LA PATOLOGIA AUTISTICA Giovanni Polletta QUADRO GENERALE L’autismo è considerato oggi un disturbo della funzione del Sistema Nervoso Centrale, ossia del cervello: secondo i criteri indicati dal DSM-IV la sua incidenza è di dieci casi su diecimila soggetti, con una percentuale maggiore di maschi rispetto alle femmine. Esso è compreso nel più ampio gruppo dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (DPS): i DPS sono un gruppo di sindromi che pur non condividendo sempre la medesima eziologia, manifestano aspetti clinici talvolta molto simili. La loro caratteristica più importante è che le difficoltà principali riguardano l’acquisizione di abilità cognitive, linguistiche, motorie e sociali. La genesi di questi disturbi risale alla prima infanzia ed è associata ad una chiara riduzione delle capacità sociali, comunicative e cognitive di base. I DPS, oltre all’autismo, comprendono la Sindrome di Rett, il Disturbo Disintegrativo dello Sviluppo (o Sindrome di Heller), la Sindrome di Asperger e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato. L’autismo è fra queste l’entità clinica meglio conosciuta e definita: nel 75% dei casi si presenta associato a ritardo mentale e colpisce maggiormente tre aree dello sviluppo infantile, quella della relazione con gli altri, quella della comunicazione, quella del comportamento; ad esse ci si riferisce quando si parla della “triade di sintomi”. Proprio sulla triade si incentrano le principali classificazioni internazionali attualmente disponibili, il DSM-IV e l’ICD-10, per definire i criteri diagnostici di riferimento e inquadrare con maggior precisione le caratteristiche del disturbo. I criteri diagnostici per il Disturbo autistico secondo il DSM-IV (1996) sono quelli di seguito indicati: 1- Compromissione qualitativa dell’interazione sociale (per la diagnosi di autismo devono essere presenti almeno due elementi fra quelli seguenti): a) marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale; b) incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppo; c) mancanza di ricerca spontanea nella condivisione di gioie, interessi od obiettivi con altre persone (ad esempio: non mostrare, portare, né richiamare l’attenzione su oggetti di proprio interesse); d) mancanza di reciprocità sociale ed emotiva. 2- Compromissione qualitativa della comunicazione sociale (per la diagnosi di autismo deve essere presente almeno un elemento fra quelli seguenti): a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o mimica); b) i soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri; c) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico; d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo. 3- Modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati (per la diagnosi di autismo deve essere presente almeno un elemento fra quelli seguenti): a) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o per intensità o per focalizzazione; b) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici; c) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, complessi movimenti di tutto il corpo ecc.); d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti. (Cottini, 2002) “I segni dell’autismo sono vari e, presi isolatamente, non patognomici. Sono dunque significativi il loro raggruppamento, la loro persistenza e, per alcuni, il loro carattere peculiare, per quanto non specifico” (Lebovici S., Weil-Halpern F., 1994). È molto difficile individuare e diagnosticare con certezza l’autismo, in quanto si presenta con estrema variabilità ed eterogeneità, sia per la molteplicità dei sintomi che si possono presentare, sia per la loro disparità da un caso all’altro. Alcuni autori anglosassoni ritengono più corretto parlare di ‘spettro autistico’ (Wing) per indicare, dalla più grave alla più lieve, tutte le caratteristiche difficoltà dell’autismo immaginate lungo un ininterrotto continuum. La sindrome si presenta con caratteristiche simili indipendentemente dal contesto geografico, culturale ed economico (Wing, 1996) nel quale si manifesta. Per definizione l’autismo compare prima dei tre anni di età; è possibile percepire segnali anche prima dei diciotto mesi, ma essi possono essere confusi con semplici condizioni di disagio che il bambino prova in quel momento. È soltanto intorno ai due anni che il bambino può essere riconosciuto come autistico. “Questo aspetto dell’insorgenza è il cardine del concetto che ha trasformato il mondo dell’autismo per cui oggi si ritiene che l’autismo sia un disturbo dello sviluppo: il bambino