PARTE PRIMA. L’IMPRESA 2 L’impresa SOMMARIO: § 1. La nozione d’impresa. – 1. La relatività della nozione d’impresa. – 2. L’impresa quale attività produttiva triplicemente qualificata. – 3. Segue: la professionalità. – 4. Segue: l’organizzazione. – 5. Segue: l’economicità. – 6. La completezza della nozione di impresa. – § 2. Le categorie di impresa. – 1. L’impresa come fenomeno produttivo di portata generale e la sua rilevanza normativa. – 2. L’impresa agricola. – 3. La piccola impresa. – 4. Segue: la piccola impresa nella legge fallimentare. – 5. Segue: il problema dell’impresa artigiana. – 6. L’impresa commerciale. – 7. Le implicazioni della natura dell’organizzazione dell’impresa sulla disciplina applicabile. – 7.1 Segue: l’impresa pubblica. – 7.2. Segue: l’impresa privata. – 7.3 Segue: l’impresa sociale. – §. 3. L’impresa e le professioni intellettuali. – 1. Il rapporto tra impresa e professioni intellettuali. – 2. L’art. 2232 c.c. Conclusioni. – 3. Le tendenze a favore dell’assimilazione dei due fenomeni sul piano della fattispecie. La nozione comunitaria di impresa. – § 4. L’inizio e la fine dell’impresa. – I. L’inizio dell’impresa. – 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di organizzazione. – II. La fine dell’impresa. 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di liquidazione. – 2. La cancellazione dal registro delle imprese. La decorrenza degli effetti ex art. 10 l. fall. (rinvio). – § 5. L’imputazione dell’impresa. – I. Il criterio di imputazione. – 1. La mancanza di un esplicito criterio di imputazione: la soluzione interpretativa. – 2. L’impresa dell’incapace. – II. I casi problematici di imputazione. – 1. I casi di imputazione incerta. – 2. Segue: il criterio della spendita del nome (o formalista). – 3. Segue: il criterio dell’interesse perseguito (o sostanzialista). La teoria dell’imprenditore occulto. – 4. Le conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa. § 1. La nozione d’impresa. LETTERATURA: ANGELICI, Diritto commerciale, I, Roma-Bari, 2002; ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962; AFFERNI, Gli atti di organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore, Milano, 1973; ASQUINI, Profili dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1943, I, 135; BIGIAVI, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948; BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960; BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, sez. I, tomo 2.1, 2002; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001; CAPO, La piccola impresa, in Tr. Buonocore, sez. I, tomo 2.III, 2002; CASANOVA, Impresa e azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974; CAVAZZUTI, voce Rischio d’impresa, in Enc. dir., III aggiornam., 1999, 1093; CETRA, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003; CORSI, Diritto dell’impresa2, Milano, 2003; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983; FERRI, Delle imprese soggette a registrazione. Art. 2188-22462, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1968; FERRO-LUZZI, L’impresa, in L’impresa, a cura di Libonati-Ferro-Luzzi, Milano, 1985, 8; ID., Lezioni di diritto bancario2, I, Parte generale, Torino, 2004; FANELLI, Introduzione alla teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1950; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972; GALGANO, L’imprenditore, in Tr. Galgano, II, 1978, 3; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990; GHIDINI, Lineamenti del diritto dell’impresa2, Milano, 1978; GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggi sui limiti del Antonio Cetra 3 formalismo giuridico, Bologna, 1998; JAEGER, La nozione d’impresa dal codice allo statuto, Milano, 1985; LOFFREDO, Economicità e impresa, Torino, 1999; MARASÀ, Contratti associativi e impresa, Padova, 1995; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966; MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il codice civile del 1942, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Milano, 1942; NIGRO, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, in Tr. Rescigno2, XV, 1**, 2001, 595; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992; PIRAS, Nuove forme di organizzazione dell’attività di impresa, in Giur. comm., 1980, I, 70; RAVÀ, La nozione giuridica di impresa, Milano, 1949; RIVOLTA, Gli atti di impresa, in Le ragioni del diritto. Studi in onore di Mengoni, II, Diritto del lavoro – Diritto commerciale, Milano, 1995, 1615; ROMAGNOLI, L’impresa agricola, in Tr. Rescigno2, XV, 1**, 2001, 233; SPADA, Note sull’argomentazione giuridica in tema di impresa, in Giust. civ., 1980, 2270; ID., voce Impresa, in Digesto delle materie privatistiche. Sezione commerciale4, Torino, 1992, 32; ID., Diritto commerciale, I, Parte generale. Storia, lessico, istituti2, Padova, 2009; TANZI, Godimento del bene produttivo e impresa, Milano, 1998; TERRANOVA, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, in Riv. dir. comm., 