­
cia nelle autorità alleate, si dedicarono al ten­
tativo di influenzare i settori liberals delle
opinioni pubbliche americana e inglese al fine
di sconfiggere quelle che venivano definite le
mire imperialiste dei tories britannici19. Dal­
l’altra, Sforza, Tarchiani e altri puntarono su
una strategia più cauta, che si fondava sul­
l’opportunità di convincere le autorità inglesi
circa l’inutilità di ‘punire’ l’Italia e, soprat­
tutto, sull’instaurazione di un rapporto privi­
legiato con i responsabili americani allo sco-
16 In proposito si rimanda, in particolare, a: David W. Ellwood, L ’alleato nemico. La politica dell’occupazione an­
glo-americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977; Elena Aga Rossi, La politica degli Alleati verso l'Italia
nel 1943, ora in Id., L ’Italia nella sconfitta: politica interna e situazione internazionale durante la seconda guerra
mondiale, Napoli, Esi, 1985, pp. 67-124.
17 Sull’azione degli esuli antifascisti negli Stati Uniti cfr., ad esempio, Aa.Vv., L ’antifascismo italiano negli Stati
Uniti durante la seconda guerra mondiale, Roma, Archivio trimestrale, 1984; sugli emigrati in Gran Bretagna cfr.
Nicola Oddati, Carlo Petrone: un cattolico in esilio 1939-1944, Roma, Cinque Lune, 1980.
18 In una lettera a Ernesto Rossi del dicembre del 1944 Gaetano Salvemini scriveva: “L’Italia non è più che una sfe­
ra di influenza inglese, una colonia inglese, una seconda Irlanda”. Cit. in G. Salvemini, Lettere dall’America 19441946, a cura di Alberto Merola, Bari, Laterza, 1967, p. 62. Salvemini aveva espresso opinioni simili sin dal 1941.
Per la posizione dello storico di Harvard cfr. G. Salvemini, L ’Italia vista dall’America, a cura di Enzo Tagliacozzo,
Milano, Feltrinelli, 1969.
19 Cfr. in proposito Alessandra Baldini - Paolo Palma, Gli antifascisti italiani in America 1942-1944, Firenze, Le
Monnier, 1990.
32
Antonio Varsori
po di opporre la politica ‘democratica’ e anti­
fascista di Washington alle mire ‘tradiziona­
li’ di Londra20.
In realtà l’influenza degli esuli sulle scelte
alleate fu molto scarsa. Essi infatti non com­
presero che il futuro dell’Italia rappresentava
per gli inglesi e gli americani solo un elemento
in un più ampio e complesso contesto inter­
nazionale. E nemmeno risultò chiaro all’emi­
grazione antifascista come l’allargarsi del
conflitto agli Stati Uniti e all’Unione Sovieti­
ca avesse situato la definizione della pace con
Roma in un futuro ancora lontano, lasciando
al momento ampio spazio a considerazioni di
natura militare. Non si colse infine come lo
spirito punitivo che animava Londra non
rappresentasse la conseguenza delle ambizio­
ni imperialiste di Churchill, dei conservatori
o dei militari, bensì il risultato di una medita­
ta scelta di politica estera, sostenuta da forti
convinzioni psicologiche largamente diffuse
tra l’opinione pubblica inglese21.
Se gli esuli antifascisti furono, fra gli italia­
ni, i primi a preoccuparsi dell’assetto postbel­
lico della penisola, essi furono seguiti, con la
seconda metà del 1942, da quei gruppi sociali
e politici, che, pur avendo collaborato con
Mussolini e il fascismo, compresero rapida­
mente, dopo El Alamein e Stalingrado, che la
vittoria finale sarebbe arrisa alla “grande al­
leanza”. Esponenti della famiglia reale, dei
vertici delle forze armate, del mondo economico-finanziario, della Santa Sede e dello
stesso partito fascista, colsero l’esigenza di
far uscire la nazione dalla guerra22. Compien­
do un’ennesima generalizzazione, si può so­
stenere che obiettivo di questi gruppi e di que­
ste personalità era la negoziazione di una pace
separata o persino di un rovesciamento di al­
leanze. A tal fine essi erano disposti a offrire
l’allontanamento di Mussolini dal potere, l’a­
bolizione degli aspetti più imbarazzanti del
regime fascista, la fine dell’alleanza con la
Germania e, in prospettiva, la collaborazione
con gli alleati. In cambio contavano di ottene­
re termini di pace, che, nel contesto interno,
preservassero precisi equilibri sociali e istitu­
zionali, sul piano internazionale garantissero
per l’Italia un ruolo di grande potenza. A que­
sto proposito ci si spinse a ipotizzare il mante­
nimento di alcune delle conquiste territoriali
conseguite dal fascismo23. Quanto all’interlo­
cutore, i gruppi conservatori italiani ritenne­
ro di individuare nella Gran Bretagna la po­
tenza più interessata alle questioni mediterra­
nee e europee — quindi al futuro dell’Italia —
nonché più sensibile ai richiami per la ricosti­
tuzione, da un lato, della ‘tradizionale’ amici­
zia fra Roma e Londra, dall’altro al rinnovar­
si dei legami fra ambienti e personalità ostili a
qualsiasi ipotesi di rivolgimenti radicali. Co­
me dimenticare in proposito gli apprezzamen­
ti espressi da Churchill negli anni venti e tren­
ta verso i ‘meriti’ del fascismo? Tra l’autunno
del 1942 e la tarda primavera del 1943 si susse­
guirono così sondaggi di pace italiani, più o
meno cauti, più o meno autorevoli, in direzio­
ne della capitale britannica24. Il calcolo di per-
20 A. Varsori, Gli Alleati e l'emigrazione democratica antifascista (1940-1943), Firenze, Sansoni, 1982.
21 Cfr. le fonti cit. alle note da 16 a 20.
22 Cfr. in particolare Mario Toscano, Dal 25 luglio all’8 settembre, Firenze, Le Monnier, 1966, in particolare i ca­
pitoli I e III. Ora cfr. anche Renzo De Felice, Mussolini l ’alleato, I, L'Italia in guerra 1940-1943, Torino, Einaudi,
1990, in particolare tomo II, cap. V, nonché la documentazione in I documenti diplomatici italiani, Serie IX, voi.
IV, Roma, 1990.
23 Cfr., ad esempio l’anonimo messaggio pervenuto attraverso il consolato italiano di Tangeri. Cfr. la documenta­
zione in Public Record Office (Pro), Foreign Office 371 (Fo 371), R 4302/168/22. Trascrizioni di documenti del
Public Record Office, soggetti a “Crown Copyright” , appaiono con il consenso del Sovrintendente del Her Maje­
sty’s Stationery Office (H.M.S.O.).
24 Cfr. A. Varsori, Italy, Britain and the Problem o f a Separate Peace during the Second World War: 1940-1943,
“The Journal of Italian History”, vol. 1 (1978) n. 3, pp. 455-491; nonché Richard Lamb, The Ghosts o f Peace
1935-1945, Salisbury, Michael Russell, 1987, pp. 147-190.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
sonaggi, quali Pietro Badoglio, la principes­
sa Maria José, il duca Aimone d’Aosta, ec­
cetera, si rivelò però errato. Non si compre­
se in primo luogo come Londra non potesse
negoziare autonomamente da Washington e
da Mosca e che, inoltre, all’interno della
“grande alleanza” sembrava ormai prevalere
la tendenza a rimandare alla conclusione
delle ostilità, e a una trattativa globale, gli
assetti postbellici, e quindi anche il futuro
dell’Italia. Né si capì che nella capitale ingle­
se non esisteva alcuna volontà di negoziare,
in particolare alle condizioni così elevate e
ben poco realistiche poste dagli italiani. Nel­
la visione di Anthony Eden e del Foreign
Office l’Italia non era che un paese, il quale
doveva essere al più presto “knocked out”
dalla guerra attraverso i bombardamenti e
un attacco diretto, nonché, in una prospetti­
va di più lungo periodo, un oggetto della
strategia imperiale britannica25. Nei riguardi
dei gruppi conservatori italiani, come dell’e­
migrazione antifascista — i possibili interlo­
cutori per una pace separata — non vi era a
Londra che sospetto o disprezzo26, in ogni
caso nessuna fiducia che tali gruppi o perso­
nalità potessero svolgere una reale funzione
nell’Italia del dopoguerra27.
Come constatato, la sorte dell’Italia si in­
trecciava comunque strettamente ai contra­
sti fra Londra e Washington circa le scelte
strategiche alleate, nonché al non facile
evolversi dei rapporti fra angloamericani e
sovietici. Non è scopo di questo saggio inda­
gare su questi complessi aspetti, oggetto
33
d’altronde di altri studi28; basti qui ricordare
come nel dibattito fra gli Stati Uniti e la
Gran Bretagna, Londra riuscisse a imporre,
ma solo in una prospettiva di breve periodo,
la propria strategia ‘periferica’ e mediterra­
nea, basata sulla rapida eliminazione dell’I­
talia dalla guerra attraverso lo sbarco in Si­
cilia (operazione “Husky”), mentre gli ame­
ricani erano in grado di affermare il concet­
to della prevalenza delle esigenze militari —
e della responsabilità del comandante di tea­
tro — su quelle politiche29. Al contempo
Londra e Washington non potevano trascu­
rare le preoccupazioni sovietiche circa le in­
tenzioni anglosassoni, favorendo così l’ela­
borazione della nota dichiarazione di Casa­
blanca del gennaio 1943 sull’ “unconditio­
nal surrender” , dichiarazione dalla quale l’I­
talia non poteva essere esclusa. Da questa
presa di posizione angloamericana, dalla
scelta di rinviare qualsiasi decisione sul do­
poguerra a un accordo generale tra i tre
“grandi”, dalla prevalenza dei militari sui
politici nella gestione dell’operazione “Hu­
sky” ebbe origine l’ipotesi della soluzione
armistiziale, quale strumento atto a fronteg­
giare l’eventuale uscita dell’Italia dal con­
flitto, in particolare il cosiddetto armistizio
“corto”, firmato a Cassibile il 3 settembre.
Al contempo, però, sia allo scopo di restare
fedeli al concetto di “resa incondizionata”,
sia, per Londra, di preservare i mezzi con
cui imporre in futuro all’Italia una pace pu­
nitiva, venne elaborato il cosiddetto armisti­
zio “lungo” , siglato a Malta il 29 settem-
25 Cfr. L. Woodward, British Foreign Policy, cit., L’atteggiamento inglese trova piena espressione, ad esempio, in
Pro, Fo 371, R 7549/3700/22, memorandum “Position of Italy”, 18 novembre 1942; nonché Prem 3, 242/19, mi­
nuta, A. Eden a W. Churchill, 17 febbraio 1943.
26 Di fronte a uno dei numerosi sondaggi di pace italiani, un funzionario del Foreign Office commentava: “ The
Italians are showing remarkable persistence. In fact, all the rats are doing their best to get clear”. In Pro, Fo 371, R
8117/3700/22, minuta di D. Laskey, 30 novembre 1942.
