. - Scuola Superiore della Magistratura

Incontro di studio “La disciplina dei licenziamenti” (P 15080)
“Il licenziamento discriminatorio, nullo o inefficace”
rel. dott.ssa Irene Tricomi
GIURISPRUDENZA
Cassazione civile sez. lav. n. 14928 del 2015
fattispecie relativa a giustificato motivo oggettivo in ragione del passaggio della società
convenuta da un contratto di management con la società Le Meridien - Starwood ad uno
di franchising, della conseguente esigenza di eliminare l'anello di congiungimento con
tale società e di munirsi di una figura dirigenziale
Come è stato più volte affermato da questa Corte, "il licenziamento per ritorsione,
diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio, vietato dalla L. n. 604 del
1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15, e L. n. 108 del 1990, art. 3, - costituisce
l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di
altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente
nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e
sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni" (v. Cass. 8-82011 n. 17087, Cass. 18-3-2011 n. 6282). "Ne consegue che, in sede di giudizio di
legittimità, il lavoratore che censuri la sentenza di merito per aver negato carattere
ritorsivo al provvedimento datoriale, non può limitarsi a dedurre la mancata
considerazione, da parte del giudice, di circostanze rilevanti in astratto ai fini della
ritorsione, ma deve indicare elementi idonei ad individuare la sussistenza di un rapporto
di causalità tra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia" (v. Cass.
5-8-2010 n. 18283). Inoltre, come pure è stato precisato, "l'allegazione, da parte del
lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di
lavoro dall'onere di provare, ai sensi della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5, l'esistenza
della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata
almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento
ritorsivo e, dunque, l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso" (v. Cass. 143-2013 n. 6501).
Il relativo accertamento di fatto, poi, è riservato al giudice del merito ed è incensurabile
in sede di legittimità, ove sorretto da motivazione sufficiente e priva di vizi logici, non
essendo, del resto, ammissibile una richiesta di revisione del "ragionamento decisorio"
(v., fra le altre, Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766, Cass. 7-1-2014 n. 91)
e neppure essendo, peraltro, nel vigore dell'art. 348 ter c.p.c. 1(applicabile anche alla
1
c.p.c. art. 348-ter. Pronuncia sull'inammissibilità dell'appello (1).
All'udienza di cui all'articolo 350 il giudice, prima di procedere alla trattazione, sentite le parti, dichiara
inammissibile l'appello, a norma dell'articolo 348-bis, primo comma, con ordinanza succintamente
motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento
a precedenti conformi. Il giudice provvede sulle spese a norma dell'articolo 91.
L'ordinanza di inammissibilità è pronunciata solo quando sia per l'impugnazione principale che per quella
incidentale di cui all'articolo 333 ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell'articolo 348-bis. In
mancanza, il giudice procede alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la
sentenza.
Quando è pronunciata l'inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto, a
norma dell'articolo 360, ricorso per cassazione. In tal caso il termine per il ricorso per cassazione avverso
il provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza
che dichiara l'inammissibilità. Si applica l'articolo 327, in quanto compatibile.
Quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della
decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto
esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360.
1
sentenza, che in sede di reclamo ex art. 1 comma 58 della l. n. 92/20012 conferma la
decisione di primo grado - v. Cass. 29-10-2014 n. 23021 -) denunciarle il vizio ex art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel caso (come nella specie) di "doppia conforme".
D'altra parte, in base al nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 52, comunque non è
ammissibile la deduzione di un "semplice difetto di sufficienza della motivazione",
stante la riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla
motivazione (v. Cass. S.U. 7-4-2014 n. 8053).
Cassazione civile sez. lav. n. 63 del 2015
fattispecie: natura discriminatoria - per ragioni sindacali - del licenziamento
È pur vero che nel regime di tutela reale L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18 (nella
formulazione ratione temporis applicabile, anteriore alla modifica apportata con L. 28
giugno 2012, n. 92), il danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, cagionato dalla
perdita del lavoro e della retribuzione, è una conseguenza soltanto mediata ed indiretta
(e, quindi, non fisiologica e non prevedibile) del recesso datoriale; pertanto, non è
risarcibile a meno che non ricorra l'ipotesi del licenziamento ingiurioso (o persecutorio
o vessatorio), trovando la sua causa immediata e diretta non nella perdita del posto di
lavoro, bensì nel comportamento intrinsecamente illegittimo del datore di lavoro, della
cui prova - unitamente a quella della lesione alla propria integrità psico-fisica - è
onerato il lavoratore (cfr. Cass. n. 5730/14; Cass. n. 6845/10; Cass. n. 5927/08).
Ma proprio perché hanno ravvisato un licenziamento discriminatorio (in quanto tale
persecutorio perché mosso dall'intento di punire il lavoratore per l'attività sindacale da
lui svolta) i giudici di merito hanno, coerentemente, esaminato la possibilità di liquidare
una somma ulteriore (rispetto alle retribuzioni ex art. 18 Stat.) per danno biologico,
motivatamente pervenendo a conclusione affermativa alla stregua della documentazione
sanitaria e della deposizione testimoniale del medico curante del lavoratore. Tale
conclusione non è sindacabile in sede di legittimità se correttamente argomentata, come
ha fatto l'impugnata sentenza.
Cassazione civile sez. lav. n.63 del 2015
fattispecie: natura discriminatoria - per ragioni sindacali - del licenziamento
In tema di prova ex art. 2729 c.c., è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli
elementi presuntivi per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia
in grado di fornire una valida prova.
Non è, invece, consentita l'operazione contraria, vale a dire un apprezzamento
atomistico, parcellizzato, di un indizio per volta. In altre parole, costituisce violazione di
legge il negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se
essi, quand'anche - in ipotesi - singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non siano in
grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, ben potendo ognuno rafforzare e trarre
vigore dall'altro in un rapporto di reciproco completamento (giurisprudenza costante: v.
Cass. 6.6.12 n. 9108; Cass. S.U. 11.1.08 n. 584; Cass. 15.1.07 n. 722; Cass. 13.10.05 n.
19894; Cass. 18.9.03 n. 13819). Nel caso di specie la sentenza impugnata si è
correttamente attenuta a tale insegnamento, valutando gli indizi sia singolarmente sia
unitariamente nel loro complesso, pervenendo - infine - ad una soluzione motivata senza
La disposizione di cui al quarto comma si applica, fuori dei casi di cui all'articolo 348-bis, secondo
comma, lettera a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello che conferma la decisione
di primo grado.
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per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti
2
vizi
logico-giuridici.
In particolare, i giudici di merito hanno desunto l'intento discriminatorio/ritorsivo da
plurime presunzioni gravi, precise e concordanti, quali l'infondatezza d'una precedente
contestazione disciplinare, la predisposizione di ulteriori lettere di contestazione a
carico dello Zaccaria in vista d'un eventuale suo rifiuto dell'assegnazione alla stazione 1,
la più mite sanzione applicata al suo collega di lavoro Di Lenardo (ritenuto dai giudici
di merito unico responsabile dell'episodio del 25.9.03, posto a base del licenziamento
dell'odierno controricorrente) e ad altro lavoratore per una mancanza analoga avvenuta
il giorno dopo, nonché le deposizioni dei testi Nelson, Di Presa e Didoni; da tali
testimonianze è emerso che le autorità statunitensi avevano deciso di far pagare allo
Zaccaria la sua attività sindacale. A ciò si aggiunga - sempre secondo quel che si legge
nella gravata pronuncia - che il Chief Fire Donan ebbe a dichiarare che il licenziamento
dello Zaccaria dipendeva solo dalla iniziative assunte dal sindacato.
Cassazione civile sez. lav. n. 10834 del 2015
Fattispecie relativa con particolare riferimento all'accertamento della natura ritorsiva
delle sanzioni disciplinari
Peraltro, va aggiunto che il canone preferenziale dell'interpretazione conforme a
Costituzione, rinforzato dal concorrente canone dell'interpretazione non contrastante
con la normativa comunitaria, la quale vincola l'ordinamento interno, porta a ritenere
che, laddove vengano in considerazione eventuali profili discriminatori o ritorsivi nel
comportamento datoriale, il giudice nazionale non possa fare a meno di tenerne conto
sia in base all'art. 3 Cost. sia in considerazione degli esiti del lungo processo evolutivo
che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di
giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in
particolare nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel Trattato
CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997. Processo, che è poi proseguito in sede
comunitaria e nazionale ed ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto
del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro
ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta
abbiano ricevuto una specifica tipizzazione - pur non necessaria, in presenza dell'art. 3
Cost. - (Corte cost. sentenza n. 109 del 1993) - come discriminatorie (in modo diretto o
indiretto), soprattutto a partire dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 215 e D.Lgs. n. 216
del 2003 con la previsione di un particolare regime dell'onere probatorio.
Da questo punto di vista, la suindicata argomentazione della attuale ricorrente non tiene
conto di tale situazione normativa.
Peraltro, l'argomentazione stessa non considera che, dal punto di vista logico, se non
tutte le sanzioni disciplinari (e i licenziamenti) illegittimi sono discriminatori, tutte le
sanzioni disciplinari (e i licenziamenti) discriminatori sono illegittimi, come risulta
confermato anche dal particolare regime loro riservato dalla L. n. 92 del 2012 e oggi dal
D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
Ebbene, quella indicata è la corretta premessa logica da cui è partita la Corte territoriale
che, una volta considerata provata la natura persecutoria-vendicativa-discriminatoria
della condotta complessiva del datore di lavoro - estrinsecatasi nell'irrogazione delle
numerose sanzioni disciplinari, una sola delle quali (ma di lieve entità) risultata fondata
e quindi nell'intimazione del licenziamento - ha affermato, con congrua e logica
motivazione, che l'intento discriminatorio-ritorsivo è stato l'unico motivo posto a base
delle sanzioni prima e del licenziamento poi. Di qui la affermata illegittimità del
licenziamento, in considerazione della contestualmente provata insussistenza di addebiti
3
idonei a giustificare il licenziamento stesso e della natura ritorsiva delle sanzioni
disciplinari.
Tale ricostruzione della vicenda effettuata all'esito di un'attenta valutazione, sulla base
delle risultanze processuali, di tutti i fatti, considerati singolarmente e nel loro
complesso, in relazione alla portata oggetti va e soggettiva dei medesimi, alle
circostanze nelle quali si sono verificati non merita alcuna censura in questa sede.
Tribunale Trento 09/04/2015
Ordinanza ex art. 1, co. 49, della legge n. 92 del 2012
Fattispecie: il licenziamento irrogato "per giustificato motivo oggettivo" dalla società
datrice ITALFLY s.r.l., per soppressione posto lavoro presso l'unità locale di Thiene
(Vicenza)
L'intimazione di un licenziamento in totale assenza di ragioni tecnico - produttivo organizzative e/o di ragioni disciplinari costituisce la "terra di elezione" dei
licenziamenti nulli perché discriminatori o determinati da un motivo illecito
determinante ex art. 1345 cod. civ..