2009, I, 1. Nell’iniziare un manuale universitario di diritto positivo, qual è senz’altro un manuale di diritto commerciale, sembra opportuno partire dall’individuazione della fattispecie, cioè del destinatario o referente dell’esperienza normativa che ne rappresenta l’oggetto. In quest’ottica, è evidente che la fattispecie dev’essere ricercata e/o inferita guardando al corpo di norme che contengono la relativa esperienza. E accingendoci alla loro identificazione, giova subito constatare che nell’ordinamento giuridico italiano – a differenza di altri – tali norme – quanto meno per la parte più importante che sarà oggetto di trattazione in questa sede – sono contenute, non già in un codice di commercio (cioè, in una legge organica tematicamente uniforme), bensì nel codice civile (cioè, in una legge organica tematicamente molteplice) e, esattamente, nel libro V (intitolato Del lavoro). Più in particolare, la parte che interessa comincia dal titolo II (intitolato Del lavoro nell’impresa), che si apre con l’art. 2082 (rubricato Imprenditore), che recita: “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Stando al tenore letterale dell’art. 2082, la conclusione che se ne dovrebbe trarre è di riconoscere il presupposto di vertice dell’esperienza normativa riguardata nella figura di un soggetto, ossia nell’imprenditore1. Del resto, una siffatta conclusione apparirebbe pienamente in linea con la struttura del testo normativo che racchiude il diritto commerciale. Ed invero, tale testo, contenendo perlopiù la regolamentazione giuridica dei rapporti tra persone, presenta una struttura antropocentrica, atteso che non può non essere un soggetto (l’uomo) l’a priori del sistema giuridico dei privati. Basti ricordare che il soggetto entra nel sistema giuridico-privatistico con due qualità fondamentali, idoneità, cioè capacità generali: la capacità giuridica e la capacità di 1 Sulle ragioni che possono aver indotto ad una conformazione su base soggettiva della disposizione contenuta nell’art. 2082, da ultimo, TERRANOVA, L’impresa, 34 s. 4 L’impresa agire. La prima come capacità all’imputazione, alla titolarità di situazioni giuridiche soggettive, situazioni di supremazia o subordinazione rispetto agli altri uomini, del suo interesse alle cose, cioè ai beni della vita, beni che sono il termine oggettivo dei suoi comportamenti leciti o doverosi. La seconda come capacità all’azione, a tutela dei suoi interessi, che si realizza con l’atto di autoregolamentazione degli stessi, producendo la modifica delle situazioni soggettive di cui è titolare2. Ed è agevole constatare come il soggetto sia al centro di tutto il sistema di valori che informa il materiale normativo contenuto nei primi quattro libri del codice civile, non a caso collocabile nelle «aree» appena ricordate: dalle norme sul singolo e sulla sua famiglia (contenute nel libro I intitolato Delle persone e della famiglia) a quelle sui comportamenti leciti o dovuti rispetto al referente oggettivo costituito dai beni (contenute nel libro III intitolato Della proprietà); a quelle, ancora, sul potere di disporre dei propri interessi patrimoniali culminanti nell’atto di autonomia negoziale (contenute nel libro IV intitolato Delle obbligazioni); a quelle, infine, sulle successioni per causa di morte (contenute nel libro II intitolato Delle successioni)3. Tuttavia, è stato dimostrato ormai da tempo che la suddetta conclusione è senz’altro inesatta, atteso che non è un soggetto, appunto l’imprenditore, il punto dal quale muove e si sviluppa il diritto commerciale, in funzione delle sue caratteristiche e delle sue esigenze4. Probabilmente, bisogna risalire agli albori dell’esperienza normativa considerata per riscontrare una regolamentazione strutturata su base soggettiva. Infatti, tale esperienza nasce su impulso della casta dei mercanti, che si era fatta istante della pretesa di approntare un diritto, che risultasse per molti versi speciale e derogatorio rispetto al diritto dei privati: ad un diritto, cioè, che, in quanto incentrato sul riconoscimento e sulla tutela della proprietà, era incapace di adattarsi alle esigenze connaturate alle iniziative da questi poste in essere: iniziative finalizzate a far circolare (e non invece a conservare) qualcosa o a produrre qualcosa da vendere (e non invece da consumare). Sicché, il diritto dei mercanti, proprio in quanto diritto speciale e derogatorio rispetto al diritto comune, era destinato esclusivamente nei confronti dei soggetti che appartenevano alla casta dei mercanti (le corporazioni), ed era quindi subordinato ad una qualifica soggettiva, precisamente la qualifica di mercante, che si conseguiva con l’ingresso nelle corporazioni: ingresso riservato a coloro che svolgevano le arti e i mestieri per professione abituale e formalizzato attraverso una dichiarazione solenne di adesione (la professio) sigillata dall’iscrizione nella matricola mercatorum. Con il passare del tempo, man