non ha potuto maturare quelle abilità necessarie per sviluppare una naturale relazione sociale, una naturale comunicazione, e una capacità di cambiare, di essere flessibile, di essere simbolico; è una difficoltà dello sviluppo, e queste difficoltà si manifestano molto precocemente” ( Xaiz C., Micheli M., 2001). Aspetti Motorio-Comportamentali Dal punto di vista motorio il comportamento è caratterizzato dalla presenza di stereotipie e atti compulsivi: essi, anche se si riscontrano in quasi tutti i bambini affetti da autismo, si manifestano in ognuno in maniera diversa e peculiare. Le stereotipie (espressioni motorie ripetitive apparentemente prive di finalità adattive) possono presentarsi in due forme, autolesive e non autolesive. Purtroppo di frequente le stereotipie autolesive raggiungono livelli estremi, per esempio quando il soggetto arriva a staccarsi le falangi a morsi o a battere violentemente il capo contro una parete. Le sterotipie non autolesive più frequenti, a cui vengono associate finalità autostimolatorie, sono: - l’altalena, che consiste in un continuo movimento di oscillazione del busto; - i movimenti delle mani, costituiti da gesti di sfarfallio, di picchiettamento o di azione inferita sugli oggetti, di solito fatti ruotare come trottole; - l’andatura particolare in punta di piedi; - i movimenti del capo, che si caratterizzano spesso per una serie di contrazioni facciali che provocano smorfie. Oltre alle stereotipie vanno segnalati i cosiddetti ‘ritualismi comportamentali’, cioè azioni ripetute in sequenza e a lungo senza un motivo apparentemente valido. Gli autistici sono persone estremamente abitudinarie: si impegnano molto nell’allineare oggetti e mostrano un forte interesse per auto, targhe automobilistiche od orari dei treni. È importante ricordare, come sostiene la Frith (1989), che le sterotipie non sono presenti solo nei movimenti, ma anche nei pensieri, e sono quindi invisibili. Questo aspetto del comportamento agli occhi delle persone normali sembra assurdo e insensato, ma ha un preciso significato per chi lo mette in atto: esso rappresenta uno sforzo per far fronte all’ambiente circostante, un ambiente che è imprevedibile, che è stato definito da un autistico ad alto funzionamento ‘caos sociale’. Percepire caos sociale vuol dire sentirsi socialmente disorganizzati, vivere in un mondo in cui le cose mutano in continuazione: questa è la sfida fondamentale che i soggetti autistici si trovano a dover fronteggiare. Il bambino autistico riceve una forte rassicurazione affettiva nella presenza di un ambiente assolutamente stabile: ogni variazione inaspettata, anche banale, provoca reazioni di collera esagerate fino a che non è entrata nella routine, in quanto è interpretata come un tentativo di scalfire quel mondo privato che egli si è costruito a scopo difensivo. Ecco allora che il ritualismo autistico può manifestarsi, oltre che con una collocazione stabile degli oggetti nell’ambiente, anche con il rifiuto di variare l’abbigliamento, con la scelta di un solo alimento, di utensili particolari e altre stranezze ancora. È logico che chi vive in una situazione caotica tale trovi poi sollievo nelle cose immutabili o che si ripetono sempre nello stesso modo, al contrario delle nostre relazioni sociali. È evidente che i deficit a livello motorio non colpiscono soltanto il comportamento manifesto, ma anche i processi cognitivi e di comunicazione: è necessario avere la corretta condotta motoria per parlare, utilizzando la gola, la lingua, la bocca per formare dei suoni che diventeranno parole. Allo stesso tempo se il bambino non ha una buona motricità avrà delle difficoltà per apprendere e comunicare con i gesti, per imparare a scrivere e per tutto ciò che appartiene alla sfera quotidiana (come vestirsi o apparecchiare la tavola). Una delle cause maggiori responsabili dei problemi di comportamento è proprio il disturbo della comunicazione, in quanto essi spesso insorgono proprio perché il soggetto autistico non riesce ad esprimersi tramite modalità adeguate. Aspetti linguistico-comportamentali La compromissione qualitativa della comunicazione sociale è uno degli aspetti più seri che coinvolge chi è colpito da autismo. Nello sviluppo normale della comunicazione è presente fin dall’inizio una componente sociale, che contribuisce ad inserire il soggetto nelle relazioni sociali. È sbagliato affidarsi al luogo comune per cui i bambini autistici vivono chiusi in se stessi, nel loro mondo senza entrare in relazione con gli altri. Si