Tuttavia questo giudice è consapevole che l'oggettiva inesistenza dei fatti materiali
sottesi alle ragioni tecnico - produttivo - organizzative (di regola attinenti all'attività del
datore) o alle ragioni disciplinari (di regola attinenti alla condotta del lavoratore) addotte
nell'intimazione non è sufficiente ad affermare la nullità del licenziamento;
lo si evince dall'art. 18 co. 4 St. Lav. e dall'art. 3 co. 2 d.lgs. 4.3.2015, secondo cui
l'insussistenza del fatto materiale è causa di annullamento del licenziamento (con
conseguente condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore)3.
Un'attenzione particolare deve, però essere riservata all'ipotesi in cui si accerti che il
datore di lavoro era fin dall'origine consapevole (come nella vicenda in esame) della
radicale insussistenza delle ragioni tecnico - produttivo - organizzative o delle ragioni
disciplinari poste in apparenza a fondamento del licenziamento intimato al lavoratore.
In tal caso il recesso datoriale appare determinato unicamente dalla finalità di espellere
il lavoratore dal contesto lavorativo senza che vi siano, neppure nelle originarie
convinzioni del datore, ragioni giustificative, né di ordine oggettivo, né di natura
soggettiva.
Viene così a configurarsi una fattispecie riconducibile a quella del "licenziamento
arbitrario", sulla quale si è già espressa la Consulta, la quale (addirittura in riferimento
ad un recesso a causale, qual è quello disposto avvalendosi del patto di prova) ha
statuito (sent. 22.12.1980, n. 189; conf. sent. 4.12.2000, n. 541;) che l'esercizio del
diritto potestativo riconosciuto al datore di lavoro non può mai risolversi nel mero
arbitrio del suo titolare, dal momento che l'ordinamento, comunque, assegna "garanzia
costituzionale al diritto di non subire un licenziamento arbitrario";
quindi la discrezionalità del datore di lavoro si deve esplicare sempre in coerenza con la
causa del negozio di recesso, di talché il lavoratore può eccepire in sede giurisdizionale
la nullità del recesso, allegando e provando la contraddizione tra scopo tipico del
recesso (la causa propriamente detta o causa astratta ex art. 1325 n. 2 cod. civ.), da un
3
La recente sentenza Cass, n. 20540 del 2015, ha affermato «Quanto alla tutela reintegratoria, non è
plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso
di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando
estranea al caso presente la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta,
rispetto alla sanzione espulsiva (Cass. 6 novembre 2014 n.23669, che si riferisce ad un caso di
insussistenza materiale del fatto contestato). In altre, parole la completa irrilevanza giuridica del fatto
equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art.18, quarto
comma, cit».
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lato, e lo scopo del singolo recesso (la cd. causa in concreto, secondo la nozione ormai
consolidata in dottrina) nonché l'intento soggettivo dell'autore (il motivo), dall'altro.
Anche la Suprema Corte si è curata di esaminare la fattispecie del licenziamento
arbitrario. In particolare Cass. S.U. 2.8.2002, n. 11633 ha statuito con mirabile
chiarezza che l'esercizio del diritto potestativo di licenziamento attribuito al datore non
può essere "affidato ad un arbitrio del titolare, tale da potersi risolvere in una violazione
di norme imperative o di principi costituzionali";
infatti: "In tempo meno recente la dottrina indicava, quale tratto distintivo del potere
giuridico rispetto al diritto soggettivo, assoluto o relativo, l'irrilevanza della condotta del
soggetto passivo, il quale si trovava in tal modo in una posizione non già di obbligo
oppure di dovere, bensì di mera soggezione, definita come assenza di vincolo alla
volontà del soggetto attivo: in situazione di soggezione si trovava di regola qualunque
titolare di un rapporto di durata, dal quale la controparte si poteva liberare
semplicemente comunicando la disdetta o la volontà di risoluzione unilaterale.
Col passare del tempo si rafforzò però il convincimento che, in tutti i casi in cui la legge
attribuisse ad un soggetto il potere di incidere sulla sfera giuridica altrui, e tanto più
quando questo potere assumesse caratteri di stabilità tali da costituire una situazione di
autorità privata, l'interesse del soggetto passivo non potesse rimanere del tutto sfornito
di giuridica tutela. Oggi si ritiene contrario ai principi di civiltà giuridica l'esercizio del
potere di sacrificare un interesse altrui, patrimoniale o non patrimoniale, senza che
l'altro sia fornito almeno della possibilità di conoscere i motivi che animano la condotta
del titolare del potere, in modo di essere in grado di contrastarli (Corte cost. 18 luglio
1989 n. 427). In tal modo alla situazione di mera soggezione tende a sostituirsi quella di
interesse legittimo nel diritto privato.
Più specificamente, nella materia relativa ai poteri imprenditoriali di gestione
dell'impresa, la giurisprudenza afferma spesso che l'esercizio libero di essi è garantito a
livello costituzionale (art. 41 Cost.) ed è perciò insindacabile nel merito, ma poiché la
libertà è sempre sottomessa alla legge, l'esercizio del potere ben può essere censurato
dal giudice quante volte si ponga in contrasto con l'ordinamento legale non solo
direttamente, ma anche attraverso l'elusione delle norme, ossia l'abuso del diritto (cfr.
Cass. 9 giugno 1993 n. 6408, 17 gennaio 1998 n. 402, 18 novembre 1998 n. 11634, 2
gennaio 2001 n. 27, 9 luglio 2001 n. 9310).
Viene così riconosciuta "garanzia costituzionale al diritto di non subire un
licenziamento arbitrario" (Corte Cost. 4 dicembre 2000 n. 541).
L'atto di recesso del datore dal rapporto di lavoro, in quanto atto unilaterale di volontà
negoziale, è viziato, se l'agente vi si sia determinato esclusivamente per un motivo
illecito (artt. 1345 e 1324 cod. civ.), tale dovendosi ritenere il motivo contrario a norme
imperative (art. 1418, primo e secondo comma, cod. civ.), come ad es. quello mosso da
ragioni di credo politico o di fede religiosa (art. 4 l. n. 604 del 1966) (Cass. 6 novembre
1976 n. 4061) o da intento di rappresaglia (Cass. 14 febbraio 1983 n. 1114) o dalla
partecipazione del lavoratore ad attività sindacali (art. 15 l. n. 300 del 1970) (Cass. 2
aprile 1990 n. 2642 e vedi ancora, con specifico riferimento al licenziamento intimato in
periodo di prova, Cass. 17 giugno 1982 n. 3699; Cass. 28 aprile 1995 n. 4747)".
Questo giudice ritiene che la tutela contro il licenziamento arbitrario debba spingersi
oltre.
(…)
Appare evidente che un licenziamento intimato nella piena consapevolezza
dell'inesistenza delle ragioni oggettive o soggettive poste quale suo apparente
fondamento nulla ha a che fare con la finalità di rafforzare le opportunità di ingresso nel
mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione.
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La divergenza tra causa tipica dei licenziamenti assoggettati alla disciplina vincolistica,
da un lato, ed intento (motivo) nonché causa concreta, dall'altro, comporta
necessariamente l'illiceità di questi ultimi elementi e conseguentemente la nullità del
recesso ex art. 1345 e, rispettivamente, ex art. 1343 cod. civ., con l’applicazione delle
tutele ex art. 18, commi 1 e 2 legge n. 300 del 1970.
Tribunale Roma sez. lav., sentenza 22/04/2015
Fattispecie: ricorso, ai sensi della legge 92/12, per l'accertamento della discriminatorietà
del licenziamento, accertarsi l'illegittimità del disposto recesso, con tutte le conseguenze
in tema di pagamento dell'indennità supplementare e, in ogni caso, il risarcimento del
danno determinato dalla lesione dell'immagine della professionalità e della dignità e del
grave disagio psichico ricollegato al traumatico, illegittimo e irragionevole
licenziamento
Questo giudicante non ritiene di aderire all'orientamento da ultimo assunto nella
pronuncia – peraltro isolata – della Corte di Cassazione, con sentenza n. 63/20154,
laddove la stessa qualifica il licenziamento discriminatorio “ in quanto tale persecutorio
“, perché mosso dall'intento di punire il lavoratore (nel caso di specie per l'attività
sindacale svolta). La discriminazione prescinde infatti dall'intento persecutorio e deriva
dalla oggettiva ingiustificata disparità di trattamento. L' intento persecutorio, così come
le modalità ingiuriose e persecutorie dell'atto di recesso, non sono componenti
necessarie dell'atto discriminatorio. Costituisce onere del lavoratore, pertanto provare
che il licenziamento discriminatorio si caratterizza per modalità lesive della salute,
dell'immagine, della dignità della persona. D‘ altronde la disciplina di settore prevede
per il licenziamento discriminatorio, in ragione del suo particolare disvalore giuridico,
una tutela reintegratoria che non trova applicazione in altri casi di licenziamento
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Oltre la sentenza Cass., n. 63 del 2015, non massimata su Italgiure, riportata sopra, si v. anche, ma con
riguardo al mobbing (rispetto al quale rileva l’intento persecutorio), la sentenza Cass., n. 4774 del 2006 ,
così massimata :” L'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell'osservanza di
una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione
del dipendente (c.d. "mobbing") - che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico
dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - si può realizzare con comportamenti materiali o
provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifichi
obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della
lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata - procedendosi alla valutazione
complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della
condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel
tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da
una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti
alla tutela del lavoratore subordinato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito
impugnata che, con congrua motivazione, si era attenuta a tali criteri escludendo la configurabilità, in
capo al datore di lavoro, di un disegno persecutorio realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal
lavoratore come vessatori)”.
Cass. n. 17698 del 2014 ha affermato: “Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono
ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente
sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o
anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute,
della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il
pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento
soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.
Cass., n. 10834 del 2015, pone in alternativa discriminazione e ritorsione: “Al riguardo deve essere
precisato che, nel merito, le censure della attuale ricorrente in ordine al rapporto tra la valutazione della
giusta causa e quella della discriminazione (o ritorsione) sono fondate su un presupposto erroneo”.
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illegittimo: il legislatore ha inteso sanzionare in maniera più grave il licenziamento
discriminatorio rispetto ad altre tipologie di recesso, pure qualificate in termini di
illegittimità, garantendo la tutela massima, e cioè quella di tipo reintegratorio. Qualora
si consentisse nel licenziamento discriminatorio il risarcimento del danno biologico
derivante dalla pretesa persecutorietà in sé dell'atto di recesso, ne deriverebbe una
palese duplicazione di poste risarcitorie che non trova legittimazione nel sistema
normativo.