mano, cioè, che l’economia mercantile e produttiva diventa centrale nella vita sociale, viene meno tuttavia la ragione per la quale il diritto dei mercanti doveva essere considerato diritto derogatorio rispetto al diritto statale. In 2 In questi termini, FERRO-LUZZI, Lezioni, I, 22 s. In questi termini, ancora, FERRO-LUZZI, Lezioni, I, 21 ss. 4 Per il superamento dell’impostazione «a soggetto», cioè dell’idea di vedere nella figura dell’imprenditore il termine di riferimento del diritto commerciale o, quanto meno, della parte relativa al diritto dell’impresa, FERRO-LUZZI, I contratti associativi, Milano, 1971, 128 ss. e 188 ss.; ID., L’impresa, 15 ss. E v., anche, ANGELICI, I, 22 ss.; SPADA, Note sull’argomentazione giuridica in tema d’impresa, in Giust. civ., 1980, I, 2270 ss.; ID., voce Impresa, 36 ss.; ID., La rivoluzione copernicana (quasi una recensione tardiva ai Contratti associativi di Paolo Ferro-Luzzi), in Riv. dir. civ., 2009, II, 145 ss.; ID., I, 47 ss.; NIGRO, Imprese, 597 ss.; BUONOCORE, L’impresa, 534 ss.; CORSI, Diritto, 3 ss. e 10 ss. Ma già, seppur attribuendo ad un siffato superamento una diversa valenza normativa, MOSSA, Trattato, I, 162 ss.; ASCARELLI, Corso, 145 ss.; e v., anche, PANUCCIO, Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, 160 ss. 3 Antonio Cetra 5 particolare, si prende atto che il diritto dei mercanti è anzitutto il diritto dei traffici mercantili, cioè un diritto approntato per le esigenze e le caratteristiche di questi ultimi e dei diversi interessi che sono sollecitati e coinvolti, cercando di trovare il giusto equilibrio tra gli stessi. Ed infatti, progressivamente, il materiale normativo prodotto nei periodi precedenti dalle corporazioni – che via via divengono parte integrante dell’ordinamento – viene consolidato in testi scritti che assumono la veste di atti sovrani. Per di più, in seguito alla rivoluzione francese e, segnatamente, all’abolizione del generale divieto all’esercizio del commercio e delle produzioni e la speculare introduzione del principio di libertà di tali iniziative, l’applicazione del relativo diritto resta subordinato inequivocabilmente al concreto svolgimento del fenomeno produttivo, cioè di un fenomeno riconducibile alla – e, quindi, coincidente con la – descrizione dello stesso fatta dal dato normativo in termini generali e astratti5. In altre parole, il diritto dei mercanti passa dall’essere un diritto organizzato su base soggettiva ad un diritto organizzato su base oggettiva; da un diritto di una categoria di soggetti, finalizzato a riconoscere e tutelare le relative esigenze, ad un diritto di un fenomeno commerciale e produttivo, finalizzato a disciplinare il suo svolgimento ed a contemperare i diversi interessi coinvolti. Pertanto, il suo presupposto di vertice non è più rappresentato dall’appartenenza ad una certa categoria soggettiva o da una qualifica formale attribuita ad un soggetto ma dallo stesso fenomeno commerciale e produttivo, descritto in termini oggettivi dal dato normativo come modello comportamentale. Cosa che avviene sin dalla prima legge organica, rappresentata dal Code de commerce del 1807, dove il fenomeno testé menzionato viene descritto come acte de commerce (art. 631)6. Peraltro, il Code de commerce ha influenzato anche le legislazioni di altri paesi, tra le quali la legislazione italiana: a partire dal codice di commercio del 1865 (artt. 2 e 3), per poi passare al codice di commercio del 1882 (art. 3), fino ad arrivare al codice civile del 1942 (art. 2082)7. Ed invero, la norma di apertura dell’esperienza normativa riguardata definisce, più che l’imprenditore, il fenomeno che l’imprenditore pone in essere, in modo, però, da isolarlo idealmente da esso. Cioè, descrive in termini oggettivi un suo comportamento, che si sostanzia in un un’attività, qualificata come produttiva, a sua volta triplicemente qualificata dai requisiti di organizzazione, professionalità ed economicità, che prende il nome di impresa. Il che al fine di rendere l’impresa per il diritto commerciale ciò che è il soggetto per il diritto privato, ossia di collocare l’impresa al vertice del sistema del diritto commerciale ed assumere la stessa quale referente della disciplina corrispondente, che verrà illustrata a cominciare dalla successiva parte seconda. Infatti, come sarà agevole constatare, il dato normativo appronta la disciplina proprio muovendo dall’impresa, come attività oggettivamente considerata: disciplina che allora è la disciplina dell’impresa. Si noterà che tale disciplina è dettata in funzione delle caratteristiche e delle peculiarità proprie dell’impresa, risentendo della circostanza che l’impresa si vada o meno ad insediare in un contesto caratterizzato dall’autonomia patrimoniale. In particolare, essa stabilisce le regole comportamentali alle quali occorre attenersi nello svolgimento dell’impresa, in modo da pervenire ad un giusto equilibrio o contemperamento tra i diversi interessi dall’impresa