parla di compromissione qualitativa proprio per sottolineare il fatto che la comunicazione non è assente ma deviante; spesso questa forma comunicativa è definita ‘privata’, perché può essere compresa solo dai genitori o da chi sta quotidianamente vicino al bambino. Quando si lavora con un soggetto autistico è quindi necessario conoscerlo il più a fondo possibile, conoscerne ogni dettaglio per poter capire i suoi atteggiamenti. Soltanto circa la metà dei soggetti autistici arriva a possedere un linguaggio verbale più o meno affinato, ma molti non riescono ad acquisire nemmeno gli aspetti più elementari del linguaggio universale; spesso non vengono sviluppate forme significative di linguaggio sia di tipo espressivo che ricettivo, e soprattutto non viene assorbita né sfruttata la funzione pragmatica del linguaggio stesso, cioè l’uso pratico che ne viene fatto nelle relazioni sociali. Ciò sta a significare che il deficit non si limita al funzionamento linguistico: il problema fondamentale è che l’autistico non sa a cosa serva la comunicazione, non sa che essa ha uno scopo, un fine ben preciso, che è quello di interagire con gli altri, i loro pensieri e modificare il mondo intorno a sé. Nell’autismo si verifica una situazione paradossale: anche quando viene acquisita una discreta abilità linguistica il soggetto non ne conosce gli usi per la comunicazione: capita spesso che egli parli a sproposito, senza considerare le conoscenze altrui, che pronunci frasi inadeguate al momento o al contesto sociale, magari ripetendo parole o frasi sentite nell’immediato (ecolalia immediata) o altrove (ecolalia ritardata). Questo fenomeno riguarda oltre il 75% dei soggetti autistici: essi, esprimendosi in questo modo, ed essendo incapaci di usare il linguaggio in modo creativo, imitano con molta precisione l’accento e il tono di voce di chi parla, con modalità simili al vuoto echeggiare di un pappagallo. Secondo il parere della Frith (1989) la comunicazione con una persona autistica non è affatto un insuccesso completo, seppure sia estremamente limitata. Malgrado ci sia uno scambio di informazioni, c’è sempre un distacco caratteristico, una profonda mancanza di interesse per il dialogo stesso. Significativa, a questo proposito, una testimonianza di Sean Barron, autistico di alto livello, riportata da Peeters (1994): “All’epoca non sapevo esprimere i miei sentimenti con le parole. Non pensavo assolutamente che avrei potuto chiedere a mia madre perché fossi così strano oppure dirle che avevo bisogno di aiuto. Non avevo idea che le parole potessero essere usate in questo modo. Il linguaggio per me era semplicemente un’estensione delle mie ossessioni, uno strumento da usare per i miei comportamenti ripetitivi”. Il deficit comunicativo comporta dunque una marcata impossibilità a iniziare o sostenere ogni tipo di conversazione con gli altri (e a rispettare le regole di tale conversazione), l’utilizzo di un linguaggio stereotipato e ripetitivo, l’inversione pronominale, forme di comprensione letterale e un linguaggio idiosincratico. I bambini autistici, anche bravi nel parlare, non riescono ad usare le parole con flessibilità e ad esprimere le sottigliezze; tendono ad apprendere un unico significato per ogni termine e a fissarsi su quello, e ad essere letterali e concreti, fornendo risposte spesso spiazzanti data la loro semplicità; ‘vivono alla lettera’, nella significativa definizione di Peeters; il linguaggio autistico è stato paragonato per questo motivo a quello di un calcolatore che traduce da una lingua straniera in modo quasi automatico, e ciò può dare l’idea del tipo di difficoltà che si presentano. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma le nostre modalità di espressione quotidiane sono ricche di doppi sensi, di modi di dire e di fare difficilmente decifrabili per gli autistici; la conseguenza di tutto ciò, da un punto di vista sociale, è la solitudine. L’intervento sulla comunicazione diventa quindi un intervento efficace anche sul piano emotivo. Le crisi di comportamento vengono spesso individuate come tentativi falliti di comunicare che il soggetto mette in atto: a questo livello l’intervento terapeutico deve ricorrere a situazioni per cui la persona autistica arrivi alla conclusione che è più efficace esprimersi attraverso un simbolo o una parola piuttosto che con urla o crisi di rabbia. “La drammatica realtà degli autistici è che spesso vogliono comunicare, ma non sanno come fare” (Peeters 1994). Per aiutare questi bambini è indispensabile creare