Tribunale Pisa, 16/04/2015
Fattispecie: licenziamento contestato per che in presenza della condizione di persona
handicappata della ricorrente, la società aveva violato la direttiva 2000/78 e del DL.
76/2013 (convertito nella L. 99/2013, di recepimento della citata direttiva) ad
approntare misure organizzative idonee a consentire alla lavoratrice di svolgere la sua
prestazione senza rischi.
Quelle mansioni avrebbero pertanto potuto essere svolte utilmente e senza rischi dalla
ricorrente, previa esclusione dal novero delle stesse delle, peraltro occasionali secondo
la deposizione del teste S. sopra riportata, operazioni di movimentazione merci, che
avrebbero potuto essere attribuite esclusivamente ai colleghi addetti al controllo merci
in ipotesi assegnati allo stesso turno della ricorrente e già addetti in via prevalente alle
dette operazioni.
Una simile soluzione organizzativa non avrebbe avuto alcun costo per l'azienda
risolvendosi nella mera ridistribuzione di compiti di qualifica tra lavoratori di pari
inquadramento (così l'assegnazione della ricorrente alla fase di entrata merci e la sua
eventuale sostituzione in quella di commissionamento, così l'attribuzione a G. dei soli
compiti di addetta al bancone attribuendo solo ai lavoratori in turno addetti al controllo
merci la movimentazione delle stesse).
Essa quindi costituiva un ragionevole accomodamento idoneo a conservare la posizione
lavorativa della ricorrente e a consentirne il proficuo utilizzo nell'organizzazione
aziendale, e doveva pertanto dirsi doverosa per la convenuta.
Non averla adottata costituisce allora violazione del generale principio di parità di
trattamento dei lavoratori portatori di handicap posto dalla direttiva 2000/78 e
nell'ordinamento interno dal D.L.vo 216/2003, senza che, come già detto, rilevi in alcun
modo l'esistenza o la prova di un soggettivo intento della società di discriminare la
ricorrente, il divieto di discriminazione operando obiettivamente.
D' altra parte, necessariamente concorrendo, come pure sopra esposto, il principio
paritario di cui alla citata direttiva a regolamentare il potere datoriale di recesso, deve
escludersi che si dia nella specie l'affermato giustificato motivo oggettivo, residuando
nell'organizzazione aziendale mansioni utilmente attribuibile all'attrice previa adozione
del ragionevole accomodamento di cui si è appena detto.
Determinata l'insussistenza del giustificato motivo dalla violazione del principio di non
discriminazione, il licenziamento deve essere dichiarato nullo ed alla pronuncia devono
seguire le conseguenze sanzionatorie di cui ai primi due commi dell'art. 18 della L.
300/1970 nel testo modificato dalla L. 92/2012.
La società convenuta deve essere pertanto condannata a reintegrare l'attrice nel posto di
lavoro ed a corrisponderle tante mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto
(indicata la retribuzione parametro senza contestazione in € 1124,26 mensili) quante ne
decorreranno dal licenziamento all'effettiva reintegrazione, dedotto quanto
eventualmente percepito da G. medio tempore in conseguenza di rapporti di lavoro
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instaurati con terzi, e maggiorato il dovuto di accessori ex art. 429 c.p.c. secondo il
criterio di calcolo di cui in dispositivo.
Alla decisione segue ex lege la condanna della convenuta alla regolarizzazione della
posizione previdenziale della ricorrente.
Deve poi apprezzarsi dell'ammissibilità nel rito specifico e nel caso della fondatezza
della domanda attrice diretta al risarcimento dell'ulteriore danno non patrimoniale
affermato come conseguente alla dedotta natura discriminatoria del recesso.
In proposito pare in primo luogo a questo giudice che non possa dubitarsi della
proponibilità della detta domanda nel rito ex lege 92/2012, la pretesa de qua essendo
fondata sugli stessi fatti costitutivi di quelle ex art. 18 L. 300/1970, anch' essa trovando
titolo nell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e
nell'illegittimità del recesso datoriale.
Quanto poi alla sua fondatezza deve rilevarsi come l'art. 17 della direttiva 2000/78
obblighi gli Stati membri ad introdurre nei rispettivi ordinamenti nazionali sanzioni per
le violazioni delle norme interne di attuazione della direttiva e prescriva che “ le
sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere effettive,
proporzionate e dissuasive”.
Ed in effetto il D.Lvo 216/2003 ed il D.Lvo 150/2011 dispongono, in caso di violazione
al divieto di discriminazione, per il risarcimento del danno anche non patrimoniale.
La fonte sovranazionale peraltro, come sopra detto, attribuisce allo strumento rimediale
del risarcimento del danno connotati necessari di effettività, essi tuttavia rapportati, non
solo alla gravità del pregiudizio, ma anche alla funzione dissuasiva e sanzionatoria della
qualificata riparazione (sulla natura del “ danno comunitario”, cfr. da ultimo Cass.
126072015).
E non può dubitarsi che una tale qualificazione incida sul regime della prova del diritto
nell'an e sulla sua quantificazione, l'obbligo di liquidare il risarcimento dandosi, ove
come nella specie richiesto, anche in funzione della finalità dissuasiva di ulteriori
violazioni implicata dal rimedio.
Ciò detto, facendo applicazione dei detti principi nella specie, deve rilevarsi come la
discriminazione costituita dal licenziamento si sia data in un' organizzazione d' impresa
di rilevanti dimensioni ed a fronte di una obiettivamente agevole possibilità di
individuare un ragionevole accomodamento idoneo a consentire la conservazione della
posizione lavorativa della ricorrente, così che deve ritenersi attendibilmente la
possibilità di reiterazione della condotta lesiva, reiterazione che deve essere evitata a
mezzo dello strumento rimediale espressamente approntato dalla fonte sovranazionale
anche a fini dissuasivi.
Ne segue l'esistenza nell'an del diritto della lavoratrice al risarcimento del danno non
patrimoniale rivendicato in ricorso.
Quanto alla sua determinazione la decidente è peraltro ben consapevole
dell'ineliminabile ambiguità di ogni criterio di quantificazione, attesa l'ontologica “
incommensurabilità” economica del danno non patrimoniale, rispetto al quale il
risarcimento per equivalente monetario non può essere che una fictio juris, non di meno
indispensabile a consentire una tutela minima necessaria dei diritti inviolabili della
persona.
E' quindi nella consapevolezza di una tale complessità di valutazione che questo giudice
ritiene di quantificare il risarcimento dovuto a G. in € 10.000,00, misura da ritenersi
adeguatamente compensativa delle violazioni subite dalla lavoratrice ed idonea ad
assumere una qualche efficacia dissausiva in rapporto alle dimensioni aziendali di L..
In merito infine all'ulteriore domanda risarcitoria svolta in ricorso (essa diretta ad
ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale che la ricorrente assume di aver
patito in conseguenza dell'adibizione a mansioni non confacenti al suo stato di salute e
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delle vessazioni cui la società l'avrebbe sottoposta a causa delle sue menomazioni), deve
escludersi che essa sia proseguibile nel rito specifico, trovando titolo in altro (o
comunque anche in altro) che nel recesso impugnato.
Quanto allora all'esito da darsi alla domanda de qua pare alla decidente che debba
disporsene la trattazione separata nel rito ordinario ex art. 414 c.p.c. senza l'applicazione
di alcuna sanzione processuale impeditiva dell'ulteriore corso.
Cassazione civile sez. lav., n. 10834 del 2015
In tema di licenziamento, laddove vengano in considerazione profili discriminatori o
ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice, alla luce di una interpretazione
costituzionalmente orientata e non in contrasto con la normativa comunitaria, deve
tenerne conto senza distinguere tra accertamento della giusta causa e quello avente ad
oggetto la verifica della volontà datoriale, sicché, ove risulti che la condotta del datore
di lavoro sia univocamente motivata da un intento ritorsivo o discriminatorio nei
confronti del lavoratore (nella specie, in ragione dell'attività sindacale del lavoratore
diretta a contrastare una prassi aziendale che imponeva agli autisti di lavorare oltre i
limiti di orario e di peso del carico trasportato), è illegittimo il licenziamento disposto
quale conseguenza del cumulo di pluralità di sanzioni, tanto più in assenza di addebiti
idonei a giustificare, di per sé, il recesso.
Tribunale Genova 24/03/2015
Fattispecie:licenziamento disciplinare condotte del ricorrente sono espressive della sua
presa di posizione contraria all’introduzione, nell’organizzazione aziendale di Trenitalia
s.p.a., della figura del tecnico polifunzionale col suo inserimento nell’equipaggio di
conduzione della locomotiva. In questo modo, su alcune linee ferroviarie specificate,
l’equipaggio è composto non più da due macchinisti, ma da un macchinista e dal tecnico
polifunzionale, non abilitato alla guida.
Il ricorrente ha ravvisato nel recesso un atto di ritorsione verso il proprio, legittimo,
comportamento ed ha chiesto pertanto in via prioritaria la tutela di cui all’art. 18, primo
comma, l. 300/70, nel testo modificato dall’art. 1, co. 42, l. 92/2012.
La domanda non è fondata.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, il licenziamento ritorsivo
subisce gli stessi effetti del licenziamento discriminatorio quando il datore di lavoro
l’abbia intimato per un motivo illecito determinate, ai sensi dell’art. 1343 c.c.; occorre
cioè “che tale intento abbia avuto un’efficacia determinativa ed esclusiva del
licenziamento anche rispetto agli altri eventuali fatti idonei a configurare un’ipotesi di
legittima risoluzione del rapporto” [cfr. Cass., sez. lav., 9 marzo 2011, n. 5555].
Trenitalia s.p.a. ha licenziato il ricorrente dopo avere reagito ai suoi reiterati rifiuti con
iniziale di tolleranza – egli stesso ha ammesso in interrogatorio di non essere stato
sempre sanzionato – ed una successiva progressione disciplinare. Ogni sanzione è stata
motivata dalla mancata prestazione di attività lavorativa e dai danni economici ed
organizzativi che essa le ha cagionato. I licenziamenti sono stati perciò irrogati al
culmine di quella progressione, quando è risultata evidente l’inconciliabilità tra la
presenza in servizio del ricorrente e l’assetto – pur illecito, per quanto si è accertato –
aziendale.
Non è conseguentemente ravvisabile alcun intento “vendicativo o di rappresaglia” [cfr.
Cass., sez. lav. 18 marzo 2011, n. 6282] verso il ricorrente da parte della convenuta, che
ha agito nell’evidente volontà di conservare l’effettività della propria organizzazione,
perseguita con un complesso sistema di provvedimenti operativi e di relazioni sindacali.