sono coinvolti, 5 Al riguardo, SPADA, voce Impresa, 33 ss.; ID., I, 1 ss. Al riguardo, sempre, SPADA, voce Impresa, 33 s.; ID., I, 15 ss. 7 Al riguardo, ASCARELLI, Corso, 62 ss. 6 6 L’impresa nel suo interno (titolare, soci) e nei rapporti esterni che da essa hanno origine (creditori e, per certi aspetti, lavoratori, destinatari della produzione), risolvendo, cioè, eventuali situazioni di conflitto8. Si coglie allora l’importanza di un esame particolarmente attento della definizione che il dato normativo dà dell’impresa, per comprendere qual è il fenomeno produttivo rilevante per il diritto. Infatti, la definizione di impresa costituisce il riferimento generale e astratto, capace di selezionare i diversi fenomeni produttivi che hanno riscontro nella realtà, individuando quali tra tali fenomeni produttivi hanno dignità giuridica di impresa e, di conseguenza, devono essere assoggettati alla disciplina pensata per l’impresa. In particolare, si tratta di rapportare alla descrizione generale e astratta del fenomeno imprenditoriale il fenomeno che si è verificato in concreto, al fine di accertare se c’è o meno coincidenza: nel primo caso (e non nel secondo) applicando a tale fenomeno (che allora si qualifica come impresa) la disciplina predisposta per lo stesso (cioè dell’impresa). Peraltro, in quest’ottica, è anche evidente che il manifestarsi di un fenomeno qualificabile in termini di impresa può essere considerato la condizione in grado di sollecitare la disciplina dell’impresa. In altre parole, al ricorrere di un tale fenomeno viene sollecitata e conseguentemente resa operativa la disciplina che ne stabilisce le modalità di attuazione e svolgimento. Qui di seguito ci si soffermerà allora sull’analisi esegetica della norma che contempla la nozione di impresa, cioè sulla definizione normativa dell’impresa, terminata la quale si dimostrerà come una tale definizione debba considerarsi esaustiva, cioè insuscettibile di essere arricchita di ulteriori elementi (generalmente espressione di profili decisionali o intenzionali del soggetto che pone in essere il fenomeno sottostante) non contemplati dalla norma definitoria. 1. La relatività della nozione d’impresa. Conviene sin da subito precisare che la nozione di impresa oggetto di studio in questa sede non rappresenta l’unica nozione di impresa contemplata dall’ordinamento. Essa è soltanto una delle nozioni, in particolare la nozione che serve a determinare in termini generali e astratti quali sono i fenomeni che devono essere assoggettati al corpo di norme che nel loro insieme costituiscono lo statuto delle attività produttive qualificabili come imprese. Pertanto, si tratta di una nozione relativa, cioè funzionale alla individuazione del fenomeno destinatario dello statuto testé menzionato, che costituisce la parte più importante dell’esperienza normativa che per tradizione storicamente consolidata si suole contrassegnare con l’espressione diritto commerciale9. FERRO-LUZZI, L’impresa, 19 ss.; ID., Lezioni, I, 45 ss.; CORSI, Diritto, 12 ss. e 25 ss. In termini generali, sulla relatività della nozione di impresa, OPPO, Scritti, I, 60 ss.; SPADA, L’incognita «impresa» dal codice allo statuto, nel libro di Pier Giusto Jaeger, in Giur. comm., 1985, I, 753 ss.; CAMPOBASSO, I, 25; TERRANOVA, L’impresa, 6 ss.; PRESTI-RESCIGNO, I, 16 s.; e sulla sua derivazione 8 9 Antonio Cetra 7 Una nozione diversa o, quanto meno parzialmente diversa, la si può riscontrare al vertice di altre esperienze normative. A titolo di esempio, possiamo ricordare la nozione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria (specialmente, dalla Corte di Giustizia), diretta ad individuare i fenomeni produttivi congrui rispetto all’applicazione della disciplina dell’impresa contenuta nei testi normativi comunitari e, in particolare, nel Trattato di funzionamento dell’Unione europea (artt. 101 ss.), con riguardo ai quali i requisiti qualificativi richiesti dalla nozione che sarà oggetto di attenzione in questa sede o non sono necessari (la professionalità o l’organizzazione) o assumono un significato diverso (l’economicità)10. O ancora la nozione contenuta nell’art. 55 t.u.i.r. (= d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), finalizzata ad individuare i fenomeni produttivi idonei a produrre redditi da assoggettare al regime di imposizione dei redditi di impresa (artt. 56 ss. t.u.i.r.), con riguardo ai quali non sono necessari alcuni dei requisiti qualificativi richiesti dalla nozione oggetto di attenzione in questa sede (l’organizzazione)11. Ci sono poi delle nozioni che rappresentano delle specificazioni della nozione che viene in considerazione ai nostri fini: in tali nozioni vengono messi in rilievo, con un significativo grado di dettaglio, alcuni aspetti necessariamente trascurati dalla nozione che qui interessa. In particolare, il riferimento è alle nozioni di impresa bancaria (artt. 10 e 11 t.u.b.) e di impresa di investimento (art. 1, comma 1°, lett. f-h, t.u.f.), poste al vertice della disciplina bancaria e finanziaria12. In definitiva, possiamo senz’altro affermare che la nozione di impresa è una nozione a geometria variabile, che cambia in funzione della disciplina che deve trovare applicazione e, quindi, delle esigenze e della tipologia di interessi sottostanti alla specifica disciplina. 