Roberto Weitnauer Stesura: 19 settembre 2005 (10618 battute) Versione d’origine pubblicata e diritti ceduti a terzi Come il Sole colora il cielo La luce del cielo terrestre diurno è azzurra. Nello spazio siderale il colore dello sfondo è invece il nero, anche in grande prossimità di una stella. Nell’atmosfera la radiazione solare diffonde in virtù di un fenomeno di eccitazione elettronica detto “scattering”. La conseguenza è che noi vediamo la luce giungere da ogni dove, seppure sia stata generata in una zona precisa e ristretta della volta. I colori del cielo dipendono dalla maggiore eccitabilità degli elettroni dei gas presenti nell’atmosfera nei confronti delle zone superiori dello spettro visibile che sono quelle relative alle frequenze del blu e del viola. Buio è l’universo. Solo lontane sorgenti lo trafiggono come spilli luminosi nel silenzio siderale. Anche vista da vicino una stella è un globo bianco a ridosso del quale premono le tenebre. Sulla Terra la nostra stella madre, il Sole, appare invece gialla quando è alta nella volta e rossa quando è prossima all’orizzonte. Inoltre, lo spazio circostante non è nero, bensì colmo di un’effusione di luce colorata in cui durante la giornata predomina il blu. E’ un effetto riscontrabile anche dall’esterno, dai satelliti o dagli astronauti, e che ci ha portati alla definizione di “pianeta azzurro”. Per capire tale fenomeno cromatico dobbiamo ricordare che la luce è un’onda elettromagnetica che trasporta energia. La luce si compone di varie radiazioni, ognuna con la propria lunghezza d’onda. Poiché la velocità di propagazione è fissa (circa 300’000 km/s nel vuoto), a lunghezze decrescenti corrispondono frequenze di oscillazione superiori. La luce corrisponde così a un insieme confinato o, per meglio dire, a uno spettro di frequenze. Noi percepiamo le singole lunghezze d’onda come colori. In effetti, lo spettro della luce va dal rosso al violetto, come si vede negli arcobaleni che, per via di un effetto rifrattivo dell’atmosfera (che si comporta come un prisma), scompongono le frequenze luminose, orientandone ciascuna in una direzione lievemente diversa. Spostandosi oltre l’ultravioletto da un lato e oltre all’infrarosso dall’altro, ci si discosta dallo spettro luminoso, ossia si procede verso frequenze elettromagnetiche che non sono più visibili ai nostri occhi. A ogni colore puro corrisponde quindi una frequenza caratteristica. Un colore puro è una cosiddetta radiazione “monocromatica”. La luce emessa da un laser, ad esempio, è monocromatica. Tuttavia, i colori che percepiamo non sono di solito monocromatici, in quanto derivano da un miscuglio di frequenze. La sovrapposizione di radiazioni di differente lunghezza d’onda produce un colore risultante impuro, ma 1/5 che può variare con gradualità entro un’ampia gamma di sfumature. Se la distribuzione è uniforme abbiamo il bianco. Ora, per comprendere come si comporta la luce nell’atmosfera del nostro pianeta dobbiamo fare mente locale a una circostanza che i fisici ormai conoscono da tempo: una radiazione pone in vibrazione una carica elettrica, in modo analogo a come un’onda marina fa oscillare un natante. E come una barca dondolante produce a sua volta delle onde intorno a sé, così una carica eccitata emette di suo delle radiazioni. In un certo senso, potremmo dire di avere a che fare con un fenomeno “double-face”. L’energia radiativa eccita le cariche che l’assorbono, ma poi viene riceduta dalle stesse con modalità e intensità che dipendono dalle condizioni. Ma perché parliamo qui di cariche? Semplice, perché l’atmosfera ne risulta piena, come ogni altra porzione di materia. Tutto l’universo è infatti formato da atomi che contengono elettroni, cioè microcariche elettriche distribuite intorno a un nucleo centrale compatto (formato di neutroni e protoni) che le attira e impedisce che