momenti in cui la comunicazione risulti necessaria, perché si rendano conto che tramite essa è possibile domandare, rifiutare, attirare l’attenzione di qualcuno, comunicare le proprie intenzioni, desideri ed emozioni, in sostanza agire nel e sul mondo. Per questo occorre cercare di far comunicare il soggetto con qualunque mezzo possibile, che si tratti di lettura, immagini o linguaggio gestuale. “La comunicazione è molto più che saper pronunciare delle parole. Sebbene non sia possibile insegnare a tutte la persone affette da autismo a parlare, è certamente possibile insegnare a tutte le persone affette da autismo a comunicare” (Peeters, Declerq 2000). Sviluppo sociale La deviazione del comportamento sociale deve essere considerata uno degli aspetti principali, se non il principale, della patologia autistica. Non bisogna dimenticare che fu proprio questo aspetto che indusse Kanner a chiamare ‘autistici’ i suoi undici piccoli pazienti. La difficoltà ad andare oltre la percezione letterale riscontrata a livello cognitivo si evidenzia ancora di più nella comprensione sociale. Non la totalità ma la grande maggioranza dei bambini autistici si comporta come se gli altri intorno a loro non esistessero: non ascolta quando gli si parla, non risponde quando lo si chiama per nome, mantiene un viso inespressivo e totalmente disinteressato verso ciò che lo circonda. Preso in braccio il bambino non mostra alcun interesse per il volto della madre, evita ‘l’aggancio visivo’ e non le sorride, rimane rigido e non risponde all’abbraccio verso il quale può dimostrare anche una forte avversione. Addirittura può giocare con una parte del corpo dell’adulto con cui si trova (i capelli, una mano, un lembo del vestito…) e rifiutare apparentemente il rapporto con la persona. “I bambini autistici non possiedono, per cause biologiche, lo sviluppo necessario per avere una risonanza emotiva, per un vero comportamento di attaccamento” (Peeters, 1994). L’aspetto più evidente nell’interazione a due è che egli sembra ‘attraversare le persone con lo sguardo’ con grande indifferenza: se in principio pareva che il soggetto autistico attuasse volontariamente un rifiuto per i contatti sociali, in seguito agli esperimenti di Hermelin e O’Connor si è giunti alla conclusione che non vi è evitamento dello sguardo in particolare (in quanto l’autistico guarda poco tutto), ma piuttosto è lo sguardo a non essere considerato nè utilizzato a fini comunicativi. E’ errato dunque affermare che i bambini autistici sono neutri dal punto di vista sociale. Non rifiutano le altre persone (perlomeno quelle familiari), anzi, in molti casi le cercano. Tuttavia, data la loro condizione, restano mentalmente sole. Nella prima infanzia, sino circa ai cinque anni, l’isolamento del bambino autistico è abbastanza netto: ma se in famiglia questa mancanza di risposte emozionali viene in un certo senso preventivata e assorbita, non sempre essa in altre circostanze può essere compresa allo stesso modo. Ecco che quando per esempio il soggetto si trova a scuola con i coetanei o in altri ambienti non protetti direttamente dalla famiglia, la sua solitudine aumenta vistosamente e il distacco fisico dagli altri cresce tanto quanto diminuisce la prevedibilità della situazione vissuta. Una cosa è valutare il comportamento del soggetto in una situazione sicura come quella familiare, ma se si vuole essere obiettivi è necessario valutarlo in altre circostanze. Si può così notare che egli non presta attenzione alle persone, non si sforza di entrare in un rapporto comunicativo; le relazioni che può talvolta stabilire sono frammentarie: egli sceglie l’altro, ma non ha né partecipazione né scambio. Al contrario di quanto avviene con le persone, l’autistico ha un intenso rapporto con gli oggetti, tale che la loro perdita può gettare il bambino in uno stato di grande sconforto e determinare crisi di angoscia irragionevoli. “Questi bambini riescono a tagliarsi fuori dall’ambiente difendendosi ‘meccanicamente’, cioè chiudendo gli occhi o, cosa altrettanto comune, tappandosi le orecchie con le mani, ma qualche volta si proteggono anche ‘isolando’ il sistema nervoso centrale, senza alcun segno visibile esterno: semplicemente si rifiutano di vedere o di sentire, e forse effetivamente non vedono e non sentono. (…) Sono sempre le stesse circostanze esterne a provocare queste reazioni, ovvero il trovarsi di fronte a persone sconosciute e a situazioni non familiari. (…) Questi bambini evitano di fare il minimo gesto o rumore che potrebbe