27 Cfr. le fonti citate alla nota 25.
28 Cfr. le relazioni di Sir David Hunt e E. Aga Rossi tenute al colloquio di Londra su “Le relazioni anglo-italiane
durante la seconda guerra mondiale” (25-27 settembre 1990), “Italia Contemporanea”, 1990, n. 181, p. 827.
29 Su questi temi, oltre al già citato lavoro di D.W. Ellwood, cfr. l’importante contributo di Bruno Arcidiacono,
Le “précédent italien” et les origines de la guerre froide. Les Alliés et l ’occupation de l ’Italie 1943-1944, Bruxelles,
Bruylant, 1984, in particolare i capitoli I e II.
34
Antonio Varsori
bre30. Questi documenti, in particolare il se­
condo, non rispondevano certo alle speranze
che avevano animato Vittorio Emanuele III
e Badoglio nel rovesciare Mussolini e, in se­
guito, nelFavviare e nel condurre in porto le
trattative con gli angloamericani tra il luglio
e il settembre. Con tutta probabilità il re e il
suo nuovo primo ministro avevano mirato,
non solo a staccare l’Italia dall’alleanza con
la Germania e a salvaguardare la monarchia
e le altre tradizionali strutture della società
italiana, ma anche a recuperare per il paese
uno spazio di manovra in campo internazio­
nale, che preludesse alla reintegrazione del­
l’Italia nel ruolo di potenza di primo ran­
go31. A questo proposito essi per qualche
tempo ritennero possibile avviare un nego­
ziato con gli alleati offrendo un’eventuale
partecipazione italiana allo sforzo bellico
angloamericano anche in cambio di una pa­
ce non punitiva. La firma dell’armistizio e
l’entrata in vigore del regime armistiziale
rappresentarono dunque per i responsabili
del Regno del Sud un profondo trauma.
Nell’autunno del 1943 risultava evidente, a
dispetto della dichiarazione di guerra italia­
na alla Germania e della conseguente cobel­
ligeranza, non solo che la realizzazione della
pace tra i vincitori e l’Italia si allontanava
nel tempo, ma che tale pace, almeno a giudi­
care dal testo dell’armistizio “lungo” e dal­
l’atteggiamento degli alleati, in particolare
degli inglesi, sarebbe stata dura e ispirata a
una volontà punitiva32.
La situazione derivante nella parte libera­
ta della penisola dalla presenza del Governo
militare alleato e della Commissione alleata
di controllo, gli eventi militari connessi alla
campagna d’Italia, la ripresa del dibattito
politico, sviluppantesi intorno a problemi di
particolare rilievo (la questione istituzionale,
i rapporti fra i partiti antifascisti, ecc.), l’in­
certezza degli equilibri interni parvero atte­
nuare, ma solo per breve tempo, l’attenzio­
ne di parte italiana dalla questione del futu­
ro trattato di pace. Riapparve rapidamente
infatti sia fra le forze conservatrici, sia al­
l’interno dei partiti antifascisti, la speranza
che il paese potesse evitare, in tutto o in par­
te, la punizione che alcune fra le potenze al­
leate parevano voler imporre. La monarchia
e i suoi sostenitori, nonché alcuni settori del
corpo diplomatico, avevano alfine compreso
che il futuro della penisola non sarebbe sta­
to deciso solo da Londra, bensì attraverso
un accordo fra i tre “grandi” . L’Italia pote­
va perciò sfruttare i caratteri ‘innaturali’ di
un’alleanza che vedeva affiancate una po­
tenza democratica e anticolonialista, quale
gli Stati Uniti, a una grande democrazia, che
era anche il più vasto e potente impero colo­
niale, come la Gran Bretagna, a una nazio­
ne, quale l’Unione Sovietica, che aveva da
sempre per principale obiettivo la lotta al ca­
pitalismo e aH’imperialismo. Si cercò dun­
que di giocare le contraddizioni oggettive e
le rivalità più o meno latenti fra i “grandi”,
sia per rafforzare la posizione dei Savoia e
per salvare quei gruppi o quelle personalità
già complici del fascismo, sia per far riac­
quistare al paese un più ampio margine di
manovra in campo internazionale, allonta-
30 Oltre agli studi di D.W. Ellwood, E. Aga Rossi e B. Arcidiacono cfr. Albert N. Garland e Howard M. Smyth,
Sicily and the Surrender o f Italy, Washington, Office of the Chief of Military History, 1965. Importanti valutazio­
ni anche in L. Woodward, British Foreign Policy, cit., pp. 468-500.
31 Sull’uscita dell’Italia dal conflitto cfr., nell’ambito dell’ampia produzione esistente, l’ancora interessante Rugge­
ro Zangrandi, L ’Italia tradita - 8 settembre 1943, Milano, Garzanti, 1974. Cfr. inoltre Aa.Vv., Otto settembre
1943. L ’armistizio italiano 40 anni dopo. A tti del convegno internazionale (Milano, 7-8 settembre 1983), Roma,
S.M. Esercito - Ufficio Storico, 1985. Cfr. ora R. De Felice, Mussolini, cit.
32 Per le prime reazioni di Badoglio cfr., ad esempio, le annotazioni in Harold Macmillan, The War Diaries. The
Mediterranean 1943-1945, London, Macmillan, 1984, pp. 233-244.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
nando tra l’altro la prospettiva di una pace
punitiva. Fu in tale ambito che si inserirono
da un lato i contatti con le autorità americane,
ritenute maggiormente ben disposte verso l’I­
talia e il popolo italiano33, dall’altro lato l’a­
zione del segretario generale del ministero de­
gli Esteri, Renato Prunas, azione che avrebbe
favorito agli inizi della primavera del 1944 il
riconoscimento diplomatico del governo Ba­
doglio da parte dell’Unione Sovietica34. Né
vanno trascurate le ripetute pressioni sui re­
sponsabili angloamericani per un ammorbidi­
mento delle clausole armistiziali, quale primo
passo verso una pace non punitiva35.
Anche le forze antifasciste, nella loro aspi­
razione ad assumere la guida della nazione al­
la fine del conflitto, non potevano trascurare
la questione del futuro trattato di pace, ma
parvero riporre gran parte delle loro speranze
nel carattere antifascista e democratico della
guerra condotta dagli alleati. Esse confidava­
no così nei meriti acquisiti agli occhi degli an- '
gloamericani attraverso la cobelligeranza, o
meglio attraverso la lotta partigiana, nonché
nella prospettiva di una radicale trasformazio­
ne politica e sociale della penisola: a un’Italia
democratica e antifascista, che avesse almeno
in parte conquistato la propria libertà, i vinci­
tori, soprattutto i sovietici e gli americani, in
apparenza portatori di nuovi ideali anche nel
contesto delle relazioni internazionali, non
avrebbero potuto imporre una pace punitiva36.
Ben pochi italiani parvero comprendere
35
che la stessa evoluzione politico-militare del
conflitto condannava il paese a subire un du­
ro trattamento alla conferenza della pace. In
primo luogo va ricordato l’allargarsi e il raf­
forzarsi del fronte dei vincitori. Il rinato go­
verno francese non poteva certo dimenticare
il “poignard dans le dos” del giugno 1940 e la
necessità di recuperare lo status di grande po­
tenza induceva la Francia gollista a cercare
‘facili’ rivalse su un nemico apparentemente
debole, quale l’Italia37. Il movimento parti­
giano di Tito coniugava la lotta al fascismo
con le tradizionali aspirazioni jugoslave di re­
vanche nei confronti della sistemazione terri­
toriale derivante dagli accordi del 1920 e del
192438. Né mancavano di trovare espressione
le ambizioni greche sul Dodecaneso39 e quelle
etiopiche sull’Eritrea40. Quanto all’Unione
Sovietica, dopo l’episodio del riconoscimen­
to diplomatico del governo Badoglio, accet­
tato per il momento il prevalere degli interessi
angloamericani nella penisola, aveva scarso
rilievo e ben poca utilità l’assumere un atteg­
giamento benevolo nei riguardi di Roma41.
Restavano a questo punto la Gran Bretagna e
gli Stati Uniti, entrambi direttamente coin­
volti nelle vicende italiane. Londra, soprat­
tutto di fronte all’emergere di un forte partito
comunista nella penisola, si era posta il pro­
blema di come conciliare la volontà punitiva
con l’esigenza di rafforzare le posizioni delle
personalità e dei gruppi moderati italiani, fos­
sero essi rappresentati da Badoglio dapprima,
33 Sui rapporti tra le autorità americane e il Regno del Sud cfr. James E. Miller, The United States and Italy 19401950. The Politics and Diplomacy o f Stabilization, Chapel Hill/London, The University of North Carolina Press,
1986, in particolare i capitoli II e III.
34 E. Di Nolfo, La svolta di Salerno come problema internazionale, “Storia delle relazioni internazionali”, 1985, n.
1, pp. 5-28.
35 In proposito si rimanda ai saggi già citati di D.W. Ellwood, B. Arcidiacono, J.E. Miller e E. Aga Rossi.
36 Per la posizione degli antifascisti si rimanda alle considerazioni espresse ad esempio da Giovanni De Luna nei
suoi lavori sul Partito d’azione, di Paolo Spriano, sul partito comunista, ecc.
37 Cfr. E. Serra, La diplomazia italiana, cit., e P. Guillen, Les rivendications territoriales, cit., passim.
38 In proposito si rimanda agli studi di D. De Castro, A.G. De Robertis e G. Valdevit.
39 Un primo interessamento greco verso il Dodecaneso era stato mostrato fin dal 1941; cfr. Pro, Fo 371, R 8726/117/
22, minuta di Sir A. Cadogan, 28 settembre 1941 intorno a una conversazione con il ministro di Grecia a Londra.
40 G. Rossi, L ’Africa italiana, cit., pp. 7-9.
41 R. Morozzo Della Rocca, La politica estera italiana, cit., pp. 51-55.
36
Antonio Varsori
da Bonomi in seguito. In tale ambito era stato
anche preso in considerazione il progetto di
concludere con l’Italia un trattato di pace an­
ticipato rispetto alle altre nazioni dell’Asse,
quale dimostrazione della benevolenza bri­
tannica verso l’Italia. Ma questo piano si
scontrò con la necessità, in qualche modo ri­
tenuta improrogabile, di mantenere i vantag­
gi concreti derivanti dalla prospettiva di ‘pu­
nire’ l’Italia42. Non solo, nella pianificazione
britannica degli equilibri postbellici, in parti­
colare per ciò che concerneva le questioni ter­
ritoriali, venivano date per possibili alcune
serie amputazioni: dai possedimenti africani
al Dodecaneso, alla Venezia Giulia, al Sud
Tirolo forse. L’ipotesi di pace con l’Italia, re­
sa nota a Washington, venne quindi rapida­
mente abbandonata e quando, anzi, gli Stati
Uniti parvero tornare, tra la fine del 1944 e gli
inizi del 1945, su questo progetto, fu proprio
Londra a opporsi a una sua realizzazione,
perché, sulla base delle intenzioni inglesi, tale
trattato sarebbe stato in ogni modo conside­
rato punitivo dagli italiani43. Gli Stati Uniti,
da parte loro, per gran parte del 1944 parvero
disinteressarsi del problema del futuro tratta­
to di pace con l’Italia, rinviando tale questio­
ne al dopoguerra nel contesto di una più ge­
nerale sistemazione dei problemi mondiali
fra i tre “grandi” . Washington preferì con­
centrare la propria attenzione sull’attenua­
zione di alcune clausole armistiziali e su inter­
venti ad hoc a favore di Roma, in particolare
nel settore economico44. Il progetto per la ra­
pida conclusione di un trattato di pace con
l’Italia, ripreso dagli americani, come consta­
tato, venne respinto dagli inglesi.