fuggano. L’universo presenta però delle disuniformità su scala locale. Dove ci sono corpi celesti la presenza di materia è massima, mentre minima risulta la densità di atomi negli spazi siderali. La circostanza è importante per capire perché la luce stellare si comporti in modo cromaticamente differenziato a seconda che viaggi nell’atmosfera o nel vuoto. Gli elettroni dell’atmosfera sono dunque quelli presenti nei suoi gas primari: per il 78% si tratta di azoto e per il 21% di ossigeno. A questi gas se ne aggiungono altri meno abbondanti, nonché porzioni variabili di umidità, cioè di acqua. Ci sono poi polveri e altri composti minori. Distribuiti nello spazio sopra le nostre teste, gli elettroni di azoto e ossigeno vengono stimolati dall’energia solare e si allontanano dal nucleo atomico, ma poi ne vengono nuovamente attratti. Questa oscillazione in avanti e indietro sta all’origine del processo che dobbiamo capire. Essa genera un rilascio di energia all’esterno ogni volta che gli elettroni perdono l’eccitazione e tornano al loro posto. Come si accennava poc’anzi, la cessione da parte degli elettroni del surplus di energia stellare incorporata si manifesta nelle vesti di un’emissione radiativa. Gli atomi dei gas emettono tutt’intorno delle onde elettromagnetiche anch’esse in parte visibili, come quelle incidenti. Mentre tuttavia la luce solare segue nel vuoto un percorso rettilineo, quella prodotta in risposta dagli atomi mobili dei gas atmosferici si sparge ovunque. Non si tratta dunque di riflessione, né di rifrazione, bensì di diffusione. Tale fenomeno è noto anche con il termine inglese di scattering e spiega il chiarore diffuso del cielo terrestre, condizione inesistente nei gelidi e bui spazi siderali. In pratica, la diffusione fa sì che buona parte della luce pervenga a noi da ogni parte del cielo, pur essendosi originata in un punto preciso, cioè nel Sole. Tuttavia, se questa argomentazione rende conto della diffusione luminosa, ancora non abbiamo una spiegazione per i colori del cielo. Dobbiamo allora tornare a focalizzarci sul fatto che gli elettroni con cui abbiamo a che fare non sono liberi. Abbiamo infatti appurato ch’essi vengono tenuti in sede dall’attrazione elettrica del nucleo. Per semplificare, possiamo immaginare ch’essi 2/5 siano vincolati mediante molle e oscillino in modo caratteristico attorno a delle posizioni di equilibrio. Quando la molla viene sollecitata dall’esterno essa prende a oscillare con ampiezze maggiori. Una molla cede sempre all’ambiente l’energia ricevuta e termina il proprio moto alternato in una posizione di equilibrio. Per certi versi, è quello che succede agli elettroni eccitati dal Sole: le molle atomiche tornano dopo un breve lasso di tempo alla condizione d’origine. Ci sono però delle esclusività che riguardano il mondo microscopico. La fisica quantistica ci dice che gli elettroni non possono oscillare secondo una gamma continua di ampiezze, ma solo in corrispondenza di ben precisi valori. Questo significa che le oscillazioni sono discrete, cioè separate da salti: non sono ammesse oscillazioni intermedie tra un valore (quantico) e l’altro. Così è la natura. Come nel caso della molla macroscopica che più accumula energia e più ampiamente oscilla, così le molle degli elettroni raggiungono stadi di oscillazione più distanti dal nucleo, man mano che sull’atomo giungono radiazioni più intense. Tali posizioni non aumentano con continuità, ma appunto per balzi. Quando l’energia immagazzinata viene riceduta all’ambiente esterno le molle atomiche tornano alla posizione di oscillazione precedente, compiendo i balzi inversi. A ciascuno di questi salti di ritorno corrisponde dunque una cessione energetica caratteristica in forma di radiazione. Fatta questa doverosa precisazione, l’esempio della molla può tornarci utile per comprendere l’emissione da parte degli