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I licenziamenti vanno piuttosto annullati perché l’esistenza della causa di giustificazione
accertata fa venire meno l’antigiuridicità in sé delle condotte addebitate al lavoratore.
Il recente dibattito sviluppatosi sulla locuzione “insussistenza del fatto contestato”
dell’art. 18, quarto comma, l. 300/70 (nel testo introdotto dalla l. 92/2012), ha portato al
confronto tra due opposte letture interpretative, designate con le formule sintetiche della
tesi del “fatto materiale” e della tesi del “fatto giuridico”.
La seconda ha avuto una certa prevalenza in dottrina ed è stata seguita anche dal
tribunale di Genova, poiché si è ritenuto che il legislatore non abbia inteso negare la
tutela più piena nei casi in cui le condotte addebitate disciplinarmente si fossero rivelate
connotate da elementi (cause di giustificazioni, circostanze attenuanti, imputabilità) tali
da renderle prive di qualsiasi offensività per il datore di lavoro o addirittura non
riferibili alla sfera soggettiva del lavoratore. Alle conseguenze opposte si giungerebbe
infatti qualora si ritenesse che il “fatto contestato” vada identificato col comportamento
nella sua materialità, a prescindere dalle componenti che ne configurano non solo la
gravità, ma, prima ancora, l’antigiuridicità.
A questa prima fase applicativa sono seguite due novità; la Corte di cassazione si è per
la prima volta espressa in termini espliciti sulla questione, affermando che, nel sistema
dell’art. 18 novellato dalla l. 92/2012, “la reintegrazione postula la verifica
dell’insussistenza del fatto materiale addotto a fondamento del licenziamento, che si
esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, di esso, senza margini per valutazioni
discrezionali, irrilevante essendo il profilo della proporzionalità della sanzione rispetto
alla gravità del comportamento addebitato” [Cass., sez. lav., 6 novembre 2014, n.
23669]; l’art. 3, secondo comma, d.lgs 23/2015 ha di recente riconosciuto la reintegra ai
lavoratori “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo
soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio
l’insussistenza del fatto materiale contestato”.
La nuova disposizione fa parte del complesso normativo introdotto per tutti quanti siano
stati assunti con il cd. contratto a tutele crescenti. Oltre a non essere applicabile al caso
in esame, essa è dunque inserita in un quadro di diritti e garanzie diversamente
bilanciati. La norma non è pertanto rapportabile alla disciplina della l. 92/2012 né risulta
utilizzabile sul piano interpretativo per argomentare nell’uno o nell’altro senso.
Occorre piuttosto interrogarsi sulla portata interpretativa della sentenza 23669/2014.5
Va ricordato che in precedenza la Suprema Corte pareva essersi espressa in senso
difforme, seppure con un obiter dictum [sez. lav. 7 maggio 2013, n. 10550]. Inoltre la
pronuncia, al di là dell’enunciato di principio, ha escluso, come s’è visto, la specifica
rilevanza del giudizio di proporzionalità, negando dunque l’applicazione della tutela
reintegratoria nell’ipotesi in cui l’addebito deve dirsi configurato nella sua pienezza,
salvo che nella relazione con la sanzione irrogata.
La fattispecie in esame ha tutt’altra connotazione. L’esistenza della circostanza
esimente priva la condotta della sua valenza d’illiceità, alla stessa stregua della reazione
adottata per stato di necessità o legittima difesa. Negarne la rilevanza per accordare la
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Si veda ora, n. Cass, n. 20540 del 2015, ha affermato «Quanto alla tutela reintegratoria, non è
plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso
di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando
estranea al caso presente la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta,
rispetto alla sanzione espulsiva (Cass. 6 novembre 2014 n.23669, che si riferisce ad un caso di
insussistenza materiale del fatto contestato). In altre, parole la completa irrilevanza giuridica del fatto
equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell'art.18, quarto
comma, cit».
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tutela più piena al lavoratore illegittimamente licenziato si porrebbe dunque in contrasto
con i principi fondanti del potere sanzionatorio affidato al datore di lavoro.
Si deve pertanto confermare l’orientamento finora maturato dal tribunale di Genova per
l’applicazione, in un’ipotesi siffatta, dell’art. 18, quarto comma, l. 300/70.
Il ricorrente ha depositato nell’ultima udienza il proprio stato di permanente
disoccupazione. Tra la data dell’ultimo licenziamento [all. 24 mem.] e quella odierna
sono trascorsi meno di sei mesi e mezzo.
Pertanto la convenuta va condannata a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro ed a
corrispondergli sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre alla
contribuzione maturata dal recesso.
Sulle somme che risultano dovute ad indennizzo per il licenziamento ingiustificato
vanno applicati rivalutazione monetaria e interessi legali, a seguito della sentenza del 23
ottobre 2000, n. 459, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale
illegittimità dell’art. 22 comma trentasei l. 724/94. Gli interessi devono calcolarsi sul
capitale rivalutato annualmente, secondo il più recente orientamento della Corte
Suprema [Cass., sez. un., 29 gennaio 2001, n. 38].
Poiché il diritto del lavoratore al risarcimento del danno sorge dalla data del
licenziamento, da questa stessa devono decorrere gli accessori, trattandosi di somme che
egli avrebbe percepito nel caso in cui avesse effettivamente reso la prestazione di lavoro
[Cass., sez. lav., 29 maggio 1995, n. 5993].
Poiché il diritto del lavoratore al risarcimento del danno sorge dalla data del
licenziamento, da questa stessa devono decorrere gli accessori, trattandosi di somme che
egli avrebbe percepito nel caso in cui avesse effettivamente reso la prestazione di lavoro
[Cass., sez. lav., 29 maggio 1995, n. 5993].
Poiché l’indennizzo copre il periodo fino alla pronuncia della decisione – secondo la
ratio della sentenza di Corte cost. 303/2011 – restano inoltre dovute al ricorrente le
retribuzioni che maturino dalla data odierna fino a quella della sua effettiva reintegra nel
posto lavorativo.
Quanto alle spese di lite, nella vigenza del testo novellato dell’art. 92 c.p.c. occorre pur
sempre considerare l’assoluta novità delle questioni giuridiche trattate in ordine sia alla
conformità alla legge del sistema di organizzativo adottato da Trenitalia s.p.a. sia
all’applicazione dell’art. 18, quarto comma, l. 300/70 (anche dopo la pronuncia
23669/2014 della Corte di Cassazione).
E’ dunque corretto compensare integralmente tra le parti le spese di lite nella presente
fase.
Tribunale Firenze sez. lav., n. 311 del 2015
Fattispecie:licenziamento discriminatorio motivi di salute
All'origine del provvedimento espulsivo vi era stata la contestazione di una grave
condotta tenuta dal lavoratore, vale a dire l'uso, durante l'orario di lavoro, di auricolari
collegati ad un IPad tramite i quali poter ascoltare musica (…)
L'opposizione non è fondata.
Esistono indizi gravi precisi e concordanti della natura discriminatoria e comunque del
motivo illecito e determinante il licenziamento irrogato al sig. S..
Il Licenziamento disciplinare intimato al sig. S. si basa su una contestata "
insubordinazione" del lavoratore nei confronti dei suoi superiori per contravvenzione
alle disposizioni aziendali, per avere il dipendente in data 16/7/2013, durante l'orario di
lavoro, usato delle cuffie per ascoltare " musica o quant'altro di suo gradimento", non
ostante il divieto dell'uso dei telefonini durante l'orario di lavoro.
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Secondo l'art. 217 del codice di comportamento aziendale usato dalla Cooperativa (cfr.
doc. 19-bis del fascicolo di parte opponente) il licenziamento disciplinare " si applica
esclusivamente per le seguenti mancanze:
- Assenza ingiustificata oltre tre giorni nell'anno solare;
- Recidiva nei ritardi ingiustificati oltre la quinta volta nell'anno solare, dopo formale
diffida per iscritto;
- Grave violazione degli obblighi di cui all'art. 212,1^ e 2^ comma;
- Infrazione alle norme di legge circa la sicurezza per la lavorazione, deposito, vendita e
trasporto;
- L'abuso di fiducia, la concorrenza, la violazione del segreto d'ufficio; l'esecuzione, in
concorrenza con l'attività dell'Azienda, di lavoro per conto proprio o di terzi, fuori
dell'orario di lavoro;
- La recidiva, oltre la terza volta nell'anno solare, in qualunque delle mancanze che
prevedono la sospensione, fatto salvo quanto previsto per la recidiva nei ritardi".
L'ipotesi contestata al sig. S. non rientra in nessuno di tali casi e quindi, ai sensi del
codice disciplinare applicato in azienda, non legittimerebbe in alcun caso il
licenziamento.
Anche applicando le norme del C.C.N.L. Laterizi industria (cfr. doc. 32 del fascicolo di
parte opponente), il fatto contestato al sig. S. non consentirebbe il licenziamento in
tronco, atteso che, da un lato la condotta posta in essere dal lavoratore non può
qualificarsi di "insubordinazione", posto che tale nozione non comprende qualsiasi
inadempimento del lavoratore, ma si sostanzia nella negazione del potere gerarchico del
proprio datore di lavoro e quindi necessariamente si manifesta con un rifiuto di ubbidire
e di sottomettersi all'autorità del superiore, che nel caso di specie difettano; dall'altro
l'avere ascoltato musica durante l'effettuazione delle mansioni di mulettista non integra
una infrazione alla disciplina o alla diligenza nel lavoro che provochi all'azienda grave
nocumento morale o materiale, né costituisce azione delittuosa in connessione con lo
svolgimento del rapporto di lavoro (cfr. art. 53 comma 1 C.C.NL).
Il licenziamento pertanto è sicuramente ingiustificato e misura assolutamente
sproporzionata rispetto all'inadempimento (lieve) del lavoratore.
Accanto a questa constatazione, si pongono poi tutta una serie di fatti, la cui portata e la
cui cronologia appaiono costituire indizi gravi, precisi e concordanti della sussistenza di
un motivo illecito e determinante (e come tale discriminatorio) del licenziamento.
Il 22/1/2013 viene diagnosticato al ricorrente uno stato reumatico alla spalla sinistra,
con certificazione di inidoneità al lavoro fino al 30/1/2013.
Seguono ulteriori periodi di astensione, nelle cui more il 30/4/2013 il sig. S. viene
sottoposto a visita medica dal professionista dell'azienda che lo ritiene idoneo al lavoro
salvo alcune limitazioni all'utilizzo di strumenti che comportano vibrazioni e al
sollevamento di carichi eccessivi con l'arto superiore sinistro.