Con la primavera del 1945 si giungeva al
termine delle ostilità in Europa, qualche mese
più tardi il conflitto aveva fine anche in Estre­
mo Oriente. Si apriva la non facile fase della
determinazione degli equilibri postbellici,
che, nell’opinione dei vincitori, avrebbero
dovuto trovare espressione attraverso la re­
dazione di una serie di trattati di pace.
L’Italia e il trattato di pace
Alcuni episodi verificatisi negli ultimi giorni
del conflitto avrebbero dovuto rappresentare
un campanello d’allarme per le autorità ita­
liane circa le intenzioni dei vincitori al tavolo
della pace. Tra l’aprile e il maggio del 1945,
da un lato le truppe di Tito completavano
l’occupazione della Venezia Giulia, dall’altro
le forze golliste cercavano di occupare la Val­
le d’Aosta e alcune aree del Piemonte45. Di
fronte alle ferme proteste del presidente del
Consiglio Ivanoe Bonomi e del ministro degli
Esteri De Gasperi46, gli angloamericani impo­
nevano ai francesi lo sgombero dei territori
nordoccidentali occupati, mentre, per ciò che
concerneva il confine orientale, Tito veniva
costretto ad abbandonare Trieste.
L’azione di Londra e di Washington dovet-
42 Cfr. l’interessante e documentato saggio di B. Arcidiacono, La Gran Bretagna e il “pericolo comunista" in Ita­
lia: gestazione, nascita e primo sviluppo di una percezione (1943-1944), “Storia delle relazioni internazionali” ,
1985, n. 1, pp. 29-65, n. 2, pp. 239-266. Sulla politica britannica cfr. Giustino Filippone-Thaulero, La Gran Breta­
gna e l ’Italia dalla conferenza di Mosca a Potsdam (1943-1945), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979.
43 Sull’evoluzione della posizione inglese a proposito di un trattato di pace anticipato cfr. L. Woodward, British
Foreign Policy, cit., vol. Ill, London, H.M .S.O., 1971, pp. 440-489. Sintomatiche dell’atteggiamento di Londra
erano le affermazioni del vicesottosegretario permanente al Foreign Office, Sir O.G. Sargent, il quale nel maggio
del 1945 scriveva: “ we want to show that aggression do not pay but once Italy has made ju st amendments we do
not want to humiliate or weaken her unduly. We hope to restore her to the position o f a second class power”. Cfr.
Pro, Fo 371, ZM 2838/1/22, minuta, Sir O.G. Sargent a A. Eden, 18 maggio 1945.
44 Cfr. J.E. Miller, The United States and Italy, cit., pp. 96-187.
45 In proposito si rimada ai lavori più volte citati di De Castro, Valdevit, Serra, Guillen, ecc.
46 Per un esempio delle rimostranze italiane cfr., ad esempio, Archivio Storico Ministero Affari Esteri (Asmae),
Ambasciata di Londra (AL), b. 1278, fase. 1: tel n. 2284/C, A. De Gasped (Mae) a Londra, 4 maggio 1945.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
te trarre in inganno le autorità di Roma, che
con tutta probabilità ritennero di contare
sulla benevolenza anglosassone47. In effetti
la presa di posizione angloamericana nei
confronti di Belgrado rispondeva solo in mi­
nima parte a preoccupazioni per il futuro ter­
ritoriale dell’Italia e nasceva soprattutto dal­
l’esigenza di confermare che significative va­
riazioni di confine sarebbero state decise dai
“grandi”, nonché dal desiderio occidentale
di negare Trieste, porto e nodo strategico
particolarmente importante, a un alleato
sempre più inaffidabile e legato a Mosca48.
Quanto all’atteggiamento negativo verso le
pretese francesi, esso aveva prevalentemente
origine nella scarsa simpatia di Washington
nei riguardi di De Gaulle e delle sue ambizio­
ni49.
Nelle settimane immediatamente successi­
ve la liberazione e la fine del conflitto i re­
sponsabili italiani parvero dedicare minore
attenzione al problema del futuro della peni­
sola anche perché il paese appariva ripiegato
su se stesso, alle prese con gravi e complessi
problemi interni: dalle difficoltà economiche
alla smobilitazione delle forze partigiane, al­
la restaurazione dell’autorità dello Stato, al
dibattito fra i partiti, al passaggio dei poteri
da Bonomi a Ferruccio Parri50. Sintomo di
questa fase di incertezza nell’azione interna­
zionale dell’Italia era quanto affermato dal
37
rappresentante diplomatico a Londra, Nico­
lò Carandini, il quale, nel suo diario, alla da­
ta del 1° maggio, registrava:
le mie informazioni, richieste, avvertimenti ecc.
dove vanno a finire? A volte sono desolato per
questa spaventosa mancanza di reazione, di sensi­
bilità, di contatto. [...] Da Roma non ricevo né un
soldo per mantenere l’ambasciata, né una linea
direttiva, né una risposta tempestiva ed aderente
alle mie comunicazioni. Finanziariamente vivo a
credito di qualche amico locale, politicamente
faccio credito a me stesso51.
La questione dei trattati di pace veniva af­
frontata al contrario dai vincitori in maniera
diretta durante la conferenza di Potsdam. In
tale occasione ci si limitò comunque a deci­
dere l’istituzione di un Consiglio dei ministri
degli Esteri, che si sarebbe occupato dell’ela­
borazione dei trattati con i satelliti della Ger­
mania: Finlandia, Ungheria, Bulgaria, Ro­
mania e Italia. L’Unione Sovietica avanzò
inoltre la richiesta di riparazioni nei confron­
ti di Roma. Nella dichiarazione conclusiva
dell’incontro la penisola, ad ogni modo, non
veniva posta sullo stesso piano delle altre
quattro nazioni già alleate di Berlino. Si rico­
nosceva infatti come l’Italia fosse stata il pri­
mo satellite del Reich a uscire dal conflitto,
nonché come essa avesse contribuito allo
sforzo di guerra alleato52. Questa presa di
posizione, alcune dichiarazioni pubbliche fa-
47 Cfr., ad esempio, le valutazioni in Asmae, AL, b. 1278, fase. 1, lett. n. 2155, N. Carandini (Londra) a A. De Ga­
speri, 25 maggio 1945 e tei. n. 310/291, N. Carandini (Londra) a Mae, 8 giugno 1945.
48 Pro, Fo 371, Zm 2872/1/22, minuta di F.R. Hoyer-Millar, 10 maggio 1945.
49 Sulle posizioni americane cfr., ad esempio, Foreign Relations of the United States (Frus), 1945, IV, Europe,
Washington, Us Government Printing Office, 1968, pp. 691-697, 698-699.
50 Sull’evoluzione della situazione interna cfr., fra gli altri, Enzo Piscitelli, Da Parri e De Gasperi, Storia del dopo­
guerra, Milano, Feltrinelli, 1975; Antonio Gambino, Storia del dopoguerra dalla liberazione al potere DC, RomaBari, Laterza, 1975; E. Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1945), Milano, Mondadori, 1986.
51 G. Filippone-Thaulero (a cura di), Diario aprile/giugno 1945 di Nicolò Carandini (III), “Nuova Antologia”, fa­
se. 2146, aprile/giugno 1983, p. 179. Le precedenti parti dell’interessante diario di Carandini in “Nuova Antolo­
gia”, fase. 2144, ottobre/dicembre 1982 e fase. 2145, gennaio/marzo 1983.
52 In proposito cfr. United States and Italy 1936-1946 Documentary Record, Washington, Us Government Printing
Office, 1946, pp. 160-162. Su Potsdam si rimanda alla documentazione reperibile in Frus, 1945, The Conference o f
Berlin (Potsdam), Washington, Us Government Printing Office, 1960; nonché Documents on British Policy Over­
seas, S.I., vol. I, The Conference at Potsdam. July-August 1945, London, H.M .S.O., 1986.
38
Antonio Varsori
vorevoli all’Italia rilasciate dal presidente
americano Harry Truman, nonché l’avvici­
narsi della prima riunione del Consiglio dei
ministri degli Esteri, previsto per settembre
a Londra, convinsero le autorità di Roma
dell’opportunità di assumere una posizione
precisa in merito al trattato di pace, in parti­
colare agli aspetti di carattere territoriale, in
apparenza i più gravi e pressanti. L’atteggia­
mento italiano trovò espressione non a caso
in una comunicazione di De Gasperi al se­
gretario di Stato americano, James F. Byr­
nes, confermando come a Roma gli Stati
Uniti venissero ormai ritenuti gli interlocu­
tori più sensibili alle esigenze e alle tesi ita­
liane. In questo documento per prima cosa il
leader democristiano ricordava il contributo
italiano alla causa alleata, nonché i tradizio­
nali legami fra Roma e Washington e la fi­
ducia italiana nella politica americana. La
cobelligeranza e la riacquistata democrazia
erano dunque due elementi fondamentali
delle argomentazioni italiane. Si passava poi
all’esame di questioni concrete. Quanto al
confine orientale, Roma suggeriva l’applica­
zione della cosiddetta “linea Wilson”, pro­
posta dal presidente statunitense nel 1919.
