1 LE LEGGI DELLA CHIMICA A partire dal XVI secolo lo sviluppo

LE LEGGI DELLA CHIMICA
L’integrazione delle osservazioni qualitative dei fenomeni chimici con precise misure sperimentali di grandezze fisiche
come la massa ebbe notevoli effetti sulla chimica del XVIII secolo, perché permise il passaggio dall’ipotesi filosofica
alla teoria della costituzione della materia
“Mi sono dato come legge di procedere sempre dal
noto all’ignoto, e di non fare alcuna deduzione che
non sgorghi direttamente dagli esperimenti e
dall’osservazione” - A. L. Lavoisier, Traité
élémentaire de chimie, 1789
A partire dal XVI secolo lo sviluppo dell’estrazione mineraria, della fusione e della
raffinazione dei metalli in Europa conobbe un forte incremento sia quantitativo che
qualitativo, quale non si era mai registrato in precedenza. Ciò portò sia gli artigiani
che gli studiosi a porre un’attenzione particolare ai fenomeni di trasformazione che i
metalli subivano per trattamento con il fuoco in presenza di aria, insieme a quelle che
permettevano di ripristinare il metallo di partenza. Durante i trattamenti termici parte
del metallo si trasformava in scoria (calcinazione) e questo aveva una grande
incidenza sul’economia delle imprese metallurgiche. La somiglianza della scoria
metallica con la cenere ottenuta dalla combustione del legno ed il fatto che entrambi
avvenivano in presenza di aria, portò a ritenere analoghi i due fenomeni. Tuttavia
mentre nella combustione si aveva una diminuzione del peso del materiale di
partenza, nella calcinazione dei metalli il peso aumentava. Inoltre era noto che
entrambi i processi, così come la respirazione, avvengono in presenza di aria.
Il chimico, mineralogista e metallurgista V. Biringuccio (1480-1537) nel suo trattato
De la pirotecnia, spiegò questi risultati immaginando che l’azione del fuoco,
allontanando le particelle acquose e aeree dal metallo ed essendo queste più leggere e
tendenti verso l’alto, lo rendessero più compatto e quindi più pesante.
Altri studiosi, tra cui il fisico R. Hooke (1635-1703), sostennero invece che vi fosse
nell’aria un gas responsabile della combustione e dell’aumento di peso ottenuto dopo
la calcinazione dei metalli. Questa ipotesi non ebbe successo tra i chimici e i fisici del
tempo e ciò accadde soprattutto perché era fortemente radicata l’idea che la
combustione fosse un processo di decomposizione con separazione di particelle
combustibili volatili e che l’aria non partecipasse alle reazioni chimiche se non
meccanicamente, cioè come mezzo nel quale avvenivano le reazioni. Nel 1673, R.
Boyle (1627-1691) avanzò una diversa idea per spiegare l’aumento di peso dei
metalli. Conducendo la calcinazione in storte di vetro saldate e osservando anche qui
l’aumento di peso, ipotizzò che questo fosse dovuto all’incorporazione nei pori del
metallo di particelle ignee presenti nella fiamma che a causa della loro sottigliezza
riuscivano a passare attraverso i recipienti di vetro in cui si effettuava la calcinazione.
Questa teoria, nonostante fosse errata, considerava questo processo non più una
decomposizione ma una combinazione. Verso la metà del XVIII secolo il chimico M.V.
Lomonosov (1711–1765) condusse una serie di esperimenti in recipienti di vetro
chiusi per verificare l’ipotesi di Boyle, secondo la quale il fuoco faceva aumentare il
peso delle sostanze combustibili. Queste esperienze dimostrarono che, senza
l’introduzione dell’aria esterna, il peso del metallo sottoposto a calcinazione rimaneva
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invariato ricavandone la conclusione che Boyle fosse in errore quando attribuiva
l’aumento di peso delle sostanze calcinate alla loro combinazione con particelle ignee.
Nella seconda metà del XVII secolo G.E. Stahl (1659-1734) propose l’esistenza di un
principio materiale combustibile chiamato flogisto (dal greco, φλoξ , flox = fiamma) in
grado di spiegare in maniera coerente ed unitaria i processi di combustione e di
calcinazione. Il flogisto era una sostanza reale, materia e principio del fuoco, che
essendo un principio elementare, non poteva essere isolato, ma soltanto rivelato negli
effetti che produceva. Questa teoria ebbe una grande diffusione e dominò per circa un
secolo nella chimica, rappresentando il primo tentativo di elaborare una spiegazione
unitaria dei fenomeni chimici al di là della loro apparente diversità.