Il 14/6/2013 (due giorni prima della scadenza della malattia sulla base della prognosi
contenuta nel certificato medico inviato il 31/5/2013), la datrice di lavoro invita il
lavoratore a non ripresentarsi in azienda, posto che a suo giudizio le limitazioni indicate
nel certificato medico non sono compatibili con le mansioni di magazziniere mulettista
da questi svolte, e lo sollecita ad usufruire, alla scadenza della malattia, delle ferie fino a
quel giorno maturate..
Con certificato del 17/6/2013 al sig. S. vengono riconosciuti ulteriori giorni di malattia
fino al 30/6/2013.
Con comunicazione del 20/6/2013, la Co.L.C., dopo avere preso atto del responso del
medico legale, il quale aveva chiarito che il sig. S. poteva guidare il muletto, ha ordinato
al lavoratore di riprendere l'attività lavorativa il giorno 21, non ostante la malattia
certificata fino al 30/6/2013.
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Il 1/7/2013 il sig. S. ritorna al lavoro e il 8/7/2013 riceve una contestazione disciplinare
(palesemente infondata, visto il certificato medico del 17/6/2013), con cui gli viene
contestata l'assenza ingiustificata dal 21 al 29 giugno.
Il 10/7/2013 il sig. S. chiede di assentarsi il 15 luglio per una visita medica, e tale
richiesta gli viene negata. L'azienda nel presente procedimento sul punto si difende
allegando che gli altri due magazzinieri avevano richiesto ed ottenuto un permesso per
assentarsi in tal giorno, per cui per motivi organizzativi la datrice di lavoro era stata
costretta a respingere la richiesta. L'istruttoria ha dimostrato che solo uno degli altri due
magazzinieri il 15/7 era assente per un permesso, mentre l'altro era regolarmente al
lavoro.
Il 15 luglio 2013 il lavoratore chiede un acconto sulla retribuzione (già maturata) per il
mese di giugno con mail e reitera la richiesta con raccomandata del (omissis...).
Il 16/7/2013 (e cioè il giorno dopo la richiesta di percepire almeno parte della
retribuzione riferibile al mese precedente) l'azienda effettua la contestazione disciplinare
per cui è causa.
Il 17/7/2013 il sig. S. rende le proprie giustificazioni (doc. 19 di parte opposta).
Il 22/7/2013 il lavoratore (stante il bisogno connesso alla naturale destinazione del
salario al soddisfacimento di necessità primarie) reitera la richiesta di pagamento della
retribuzione, in relazione alla quale l'azienda è inadempiente (cfr. doc. 20 di parte
opposta).
Il 23/7/2013 il legale del lavoratore reitera la richiesta di pagamento della retribuzione
di giugno 2013 con lettera raccomandata ricevuta il 25/7/2013.
Il 29/7/2013 l'azienda paga un acconto della retribuzione e contestualmente consegna al
S. lettera di licenziamento disciplinare in tronco.
La condotta dell'azienda non pare trovare fondamento in ragioni legittime (il certificato
del medico aziendale del 30/4/2013 non lasciava adito a dubbi e comunque l'azienda ha
sollevato questioni ben dopo circa due mesi dallo stesso, allorchè ha visto il protrarsi
della malattia; Co.L.C. non ha esonerato dal lavoro il S. nelle more degli ulteriori
accertamenti disposti garantendogli una retribuzione, ma ha chiesto a questi di usufruire
delle ferie; nella comunicazione del 20/6/2013 evidenzia il proprio disappunto per la
malattia del lavoratore e la sua volontà espulsiva dichiarando di poter " sopportare solo
per un breve periodo la... ridotta prestazione lavorativa" del dipendente; comunica il
8/7/2013, dopo solo 8 giorni che il lavoratore era rientrato in servizio dalla malattia, una
contestazione disciplinare palesemente infondata; non corrisponde al S., neppure
parzialmente la retribuzione già maturata per il mese di giugno mettendolo in difficoltà
nell'assolvimento dei bisogni primari personali e della sua famiglia, e costringendolo a
reiterate richieste in tal senso; il 10 luglio l'impresa nega la richiesta di un permesso per
una visita medica che il S. ha programmato per il 15 luglio e connessa al suo precedente
stato di malattia e alla sua infermità, non ostante in azienda quel giorno sarebbe stato
presente anche altro magazziniere; il licenziamento del 29/7/2013 si palesa del tutto
ingiustificato e sproporzionato, configurandosi la contestazione sollevata il 16/7/2013
come un pretesto per poter procedere comunque all'espulsione del lavoratore oramai
divenuto un peso per l'azienda, stante la ridotta prestazione lavorativa conseguente al
suo stato di salute), e l'incalzare serrato degli eventi evidenzia l'intento ritorsivo della
datrice di lavoro.
Cassazione civile sez. lav., n. 5175 del 2015
Tutti e tre i detti motivi, rivolti contro gli accertamenti di fatto operati dalla Corte di
merito riguardo alla insussistenza nella specie del carattere discriminatorio del
licenziamento e del conflitto di interessi e, nel contempo, alla ingiustificatezza del
licenziamento, risultano in parte inammissibili e in parte infondati.
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Come è stato affermato da questa Corte, "in tema di valutazione delle risultanze
probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli
artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti
del vizio di motivazione di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere
direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa,
inammissibile in sede di legittimità" (v. fra le altre Cass. 20-6-2006 n. 14267).
Inoltre "il disposto dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non conferisce alla Corte di
cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di
controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la
valutazione data dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del
proprio convincimento e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la
concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i
fatti in discussione, senza che lo stesso giudice del merito incontri alcun limite al
riguardo, salvo quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, non essendo
peraltro tenuto a vagliare ogni singolo elemento, o a confutare tutte le deduzioni
difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che,
sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la
decisione adottata." (v.
Cass. 20-4-2006 n. 9234).
Del resto, come pure è stato chiarito, "il controllo di logicità del giudizio di fatto,
consentito dall'art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del "ragionamento
decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata
soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non
sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova
formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di
legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione
ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito
attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa" (v., fra le
altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766, Cass. 7-1-2014 n. 91).
Peraltro, infine, in particolare è stato anche precisato che "in tema di prova presuntiva, è
incensurabile in sede di legittimità l'apprezzamento del giudice di merito circa la
valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti
dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la
motivazione adottata appaia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di
diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni" (v. fra le altre
Cass. 20-7-2006 n. 16728, Cass. 23-1-2006 n. 1216).
Orbene la Corte di merito ha affermato che, nel caso in esame, "non è ravvisabile la
fattispecie del licenziamento discriminatorio, e ciò per carenza di prova dell'intento
vessatorio ovvero della ricorrenza del motivo illecito nella determinazione datoriale di
procedere al licenziamento in tronco del dirigente".
Al riguardo in particolare la Corte territoriale, valutate attentamente le risultanze
documentali e testimoniali relative alla seduta del c.d.a del 12-12-2003, e alle precedenti
missive del 22, 26 e 28 marzo 2003, ha ritenuto che "a fronte del licenziamento intimato
in relazione ad una pluralità di fatti ben determinati addebitati alla posizione del
dirigente S., non emerge tuttavia la prova sufficiente e convincente della connotazione
ritorsiva (o comunque discriminatoria) del licenziamento poichè il contrasto di vedute
manifestato dal neopresidente del c.d.a. dott. B., era dovuto dichiaratamente alla
posizione dello S., considerata dal Presidente in conflitto di interessi con il consorzio"
(con "posizione già resa pubblica e, per di più, al cospetto dei consiglieri di diversa area
politica").
14
Nel contempo la Corte di merito ha rilevato che "il datore di lavoro si era determinato al
licenziamento in tronco per una serie di inadempimenti, ritenuti gravi, e ciò nonostante
non contestati preventivamente al dirigente in modo che costui potesse esercitare con
pienezza il suo diritto di difesa" ed ha altresì accertato che "in carenza di prova
(gravante sul datore di lavoro) della correlazione causale tra il mantenimento della
carica di Presidente della Banca Biesse (ovvero di carica all'interno del Consorzio
COMAIS) ed il licenziamento in tronco, non è possibile ravvisare - anche sotto ulteriore
profilo - un connotato di "giustificatezza" del licenziamento". In particolare la Corte,
dopo aver attentamente esaminato e valutato le risultanze concernenti gli addebiti
relativi (in specie di cui ai n.ri 5, 6 e 10) ha in sostanza accertato che si trattava di
posizioni risalenti nel tempo e ben conosciute dal CAAP, che giammai aveva al
riguardo deliberato una situazione di conflitto di interessi e tantomeno aveva aperto una
procedura dando modo allo S., eventualmente, di rimuovere l'asserito conflitto. La
Corte, peraltro, ha poi aggiunto che una correlazione causale tra tale asserito conflitto e
il licenziamento andava esclusa "tanto più che la rottura del vincolo fiduciario, nella
missiva di licenziamento, è ricondotta non tanto alla posizione del dirigente in conflitto
di interessi ma, essenzialmente, al "grave inadempimento nel rapporto di lavoro".
Tali accertamenti di fatto risultano sorretti da motivazione congrua e per nulla
contraddittoria, e resistono alle contrapposte censure delle parti, le quali, in definitiva
ripropongono, ciascuna, una diversa lettura delle risultanze istruttorie e una revisione
del "ragionamento decisorio" della Corte di merito.
Del resto, in particolare:
sui primi due motivi del ricorso principale va rilevato che non sussiste alcuna logica
contraddizione tra la affermazione della mancata dimostrazione del carattere
discriminatorio del licenziamento e della correlazione causale dello stesso con l'asserito
conflitto di interessi, da una parte, e la affermazione della ingiustificatezza del
licenziamento medesimo "anche sotto" tale "ulteriore profilo", dall'altra, mentre non può
essere sindacata in questa sede la valutazione di merito dei singoli elementi di fatto
emersi ai fini della pretesa prova presuntiva;
sul terzo motivo del ricorso incidentale va ribadito che in ordine alla mancata
dimostrazione del nesso causale tra l'asserito conflitto di interessi e il licenziamento e in
relazione alla ingiustificatezza di questo la Corte di merito ha fornito una adeguata
motivazione priva di vizi logici, anche considerando la disciplina collettiva in materia.
Tribunale Firenze sez. lav., n. 261 del 2015
Esclusa dunque l'esistenza di una giustificazione oggettiva, va valutato se il motivo
illecito ritorsivo abbia assunto efficacia determinativa ed esclusiva del licenziamento
per potersi parlare di licenziamento ritorsivo.
La giurisprudenza sul tema è consolidata.
" in ipotesi di provvedimento datoriale ritorsivo spetta al lavoratore l'onere di provare la
natura di tale atto, attraverso la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere
con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia" (Cass. n. 14319/13) e che "secondo il
consolidato principio enunciato da questa Corte, l'intento ritorsivo deve avere avuto
un'efficacia, non solo determinativa, ma anche esclusiva, in relazione alla volontà del
datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di un
provvedimento legittimo di licenziamento " (Cass. n. 5555/11; n. 18283/10; Cass. n.