2. L’impresa quale attività produttiva triplicemente qualificata. Passando all’esame della nozione di impresa che qui interessa, conviene muovere dal rilievo che l’art. 2082 descrive l’impresa in termini di attività e la qualifica, poi, come produttiva. L’attività può essere immaginata come un modello comportamentale costituito da tanti singoli comportamenti, che rilevano sul piano normativo, non in quanto tali (pur dalla nozione economica (pur sottolineandone le differenze), ASQUINI, Profili, 124 ss.; FRANCESCELLI, Imprese, 25 ss.; GENOVESE, La nozione, 3 ss.; GLIOZZI, 51 ss. 10 Sul punto, v., sin d’ora, FRANCESCHELLI, Imprese, 341 ss.; AFFERNI, La nozione comnitaria di impresa, in Tr. Galgano, II, 1978, 134 ss.; VERRUCOLI, La nozione di impresa nell’ordinamento comunitario e nel diritto italiano: evoluzione e prospettive, in La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario, a cura di Verrucoli, Milano, 1977, 398 ss.; GRISOLI, voce Impresa comunitaria, in Enc. giur., XVIII, 3 ss.; e, in particolare, infra, § 2, n. ? 11 Sul punto, in termini generali, FANTOZZI, Il diritto tributario3, Torino, 2004, 841 ss.; ZIZZO, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte italiane7, Padova, 2010, 212 ss.; DE MITA, Principi di diritto tributario6, Milano, 2011, 191 s.; più nello specifico, POLANO, Attività commerciale e impresa nel diritto tributario, Padova, 1984, ?. 12 Sulla nozione di impresa bancaria e finanziaria, Aa. Vv., Diritto della banca e del mercato finanziario, I, I soggetti, Bologna, 2000, 30 ss. e 110 ss.; COSTI, L’ordinamento bancario4, Bologna, 193 ss.; ID., Il mercato mobiliare10, Torino, 2012, ? 8 L’impresa potendo presentare ognuno di essi attitudine ad essere regolato sul piano giuridico), bensì nel loro insieme (cioè, come accadimento considerato unitariamente)13. E ciò in ragione del fatto che essi rappresentano una sequenza coordinata strutturalmente e funzionalmente, ossia teleologicamente orientata rispetto al raggiungimento di un determinato scopo (o risultato programmato). L’attività si presta ad essere qualificata a seconda della natura del suo scopo (o risultato che mira a raggiungere). Sicché, atteso che qui interessa l’attività produttiva, la relativa sequenza comportamentale dev’essere orientata al perseguimento di un risultato socialmente riconoscibile come produttivo. Ciò significa che tale sequenza dev’essere rivolta a produrre un’utilità che prima non c’era, quindi ad incrementare il livello di ricchezza complessiva rispetto allo status quo ante. E ciò attraverso lo scambio di beni o la produzione di beni e servizi. Pertanto, nel primo caso, consentendo con lo scambio una diversa composizione dei panieri individuali; nel secondo, rendendo disponibile un bene o un servizio attraverso un procedimento di trasformazione fisico-tecnica di materie prime o trasferendo un bene in un luogo diverso da quello originario (o di produzione) o conservando un bene (magari custodendo il bene nel luogo di produzione) fino al momento in cui lo stesso non formerà oggetto di richiesta sul mercato. Se allora soltanto i fenomeni che si presentano nella forma dell’attività produttiva interessano in questa sede, si può sin da subito individuare un primo gruppo di fenomeni estranei dai nostri interessi: i fenomeni che si presentano nella forma dell’attività non produttiva, ossia l’attività di godimento. Essa può essere immaginata come una sequenza di comportamenti finalizzati ad un risultato non produttivo, vale a dire a trarre le utilità d’uso o di scambio di qualcosa che già si ha, pertanto senza dar luogo ad alcun incremento di ricchezza preesistente. In altre parole, si tratta del modo attraverso il quale si concretizza essenzialmente l’esercizio del diritto soggettivo su un certo bene14. Tuttavia, giova subito precisare che la distinzione tra l’attività produttiva e l’attività di godimento è agevole solo in teoria, cogliendosi essenzialmente sul piano dell’orientamento teleologico dei segmenti comportamentali da cui sono costituite: a seconda, cioè, che il risultato perseguito possa essere apprezzato come creazione di nuova utilità o meno. Non è però sempre agevole distinguere in concreto quando abbiamo a che fare con il primo o il secondo tipo di fenomeno. È indubitabile che si tratta di attività di godimento allorché il proprietario di un immobile lo abiti o lo dia in affitto a terzi (utilità d’uso) oppure lo ceda sul mercato (utilità di scambio). Ed è parimenti indubitabile che si tratta di attività produttiva allorché il medesimo proprietario utilizzi l’immobile per farci un albergo