Secondo Stahl, il flogisto era presente, anche se in quantità diverse, in tutti i corpi
presenti in natura che potevano dare luogo al processo di combustione, che
consisteva nella liberazione nell’aria del principio di infiammabilità secondo lo schema:
materia combustibile
materia deflogistificata + flogisto
Il flogisto durante la combustione si disperdeva nell’aria, che aveva quindi il ruolo
puramente fisico di raccogliere il prodotto volatile della combustione, ed era per
questo che la combustione non poteva avvenire in assenza di aria. Nell’idea di Stahl,
l’aria serviva solo come un “solvente del flogisto” e , come nel caso di un sale che si
scioglie in quantità limitata in acqua, una certa quantità di d’aria poteva sciogliere solo
una limitata quantità di flogisto. Questo spiegava perché la combustione di una
candela si arrestava se avveniva sotto una campana.
Per quanto riguarda il processo della calcinazione, Stahl riteneva avvenisse secondo lo
schema seguente:
metallo
calce + flogisto
quindi la combustione e la calcinazione non venivano considerati fenomeni opposti, in
quanto in entrambi i casi ci si trovava di fronte a un fenomeno di separazione del
flogisto, il quale una volta liberato entrava a far parte di un ciclo che lo portava a
ricombinarsi nei corpi naturali
La teoria del flogisto riusciva anche a spiegare la rigenerazione dei metalli a partire
delle loro calci. La calce non era altro che metallo privato di flogisto e se, ad esempio,
si mescolava con queste una sostanza ricca di flogisto come carbone o sostanze
grasse, sotto l’azione del fuoco questa restituiva flogisto alla calce ripristinando il
metallo:
calce + flogisto (contenuto nel carbone)
metallo
La teoria del flogisto, nonostante questo non fosse mai stato isolato, né la sua
presenza rivelata, grazie alla sua semplicità ebbe grande successo in Europa per la
sua grande potenza esplicativa e predittiva. Benché l’aumento di peso dei metalli
calcinati non potesse essere spiegato dalla ipotesi flogistica, questo fu inizialmente
trascurato sia perché il metodo quantitativo fino alla metà del settecento non era
ancora significativamente considerato come determinante per l’elaborazione e per lo
sviluppo della teoria, sia perché, nella tradizione alchemica, le reazioni erano intese
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più come variazioni dell’aspetto esteriore delle sostanze (colore, consistenza, stato
fisico), che di parametri quantitativi come il volume o la massa.
Ciò che determinò la rivoluzione nelle teorie della materia del Settecento, fu la
scoperta del terzo stato della materia, quello gassoso e la nascita di un nuovo filone di
ricerche, la chimica pneumatica.
Nel 1752 il medico scozzese J. Black (1728–1799), sottoponendo la magnesia alba
(carbonato di magnesio MgCO3) ad un forte riscaldamento ottenne non solo un nuovo
composto, la magnesia usta (l’ossido di magnesio MgO) ma anche una sostanza
gassosa diversa dall’aria comune, che chiamò aria fissata (l’anidride carbonica). Nel
1766 fisico inglese H. Cavendish (1731–1810) scoprì un’aria infiammabile (l’idrogeno),
facendo reagire degli acidi con dei metalli, credendo di essere finalmente riuscito a
isolare il flogisto. Nel 1772 lo scozzese D. Rutherford (1749–1819) presentò la
scoperta di un’altra nuova aria, detta mefitica o flogisticata (l’azoto).
Le crescenti contraddizioni della teoria del flogisto e le nuove scoperte nel campo della
chimica pneumatica portarono ad una vasta riforma della chimica che ebbe come
protagonista principale il chimico francese A.-L. Lavoisier (1743-1794). Questi, pur
partendo dalla teoria di Sthal, di cui riconosceva la capacità di conciliare i dati
sperimentali con una spiegazione teorica di carattere generale, fondò la sua opera
sulla ricerca dei principi della chimica basati sull’esperimento quantitativo e sulla
elaborazione di teorie risultanti come conseguenza logica di fatti ottenuti
dall’esperienza.
Nel 1774 Lavoisier lavorando alla combustione del fosforo e dello zolfo in recipienti
ermeticamente chiusi, trovò che i prodotti che si formavano (le anidridi) pesavano più
delle due sostanze di partenza, concludendo che anche nelle combustioni così come
avviene nelle calcinazioni dei metalli si osservava un aumento di peso e che ciò era
dovuto all’assorbimento di una parte dell’aria atmosferica contenuta nel recipiente di
reazione.