In proposito si ricordava come questa solu­
zione avrebbe lasciato alla Jugoslavia città
‘italiane’, quali Fiume e Zara, e si richiede­
vano quindi precise garanzie per gli italiani
che sarebbero rimasti entro i confini jugo­
slavi. Per ciò che concerneva le frontiere set­
tentrionali del paese e il futuro dell’Alto
Adige, si sosteneva l’opportunità del mante­
nimento del confine esistente sulla base di
considerazioni economiche (la presenza di
importanti fonti di energia idroelettrica per
l’industria della pianura Padana) e politiche
(l’adesione di parte della popolazione sudti­
rolese al nazismo). Si esaminava poi il pro­
blema della frontiera con la Francia e in me­
rito si accettava la prospettiva di alcune mi­
53
nori rettifiche, per quanto si respingessero le
pretese di Parigi su Tenda e su Briga. Per
ciò che concerneva il Dodecaneso, Roma si
dichiarava pronta a cedere le isole dell’Egeo
alla Grecia, a condizione che venissero sal­
vaguardati i diritti e le proprietà dei residen­
ti italiani. Ben più complessa era la questio­
ne del futuro delle colonie. L’Italia, ovvia­
mente, si riferiva solo ai possedimenti prefa­
scisti: in tale ambito però De Gasperi riven­
dicava la piena sovranità sulla Libia e sul­
l’Eritrea, dimostrandosi pronto ad accettare
l’ipotesi di un’amministrazione fiduciaria
sulla Somalia e a concedere ai vincitori ga­
ranzie di natura militare in Cirenaica. Era
significativo come il ministro degli Esteri af­
fermasse tra l’altro:
Non ho seguito la tattica tradizionale di creare
delle tesi massime, dalle quali arretrare poi su al­
tre tesi possibile; ho preferito ammettere senz’al­
tro francamente i sacrifici che il dovere ci detta di
fare e accennare alle condizioni che ci sembrano
necessarie per rendere possibile al popolo itaiano
di divenire un efficace collaboratore del nuovo
assetto mondiale secondo giustizia53.
In effetti le tesi di De Gasperi, assunte quale
limite delle concessioni possibili, nonché la
situazione esistente, rendevano la posizione
italiana, almeno per quanto concerneva gli
aspetti territoriali, estremamente debole.
Roma rivendicava infatti la sovranità su ter­
ritori, quali ad esempio i possedimenti afri­
cani o gran parte della Venezia Giulia, or­
mai sottratti al controllo italiano e che, per
evidenti ragioni, i vincitori difficilmente
avrebbero restituito. Il tema della cobellige­
ranza e della rinascita democratica non po­
teva inoltre cancellare del tutto l’aggressione
mussoliniana e tre anni di guerra a fianco
della Germania. Né andavano trascurati il
riemergere di vecchie ambizioni nazionaliste
e di mai sopite aspirazioni di ‘prestigio’,
nonché l’evidente contrasto fra il desiderio
Il testo del documento in United States, cit., pp. 165-170.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
di applicare il criterio di nazionalità a propo­
sito del confine giuliano e il proposito di ne­
garlo nei confronti del Sud Tirolo.
La conferenza dei ministri degli Esteri di
Londra del settembre 1945 si chiuse, come è
noto, con un insuccesso. I contrasti fra gli oc­
cidentali, la Gran Bretagna in particolare, da
un lato, e l’Unione Sovietica, dall’altro, si
manifestarono in maniera aperta. Le questio­
ni italiane furono affrontate in modo generi­
co, ma lo spirito punitivo che animava alcune
fra le grandi potenze vincitrici trovò espres­
sione, ad esempio nella richiesta sovietica di
un mandato sulla Libia, ipotesi fermamente
respinta dai britannici, non certo sulla base
delle tesi italiane, bensì degli interessi di Lon­
dra, la quale, a sua volta, dimostrava chiara­
mente le proprie ambizioni nei confronti del­
l’ex impero italiano in Africa545.
La sensazione che l’elaborazione di un trat­
tato di pace fosse obiettivo di non facile rea­
lizzazione e la conferma circa le intenzioni
ben poco benevole delle potenze vittoriose
verso le aspirazioni di Roma rappresentarono
una forte delusione per le autorità italiane. In
proposito era significativo quanto affermato
da Prunas alla fine di settembre in un collo­
quio con un funzionario dell’ambasciata in­
glese a Roma. Secondo quanto riferito a Lon­
dra dal diplomatico inglese:
39
[Prunas] was in a very depressed mood. [...] Si­
gnor Prunas said he had the feeling that Italy was
without friends and that it was almost impossible
fo r her to secure support fo r her case. Roumania,
Bulgaria, and Hungary were strongly backed by
Russia who on the other hand was showing herself
to be actively hostile towards Italy. American sta­
tesmen made friendly speeches but appeared to gi­
ve Italy no active support. He could not under­
stand why it was not appreciated in Britain how
useful the friendship o f a people o f 45 million in
the geographical position o f Italy could be to her
or how much Italy desired that friendship.
E si proseguiva:
Signor Prunas said that persons in high political
circles with whom he had spoken recently — he
mentioned the names ofParri, Bonomi, and Sfor­
za — were very discouraged. They all fear moral
repercussions in Italy o f what they are now afraid
will be a punitive peace?5.
Nelle settimane che seguirono la conferen­
za svoltasi nella capitale inglese le autorità
italiane parvero ad ogni modo soprattutto
preoccupate della possibilità che i contrasti
tra i “grandi” conducessero a uno stallo nella
situazione italiana, prolungando la condizio­
ne della penisola quale nazione nemica scon­
fitta, occupata da truppe straniere e sottopo­
sta alle clausole armistiziali. Per qualche tem­
po dunque il governo di Roma, con tutta pro-
54 Su questo episodio cfr. Alan Bullock, Ernest Bevin Foreign Secretary 1945-1951, London, Heinemann, 1984,
pp. 129-130. Sulla posizione britannica e sull’interesse nei confronti della Cirenaica e della Somalia cfr. Pro, Cab
129/1, memorandum C.P. (45)162, “Disposal o f the Italian Colonies and o f the Italian Mediterranean Islands”, 10
settembre 1945, secret. Per la diversa valutazione del Primo Ministro, che appariva scettico circa la validità delle
aspirazioni inglesi cfr. memorandum C.P. (45)144 “Future o f the Italian Colonies” di Clement R. Attlee, 1 settem­
bre 1945, secret.
55 Pro, Fo 371, ZM 5565/1/22, tel. n. 1495, Mr. Hopkinson (Roma) al Foreign Office, 27 settembre 1945. [“(Pru­
nas) si trovava in uno stato d ’animo profondamente depresso (...) Il signor Prunas ha sostenuto di ritenere che l’I­
talia fosse senza alcun amico e che fosse quasi impossibile per questa ottenere un sostegno alla sua causa. La Ro­
mania, la Bulgaria e l’Ungheria erano fortemente appoggiate dalla Russia, la quale d ’altro lato si stava mostrando
attivamente ostile verso l’Italia. Gli statisti americani rilasciavano dichiarazioni amichevoli ma sembravano non of­
frire all’Italia alcun concreto sostegno. Egli non riusciva a comprendere perché in Gran Bretagna non si apprezzas­
se quanto potesse risultare utile per Londra l’amicizia di un popolo di 45 milioni di abitanti nella posizione geogra­
fica dell’Italia e quanto l’Italia desiderasse tale amicizia” . “Il Signor Prunas ha dichiarato che persone in importan­
ti settori politici con le quali aveva parlato di recente — egli ha menzionato i nomi di Parri, Bonomi e Sforza —
erano profondamente deluse. Tutti temono le conseguenze morali in Italia di quella che ora hanno paura sarà una
pace punitiva” (T.d.a.).]
40
Antonio Varsori
habilité anche sotto la spinta dell’atteggia­
mento assunto dalle autorità americane, con­
centrò la propria attenzione sulla possibilità
di giungere a una rapida e radicale revisione
dell’armistizio, non trascurando inoltre l’i­
potesi che Londra e Washington finissero
con il concludere una qualche pace con l’Ita­
lia, indipendentemente dalla sorte riservata
agli altri satelliti della Germania56. Per quan­
to in maniera più cauta e generica l’Italia
non mancò di esercitare in questo stesso pe­
riodo pressioni anche sulle altre nazioni vit­
toriose, in particolare l’Unione Sovietica e la
Francia, al fine di rendere note le propri te­
si57.
Gli sforzi di Roma risultarono in gran par­
te vani, sia perché la diplomazia italiana si
trovò ad agire quasi totalmente all’oscuro
delle effettive intenzioni dei vincitori, sia
perché la difficile situazione interna acuiva la
già debole posizione del paese sul piano in­
ternazionale, sottolineandone la completa
dipendenza dalla volontà degli alleati. Questi
ultimi d’altronde continuavano a mostrare la
loro intenzione di considerare e trattare l’Ita­
lia alla stregua di una nazione nemica scon­
fitta. I pur crescenti contrasti tra Est e Ovest
non si erano ancora trasformati in aperta
“guerra fredda” e prevaleva la convinzione
che fosse opportuno giungere a una qualche
soluzione di compromesso circa gli assetti del
vecchio continente. Questa esigenza non era
assente a Washington — l’unica capitale che
era parsa considerare con qualche attenzione
le richieste italiane — e gran parte delle ne­
cessità di Roma risultavano perciò sacrifica­
bili di fronte all’obiettivo del mantenimento
di rapporti non conflittuali con l’Unione So­
vietica58.
Nel dicembre del 1945 i ministri degli Este­
ri della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e
dell’Urss si riunivano a Mosca. Era, questa,
una delle ultime occasioni di accordo fra i tre
“grandi”59. Il principale elemento di com­
promesso fu appunto la decisione di convo­
care al più presto a Parigi una riunione della
conferenza dei ministri degli Esteri allo sco­
po di redigere i trattati di pace con i cinque
satelliti della Germania. Nel comunicato fi­
nale dell’incontro l’Italia veniva ora posta
sullo stesso piano della Finlandia, della Ro­
mania, della Bulgaria e dell’Ungheria60. Il
governo di Roma comprese come tale scelta
fosse di cattivo auspicio e fece sentire la pro­
pria protesta, soprattutto a Washington e a
Londra, raccogliendo comunque dai rappre­
sentanti occidentali generiche dichiarazioni
di buona volontà e di comprensione61.
Per quanto la prima metà del 1946 vedesse
impegnata la classe politica italiana nella so­
luzione di gravi problemi interni, fra cui la
questione istituzionale e l’inasprirsi della cri­
si economica62, De Gasperi, che da poco ave­
va sostituito Parri nella carica di presidente
56 Cfr. in proposito la documentazione in Frus, 1945, IV, p. 1057 sgg. , ad esempio la nota verbale dell’ambascia­
tore a Washington, Alberto Tarchiani, a James F. Byrnes, consegnata a Dean Acheson, 16 ottobre 1945 (pp. 10691070). Cfr. I. Poggiolini Diplomazia, cit.
57 Cfr. S. Sechi, Tra neutralismo ed equidistanza, cit., pp. 679-680; E. Serra, La diplomazia italiana, cit., pp. 227234.
58 Sulla politica estera americana in questo periodo si rimanda a E. Aga Rossi (a cura di), Gli Stati Uniti e le origini
della guerra fredda, Bologna, il Mulino, 1984, con la bibliografia ivi contenuta; nonché Daniel H. Yergin, Shatte­
red Peace, London, Penguin Books, 1980; John L. Gaddis, Strategies o f Containment, Oxford, Oxford University
Press, 1982; Id., The Long Peace, Oxford, Oxford University Press, 1987, in particolare i capitoli 2, 3 e 6.