atomi dell’atmosfera delle frequenze elettromagnetiche che colorano il cielo. Tornando al parallelo precedente delle onde sul mare, possiamo dire che gli elettroni sono equiparabili a barche ormeggiate mediante degli elementi elastici. Essi sono infatti trattenuti presso l’atomo dall’azione del nucleo e vibrano a frequenze che dipendono, per modo di dire, da molle di richiamo più o meno rigide o più o meno lunghe, a seconda dei composti. A questo punto immaginiamo di dare con le braccia degli impulsi alla nostra barca dondolante. Quanto riusciamo ad incrementarne il dondolio? Questo dipende dal ritmo dei colpi e da quello proprio del natante ormeggiato. Più specificamente, quanto più le nostre sollecitazioni sono in sintonia con i cicli dell’imbarcazione, tanto più ne esaltiamo il movimento. Si parla di oscillazioni forzate. È un po’ come sospingere un bambino su un’altalena. Per aumentare l’escursione del seggiolino dobbiamo esercitare la spinta nel momento più opportuno, cioè al culmine del percorso. Ma lasciamo stare le nostre braccia e pensiamo alle onde del mare. Possiamo dire che quando queste hanno una frequenza tale da esaltare l’effetto degli ormeggi elastici, la barca inizia o dondolare molto più vistosamente che non con altre onde. Ebbene, un ragionamento simile può condursi per gli elettroni dei gas atmosferici. Le loro oscillazioni possono essere più o meno forzate dall’energia delle onde solari incidenti. Tutto dipende dalle frequenze caratteristiche degli elettroni ancorati alle nostre ideali molle atomiche e della radiazione solare che li investe. Il ritmo caratteristico degli elettroni è piuttosto elevato rispetto alle frequenze luminose. I colpi cadenzati che giungono dal Sole risultano dunque piuttosto fuori 3/5 tempo rispetto a quanto richiesto da un’esaltazione ottimale della vibrazione, un po’ come se essi non sapessero giocare con l’altalena. Le frequenze luminose più elevate sono quelle che riescono a sortire i migliori risultati, dato che meno si distaccano dai ritmi propri degli elettroni. Sono quindi i raggi blu-viola in cima allo spettro a riuscire a cedere abbastanza energia da riuscire a far saltare le frequenze elettroniche verso livelli superiori. Questo vuol dire che sarà soprattutto la componente blu-viola dello spettro solare a eccitare gli elettroni, provocando il conseguente fenomeno della diffusione luminosa. Nel momento in cui gli elettroni rientrano al loro livello energetico abituale, il surplus viene ceduto esattamente com’è stato assorbito: ecco che la componente elettromagnetica blu-viola predomina nello scattering, colorando il cielo. Ed ecco perché il cielo terso è blu. Perché non viola? Un po’ perché un’aliquota del viola viene assorbita dagli strati atmosferici superiori, un po’ perché i nostri occhi sono meno sensibili a quella frequenza e un po’ perché, sebbene minore, gioca anche la sovrapposta diffusione dei colori nelle porzioni più basse dello spettro. Le particelle di vapore e le polveri sono corpi molto più grossolani e compatti dei gas. Le radiazioni solari di qualunque ritmo vengono pertanto in parte ostacolate, in parte rimbalzate per ogni dove. Da qui il grigiore diffuso del cielo sporco o nuvoloso. Infine, le radiazioni rosse e arancio sono troppo lente per interagire con il ritmo elettronico; proseguono per lo più dritte senza scambiare energia con gli atomi dei gas atmosferici. Esse giungono allora più intense ai nostri occhi rispetto al blu, facendoci apparire il Sole giallo. Al tramonto il blu deve diffondere per uno strato di atmosfera accresciuto prima di colpire i nostri occhi. La componente rossa diretta prevale così maggiormente, rendendo conto di cieli infuocati. Roberto Weitnauer 4/5 I colori di un tramonto, tutta una questione di scattering e oscillazioni forzate: http://www.solarviews.com/raw/earth/sunset.jpg 5/5