10047/04).
Inoltre l'onere della prova può essere "assolto con la dimostrazione di elementi specifici,
tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia, il quale deve aver
avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro" (Cass. n.
1823/10).
15
È infine necessario un rapporto di causalità fra le circostanze evidenziate e l'asserito
intento di rappresaglia (Cass, n. 7768/96), poiché "il giudice del merito, nel valutare gli
elementi in suo possesso, ivi compresi quelli indiziari o presuntivi, discrezionalmente
stabilisce e sceglie i più attendibili e concludenti ai fini della formazione dei suo
convincimento" (Cass. n. 1902/1994), purché tale apprezzamento non si risolva in vizi
logici o giuridici.
Nel caso in esame è palese che la decisione di risolvere in via anticipata il rapporto
nascesse come conseguenza immediata e diretta delle rivendicazioni avanzate dalla
lavoratrice per quanto riguarda la regolarizzazione dei fittizi contratti parasubordinati.
Infatti, in seguito alla lettera del 31 gennaio 2013, ricevuta il 2 febbraio 2013 (doc. 11
ric.), con la quale la lavoratrice rivendicava la subordinazione del rapporto con la
conseguente regolarizzazione retributiva e contributiva, la resistente rispondeva con
lettera 8 marzo 2013 (doc. 12 ric.) nella quale espressamente replicava alla precedente
della lavoratrice e, proprio dopo avere contestato le sue rivendicazioni, aggiungeva che
" ad ogni modo, a causa delle contingenti problematiche.." si imponeva la risoluzione
anticipata.
Appurato il carattere ritorsivo del licenziamento, a prescindere dalle dimensioni
occupazionali della resistente, va applicato il nuovo testo dell'art. 18 comma 1 L. n. 300
del 1970 in quanto riferito anche ai casi di "nullità del licenziamento perché
discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della L. 11 maggio 1990, n. 108 (omissis...)
ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da
un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile..
indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei
dipendenti occupati dal datore di lavoro".
La domanda di tesi deve allora essere accolta con condanna per la società convenuta alla
reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno (oggetto della
condanna generica richiesta dalla ricorrente), commisurato alla RGF dal recesso alla
reintegra con regolarizzazione assicurativa e previdenziale del medesimo periodo ed
oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Cassazione civile sez. lav., n. 3986 del 2015
Ed invero, seppure può ritenersi, come stabilito dalla Corte di merito, che il
licenziamento in questione fosse di natura ontologicamente disciplinare e comunque
privo di giusta causa o giustificato motivo (con le conseguenze in ogni caso di cui alla
L. n. 604 del 1966, art. 8, stante la pacifica consistenza occupazionale della datrice di
lavoro), non può considerarsi ritorsivo un licenziamento palesemente (anche se
erroneamente) basato sulla inosservanza di direttive aziendali, difettando comunque la
prova, a carico del dipendente, della sussistenza di un motivo illecito determinante che
in effetti non viene neppure chiaramente enucleato dal M.. In sostanza non è sufficiente
che il licenziamento sia (anche palesemente) ingiustificato per aversi un licenziamento
ritorsivo, essendo piuttosto necessario che il motivo pretesamente illecito (cioè contrario
ai casi espressamente previsti dalla legge, pur suscettibili di interpretazione estensiva,
all'ordine pubblico e al buon costume) sia stato l'unico determinante e sempre che il
lavoratore ne abbia fornito prova, anche presuntiva (Cass. n. 17087/11; Cass. n.
6282/11; Cass. n. 16155/09).
2.2- Nella specie, come già osservato, Io stesso lavoratore deduce che il licenziamento
fu motivato dal suo rifiuto (quand'anche legittimo) di sottostare ad ordini del datore di
lavoro in un campo pur (in tesi) estraneo all'attività lavorativa (pag. 14 ricorso),
dovendo anzi evidenziarsi che il licenziamento venne motivato, su esplicita richiesta del
M. (pag. 4 sentenza impugnata, incontestata sul punto) anche per la seguente ragione:
"Lei si è rifiutato di osservare le decisioni deliberate dalla presidenza regionale AGCI in
16
ordine al rinnovo delle cariche sociali in Coop. Fin. s.p.a. ed ai rapporti tra le centrali
associative".
Ciò non può risolversi, di per sè, in un motivo illecito determinante nè, tanto meno, in
un licenziamento discriminatorio ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 15.
3.- Con il terzo motivo il lavoratore denuncia una omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5).
Lamenta che la sentenza impugnata attribuì inutile rilievo alla circostanza della buona
fede della datrice di lavoro, consideratasi organizzazione di tendenza nel cui ambito il
rifiuto di aderire alle direttive anche di politica gestionale concretava un giustificato
motivo di licenziamento, evidenziando che nella specie non sussisteva alcuna
organizzazione di tendenza nè rilevava la buona fede della AGCI. Anche se tale ultima
considerazione può in via di principio condividersi (non potendo considerarsi
organizzazione di tendenza ma imprenditoriale, l'organizzazione comunque strutturata a
guisa di impresa, secondo criteri di economicità, Cass. n. 4983/14, n. 11777/11, n. 3868
del 12/03/2012), il motivo è sostanzialmente inammissibile per censurare accertamenti
di fatto svolti dal giudice di merito ed adeguatamente motivati, nonchè per difetto di
interesse non essendo la buona fede del datore di lavoro la ratio decidendi della sentenza
impugnata (basata invece sull'assenza di prova di un motivo illecito determinante).
Tribunale Napoli sez. lav., 17/02/2015
Fattispecie: Con ricorso ex art. 1 co. 47 della legge nr. 92/2012, il ricorrente chiedeva a
questo giudice di dichiarare l'invalidità, la nullità, l'illegittimità e l'inefficacia del
licenziamento datoriale intimato in data 21.6.2014 per maturazione dei requisiti
anagrafici pensionistici, con conseguente condanna alla reintegra nel suo posto di lavoro
e al risarcimento del danno, commisurato ad un'indennità pari all'ultima retribuzione
globale di fatto dal licenziamento alla effettiva reintegra, oltre che al versamento dei
contributi previdenziali ed assistenziali.
In particolare, deduceva che il licenziamento era stato disposto in violazione dell'art. 24,
comma 4, del 201/2011, che attribuirebbe al lavoratore il diritto di proseguire il rapporto
di lavoro oltre il conseguimento dei requisiti per accedere alla prestazione previdenziale
e precisamente sino all'età di settanta anni; inoltre allegava che il licenziamento in
questione era ritorsivo e discriminatorio, volendo la società liberarsi di un lavoratore
scomodo in ragione delle vicende giudiziarie che avevano interessato le parti ed all'esito
delle quali il ricorrente era risultato vittorioso.
In subordine, in caso di rigetto della impugnativa di licenziamento, chiedeva
condannarsi la convenuta al pagamento dell'indennità di mancato preavviso quantificata
in € 21.113,40 o nella diversa somma ritenuta di giustizia, oltre interessi e rivalutazione,
il tutto con vittoria di spese.
Costituitasi in giudizio la RAI S.p.A., ha dedotto la piena legittimità del licenziamento
sotto un duplice profilo: da un lato, l'art. 24, comma 4, d.l. 201/2011, che fa salvi “i
limiti ordina mentali dei rispettivi settori di appartenenza”, sarebbe inapplicabile al caso
di specie per prevalenza della regola del CCNL che stabilisce la cessazione automatica
del rapporto lavorativo al maturare dei requisiti per accedere alla pensione; dall'altro
lato, l'art. 24, comma 4, d.l. 201/2011 non attribuirebbe al lavoratore un diritto di
proseguire il rapporto lavorativo ma presupporrebbe il consenso di entrambe le parti alla
prosecuzione del rapporto e si limiterebbe pertanto a disciplinare normativamente – sul
piano dell'ammontare della prestazione previdenziale e della tutela in caso di recesso
datoriale – le conseguenze della concorde volontà del lavoratore e del datore di
proseguire il rapporto anche successivamente alla maturazione dei requisiti per il
conseguimento della pensione.
17
Le conclusioni a cui si è giunti, in base alle quali il licenziamento appare legittimamente
irrogato sulla base dell'interpretazione della normativa accolta in questa sede,
consentono di superare agevolmente anche le censure relative alla asserita natura
discriminatoria e/o ritorsiva del licenziamento in questione.
Diversamente argomentando, sempre con riguardo a tale aspetto, deve, inoltre, rilevarsi
che ai sensi dell'art. 3 L. 108/1990 “Il licenziamento determinato da ragioni
discriminatorie ai sensi dell'articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e dell'articolo
15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 13 della legge 9
dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e
comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le
conseguenze previste dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come
modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.
La previsione di nullità per il licenziamento discriminatorio, quale posta dapprima
dall'art. 4 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (dov'è sancita la nullità del licenziamento
determinato da motivi politici, religiosi o sindacali) e, quindi, dall'art. 15 della legge 20
maggio 1970 n. 300 (che ha ribadito la nullità di atti o parti posti in essere a fini di
discriminazione, oltre che sindacale, anche politica, religiosa, razziale, di lingua o di
sesso), dall'art. 3 della legge 11 maggio 1990 n. 108 e da ultimo dall'art. 18 St. Lav.
novellato dalla L. 92/2012, deve essere riferita, con le conseguenze sanzionatorie
implicanti la tutela reale (ex citato art. 18), anche a fattispecie di licenziamenti che, pur
non direttamente corrispondenti alle singole ipotesi espressamente menzionate nelle
suddette norme, siano determinati in maniera esclusiva da motivo, illecito, di ritorsione
o rappresaglia e costituiscano, cioè, l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione
del provvedimento espulsivo – essenzialmente, quindi, di natura “vendicativa” – a
fronte di un comportamento legittimo e sotto ogni profilo corretto, posto in essere dal
lavoratore (ad esempio, per far valere rivendicazioni anche a mezzo di iniziative
giudiziarie) ed inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro a questo comunque
connessi.
Tale interpretazione estensiva del citato art. 3 (legge n. 108/1990) è giustificata dal
rilievo che le indicazioni dei vari casi di licenziamento discriminatorio, contenute nelle
sopra dette disposizioni, costituiscono specificazione della più ampia fattispecie del
licenziamento viziato da motivo illecito, riconducibile alla generale previsione
codicistica dell'atto unilaterale nullo ai sensi dell'art. 1345 (in relazione all'art. 1324) c.c.
e dalla considerazione che, in tale ampia e generale previsione, è certamente da
comprendere il licenziamento intimato per ritorsione e rappresaglia come sopra inteso –
pur esso in qualche modo implicante una illecita discriminazione, intesa in senso lato,
del lavoratore licenziato rispetto agli altri dipendenti – il quale, pertanto, integra
fattispecie del tutto similare e, perciò, assimilabile a quelle oggetto della espressa
previsione del medesimo art. 3 (cfr. Cass. 28 aprile 1995 n. 4747;
9 luglio 1979 n. 3930).