eventualmente provocare l’adulto a cercare di stabilire un contatto con loro, il che è ancora meglio di dover evitare il contatto” (Timbergen, 1984). Un’altra area molto significativa che viene colpita è quella del gioco, condotto sia in solitaria che con altri bambini. La partecipazione è molto scarsa (per non dire assente), il giocattolo nelle mani di un autistico non ha funzione, non stimola la sua immaginazione, ma viene manipolato per il puro scopo di trarne semplici sensazioni che danno loro piacere. Per esempio il divertimento nella costruzione dei puzzle per le persone normali è dato dall’immagine finale che ne risulta, dal vederla finita e completata; è questo il motivo che ci spinge a farlo, è questo che gli dà un senso. Gli autistici invece non raccolgono alcuna informazione dall’immagine che nasce, e mettono insieme i pezzi aiutandosi soltanto toccando i bordi delle tessere, e traendo soddisfazione dal semplice incastro dei pezzi tra loro, senza vedere l’immagine nella sua totalità. “Tendono, in altre parole, a percepire molto bene l’albero, ma non il bosco” (Cottini, 2002). Il deficit a livello sociale è stato definito dalla Frith (1989) anche come ‘mancanza di empatia’: provare empatia vuol dire essere in grado di sentire gioia, tristezza o altri sentimenti per o con un’altra persona nonostante il nostro stato mentale sia differente dal suo. Questo modo di relazionarsi agli altri è uno dei fattori chiave che ci consente di instaurare le amicizie e i rapporti personali. È quasi scontato sottolineare come il deficit della teoria della mente sia collegato a questa mancanza di empatia sociale, e come entrambi vadano poi a compromettere le relazioni dei soggetti autistici con i coetanei fin dalla prima infanzia. Questa situazione è aggravata dal fatto che gli autistici non apprendono molto sui sentimenti condivisi nemmeno attraverso l’imitazione, una struttura molto importante sia per la comprensione delle emozioni che per il comportamento sociale. Essendo differente in loro lo sviluppo imitativo, i bambini autistici perdono le opportunità per confrontarsi con l’empatia, i sentimenti degli altri e i propri. Questi soggetti non utilizzano gesti per comunicare le loro emozioni: provano sentimenti, ma è difficile per loro esprimerli, così come risulta complicato riconoscerli negli altri (un bacio è umido, una lacrima è bagnata). Un aspetto che è importante affrontare sin dall’inizio è quello riguardante i tabù sociali: gli autistici faticano non poco a comprendere ciò che si può o non si può fare. Il loro comportamento non muta a seconda degli ambienti, delle persone o delle situazioni come il nostro: caratterialmente essi sono estremamente sinceri e onesti, ma paradossalmente in certe circostanze la loro franchezza risulta imbarazzante per i genitori o per chi segue da vicino il bambino. È necessario quindi spendere parecchie energie per istruirlo a rispettare le regole sociali, le nostre ‘buone maniere’e il nostro ‘buon senso’. Il soggetto autistico non ha nessuna comprensione delle situazioni sociali, perciò non le imita e può reagire solitamente con due modalità: può evitarle, e fare tutto da solo, oppure può arrabbiarsi, perché con il suo modo di essere vuol dire di non capire. “Potremmo dire che l’autismo è una difficoltà ad andare al di là dell’informazione data nello sviluppo del linguaggio e allo stesso tempo, e anche di più, nello sviluppo della comprensione sociale” (Peeters, Declerq, 2000). Sviluppo cognitivo Lo sviluppo cognitivo del bambino autistico è stato motivo di notevole dibattito fra i vari autori che si sono occupati dell’argomento. Alcuni esperti come la Tustin hanno insistito sull’esistenza di un notevole potenziale intellettivo; lo stesso Kanner ha sempre ritenuto di trovarsi di fronte a bambini con “una fisionomia pensierosa e intelligente” (1954). Al contrario alcuni studi recenti e approfonditi hanno rilevato la presenza di problematiche nello sviluppo cognitivo: circa l’80% dei soggetti autistici si colloca nell’ambito del ritardo mentale (QI < 70), ottenendo in genere un punteggio compreso fra 35 e 50. Il deficit nello sviluppo cognitivo colpisce aree molto importanti, come quella dell’attenzione, della memoria, del linguaggio, dello sviluppo della funzione simbolica. Secondo il parere di Peeters (1994) negli autistici risulta difettosa (ma non assente!) una capacità biologica che nelle persone normali è innata. Essa consiste nella “capacità di aggiungere significato alle percezioni con un minimo di stimolazione