79 Su questa conferenza cfr., ad esempio, la documentazione in Documents on British Policy Overseas, S.I., vol.
II, Conferences and Conversations 1945: London, Washington and Moscow, London, H.M .S.O., 1985.
60 United States and Italy, cit., pp. 194-196.
61 Pro, Fo 371, ZM 295/1/22, dispaccio n. 26, Sir Noel Charles (Roma) a Ernest Bevin, 10 gennaio 1946; nonché
Frus, 1945, IV, pp. 1100-1102.
62 Cfr. le fonti cit. alla nota 50.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
del Consiglio, mantenendo quella di mini­
stro degli Esteri, nonché la diplomazia ita­
liana si impegnarono con particolare vigore
nei confronti della questione del trattato di
pace sia prima, sia dopo l’apertura della
conferenza di Parigi, avvenuta in aprile.
L’azione di Roma, pur basandosi in larga
parte sugli assunti espressi ad esempio nella
lettera di De Gasperi a Byrnes dell’agosto
precedente, parve diversificarsi a seconda
degli interlocutori a cui essa era rivolta. Par­
ticolare attenzione fu dedicata alle posizioni
degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, non
solo perché si continuava a sperare in una
maggiore sensibilità di queste due potenze,
soprattutto la prima, verso le tesi italiane,
ma anche perché la politica estera di Roma
era ormai largamente nelle mani di persona­
lità moderate, le quali contavano sull’ ‘ov­
via’ propensione delle due maggiori nazioni
dell’occidente a non trascurare gli appelli di
coloro che, nella penisola, si qualificavano
quali potenziali alleati di Washington e di
Londra nel crescente contrasto con l’Unione
Sovietica. Quanto all’amministrazione Tru­
man, le autorità italiane si mossero in modo
da sollecitare gli americani affinché dessero
contenuto alla conclamata buona volontà
degli Stati Uniti verso Roma. Va comunque
notato come l’azione italiana risultasse so­
vente frustrata dall’apparente contradditto­
rietà della posizione statunitense. Se da un
lato alcuni ambienti americani, ad esempio
settori della stampa e la comunità di origine
italiana, non mancavano di incoraggiare
Roma nelle sue speranze, dall’altro Byrnes e
il Dipartimento di Stato apparivano arren­
devoli di fronte alle richieste delle altre na­
zioni vincitrici. Tale atteggiamento, che ri­
spondeva al legame esistente tra il trattato di
pace italiano e la più generale questione del­
41
la politica di Washington verso l’Unione So­
vietica, non poteva non creare disorienta­
mento e frustrazione fra i responsabili di pa­
lazzo Chigi. Era significativo che Pietro
Quaroni, allora ambasciatore a Mosca, scri­
vesse, alla vigilia della sessione di Parigi del
Consiglio dei ministri degli Esteri, che:
“ [L’Jesperienza fin qui fatta ha mostrato
che essi [gli americani] sono leoni a Wa­
shington e pecore a[lla] conferenza”63.
Per ciò che concerneva l’atteggiamento di
Londra, esso risultava più chiaro e lineare,
per quanto meno favorevole alle aspirazioni
di Roma. Nei rapporti con gli inglesi gli ita­
liani non trascuravano di illustrare le pro­
prie tesi su ciascuna delle questioni derivanti
dalla redazione del trattato anche per l’in­
fluenza che, a giudizio delle autorità italia­
ne, la Gran Bretagna esercitava rispetto agli
altri vincitori. Roma non trascurava come
truppe inglesi fossero presenti a Trieste, co­
me l’impero africano dipendesse da un’am­
ministrazione militare britannica e come
Londra esercitasse un’importante funzione
di controllo nei riguardi della flotta italiana.
De Gasperi e palazzo Chigi comprendevano
ormai chiaramente come gli inglesi appun­
tassero precise mire sui possedimenti colo­
niali italiani, mentre risultava evidente una
qualche evoluzione nelle posizioni di Londra
verso Tito, che trovava espressione in una
crescente sfiducia nei riguardi di Belgrado.
Da un lato gli italiani si mostravano dunque
sensibili ad alcune delle esigenze strategiche
e militari inglesi nel Mediterraneo e in Afri­
ca64, dall’altro, per ciò che concerneva il
confine giuliano, sottolineavano l’espansio­
nismo e l’inaffidabilità del nuovo regime ju­
goslavo65. Quanto alla sorte della marina da
guerra italiana, Roma oscillava tra i richia­
mi alla leale cooperazione con la Royal
63 Carte B. Migone (Genova), copia di tel. n. 6762/C, Pietro Quaroni (Mosca) a Mae, 20 aprile 1946.
64 Cfr., ad esempio, la documentazione in Asmae, AL, b. 1300, fase. 1.
65 Cfr., sempre ad esempio, la documentazione in Asmae, AL, b. 1298, fase. 1.
42
Antonio Varsori
Navy tra il 1943 e il 1945 e le larvate minacce
circa la possibilità di un autoaffondamento
delle unità italiane alla stregua della scelta
compiuta dai tedeschi a Scapa Flow dopo il
primo conflitto mondiale66. Una particolare
attenzione fu infine prestata dalle autorità ita­
liane nei confronti dell’atteggiamento inglese
sulla questione altoatesina. A Londra infatti,
soprattutto in alcuni settori dell’opinione pub­
blica, si manifestavano crescenti simpatie per
le richieste del governo austriaco affinché il
Sud Tiralo fosse restituito alla sovranità di
Vienna67. In questo ambito gli italiani parvero
sottolineare nei loro contatti con le autorità in­
glesi, oltre alle motivazioni economiche e poli­
tiche che avrebbero giustificato il manteni­
mento dello status quo, le simpatie mostrate
dai sudtirolesi nei confronti del nazismo68.
Una caratteristica che accomunava l’atteg­
giamento di De Gasperi e dei diplomatici ita­
liani verso Washington e Londra era il tenta­
tivo di giocare, in una logica da “guerra fred­
da”, la carta del “pericolo comunista”, fosse
esso interno, fosse esso rappresentato dalle
richieste dell’Unione Sovietica e della Jugo­
slavia69. Nei riguardi della Francia Ro­
ma concentrò l’attenzione sul contenzioso ri­
guardante il confine nordoccidentale, attra­
verso il tentativo di convincere Parigi a rinun­
ciare alle proprie rivendicazioni sulla base
della loro sostanziale inutilità e dell’opportu­
nità di riallacciare la ‘tradizionale’ amicizia
fra le due nazioni ‘latine’70. Minore fu certo
l’impegno profuso nei confronti dell’Unione
Sovietica, ma anche in tale contesto le autori­
tà italiane cercarono di evitare qualsiasi
asprezza polemica, tentando al contrario di
sottolineare come esse indirizzassero le pro­
prie richieste, non solo alle potenze occiden­
tali, bensì ai quattro “grandi” indistintamen­
te, attendendo da ognuno di essi comprensio­
ne per le tesi esposte71.
L’azione italiana non si esaurì nelle attività
di De Gasperi e dei diplomatici. Essa si avval­
se anche dell’operato di varie personalità po­
litiche e di organizzazioni esterne al governo;
né si diresse solo verso i quattro “grandi” e le
loro cancellerie. In proposito basti ricordare
il viaggio compiuto nell’estate del 1946, su in­
vito di De Gasperi, da Sforza in una serie di
paesi dell’America latina allo scopo di ottene­
re il sostegno di questi ultimi alle ragioni ita­
liane72; il tentativo di Paimiro Togliatti, nel­
l’autunno dello stesso anno, di instaurare un
66 Sulle voci di un possibile autoaffondamento delle unità italiane cfr. la documentazione in Pro, Fo 371, ZM
1445/1286/22 e ZM 3615/1286/22.
67 E. Serra (a cura di), L ’accordo De Gasperi-Gruber, cit., pp. 57-58, doc. A. Tarchiani (Washington) a Mae, 8
gennaio 1946. In effetti Londra appariva favorevole all’eventuale cessione della vai Pusteria all’Austria; cfr. Pro,
Fo 371, ZM 1398/1286/22, tei. n. 25 U.K. Del. (Parigi) al Foreign Office, 1 maggio 1946., immediate.
68 Cfr. E. Serra (a cura di), L ’accordo De Gasperi-Gruber, cit., pp. 55-56.
69 Cfr., ad esempio, Pro, Fo 371, ZM 874/1/22, minuta di A.D.M. Ross. In essa si affermava tra l’altro: “Count
Carandini has on several recent occasions hinted that the present Italian Government would be unable to sign a
Peace Treaty o f the kind which they now imagine the Council o f Foreign Ministers to be preparing fo r Italy. Signor
De Gasperi has taken the same line with Sir Noel Charles, adding that the only Party which would sign a ‘p unitive’
Peace would be the Communists”.
70 Questo atteggiamento parve dare qualche risultato con un ammorbidimento delle posizioni di Parigi, ad esem­
pio, sulla questione coloniale e su quella altoatesina. In proposito cfr. P. Guillen, La France et la question du
Haut-Adige (Tyrol du Sud) 1945-1946, “Revue d ’histoire diplomatique”, 1986 n. 3/4, pp. 293-306; Id., Une mena­
ce pour l ’Afrique Française, Paris, Cnrs, 1986, pp. 69-81; Maurice Vaïsse, Georges Bidault ministre des Affaires
Etrangères (1944-1948) et l ’Italie, in J.-B. Duroselle e E. Serra (a cura di), Italia e Francia 1946-1954, Milano IspiAngeli, 1988, pp. 302-303. Sulla questione del confine italo-francese in generale cfr. Gianluigi Ugo, // confine italofrancese. Storia di una frontiera, Milano, Xenia, 1989.
1 Cfr., ad esempio, il resoconto di un colloquio fra Nicolò Carandini e Andrej Vysinskij, in Asmae, AL, b. 1296,
fase. 1, lett., N. Carandini (Londra) a P. Nenni, 7 febbraio 1946.
2 Cfr. Livio Zeno, Ritratto di Carlo Sforza, Firenze, Le Monnier, 1976, pp. 462-466.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
rapporto diretto con Belgrado73; i ripetuti
contatti, infine, di Pietro Nenni con ambienti
laburisti inglesi74. Va infatti ricordato come,
seppur con motivazioni e accenti diversi, tut­
to il mondo politico italiano e gran parte del­
l’opinione pubblica respingessero l’ipotesi di
quella che veniva ormai considerata una pace
punitiva. L’attenzione italiana si concentrava
sulla sorte delle colonie e della Venezia Giu­
lia. A proposito delle prime le residue ambi­
zioni colonialiste si fondevano con la retorica
dell’Africa quale sbocco per la manodopera
italiana e con il mito della missione civilizza­
trice di Roma. Quanto alla seconda, le me­
morie della “grande guerra” e dell’irredenti­
smo si aggiungevano alla realtà della politica
persecutoria della Jugoslavia nei confronti
della comunità italiana. La possibilità di
un’imposizione di riparazioni aggravava i ti­
mori per la ricostruzione economica, mentre
il futuro della flotta preoccupava e indignava
gli ambienti delle forze armate, i cui senti­
menti non potevano essere certo trascurati
dalle forze politiche in un momento partico­
larmente delicato dei rapporti con i vertici
militari, soprattutto a causa dell’evoluzione
della questione istituzionale. Un’eco minore
sembravano avere le rivendicazioni francesi e
la questione altoatesina, ma anche in questi
due casi l’opinione pubblica italiana valutava
come ingiusto l’eventuale accoglimento delle
richieste di Parigi e di Vienna75.