Eseguendo un esperimento già realizzato da J. Priestley (1733–1804), Lavoisier
svolse una rigorosa analisi quantitativa durante la quale fece prima reagire parte
dell’aria con il mercurio mediante un riscaldamento prolungato, ottenendo una polvere
rossa del metallo (ossido di mercurio) che successivamente riscaldò energeticamente,
rigenerando così il metallo e un gas che aveva la capacità di mantenere vivace la
combustione. Si trattava dell’ossigeno, che Priestley aveva chiamato aria
deflogisticata, volendo con questa formulazione spiegare il fatto che questa aria
risultasse più attiva dell’aria atmosferica, e che per Lavoisier fosse in realtà una
“porzione più pura dell'aria”, che definirà anche “aria eminentemente respirabile”.
Questo permise a Lavoisier di dimostrare che una parte dell’aria partecipava
direttamente alla trasformazione e che pertanto i fenomeni di combustione potevano
essere spiegati senza la teoria del flogisto, in una nuova interpretazione che rendesse
conto del duplice fenomeno dell’aumento di peso nelle calcinazioni e combustioni e
della scomparsa di una parte dell’aria contenuta nei recipienti di reazione.
Un contributo importante all’affermazione della nuova teoria chimica venne dagli
esperimenti relativi alla natura composta dell’acqua. Nel 1783 Cavendish aveva
effettuato una serie di esperimenti relativi alla combustione dell’aria infiammabile
(idrogeno) con l’aria deflogisticata (ossigeno) ottenendo l’acqua come risultato della
combinazione delle due arie e inserendo la scoperta all’interno della teoria del flogisto.
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Lavoisier ripeté gli esperimenti di Cavendish confermando la natura composta
dell’acqua ma dando una spiegazione diversa, cioè che l’acqua era il risultato
dell’unione di due sostanze elementari, l’idrogeno e l’ossigeno, di cui riuscì anche a
determinare le proporzioni: 85 parti di ossigeno e 15 di idrogeno. Anche l’acqua, dopo
l’aria, cessava quindi di essere un principio semplice come fino ad allora si riteneva,
portatore della qualità della liquidità, ma un composto di due sostanze ancora più
semplici. Queste scoperte porteranno Lavoisier a formulare, nel Traité Élémentaire de
Chimie (1789), l’ipotesi moderna di elemento chimico, in cui esso diventa sinonimo di
corpo semplice, portatore delle caratteristiche fondamentali, che lo distinguono dagli
altri elementi e lo mettono in relazione con le sostanze composte che lo contengono1.
Nello stesso trattato verrà enunciata una delle prime leggi fondamentali della chimica
moderna, quella di conservazione della massa:
“Nulla si crea, nelle operazioni artificiali, né in quelle della natura, e possiamo porre
come principio che in ogni operazione vi è una eguale quantità di materia prima e
dopo l'operazione; che la qualità e la quantità dei principi è la stessa e che vi sono
soltanto dei cambiamenti, delle modificazioni. Su questo principio è fondata tutta
l'arte di fare esperimenti in chimica: siamo obbligati a supporre in tutti una vera
uguaglianza o identità fra i principi dei corpi esaminati e quelli ottenuti mediante
l'analisi”.
Essa consente di interpretare tutti i fenomeni chimici come semplici trasferimenti di
materia senza che essa sia creata o distrutta.
Con la teoria chimica di Lavoisier, la determinazione del peso delle sostanze, che in
precedenza era stato considerato una variabile non importante nella comprensione dei
fenomeni chimici, diventava la grandezza fondamentale della chimica.
L’entrata nella pratica e nella teoria della chimica dell’analisi ponderale pose la
questione della composizione quantitativa delle sostanze reagenti e di quelle prodotte
in una reazione chimica. Questa prassi consentì di evidenziare le regolarità che si
manifestano nel corso delle reazioni chimiche e di formulare le prime leggi
quantitative.