Per affermare il carattere ritorsivo e, quindi, la nullità del provvedimento espulsivo, in
quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a
carico del lavoratore, che l'intento discriminatorio e di rappresaglia abbia avuto efficacia
determinativa “esclusiva” (ex art. 1345 c.c. in relazione all'art. 1324 c.c.) della volontà
del datore di lavoro, occorrendo anche la prova della sussistenza di un rapporto di
causalità tra le circostanze allegate e l'asserito intento di rappresaglia, dovendo, in
mancanza, escludersi la finalità ritorsiva del licenziamento (Cass. 14816 del
14/07/2005). Dunque, il lavoratore può assolvere l'onere della prova del carattere
ritorsivo, nel provvedimento adottato dal datore di lavoro, con la dimostrazione di
elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia
(Cass. 10047 del 25/05/2004).
18
Tanto premesso, nel caso di specie, le dedotte vicende giudiziarie che hanno interessato
le parti in causa, relative al riconoscimento in capo al S. di una qualifica superiore ed
alla conseguente condanna della RAI al pagamento delle differenze retributive, non
consentono di ritenere sussistente la natura ritorsiva e/o discriminatoria del
licenziamento, tanto più in presenza del raggiungimento dei limiti di età per l'accesso
alla pensione di vecchiaia che ha, come sopra argomentato, giustificato il recesso
datoriale.
Tribunale S. Maria Capua Vetere, n. 598 del 2015
Quanto fin qui addotto non esaurisce però l'accertamento dei vizi che attecchiscono in
via principale il provvedimento di licenziamento per come dedotti all'interno di questo
giudizio (sotto il profilo della discriminatorietà ed illiceità).
In via principale rileva, infatti, il fine ritorsivo e comunque illecito che connota il
provvedimento in oggetto, per la cui chiara individuazione non può prescindersi dal
contesto nel quale esso è maturato.
Ed infatti, ad avviso del giudicante, l'atto di recesso oggetto della presente impugnativa
deve a ben vedere essere inquadrato nell'ambito della serie reiterata di comportamenti
vessatori volti all'emarginazione e all'esclusione del ricorrente dall'ambiente di lavoro,
appunto quale ultimo atto in volto a realizzare il disegno datoriale finalizzato alla
definitiva espulsione del Di Ci. considerato ormai elemento scomodo e non più gradito
alla dirigenza aziendale dell'amministrazione convenuta.
La motivazione del licenziamento, ovvero il superamento del periodo di comporto, oltre
che illegittima, per i motivi sopra esposti, si rivela nella sostanza una motivazione solo
apparente che cela l'intento ritorsivo e discriminatorio.
Ebbene, in generale, si è in presenza di un licenziamento ritorsivo e/o discriminatorio
e/o per motivo illecito determinante allorquando l'atto di recesso costituisce un mero
pretesto per perseguire con il licenziamento un altro e diverso scopo: quello di
procedere all'espulsione dal tessuto aziendale dei lavoratori scomodi o peggio sgraditi
per ragioni del tutto svariate.
La pretestuosa modifica organizzativa, ovvero i motivi disciplinari addotti, a seconda
del caso concreto, celano, dunque, un licenziamento per ritorsione o rappresaglia,
attuato come precisa la Corte di Cassazione "a seguito di comportamenti risultati
sgraditi all'imprenditore": "costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica
ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa""
(cfr. Cass., sez. lav., 3 agosto 2011, n. 16925).
Può, dunque, risultare particolarmente complesso per la parte onerata (il lavoratore)
allegare circostanze comprovanti la natura discriminatoria o ritorsiva dell'atto, posto che
queste "sono gelosamente custodite nella sfera datoriale", ma è pur vero che il
lavoratore può avvalersi di presunzioni. Nonostante i predetti temperamenti, le difficoltà
probatorie permangono, considerazione del fatto che parte della giurisprudenza richiede
l'ardua prova dell'elemento soggettivo, del c.d. intento discriminatorio o ritorsivo.
Tuttavia è stato rilevata dalla giurisprudenza più accorta l'applicabilità al caso in esame,
oltre che dei principi ineludibili dell'agire secondo correttezza e buona fede, dell'istituto
del divieto di compiere atti in frode alla legge di cui all'art. 1344 c.c., divieto che
rappresenta, dunque, un autonomo limite esterno al potere discrezionale del datore di
lavoro, che opera in caso di "oggettivo sviamento fraudolento della causa in concreto
del licenziamento".
Dall'adozione della descritta impostazione derivano due rilevanti conseguenze. In primo
luogo, l'accertamento giudiziale verte sullo scopo della manovra elusiva che deve
coincidere con quello vietato dalla norma imperativa e, pertanto, talvolta potrebbe anche
prescindere dall'indagine sul motivo illecito esclusivo e determinante.
19
Peraltro, l'illiceità del licenziamento in frode alla legge non richiede la difficile prova
dell'intento elusivo (nel caso, ritorsivo), inteso come elemento che afferisce alla
dimensione psicologica.
L'intento del datore di lavoro non costituisce un elemento della frode alla legge ed è
giuridicamente irrilevante sino a che non integra un motivo illecito esclusivo e
determinante (art. 1345 c.c.).
Pertanto, la valutazione del carattere fraudolento dell'operazione economica
complessivamente realizzata non può che avere carattere oggettivo, posto che deve
riferirsi "alla causa in concreto dell'atto di licenziamento che in queste ipotesi viola vere
e proprie norme imperative che contengono limiti esterni alla causa tipica del
licenziamento stesso".
È stato, inoltre, affermato dalla giurisprudenza di merito che "l'atto discriminatorio è,
nella normalità dei casi, agganciato ad un motivo apparentemente valido quale, nel caso
di specie, la dedotta riduzione di personale per crisi aziendale ma l'indagine del
giudicante non può limitarsi alla formalistica presa d'atto dell'indicazione della
motivazione da parte datoriale, ma deve piuttosto condurre a verificare se nel
compimento dell'atto gestorio del rapporto di lavoro non sia stata posta in essere una
discriminazione vietata dall'ordinamento, come, nel caso di specie, nella scelta del
lavoratore rispetto al quale risolvere il rapporto" (Tribunale Latina, 02 agosto 2012; cfr.
anche Tribunale Bologna sez. lav., 19 novembre 2012 e Tribunale Lodi, 19 aprile
2012).
La Cassazione in una sentenza significativa pone l'accento sul carattere "vendicativo "
dell'atto di recesso avendo precisato che "il licenziamento per ritorsione, diretta o
indiretta che questa sia, è un licenziamento nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale
illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto
dell'art. 1418 c.c., comma 2, art. 1345 e 1324 c.c. Esso costituisce ingiusta ed arbitraria
reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra
persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce
al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta."
Siffatto tipo di licenziamento è stato ricondotto, data l'analogia di struttura, alla
fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dagli art. 4 l. n. 300 del 1970, e 3 l.
n. 108 del 1990 interpretati in maniera estensiva che ad esso riconnettono le
conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all'art. 18 dello statuto dei lavoratori,
applicabili anche nell'ipotesi in cui il licenziamento riguardi un dirigente (cfr. Cass., sez.
lav., 8 agosto 2011, n. 17087).
La Suprema Corte ha, infatti, affermato che "in tema di licenziamento, l'art. 3 della
legge n. 108 del 1990, che estende ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori, ai
sensi degli artt. 4 della legge n. 604 de/1966 e 15 della legge n. 300 del 1970 le
conseguenze sanzionatorie previste dall'art. 18 della medesima legge n. 300 del 1970,
qualunque sia il numero dei dipendenti ed anche a favore dei dirigenti, deve intendersi
applicabile in genere ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo determinante ed, in
particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o
di rappresaglia" (in tal senso, tra le altre, Cass., sez. lav., 1 dicembre 2010, n. 24347).
Nel caso che ci occupa diversi sono gli elementi che assurgono ad indici rivelatori del
carattere ritorsivo del licenziamento.
L'ASL ha intimato il licenziamento per superamento del periodo di comporto con
delibera del 7 agosto 2008, ma, a ben vedere, il periodo di comporto risultava superato
dal ricorrente già a partire dal 03.03.2006 per come rilevato dalla stessa
amministrazione resistente che, con nota del 16 aprile 2007, proprio sul presupposto del
superamento del periodo di comporto, comunicava al ricorrente la sospensione della
retribuzione e l'intenzione di procedere al recupero delle retribuzioni percepite
20
indebitamente a partire dalla data su indicata (provvedimenti dichiarati illegittimi ed
annullati con sentenza di questo Tribunale n. 5408/2012).
Ebbene la tempistica osservata dalla convenuta nella procedura di licenziamento assume
un significato pregnante laddove si consideri che lo stesso è intervenuto in pendenza del
procedimento di reclamo, laddove di lì a poco sarebbe stata depositata la relazione del
perito nominato dal collegio, giudizio che, poi, stante l'intervenuto recesso, si è
concluso con. un provvedimento di cessazione della materia del contendere.
L'amministrazione resistente, che fino a quel momento, attraverso i giudizi medico legali dei medici competenti aveva ritenuto il ricorrente dapprima affetto da "mobbing
syndrom" e poi da "disturbo della personalità con spunti interpretativi", alla data del
31.07.2008, ritenendolo evidentemente guarito da tutte le patologie in precedenza
diagnosticate, lo giudicava idoneo al lavoro, per poi licenziarlo con provvedimento del 7
agosto 2008.
Non meno rilevanti appaiono le anomalie della procedura di licenziamento che si apre
in data 16.04.2008 con una lettera di contestazione che preannuncia, in realtà, un
licenziamento per giusta causa, così come si legge nel testo della nota prot. n. 6651 (...
tanto premesso questa Azienda intende dunque procedere alla risoluzione del rapporto
di lavoro, mediante procedimento di recesso per giusta causa, avendo la S. V. superato
il periodo di comporto previsto dalle norme contrattuali ed in quanto la condotta posta
in essere risulta negligente e omissiva degli elementari doveri di pubblico dipendente,
Condotta, pertanto, tale da non consentire, ai sensi e per gli effetti dell'art. 36 comma 2
del CCNL del 05.01.96 per l'Area della Dirigenza Medica e Veterinaria e dell'art. 2119
del Codice Civile, la prosecuzione, sia pur provvisoria, del rapporto di lavoro).