A dispetto dell’intensa attività diplomatica
e di lobbying condotta in patria e all’estero,
nonché dei sentimenti espressi da larga parte
della popolazione, i risultati degli sforzi ita­
liani furono scarsi. La conferenza dei ministri
degli Esteri delle quattro “grandi” potenze
43
(aprile/maggio e giugno/luglio 1946), nonché
la conferenza allargata agli altri paesi vincito­
ri o dei “ventuno” (luglio/ottobre 1946) giun­
sero a una definizione del trattato di pace ita­
liano in senso sfavorevole rispetto alle speran­
ze italiane. Per ciò che concerneva la frontiera
orientale venne accolta una soluzione ben
lontana dalla “linea Wilson”, mentre per
Trieste si dovette ricorrere a un compromesso
— l’istituzione del Territorio libero —, che,
pur non concedendo la città alla Jugoslavia,
continuava a negarla allTtalia. Quanto alle
colonie, sebbene i “grandi” non riuscissero a
elaborare un accordo sul futuro di questi ter­
ritori, Roma era costretta a rinunciare ai pro­
pri diritti su tutti i possedimenti africani,
mentre permanevano le ambizioni britanni­
che in tale ambito, non ostacolate dagli Stati
Uniti. L’Italia doveva inoltre accettare alcune
rettifiche territoriali a favore della Francia.
Dure apparivano le clausole economiche, che
prevedevano riparazioni a favore di alcuni
paesi, fra cui l’Unione Sovietica, e altrettanto
punitive sembravano le clausole militari, le
quali, oltre alla limitazione della consistenza
delle forze armate, a smantellamenti di infra­
strutture militari, ecc., avevano quale punto
di riferimento la sostanziale spartizione di
gran parte della flotta fra le nazioni vincitrici.
Unico punto su cui le tesi italiane trovarono
soddisfazione fu la questione altoatesina per
l’improvviso manifestarsi del favore sovietico
al mantenimento della sovranità italiana sul
Tirolo meridionale, una presa di posizione,
questa, a cui certo Washington e Londra, so­
prattutto quest’ultima, non potevano opporsi
senza incorrere in dure reazioni da parte di
Roma76.
73 Sull’episodio cfr., ad esempio, A. Gambino, Storia del dopoguerra, cit., pp. 249-252.
74 Pietro Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956, a cura di Giuliana Nenni e Domenico Zucaro, Milano,
Sugarco, 1981, pp. 173-177. Cfr. anche Pro, Fo 371, ZM 332/1/22, dispaccio n. 73, F.R. Hoyer Millar (Fo) a Sir
N. Charles (Roma), 28 gennaio 1946.
77 Sull’atteggiamento italiano cfr. le osservazioni in Charles Seton-Watson, Italy’s Imperial Hangover, “Journal of
Contemporary History” , Vol. 15 (1980), pp. 169-179.
76 Quanto alle decisioni prese alla conferenza di Parigi si rimanda alle fonti relative alle singole questioni del tratta­
to, più volte citate.
44
Antonio Varsori
L’atteggiamento dell’opinione pubblica e
della stampa italiana nell’estate del 1946 di
fronte alle notizie provenienti da Parigi fu par­
ticolarmente negativo. Alla delusione per il
trattamento subito dal paese e al mancato rico­
noscimento dei meriti derivanti dalla cobelli­
geranza e dai progressi lungo la strada della
democrazia si affiancarono ben presto le recri­
minazioni e le accuse nei confronti dei vincito­
ri. Se la stampa e i partiti di sinistra parvero at­
tribuire la maggior responsabilità per quanto
deciso nella capitale francese alle mire ‘impe­
rialiste’ delle potenze anglosassoni, il resto dei
giornali e dell’opinione pubblica individuò
nell’Unione Sovietica e, in particolare, nella
Gran Bretagna le artefici dei caratteri punitivi
del futuro trattato, favorendo il riemergere di
sentimenti nazionalisti e antinglesi77.
Le autorità politiche e diplomatiche, da
parte loro, non nascosero la frustrazione e la
delusione, soprattutto nei riguardi degli ame­
ricani per le presunte mancate promesse78. Al
di là di questa iniziale reazione ‘emotiva’, al
governo di Roma si pose ben presto una que­
stione fondamentale: accettare o respingere le
decisioni dei vincitori? Per qualche tempo De
Gasperi e palazzo Chigi sembrarono insistere
sulla durezza del trattato e sulla difficoltà, se
non sull’impossibilità, per le autorità italiane
di firmare un simile documento. Le proteste
italiane si indirizzarono prevalentemente a
Londra e a Washington; non solo, in misura
maggiore di quanto non fosse stato fatto in
precedenza si cercò di confondere esigenze in­
terne e ragioni di politica internazionale, so­
stenendo che l’accettazione di una pace così
dura sarebbe andata a esclusivo vantaggio
delle forze di sinistra. Questa manovra parve
sortire qualche effetto presso gli americani,
ove si pensi all’atteggiamento di simpatia
espresso da Byrnes a De Gasperi in occasione
del discorso tenuto dal leader democristiano a
Parigi il 10 agosto79. In effetti tale presa di po­
sizione non andava al momento oltre i limiti
dell’espressione di una generica buona volon­
tà. Come ha notato James Miller:
[con il trattato di pace] Byrnes had gained basic
American policy objectives. Italy was freed from
the impediments o f the armistice and from the
possibility o f legal Soviet intervention. The bill
fo r reparations was well within the Italian ability
to pay and was so structured that the exactions
had no appreciable effect on Italy’s economy.
Italy lost its economically draining colonial empi­
re and imperial pretensios. [...] Treaty limits on
the size o f Italian defense forces and equipment
kept the cost o f armaments from straining Italy’s
economy [...]. Even the postponement o f a final
decision on Trieste proved a blessing in disguise
fo r the Italians80.
È dubbio che nel 1946 gli italiani potessero
valutare in tale maniera l’azione di Byrnes,
77 Cfr. Pro, Fo 371, ZM 2421/1286/22, tei. n. 1066, Sir N. Charles (Roma) al Foreign Office, 11 luglio 1946, im­
p o r ta n tZM 2451/1286/22, tei. n. 1075, Sir N. Charles (Roma) al Foreign Office, 12 luglio 1946.
78 Cfr. ad esempio le affermazioni di Carandini in Pro, Fo 371, ZM 2348/1/22, minuta di F.R. Hoyer Millar, 4 lu­
glio 1946. In questo documento si affermava: “he (= Carandini) was particularly critical about the way in which
the Americans had time and again promised to help the Italians and had then let them down. He was particulary
rude about Mr. Byrnes".
79 Rosaria Quartararo, Italia e Stati Uniti. Gli anni difficili (1945-1952), Napoli, Esi, 1986, pp. 114-117, circa due
colloqui tra De Gasperi e Byrnes.
80 J.E. Miller, The United States and Italy, cit., p. 204. [“(Con il trattato di pace) Byrnes aveva conseguito alcuni
obiettivi fondamentali della politica americana. L’Italia era stata liberata dagli impedimenti dell’armistizio e dalla
possibilità di una interferenza sovietica legale. Il ‘conto’ per le riparazioni si situava ben all’interno delle possibilità
italiane di farvi fronte ed era strutturato in modo che le esazioni non avevano conseguenze rilevanti sull’economia
italiana. L ’Italia perdeva il suo costoso impero coloniale e le sue ambizioni imperiali (...) I limiti imposti dal tratta­
to alla dimensione delle sue forze armate impediva che i costi degli armamenti provocassero problemi all’economia
italiana (...) Persino il rinvio di una decisione definitiva su Trieste rappresentava una benedizione per quanto non
apparente per gli italiani” (T.d.a.).]
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
ma, al di là della delusione per l’atteggiamento
di Washington, essi non potevano trascurare
come gli Stati Uniti stessero già agendo in fa­
vore della penisola in altri settori, in particola­
re quello economico e, come indica lo stesso
Miller, nel volgere di breve tempo, alla luce
della guerra fredda, i risultati conseguiti da
Byrnes nell’ambito dei trattati di pace sarebbe­
ro stati sottoposti a seria critica dall’opinione
pubblica e dal mondo politico americani81.
L’attenzione per le posizioni americane
non fece dimenticare agli italiani l’azione nei
confronti di Londra, la quale — come già ri­
cordato — si era mostrata ostile alle tesi di
Roma verso le colonie e ben poco sensibile al­
la sorte della Venezia Giulia, del Sud Tirolo e
della flotta. Significativo fu il colloquio che il
15 agosto De Gasperi e Carandini ebbero a
Parigi con il segretario di Stato Ernest Bevin.
Come ebbe modo di riferire a Whitehall il lea­
der laburista:
“Signor De Gasperi went on to say that the demo­
cratic forces in Italy were in a very difficult posi­
tion. If he himself felt unable to sign the Peace
Treaty he knew that Signor Togliatti would suc­
ceed. The ex-satellite states had the Soviet Union
as their friend, but where were the friends of Italy?
If he could not secure some amelioration of the
Peace Treaty he very much feared that he might
not be able to sign”82.
La replica di Bevin non fu particolarmente in­
coraggiante e d’altronde a Londra si riteneva
che nel complesso l’Italia avesse ricevuto un
trattamento equo e che gran parte delle rimo­
stranze di Roma fossero infondate. Le larvate
45
minacce, espresse anche da De Gasperi nel
colloquio con Bevin, circa la possibilità che
l’Italia non siglasse il trattato rappresentava­
no con tutta probabilità meri artifici negozia­
li. Tra l’estate e il tardo autunno del 1946, in
previsione anche di una nuova sessione del
Consiglio dei ministri degli Esteri che si sareb­
be tenuta a novembre a New York, le autorità
italiane si industriarono allo scopo di attenua­
re la versione finale del trattato83. Il risultato
più brillante di questa strategia fu, come è no­
to, l’accordo italo-austriaco di settembre, che
sembrò risolvere in maniera definitiva e sod­
disfacente, soprattutto per l’Italia, la questio­
ne dell’Alto Adige84.
Nell’ottobre del 1946, a seguito di un pree­
sistente accordo fra le forze politiche, il leader
socialista Pietro Nenni sostituiva De Gasperi
alla guida del ministero degli Affari esteri.