Le ricerche sui rapporti quantitativi delle sostanze reagenti e sulla composizione dei
prodotti di reazione interessarono per prime le reazioni di neutralizzazione tra acidi e
alcali e la composizione dei sali da essi ottenuti. Il chimico J. B. Richter (1762-1807),
nel corso delle sue ricerche aveva notato (1791) che per neutralizzare una certa
quantità di uno stesso acido erano necessarie quantità diverse di differenti basi,
analogamente avveniva nel caso degli acidi usati per neutralizzare una determinata
base. Questi esperimenti dimostravano che le quantità di basi che si combinavano con
un qualsiasi acido conservavano tra loro gli stessi rapporti nelle combinazioni con tutti
gli altri acidi (tabella 1). Questi risultati, generalizzati nella legge di neutralità,
vennero presentati nel trattato Rudimenti di Stechiometria (1791). Richter usò il
termine stechiometria (greco στοιχεῖον, stoicheion "elemento" e μέτρον, metron
"misura"), per indicare questa nuova tecnica di misurare i rapporti di combinazione in
peso tra gli elementi chimici.
1
Gli elementi chimici – Lezione Treccani
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Un contributo determinante alla
comprensione
delle
leggi
che
regolano le combinazioni chimiche
fu quello di J. L. Proust (17541826) il quale, dal 1797 al 1809
condusse una serie di ricerche sulla
composizione di differenti ossidi
metallici, arrivando ad enunciare la
legge delle proporzioni definite,
secondo la quale ogni composto
chimico
è
costituito
da
una
proporzione fissa e costante dei
componenti,
indipendente
dalle
condizioni sperimentali, quali la
quantità dei prodotti di partenza, la
temperatura o la pressione, nelle
In tabella sono riportate le quantità in peso di differenti basi quali esso viene formato.
che neutralizzano esattamente 1000 grammi di ciascun
La legge di Proust diede luogo ad
acido.
Risultano costanti i rapporti tra i loro pesi di
combinazione, presi due alla volta, qualunque sia l’acido un’aspra polemica con il chimico C.
considerato
L. Berthollet (1748-1822), il quale
riteneva invece che la composizione chimica di un composto non fosse fissa e definita,
ma dipendesse dal modo in cui il composto stesso veniva preparato. Come esempio
Berthollet portò i composti tra piombo e ossigeno, che si differenziavano non solo per
il contenuto di ossigeno, ma anche per il loro colore. Proust riuscì però a dimostrare
che questi erano dei miscugli di un limitato numero di ossidi a composizione definita.
La disputa si risolse a favore di Proust, e la legge delle proporzioni definite diventò,
assieme a quella di conservazione della massa, una tappa fondamentale nello sviluppo
della chimica del XIX secolo2.
Nel 1808, l’inglese J. Dalton (1766–1834) enunciò una teoria generale sulla natura
della materia, affermando che tutta la materia è formata da particelle, gli atomi,
intere indivisibili e indistruttibili, tutte uguali tra loro, aventi lo stesso peso, ma
diverse da un elemento ad un altro.
La teoria atomica spiegava il principio di conservazione di massa e la costanza dei
rapporti di combinazione determinati da Proust attraverso l’indivisibilità dei singoli
atomi e, inoltre, dava una giustificazione alle osservazioni di H. Davy (1778-1829) sui
rapporti di combinazione esistenti tra la quantità di ossigeno combinata con la stessa
quantità di azoto nei gas N2O, NO e NO2, e che risultavano nel rapporto 1 : 2 : 4.
Dalton estese questi risultati, trovando una relazione simile nei rapporti
carbonio/idrogeno dei gas metano (CH4) ed etilene (C2H4) che gli fornirono il
fondamento scientifico per convalidare la sua teoria atomica e lo portarono a
enunciare la legge delle proporzioni multiple, la quale afferma che se due elementi A e
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Le ricerche condotte da N.S. Kurnakov fra il 1900 e il 1914 sui sistemi chimici complessi in equilibrio, hanno portato
a considerare fondate alcune delle idee di Berthollet sul carattere continuo della composizione di alcune classi di
sostanze composte, che possono variare la loro composizione entro limiti abbastanza ampi, pur rimanendo omogenee.
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B si combinano per formare più di un composto, le masse di B che si combinano con
una data massa di A sono in rapporto di numeri piccoli ed interi.
Contemporaneamente alla nascita della teoria atomica di Dalton vennero le esperienze
sulla combinazione dei gas del chimico francese L. J. Gay-Lussac (1778-1850), il
quale usando un eudiometro di Volta3, dimostrò (1805) che due volumi di idrogeno si
combinano sempre con uno di ossigeno per formare due volumi di vapor d’acqua.
Utilizzando i propri dati e quelli ottenuti da altri, Gay-Lussac giunse a una conclusione
del tutto generale, enunciando la legge dei volumi (1808), secondo la quale le
sostanze gassose si combinano sempre nei rapporti più semplici, espressi da numeri
interi, ed anche il volume del prodotto, se questo è allo stato gassoso, è in rapporto
semplice con i volumi delle sostanze di partenza.