Al ricorrente viene, dunque, contestato non solo il superamento del periodo di comporto
(a distanza di circa due anni), ma anche una condotta "negligente e omissiva degli
elementari doveri di pubblico dipendente". In seguito a numerose richieste di
chiarimenti avanzate dal Di Ci., l'amministrazione, con nota del 27.05.2008, dapprima
precisa che la condotta negligente e omissiva tenuta dal dipendente sarebbe consistita
nel far pubblicare articoli su testate nazionali e regionali volte a gettare discredito
sull'Azienda, contestandogli, altresì, un episodio nel quale il ricorrente avrebbe tenuto
un comportamento aggressivo in presenza di altri dipendenti nei locali dell'Azienda;
successivamente, tali contestazioni vengono del tutto abbandonate ed il licenziamento
viene intimato esclusivamente per superamento del periodo di comporto.
Ebbene, tutti gli elementi messi fin qui in evidenza costituiscono senza dubbio elementi
di prova idonei (in quanto gravi, precisi e concordanti) per sostenere tanto la natura
ritorsiva del licenziamento, quale reazione a legittimi atti di denuncia del ricorrente, ed,
altresì, alle azioni giudiziarie dallo stesso intraprese per la tutela dei propri diritti (non è
un caso che l'atto datoriale di recesso dal rapporto di lavoro intervenga proprio nelle
more del procedimento di reclamo instaurato dal ricorrente), tanto la sua natura illecita
in quanto animato dall'unico scopo di allontanare definitivamente dalla realtà aziendale
un soggetto ormai non più gradito alla compagine dirigenziale dell'amministrazione
resistente.
Il licenziamento appare dunque l'epilogo della tormentata vicenda lavorativa vissuta dal
ricorrente rappresentando, come già evidenziato, l'ultimo (illegittimo) atto della serie
reiterata di condotte vessatorie poste in essere dall'azienda convenuta ai danni del Di
Ci..
Sulla scorta di quanto sinora detto il licenziamento intimato al ricorrente va, dunque,
dichiarato nullo, con applicazione della tutela reale più completa
Tribunale Monza sez. lav., n. 887 del 2015
21
Oggetto del presente giudizio è l'accertamento della asserita illegittimità del
licenziamento intimato al ricorrente a motivo del suo carattere discriminatorio.
La istruzione probatoria non ha consentito al S. di provare alcuna delle allegazioni che,
a suo avviso, dimostravano la natura discriminatoria del recesso.
Tutti i dipendenti hanno affermato che nei locali della azienda vi erano aspiratori e che i
dipendenti erano forniti di tutti i presidi individuali necessari, ivi comprese mascherine
ed occhiali e che era, semmai, proprio il S. a non utilizzarli e che, per questo, era stato
destinatario di richiami da parte del datore di lavoro.
Dalla documentazione prodotta dalla parte resistente e segnatamente dalla relazione
della ditta TECNOLOGIE DI IMPRESA SRL sul rischio ambientale si evince che in
azienda era presente un impianto collettivo di aspirazione ed erano in dotazione le
mascherine di protezione individuale (ved. allegato 4) e che, riguardo a queste ultime, vi
è prova della consegna delle stesse al S. (ved. doc. 5).
La società convenuta ha provato anche documentalmente di aver dovuto inoltrare
diversi richiami scritti al S. per il mancato uso dell'aspiratore portatile dei fumi di
saldatura, con ciò confermando le affermazioni dei testi in merito alla scarsa attenzione
che il ricorrente prestava all'utilizzo dei mezzi individuali di protezione.
Non è poi in alcun modo emerso che il S. abbia mai segnalato a chicchessia la
sussistenza di omissioni rispetto alla tutela della salute o problemi attinenti la protezione
della salute dei lavoratori o problemi di natura ambientale.
È pertanto evidente l'assenza di qualsiasi profilo discriminatorio nella condotta della
datrice di lavoro che lo ha licenziato per giustificato motivo oggettivo e non certo per
ritorsione/punizione.
Si deve sottolineare, da ultimo, che il lavoratore non ha contestato specificatamente nè
la sussistenza del giustificato motivo oggettivo di recesso (desunta dalla asserita e
smentita in giudizio natura discriminatoria dello stesso) nè la violazione dei criteri per la
scelta dei dipendenti da licenziare.
D'altro canto la datrice di lavoro ha provato con la documentazione prodotta di aver
avuto una contrazione di commesse che giustificava la riduzione del personale.
Del resto tutti i testi escussi hanno dato atto di tale situazione di difficoltà che aveva,
prima del licenziamento di ben tre dipendenti uno dopo l'altro, condotto alla cessazione
di qualsiasi attività di lavoro straordinario.
In merito al criterio utilizzato dalla datrice di lavoro per la individuazione dei soggetti
via via da licenziare, i testi hanno confermato che erano stati licenziati man mano i
dipendenti che rappresentavano un maggior costo per la società (ved. anche allegate
buste paga in fascicolo resistente), criterio ragionevole in presenza di lavoratori tutti
fungibili fra loro.
Alla luce di quanto sopra esposto il ricorso va respinto.
Tribunale Firenze sez. lav., n. 88 del 2015
Smentita la sussistenza del motivo oggettivo a base del recesso, appare confermato
altresì il motivo discriminatorio nei confronti della ricorrente quale lavoratrice madre.
Infatti, l'intenzione di liberarsi di una lavoratrice che aveva palesato la ricerca di una
maternità, e che quindi presumibilmente a breve avrebbe potuto assentarsi di nuovo per
tale motivo (come poi in effetti è avvenuto nel periodo successivo licenziamento,
avendo la ricorrente partorito il 18 giugno 2014, come da certificato medico prodotto
all'ud. 15.7.2014), emerge dalla combinazione delle seguenti circostanze:
- stretta connessione cronologica fra il rientro dall'interruzione anticipata dalla maternità
e l'intimazione di licenziamento ingiustificato;
- il contesto di recenti nuove assunzioni che avevano preceduto lo stesso licenziamento
- il mantenimento in servizi di personale con analoghe mansioni e minore anzianità
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In conclusione, la domanda di risarcimento del danno in tutela obbligatoria deve essere
accolta con condanna della resistente alla misura massima dell'indennizzo di legge (6
mensilità della retribuzione globale di fatto di € 1.579,49 = € 9476,94), misura stimata a
fronte sia della durata del rapporto (iniziato dal 2006) sia dei plurimi, e gravi, motivi di
illegittimità dello stesso licenziamento.
Le spese di lite seguono la soccombenza, liquidate come da D.M. n. 55 del 2014, con
riferimento agli importi medi dello scaglione di valore fino ad € 26 mila delle cause di
lavoro senza istruttoria.
Cassazione civile sez. lav., n. 655 del 2015
Fattispecie: recesso in esito patto di prova
(…)comunque è sul lavoratore che incombe l'onere di dimostrare la contraddizione tra
recesso e funzione dell'esperimento o anche la sussistenza del motivo illecito del
licenziamento e tale onere può essere assolto anche attraverso presunzioni, che, però,
per poter assurgere al rango di prova, debbono essere "gravi, precise e concordanti"
(Cass. 15 novembre 2000, n. 14753; vedi Cass. 13 settembre 2006, n. 19558).
Cass., n. 3821 del 2011
Massima: Non costituisce violazione del divieto di trattamenti discriminatori il
licenziamento disciplinare per "culpa in vigilando" disposto dal datore di lavoro nei
confronti del dirigente, appartenente ad un'associazione religiosa, che abbia
incautamente autorizzato quest'ultima a somministrare ai dipendenti un test attitudinale
invasivo nei riguardi della loro vita privata, non essendovi alla base del recesso
l'orientamento etico religioso dell'associazione di appartenenza, ma solo i riflessi
negativi della vicenda sul contesto aziendale e sulla serenità dei dipendenti.
Estratto: Ed invero, la condotta sanzionata, ossia il monitoraggio posto in essere senza
la necessaria preventiva informazione del Consiglio di Amministrazione ed in
violazione delle linee operative dell'azienda, contrariamente a quanto assume il
ricorrente, è stato correttamente ritenuto dalla Corte di merito, con motivazione
incensurabile sotto i profili evidenziati, oltre che un dato oggettivamente provato,
ragione di per sé suscettibile di essere valutata in termini di rilevanza disciplinare che di
certo non dissimula un intento discriminatorio del provvedimento espulsivo, pienamente
giustificato dalla negligenza posta in essere dai dirigente Volpi. E ciò, come è dato
evincere dalla argomentata articolazione motivazionale, a prescindere da ogni supposta
adesione del Volpi, ma attribuendo rilievo all' incauto affidamento a società facente
capo ad associazione di orientamento etico religioso discutibile di un'attività aziendale
delicata, quale quella attinente alla comunicazione endoaziendale, senza che da ciò
possa in alcun modo inferirsi un contegno anche indirettamente discriminatorio riferito
alla esclusione in via di principio di ogni possibilità di contatto con società
ideologicamente connotate, ove tale connotazione non avesse avuto i riflessi che
avevano fatto paventare un condizionamento degli stessi soggetti sottoposti al test.
Deve escludersi, pertanto, che la Corte territoriale sia incorsa nella denunziata
violazione delle norme richiamate in tema di divieto di trattamenti discriminatori
giustificati da ragioni di appartenenza ad un particolare credo ideologico o religioso,
laddove si consideri che anche quanto si assume in merito alla mancata valutazione di
elementi di fatto indiziari valutabili alla stregua dell'art. 2729, primo comma, c.c. — in
particolare l'esito dell'accertamento condotto in sede arbitrale — non risulta provato ed,
anzi, emerge che al riguardo la società ha affermato che la prova raggiunta ha consentito
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di ritenere provata la rilevanza dei relativi addebiti. Nulla risulta dedotto con riguardo
alla valutazione operata dai giudici del merito delle risultanze del giudizio arbitrale, la
relativa omissione essendo invocata in termini di assoluta genericità ed alcuna censura
viene mossa circa i criteri ed i vizi logico giuridici in cui sarebbe incorsa la valutazione
compiuta, sicche anche da tale punto di vista il ricorso è privo di fondamento . La
dedotta applicazione delle regole in tema di giudizio fondata su elementi presuntivi non
si riconnette, invero, a dati certi che consentano di ritenere un'omessa valutazione di dati
pacificamente e inconfutabilmente acquisiti agli atti di causa, dovendo al riguardo anche
osservarsi che le prove raccolte in un diverso giudizio danno luogo ad elementi
meramente indiziari, conseguendone che la
mancata valutazione di tali prove non è idonea ad integrare il vizio di motivazione, in
quanto il difetto riscontrato non può costituire punto decisivo, implicando non un
giudizio di certezza, ma di mera probabilità rispetto alla astratta possibilità di una
diversa soluzione ( cfr., in tali termini, Cass. 23.4.1998 n. 4183).
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