Questo evento parve dover segnare un’evolu­
zione nell’atteggiamento di Roma verso il
trattato di pace. Nenni sembrò infatti assu­
mere la responsabilità i palazzo Chigi con la
ferma intenzione di procedere rapidamente
alla firma del documento elaborato dai vinci­
tori, anche allo scopo di far uscire il paese dal­
la condizione di nazione nemica sconfitta.
Una volta riacquistata, anche dal punto di vi­
sta formale, piena libertà d’azione, l’Italia
avrebbe dovuto dar avvio a una ‘nuova’ poli­
tica estera, positiva, fondata sulla conclusio­
ne di una serie di accordi economici con i vin­
citori, su un negoziato diretto con Belgrado
circa Trieste e su una posizione di equidistan­
za nei crescenti contrasti tra Est e Ovest85. A
81 J.E. Miller, The United States and Italy, cit., p. 193.
82 Pro, Fo 371, ZM 2833/1286/22, tei. n. 15 saving, Uk Del. (Parigi) al Foreign Office, 15 agosto 1946. Un sinteti­
co verbale italiano del colloquio in Asmae, AL, b. 1297, fase. 2. [“Il Signor De Gasperi prosegui affermando che le
forze democratiche in Italia si trovavano in una posizione molto difficile. Se egli non fosse stato in grado di firmare
il trattato di pace ben sapeva che l’avrebbe fatto Togliatti. Gli stati ex satelliti potevano contare sull’amicizia del­
l’Unione Sovietica, ma dove erano gli amici dell’Italia? Se non fosse stato in grado di ottenere qualche migliora­
mento del trattato di pace, egli temeva fortemente che non sarebbe stato in grado di firmare” (T.d.a.).]
83 Sull’azione italiana cfr. l’ampia documentazione in Asmae.
84 In proposito si rimanda ai saggi di M. Toscano e A.E. Elcock e alla documentazione raccolta da E. Serra.
85 Per un’interpretazione dell’atteggiamento di Nenni cfr. A. Canavero, Nenni, i socialisti italiani e la politica este­
ra, in E. Di Nolfo, R.H. Rainero, B. Vigezzi (a cura di), L ’Italia e la politica di potenza, cit., pp. 223-251.
46
Antonio Varsori
tal fine anche Nenni contava di far affida­
mento su un interlocutore privilegiato all’in­
terno del gruppo dei “grandi” . Se in tale
ambito De Gasperi aveva da tempo scelto gli
Stati Uniti — e puntava sempre più sulla
comprensione di Washington — il leader del
Psiup (Partito socialista italiano di unità
proletaria) indirizzò il suo interesse verso la
Gran Bretagna laburista, nella convinzione
che tale rapporto sarebbe stato favorito dai
legami esistenti fra partiti socialisti ‘fratelli’
e nella speranza che Londra intendesse svol­
gere un ruolo di mediazione fra gli Stati
Uniti e l’Unione Sovietica. Nenni si pose
dunque quale obiettivo immediato la realiz­
zazione di una missione ufficiale nella capi­
tale britannica, trovando parziale compren­
sione in Bevin e nel Foreign Office. Anche
per l’esponente socialista risultava però dif­
ficile ignorare il trattato di pace, in partico­
lare i riflessi di natura interna e la sua in­
fluenza sugli umori dell’opinione pubblica.
Se Nenni era sì pronto a siglare il documen­
to elaborato dai vincitori, egli era anche ‘co­
stretto’ ad auspicarne e a favorirne una rapi­
da revisione e, alla vigilia della progettata
visita a Londra, il leader del Psiup fece per­
venire alle autorità inglesi alcuni messaggi in
tal senso, in particolare a proposito della
sorte della quota di flotta italiana assegnata
alla Gran Bretagna8687. Nenni non compren­
deva come per gli inglesi il trattato di pace
rappresentasse una soluzione complessiva­
mente soddisfacente. Era significativo che in
quello stesso periodo il Foreign Office, in un
documento in cui si tracciava un bilancio
della pace con l’Italia, sostenesse:
On the credit side
(1) We have recognized the two principles that
Italy should be restored as democratic country
and that she should make retribution fo r her mi­
sdeeds.
(2) Trieste has not been given to Yugoslavia.
(3) We remain in de facto possession o f the
Italian Colonies. We have secured agreement on
the cession o f Dodecanese to Greece.
(4) We have similarly secured agreement on
French guarantees on the adjusted Franco-Italian
frontier, to military terms based on our original
proposals, and on a number o f useful political
and economic articles*1.
La crisi all’interno del partito socialista
italiano e la scissione di palazzo Barberini
del gennaio 1947 condussero alle dimissioni
di Nenni dal governo e a un rimpasto mini­
steriale. Questi eventi determinarono anche
l’accantonamento del progetto del leader so­
cialista per un viaggio a Londra, nonché del­
le speranze in eventuali concessioni inglesi a
proposito del trattato di pace, concessioni
che d’altro canto Whitehall non si sentiva in
grado, né in dovere di compiere. Nel forma­
re un nuovo governo, De Gasperi poneva al­
la guida del ministero degli Esteri Carlo
Sforza. Sino agli inizi degli anni cinquanta
la politica estera italiana sarebbe stata larga­
mente influenzata dalla collaborazione fra
l’anziano ex diplomatico e il leader democri­
stiano. Il primo problema che il presidente
del Consiglio e il responsabile di palazzo
Chigi si trovarono ad affrontare fu proprio
la firma del trattato di pace, ormai redatto
nella sua forma definitiva. A dispetto della
perdurante incapacità italiana di ottenere
una rapida revisione del documento appro-
86 Sull’episodio cfr. A. Varsori, Bevin e Nenni (ottobre 1946-gennaio 1947): una fase nei rapporti anglo-italiani del
secondo dopoguerra, “Il Politico” , 1984, n. 2, pp. 241-275.
87 Pro, Fo 371, ZM 3680/1286/22, memorandum, “Italian Peace Treaty”, sd. [“Dal lato dei ricavi: 1) Abbiamo vi­
sti riconosciuti i due principi, secondo cui l’Italia dovrebbe essere restaurata come nazione democratica e dovrebbe
fare ammenda per le sue colpe; 2) Trieste non è stata assegnata alla Jugoslavia; 3) Restiamo in possesso de facto
delle colonie italiane; Abbiamo ottenuto un accordo sulla cessione del Dodecaneso alla Grecia; 4) Similmente ab­
biamo conseguito garanzie sulle modifiche alla frontiera franco-italiana, sulle clausola militari basate sulle nostre
proposte originali, e su un numero di utili articoli politici ed economici” (T.d.a.).]
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
vato a Parigi e della forte opposizione di al­
cuni settori del mondo politico, De Gasperi
e Sforza ritennero necessario procedere alla
sigla del trattato. Solo in tal modo, a loro
avviso, l’Italia avrebbe potuto riacquistare
piena sovranità anche in campo internazio­
nale. In effetti, nell’opinione delle autorità
di Roma, lo stesso testo del trattato, che la­
sciava ad esempio insolute — e in qualche
modo impregiudicate — la sorte di Trieste e
quella delle colonie, il rapido acuirsi del
contrasto Est-Ovest, nonché il manifestarsi
di un preciso interesse occidentale, in parti­
colare americano, per le sorti della penisola
e dei suoi gruppi dirigenti moderati sembra­
vano offrire a Roma la possibilità che alcu­
ne clausole della pace italiana venissero su­
perate dall’evolvere degli eventi e quindi ri­
viste. Il trattato di pace venne infatti firma­
to il 10 febbraio 1947, non solo con l’inten­
zione di chiudere definitivamente la parente­
si della guerra fascista e della disfatta, ma
anche con la non troppo celata speranza che
il documento siglato avrebbe perso nel vol­
gere di breve tempo gran parte del suo carat­
tere punitivo. Non era un caso che, mentre il
rappresentante italiano firmava a Parigi il
trattato, Sforza presentasse ai vincitori un
memorandum, nel quale si auspicava la revi­
sione delle clausole della pace italiana88.
L’eredità del trattato di pace
Come indicato nelle brevi annotazioni intro­
duttive, alcune questioni connesse all’esecu­
zione del trattato di pace avrebbero profon­
damente influenzato il ruolo internazionale
dell’Italia ben oltre la firma e la ratifica di
47
tale documento. L’esame di tali vicende esu­
la dagli scopi della presente indagine; essa
risulterebbe comunque incompleta se non
venissero compiuti alcuni sintetici cenni in
proposito. Quanto alle riparazioni dovute
all’Unione Sovietica, sebbene tale problema
trovasse soluzione solo nel corso del 1948,
esso parve sollevare un’attenzione e un inte­
resse minori presso il mondo politico e l’opi­
nione pubblica italiani89. Altrettanto scarso
fu l’interesse mostrato dal paese nei con­
fronti della richiesta di revisione delle clau­
sole militari del trattato. Su questo obiettivo
si concentrò ad ogni modo l’attenzione della
diplomazia e degli ambienti militari, per
quanto più per velleità di prestigio e per pre­
sunte esigenze di carattere economico che
per un’effettiva volontà di riarmo. A dispet­
to dell’opposizione sovietica, queste clausole
vennero cancellate alla fine del 1951, anche
grazie all’interessamento di Washington e
non a caso durante una delle fasi più difficili
della “guerra fredda”90. Ben più complessi e
sentiti si rivelarono gli altri problemi. Per
ciò che concerneva il futuro della flotta — la
prima questione a trovare soluzione — alcu­
ne nazioni, ad esempio l’Unione Sovietica e
la Francia, non rinunciarono ad acquisire le
unità loro spettanti; gli Stati Uniti, al con­
trario, nel corso del 1947, confermando il
loro crescente interesse per gli equilibri poli­
tici italiani, rinunciarono alla propria quota
di navi da guerra91. La Gran Bretagna, da
parte sua, si allineò nell’autunno dello stesso
anno, in occasione di una visita ufficiale di
Sforza a Londra, alle posizioni americane,
ma fra le evidenti resistenze di alcuni am­
bienti e tali ‘distinguo’, che questa decisione
portò ben poco vantaggio sia all’Italia, sia
88 Per un’analisi della politica estera italiana nel periodo successivo al 1947 si rimanda ai numerosi contributi in E.
Di Nolfo, R.H. Ramerò, B. Vigezzi (a cura di), L ’Italia e la politica di potenza, c i t passim. .