Le ricerche di Gay-Lussac, nonostante fornissero un valido argomento a favore della
teoria atomistica, furono fortemente contestate da Dalton.
A quel tempo, i concetti di atomo e molecola non erano ben distinti tra loro e venivano
spesso utilizzati come sinonimi. In conseguenza di questo fatto si manifestò
l’apparente contraddizione tra le ipotesi di Dalton e di Gay-Lussac. Questo perché era
impossibile spiegare, ad esempio, come da due volumi di idrogeno e uno di ossigeno
si ottenessero due volumi di acqua e non uno, senza ammettere che in qualche modo
le unità più semplici che costituivano i gas si dovessero dividere per poi ricombinarsi
in modo differente per dare i prodotti finali. Nel 1811, il chimico italiano A. Avogadro
(1776-1856) mostrò che tra la teoria di Dalton e le scoperte di Gay-Lussac non
esisteva nessuna contraddizione in quanto volumi uguali di gas, nelle stesse condizioni
di temperatura e pressione, contengono lo stesso numero di molecole costituite da più
atomi. Quindi, nella reazione i gas formati da molecole integranti (le molecole),
costituite a loro volta da una, due o più molecole elementari (gli atomi), si scindono e
si ricombinano per formare i prodotti della reazione.
Sulla base della sua teoria, Avogadro ottenne un nuovo metodo volumetrico per la
determinazione dei pesi atomici e molecolari delle sostanze. Circa i volumi uguali dei
gas scrisse: “essi rappresentano dei numeri uguali di molecole, di modo ché la densità
dei differenti gas sono la misura delle molecole proprie di quel gas, e che nelle
combinazioni i rapporti tra i volumi non sono altro che i rapporti tra i numeri delle
molecole che si combinano per formare le molecole composte”.
Pertanto era possibile determinare le masse atomiche e le masse molecolari in modo
indiretto: stabilito che volumi uguali di gas diversi, nelle stesse condizioni di pressioni
e temperatura contengono lo stesso numero di molecole, ne discende che il rapporto
tra le masse di uguali volumi di gas permette di confrontare i pesi delle singole
particelle in essi contenuti. Essendo la densità di una sostanza gassosa uguale al
rapporto tra la sua massa e il suo volume, se si confronta la densità di ugual volumi
di due gas diversi, il rapporto tra le loro densità è uguale al rapporto tra le masse dei
gas. Usando questo metodo Avogadro stabilì per primo le formule esatte dell’etilene
C2H4 e del metano CH4 (rispettivamente CH e CH2 per Dalton), del solfuro di carbonio
CS2 e di altri composti.
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L'eudiometro è un apparecchio di laboratorio realizzato da Alessandro Volta, che misura le variazioni di
volume di un gas soggetto a combustione.
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Le prove a dimostrazione della teoria di Avogadro non furono accolte per oltre
cinquant’anni a causa dell’opposizione dei maggiori chimici dell’epoca nell’accettare il
concetto di molecola. In particolare il chimico J.J. Berzelius (1779-1848) che
sosteneva una teoria dualistica dell’affinità chimica secondo la quale le molecole si
formavano a seguito dell’attrazione reciproca di particelle di carica opposta. Nelle
molecole biatomiche i due atomi dello stesso elemento non potevano avere la stessa
carica elettrica e quindi la loro combinazione era impossibile.
Solo nel 1860, quattro anni dopo la morte di Avogadro, le sue conclusioni furono
accolte. Il chimico S. Cannizzaro (1826-1910) espose al congresso di Karlsruhe nel
1860 il suo metodo per determinazione corretta delle masse degli elementi basato sul
principio di Avogadro. Questo permise di far accettare alla comunità scientifica l’ipotesi
di Avogadro e la legge di Gay-Lussac e distinguere in modo preciso il concetto di
molecola da quello di atomo. A seguito della relazione di Cannizzaro fu accettata la
seguente proposta: “Si propone di adottare concetti diversi per molecola e atomo
considerando molecola la quantità più piccola di sostanza che entra in relazione e che
ne conserva le caratteristiche fisiche, e intendendo per atomo la più piccola quantità di
un corpo che entra nella molecola dei suoi composti”.
L’idea di Cannizzaro determinò un grande passo in avanti nella chimica, in quanto
affermò il concetto di molecola come unità strutturale fondamentale della materia
collegata al mondo degli atomi e dei corpi macroscopici.
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