sociale e, attraverso questa capacità, istintivamente, preferiscono i suoni umani, analizzano e capiscono la comunicazione umana per arrivare infine a comunicare. Allo stesso modo riescono dapprima a capire il comportamento umano e poi a comportarsi in modo socialmente accettabile. Agli autistici manca proprio questo talento biologico innato. La capacità non è ‘assente’, ma difettosa. In realtà molti di loro capiscono certi significati espressi attraverso la comunicazione, il comportamento sociale e l’immaginazione, ma le loro difficoltà ad aggiungere significato possono trovarsi a livelli più alti” (Peeters, 1994). Esiste ed è molto radicata una grande difficoltà nell’attribuire un significato alle percezioni: per questo motivo gli autistici devono affrontare enormi problematiche nel momento in cui devono comprendere e reagire ai cosiddetti ‘gesti espressivi’ (quei gesti che non esprimono direttamente qualcosa ma necessitano di una interpretazione e di una codifica a livello culturale ed emotivo, in quanto vengono usati per comunicare le emozioni complesse e gli stati d’animo), mentre non presentano alcun ostacolo in rapporto ai ‘gesti strumentali’, quei gesti che parlano da soli, che sono ‘iconici’, in cui non c’è separazione fra percezione e significato (ad esempio ‘stai zitto’ o ‘vai via’). Un ulteriore aspetto da considerare è quello relativo alla incapacità caratteristica degli autistici di generalizzare le nozioni apprese quotidianamente (da quelle di base a quelle più complesse) al fine di formarsi un quadro coerente e uniforme di ciò che lo circonda. “La Frith ha proposto al riguardo l’ipotesi che il sistema cognitivo normale abbia una naturale propensione a formare una coerenza interna, a cui sia riconducibile il maggior numero di stimoli possibile e ad identificare elementi comuni nei vari contesti (…). Nell’autismo questa capacità di tendere a una coerenza interna sarebbe carente” (Cottini, 2002). A questo proposito la Frith (1989) riporta l’esempio dei bambini brasiliani che fanno i venditori ambulanti: essi sono bravissimi nel fare i conti e calcolare i prezzi quando commerciano i loro prodotti (una forma di intelligenza applicata e contestualizzata), ma falliscono se devono eseguire calcoli simili in una situazione artificiale come quella di un test (una forma intellettiva astratta). In loro si riscontra un deficit simile a quello dell’autismo, ma che va nella direzione opposta. Vedremo in seguito come il TEACCH cerchi di affrontare tale aspetto dell’autismo estendendo il suo campo d’azione a tutti gli ambiti di vita del soggetto, proprio per favorire la generalizzazione delle abilità acquisite: questo perché la generalizzazione delle abilità chiave è ancora più importante dell’acquisizione di nuove abilità. Abilità particolari Un aspetto sorprendente dell’autismo è che presenta, specialmente nei soggetti highfunctioning, capacità che sembrano rimaste intatte e non coinvolte dal disturbo. Spesso ci si è domandati come sia possibile che all’interno della stessa personalità convivano prestazioni rilevanti con altre assolutamente carenti: i cosiddetti ‘isolotti di capacità’ hanno spesso fornito false speranze ai genitori, “dando la sensazione che i loro figli sarebbero del tutto normali se solo si riuscisse a trovare la chiave di questa specie di rompicapo” (Wing, 1971). Di frequente il comportamento dei bambini autistici rivela delle capacità fuori dall’ordinario, talvolta persino dei talenti. Tuttavia la natura di questi picchi di prestazione è isolata: le abilità riscontrate con maggiore evidenza riguardano la memoria automatica, capacità costruttive, visuo-spaziali, musicali e artistiche. E’ importante notare che tutte queste abilità particolari non dipendono direttamente da quella linguistica, ed è per questo motivo che esse rappresentano per i soggetti autistici la fonte di maggior soddisfazione nella vita. In merito alla memoria automatica (memory rote) , e cioè la capacità di ricordare alla perfezione orari, date, lunghe poesie o elenchi di nomi, la Frith (1989) ritiene che sia scorretto considerarla un pregio: questo perché di solito ciò che viene ricordato dal soggetto non è per lui significativo, non ha un senso, e manca la volontà di sfruttare tali conoscenze: è un escamotage che egli mette in atto per tenere sotto controllo la realtà esterna, che in questo modo rimane ordinata, prevedibile e quindi sicura. La memoria automatica risulta essere quindi più un segno di disfunzione che un isolotto di capacità intatta.