o un residence (produzione di servizi). Ma la qualificazione del fenomeno diventa meno certa allorché sempre lo stesso proprietario affitta le singole camere dell’immobile, ciò in quanto non è chiaro se in un tale comportamento prevale il fine dello sfruttamento delle utilità d’uso 13 In luogo di molti, AULETTA, voce Attività, in Enc. dir., III, 985 ss.; ASCARELLI, Corso, 147 ss.; OPPO, Scritti, I, 266 ss.; SPADA, I, 48 ss. 14 In termini generali, TANZI, Godimento, 109 ss.; OPPO, Scritti, I, 274 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 417. Antonio Cetra 9 proprie dell’immobile ovvero il fine della creazione di un servizio connesso con l’affitto delle camere15. Peraltro, il discorso diventa ancora più complesso quando il comportamento si appunta su un bene c.d. produttivo (in senso stretto), vale a dire su un bene che per sua naturale inclinazione consenta di trarre le sue utilità d’uso in forma produttiva (come ad esempio, la terra, le cave, le miniere, le torbiere). In questi casi, infatti, è di tutta evidenza che l’attività di godimento è inequivocabilmente diversa da un’attività produttiva quando il godimento è indiretto, cioè si realizza per il tramite della concessione in locazione del bene ad un terzo. Invece, il godimento si sostanzia in una vera e propria attività produttiva, quando il godimento è diretto, cioè quando il titolare ne mantiene la relativa conduzione e percepisce direttamente le conseguenti utilità d’uso. Basti pensare al proprietario di un terreno che lo coltiva, al fine di trarne i relativi frutti: ebbene, fa attività di godimento o attività produttiva?16 Oppure, si prenda ancora il caso del comportamento rapportato al bene denaro. Esso è senz’altro attività di godimento quando si sostanzia nell’uso di questo denaro, spendendolo nell’acquisito di beni. Ma la conclusione non è altrettanto sicura allorché si risparmia quel denaro e, in particolare, quando il risparmio assume le fattezze di forme elaborate di investimento: non solo nell’ipotesi in cui esso venga impiegato nel trading su strumenti finanziari secondo i criteri di ripartizione del rischio (servizi di investimento, spesso posti in essere da apposite società) oppure quando viene utilizzato per concedere dei prestiti ad altri soggetti (servizi di finanziamento, spesso posti in essere da apposite società); ma anche quando viene utilizzato per effettuare un investimento in un’impresa, che attribuisce il controllo sulla stessa e, quindi, il potere di esercitare la relativa direzione e coordinamento17. Tuttavia, benché non sia sempre facile e immediato discernere quando si tratti di attività produttiva o di attività di godimento, risulta utile insistere su tale distinzione solo quando l’eventuale attività produttiva può annoverarsi tra i fenomeni che qui interessano, cioè può configurarsi alla stregua di un’impresa. Infatti, giova precisare che non tutte le attività produttive sono delle imprese: tra le prime e le seconde intercorrendo un rapporto di genus a species. È un’impresa solo l’attività produttiva che presenta i tre attributi prescritti dall’art. 2082, di professionalità, organizzazione e economicità, sui quali qui di seguito ci si deve soffermare. 3. Segue: la professionalità. Con riferimento ad una tale vicenda, propendendo per la qualificazione dell’attività come produttiva, Cass., 12 giungo 1984, n. 3493, in Foro it., 1984, I, 2773. 16 Il quesito è stato lasciato non a caso aperto essendo la sua risposta affatto controversa (BONFANTECOTTINO, L’imprenditore, 418; BUONOCORE, L’impresa, 66 s.; CAMPOBASSO, I, 25 s.; FERRARA-CORSI, 28 s.). Tuttavia, la risposta che merita di essere ricordata si lega al nome di TANZI, Godimento, 106 ss., 250 ss. e 393 ss., ad avviso del quale l’attività è di godimento se può essere considerata espressione dell’esercizio del diritto di proprietà sul bene: cosa che accade quando ci si limitano a sfruttare la capacità produttiva del bene medesimo, cioè a trarre e a percepire le utilità che derivano dalla sua normale utilizzazione; invece, l’attività è produttiva se non è specificazione dell’esercizio del diritto reale: cosa che accade quando ci si adopera per accrescere artificialmente la capacità produttiva del bene, al fine di ottenere utilità ulteriori rispetto a quelle che derivano dalla sua normale utilizzazione, tipicamente nella prospettiva di assecondare un’esigenza di mercato. 17 Con riferimento ad una tale vicenda, propendendo per la qualificazione dell’attività come produttiva, Cass., 13 marzo 2003, n. 3724, in Giust. civ., 2003, I, 1198. 