89 Cfr. R. Morozzo Della Rocca, La politica estera, cit., pp. 374-384.
90 Cfr. E.T. Smith, From Disarmement to Rearmement, cit., passim e L. Nuti, L ’esercito italiano, cit.
91 G. Bernardi, La Marina, gii armistizi, cit., pp. 359-426.
48
Antonio Varsori
all’Inghilterra92. Per ciò che riguardava la
sorte delle ex colonie prefasciste, dopo che i
quattro “grandi” ebbero dimostrato la loro
incapacità di individuare una soluzione in
proposito, il problema venne demandato al­
la cura delle Nazioni Unite, che, nell’autun­
no del 1949, trovarono un compromesso, se­
condo il quale la Libia avrebbe rapidamente
acquisito l’indipendenza, l’Eritrea sarebbe
passata sotto la sovranità dell’Etiopia e la
Somalia sarebbe stata posta per dieci anni
sotto l’amministrazione fiduciaria del gover­
no di Roma. La questione coloniale si trasci­
nò dunque per più di due anni fra episodi
drammatici, quali l’eccidio di Mogadiscio
del gennaio 1948, tentativi di compromesso,
quali l’accordo Sforza-Bevin del maggio
1949, e repentini ripensamenti su scelte poli­
tiche di fondo, come il passaggio del gover­
no di Roma dal concetto del “ritorno in
Africa” a prese di posizione anticolonialiste,
impegnando profondamente De Gasperi,
Sforza e palazzo Chigi e determinando nel­
l’opinione pubblica sentimenti di disagio e
di frustrazione, che trovarono sovente
espressioni di aperta ostilità verso Londra93.
Quanto a Trieste, infine, il manifestarsi del­
la guerra fredda parve in un primo momen­
to favorire le aspirazioni italiane e nel marzo
del 1948, con la nota dichiarazione triparti­
ta, Washington, Londra e Parigi si mostra­
rono favorevoli alle richieste di Roma per il
ritorno di tutto il Territorio libero di Trieste
(T1T) alla sovranità italiana. Lo stesso con­
trasto Est-Ovest e lo ‘scisma’ jugoslavo pro­
vocarono però un’evoluzione nell’atteggia­
mento occidentale nel contesto del conten­
zioso su Trieste, che si prolungò così sino al
1954, fra la crescente insofferenza di larghi
settori dell’opinione pubblica e dei partiti
politici italiani nei riguardi degli angloame­
ricani e del loro supposto favore verso le
ambizioni di Tito94.
Le ragioni che spinsero la diplomazia, la
leadership politica e l’opinione pubblica ita­
liana a dedicare la propria attenzione e a
profondere le proprie energie nei confronti
dell’ ‘eredità’ del trattato di pace, in parti­
colare a proposito delle ex colonie e di Trie­
ste, sono molteplici e non tutte di agevole
definizione. Nell’ambito del problema rela­
tivo agli ex possedimenti africani, De Gaspe­
ri e Sforza, principali artefici dell’azione ita­
liana, non possono essere accusati di velleità
colonialiste; altrettanto però non può dirsi
di alcuni settori del ministero degli Esteri,
del ministero dell’Africa italiana e della
stampa. Come nel caso della flotta e della
revisione delle altre clausole militari, il go­
verno di Roma era comunque condizionato,
non solo dall’atteggiamento di precisi settori
dell’opinione pubblica, ma anche dalla con­
vinzione che prestigio e opportunità in cam­
po internazionale fossero elementi strettamente legati fra loro. Non va trascurato che
i maggiori interlocutori europei dell’Italia,
la Gran Bretagna e la Francia, erano ancora
potenze coloniali. Era quindi ovvio, anche
per uomini politici quali De Gasperi e Sfor­
za, ritenere che la presenza italiana in Afri­
ca, per quanto attraverso l’istituto dell’am­
ministrazione fiduciaria, rappresentasse un
indispensabile corollario all’obiettivo del re­
cupero per la penisola di uno status di parità
rispetto a Londra e a Parigi. Né vanno tra­
scurate le perduranti ambizioni per una poli­
tica medio-orientale, favorite in apparenza
dalle difficoltà inglesi e francesi in questa
area geografica. Sull’atteggiamento italiano
esercitavano infine la loro influenza lunghi
9‘ Sull’episodio cfr. A. Varsori, L ’incerta rinascita di una ‘tradizionale amicizia’: i colloqui Bevin-Sforza dell’otto­
bre 1947, “Storia contemporanea” , 1984, n. 4, pp. 593-645.
93 Cfr. G. Rossi, L ’Africa italiana, cit., p. 277 sgg.
94 Cfr. D. De Castro, La questione di Trieste. L ’azione politica, cit.; G. Valdevit, La questione di Trieste 19411954, cit., p. 206 sgg.
Le iniziative politiche e diplomatiche dell’Italia
anni di propaganda nazionalista, che non
potevano essere cancellati all’improvviso.
Quanto a Trieste, la sorte di questa città
preoccupava effettivamente il popolo italia­
no e il suo ritorno alla sovranità di Roma
non poteva non essere considerato un obiet­
tivo di primario interesse per qualsiasi go­
verno. Per la leadership politica moderata e
per la diplomazia di palazzo Chigi la solu­
zione della questione del T1T divenne inoltre
con il trascorrere del tempo l’indice più evi­
dente della validità della ‘scelta occidentale’
compiuta dalle autorità di Roma con la
guerra fredda.
Al di là delle soluzioni in seguito trovate,
va notato come i problemi lasciati aperti dal
trattato di pace, in particolare quello relati­
vo al T1T e quello coloniale, finirono con il
limitare lo spazio di manovra dell’Italia nel­
l’ambito internazionale, distraendo ad esem­
pio attenzione ed energie da ambiti e obietti­
vi ben più significativi, quali l’integrazione
europea o il rafforzamento dei legami con i
maggiori partner del paese. I tentativi di tro­
vare soluzioni ritenute soddisfacenti alla
sorte degli ex possedimenti africani o di
Trieste costrinsero spesso le autorità di Ro­
ma a piegare la ‘scelta occidentale’ — la ve­
ra opzione di fondo della politica estera ita­
liana postbellica — a superati interessi na­
zionalisti e alla ricerca di mere affermazioni
di prestigio, in alcuni casi, quale quello co­
loniale, ormai vuoti di significato. Non
mancarono inoltre gravi momenti di tensio­
ne con quegli alleati occidentali, rispetto ai
quali l’Italia intendeva proporsi come un se­
rio e affidabile interlocutore.
Con il memorandum d’intesa su Trieste
dell’ottobre del 1954 anche l’ultima questio­
ne connessa al trattato di pace trovava una
definitiva composizione. L’Italia sembrava
a questo punto acquistare una maggiore li­
bertà di manovra in campo internazionale,
che avrebbe trovato espressione nel ruolo
svolto da Roma nel ‘rilancio europeo’ e nel­
l’aspirazione a una diversa presenza nel Me­
49
diterraneo. Non era forse un caso che pro­
prio tra il 1954 e il 1956 il raggiungimento di
una stabilizzazione nel vecchio continente e
raffermarsi di nuovi equilibri nell’area me­
diterranea e in Medio Oriente sancivano in
qualche modo la fine del periodo postbelli­
co, aprendo una nuova fase nelle relazioni
internazionali. Anche per l’Italia, accanto­
nati il trattato di pace e le sue eredità, il do­
poguerra aveva termine.
Qualche ulteriore considerazione va fatta
a proposito delle conseguenze del trattato di
pace sui rapporti anglo italiani. Londra par­
ve sovente non comprendere le ragioni del
risentimento antibritannico nutrito da nu­
merosi italiani a proposito delle decisioni
prese dai vincitori. Per la Gran Bretagna
d’altronde il trattato non rappresentava che
l’ovvia conseguenza dell’aggressione mussoliniana del 1940, un atteggiamento, questo,
condiviso da gran parte dell’opinione pub­
blica, influenzata dal ricordo di episodi,
quali la volontà italiana di partecipare ai
bombardamenti su Londra. Vi furono però
anche altre ragioni che influenzarono le po­
sizioni britanniche tra la fine degli anni qua­
ranta e gli inizi degli anni cinquanta, in par­
ticolare a proposito delle ex colonie e di
Trieste. Quanto al problema coloniale, per
Londra si trattava di non rinunciare ad alcu­
ni concreti vantaggi, acquisiti grazie alle co­
stose e dure campagne militari in Nord Afri­
ca, nel Mediterraneo’ e nella stessa penisola.
Tali vantaggi erano inoltre destinati a com­
pensare il mutamento di equilibri in senso
sfavorevole al ruolo imperiale britannico,
evoluzione in qualche modo provocata an­
che dall’azione dell’Italia fascista. Per ciò
che concerneva Trieste, Londra non poteva
dimenticare di voler essere una grande po­
tenza, i cui calcoli dovevano tener conto non
solo del rapporto bilaterale con Roma, ma
più in generale del conflitto Est-Ovest e del­
l’importante ruolo giocato dalla Jugoslavia
di Tito in tale contesto. Va infine notato co­
me forse per la Gran Bretagna la ‘punizione’
50
Antonio Varsori
dell’Italia e quindi l’esecuzione del trattato di
pace rappresentasse uno dei modi per confer­
mare la propria funzione di potenza vincitri­
ce del secondo conflitto mondiale di fronte
alla realtà dell’Unione Sovietica dominatrice
su metà del vecchio continente grazie alla vit­
toria sul nazismo, e agli Stati Uniti, domina­
tori a loro volta sul Pacifico a seguito del
trionfo sull’espansionismo nipponico e sul­
l’altra metà del vecchio continente grazie alla
supremazia economica.
Da parte italiana raramente si tenne conto
delle ragioni inglesi e se, ad esempio, su Bel­
grado si concentrarono le recriminazioni a
proposito della questione giuliana, o su Mo­
sca per le riparazioni, Londra, per quanto
con toni e in tempi diversi, venne indicata
nella penisola quale elemento ostile in rela­
zione a gran parte dei problemi connessi al
trattato di pace. Paradossalmente i senti­
menti antinglesi, che la propaganda mussoliniana non era riuscita a radicare fra gli ita­
liani a partire dalla seconda metà degli anni
trenta, trovarono favorevole terreno di col­
tura nel dopoguerra, provocando l’emergere
di una sorta di ‘piccola’ guerra fredda fra
Roma e Londra, che avrebbe trovato termi­
ne solo con la metà degli anni cinquanta.
Questa incomprensione fu un’ulteriore con­
seguenza del trattato di pace e certo non fra
le meno rilevanti95.
Antonio Varsori
95 Cfr. le interessanti valutazioni di Ashley Clarke in Pro, Fo 371, RT 1051/2, dispaccio n. 249, Sir A. Clarke (Ro­
ma) a A. Eden, 1 dicembre 1954, confidential; nonché il doc. “Anglo-Italian Relations”, risalente agli inizi del 1955
in RT 1051/23.
Antonio Varsori insegna all’università di Firenze presso la facoltà di Scienze politiche dove è docente
supplente di Storia dell’Europa occidentale. Tra le sue opere: Il diverso declino di due potenze colo­
niali. Gli eventi di Mogadiscio del gennaio 1948 e i rapporti anglo-italiani, (1981); Gli alleati e l’emi­
grazione democratica antifascista 1940-1943, (1982); Patto dì Bruxelles (1948): tra integrazione euro­
pea e alleanza atlantica, (1988).
Scarica