15 10 L’impresa Anzitutto, un’attività produttiva, per poter essere qualificata come impresa, dev’essere svolta professionalmente, cioè deve soddisfare il primo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a dire il requisito della professionalità. Si tratta del requisito che connota l’attività sul piano della frequenza relativa al suo svolgimento, richiedendo che essa abbia luogo in maniera abituale, stabile e reiterata, in definitiva non occasionale o sporadica18. Peraltro, se è agevole e immediato definire a livello teorico quando l’attività può considerarsi esercitata professionalmente, lo stesso non può dirsi dal punto di vista pratico e concreto. Al riguardo, può essere utile opportuno ricordare alcune conclusioni che possono ritenersi ormai acquisite. In primo luogo, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di esclusività, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui un’attività produttiva non costituisca l’unica attività svolta da parte di chi la pone in essere. A titolo d’esempio, s’immagini un soggetto che di giorno gestisce un punto di ristoro e poi di sera va ad insegnare aerobica in una palestra. Oppure, un soggetto che di giorno gestisce una tavola calda e di sera gestisce un pub. In termini più generali, è senz’altro possibile che un soggetto svolga un’attività produttiva qualificabile come impresa e un’attività produttiva di tipo differente; così come che un soggetto svolga due (o più) attività produttive entrambe qualificabili come imprese19. In secondo luogo, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di continuità, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui l’attività produttiva sia svolta in modo non continuativo, cioè sia caratterizzata da interruzioni, in un lasso di tempo considerato. Tuttavia, si precisa che le interruzioni debbano essere legate, non già all’arbitrio di chi svolge l’iniziativa, bensì alle esigenze naturali del ciclo produttivo sottostante, sicché l’attività interrotta ricomincia dopo un certo periodo, per poi interrompersi nuovamente, secondo un intervallo pressoché costante. A titolo di esempio, si pensi alle attività stagionali, come la gestione di un impianto sciistico o di uno stabilimento balneare20. Infine, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di pluralità di risultati prodotti, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui l’attività produttiva sia finalizzata alla realizzazione di un unico affare. Infatti, non è detto che l’«occasionalità» dell’affare debba sottendere sempre l’occasionalità dell’attività. In particolare, ciò non accade quando l’affare si presenta complesso e si presta ad essere realizzato attraverso un’iniziativa che non può essere improvvisata, cioè non può essere posta in essere da chiunque, poiché richiede un minimo di retroterra organizzativo, acquisito in ragione dell’esperienza maturata nel settore in cui l’affare si colloca. A titolo d’esempio, si pensi al caso in cui il risultato della produzione sia un’opera 18 In questo senso, in modo pressoché unanime, in luogo di molti, BIGIAVI, La professionalità, 9 ss.; FRANCESCHELLI, Imprese, 96 ss.; BUONOCORE, L’impresa, 139 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 423 s. Da ultimo, v. anche le considerazioni di TERRANOVA, L’impresa, cit., 9 s. 19 In questo senso, tra gli altri, SPADA, voce Impresa, 49; CAMPOBASSO, I, 33; Trib. Torino, 4 luglio 1980, in Fallimento, 1981, 762; con specifico riferimento all’esercizio contestuale di due imprese, COSTI, La titolarità di più imprese, in Arch. giur., 1964, 96 ss. 20 In questo senso, tra gli altri, PRESTI-RESCIGNO, I, 19; GALGANO, I, 18; FERRARA-CORSI, 35 s. Antonio Cetra 11 complessa, quale può essere considerata una grande struttura (un ponte, una strada ecc.), che si realizza attraverso un’attività produttiva che non può essere improvvisata, nel senso che non può attuarsi senza un minimo di apparato organizzativo, che è proprio di colui che ha una certa esperienza nel settore di quelle produzioni. Invece, l’«occasionalità» dell’affare sottende l’occasionalità dell’attività, quando si tratta di un affare semplice, che si presta ad essere attuato attraverso un’iniziativa che può essere anche improvvisata e, di conseguenza, posta in essere da chiunque. A titolo di esempio, si pensi ad un soggetto che compra una partita di merce all’ingrosso, con l’intenzione di rivenderla al dettaglio e guadagnare la differenza (auspicabilmente positiva) tra il prezzo di acquisto e il prezzo di vendita21. Ne consegue che un’attività produttiva che difetti del requisito di professionalità è estranea ai nostri interessi, trattandosi di un’iniziativa occasionale, ossia posta in essere in modo episodico e sporadico. 4. Segue: l’organizzazione. Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, dev’essere poi organizzata, cioè deve soddisfare il secondo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a dire il requisito dell’organizzazione. Si tratta del requisito che connota l’attività sul piano dei mezzi impiegati nel suo svolgimento, richiedendo che essa sia esercitata, non solo (o non tanto) con la capacità lavorativa di chi la pone in essere, ma anche (quanto piuttosto) con l’ausilio di (altri) fattori produttivi22. I fattori produttivi impiegabili nel processo produttivo possono essere i più vari. Essi sono sostanzialmente riconducibili alle due categorie fondamentali, individuate dalla scienza economica: il lavoro e il capitale. Con il primo si allude alla forza lavoro acquisita sul mercato del lavoro, a prescindere dal titolo al quale l’acquisizione è avvenuta (rapporto di lavoro subordinato; coordinato e continuativo; occasionale; volontario; ecc.)23. Con il secondo si allude a qualunque entità materiale o immateriale, a prescindere dal titolo che ne consente di avere la disponibilità (proprietà; usufrutto; uso; locazione; leasing; ecc.)24. Peraltro, non è necessario che le due tipologie di fattori produttivi ricorrano congiuntamente. Se è normale che le due categorie di fattori si combinino tra di loro, 21 In questo senso, JAEGER-DENOZZA-TOFFOLETTO, 18; LIBONATI, 11. Nella prospettiva di valutare il requisito della professionalità alla luce dell’apparato organizzativo destinato all’iniziativa, FRANCESCHELLI, Imprese, 96 ss.; AFFERNI, Gli atti, 279 ss. 22 In questo senso, FRANCESCHELLI, Imprese, 99 ss.; CASANOVA, Impresa, 23; OPPO, Scritti, I, 243 ss. e 281 ss. BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 424 s.; NIGRO, Impresa, 648 ss. Nel senso invece della non essenzialità dei fattori produttivi (diversi dal lavoro proprio), BIGIAVI, Sulla nozione di piccolo imprenditore, in Dir. fall., 1942, II, 177 ss.; ID., La «piccola impresa», 92 ss.; cui adde, tra gli altri, GALGANO, I, 27 ss. e 31; ed anche BIONE, L’impresa, 102 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 162. 23 Il punto è sottolineato in particolare da BUONOCORE, L’impresa, 120 ss. Nel senso dell’idoneità del volontariato ad acquisire lavoro nell’organizzazione imprenditoriale, da ultimo, OCCHINO, Volontariato, diritto e modelli organizzativi, Milano, 2012, 57 ss. 24 Il punto è sottolineato in particolare da CORSI, Diritto, 14 ? 12 L’impresa non è da escludere che determinati processi produttivi possano richiedere esclusivamente il fattore lavoro (processi produttivi cc.dd. labour intensive) o il fattore capitale (processi produttivi cc.dd. capital intensive)25. Alla luce di quanto precede, dovrebbe essere allora evidente qual è il ruolo del titolare di un’attività produttiva organizzata (qualificabile come impresa). Il suo ruolo è quello, non tanto di partecipare attivamente nel processo produttivo, quanto piuttosto di svolgere un’opera di organizzazione: un’opera, cioè, che consiste nello stabilire un ordine funzionale e strutturale dei fattori produttivi ai quali fa ricorso, approntandoli all’impiego nel processo produttivo26. Una tale opera è comunque legata alla natura dei fattori utilizzati in concreto nel processo produttivo27: essa, con riferimento al lavoro, consiste nello stabilire un ordine funzionale finalizzato a definire chi decide cosa e chi esegue ciò che altri hanno deciso; con riferimento al capitale, consiste nella preparazione degli elementi all’utilizzo nel processo produttivo. Peraltro, va detto che l’opera di organizzazione non deve necessariamente manifestarsi nella realizzazione di un apparato organizzativo tangibile. Infatti, può non esserci o non essere materialmente percepibile alcun apparato organizzativo. A titolo di esempio, basti pensare alle attività di investimento nella loro configurazione più elementare, che si sostanziano nella raccolta di una certa quantità di denaro e nel successivo impiego in strumenti finanziari secondo opportuni criteri di ripartizione del rischio; oppure alle attività che si svolgono esclusivamente attraverso la rete internet, come le tante iniziative di mediazione virtuale, che ormai mettono in contatto venditori e compratori di qualunque tipo di bene, ivi compreso il denaro (raccolta di denaro da chi ne ha in eccesso e vuole risparmiarlo in modo remunerativo e offerta di denaro a chi ne ha bisogno e chiede credito) e articolati servizi finanziari (my-flower; 4-you) e assicurativi (direct line)28. D’altra parte, giova precisare che il ruolo del titolare nell’ambito della sua iniziativa dev’essere comunque almeno minimamente riconducibile ad un’attività di organizzazione. Se manca questo profilo (e, quindi, l’eterorganizzazione), se, cioè, il ruolo del titolare si esaurisce in un’attività meramente esecutiva (e, quindi, nell’autorganizzazione), rappresentando il suo lavoro personale il fattore produttivo non solo necessario ma anche sufficiente, in quanto l’unico fattore impiegato nel processo produttivo, allora l’iniziativa non è qualificabile come impresa bensì come lavoro autonomo. In questo senso, confutando l’idea che l’organizzazione d’impresa presupponga sempre lavoro altrui, BIGIAVI, La «piccola impresa», 49 ss. Più di recente, CAMPOBASSO, I, 28; JAEGER-DENOZZATOFFOLETTO, 19 s.; PRESTI-RESCIGNO, 19; FERRARA-CORSI, 31 ss. 26 In questo senso, SPADA, I, 57 s. e 60. 27 Pur con diverse argomentazioni, sottolineano che l’opera organizzativa è legata al tipo di fattori produttivi utilizzati, RAVÀ, La nozione, 35 ss.; ASCARELLI, Corso, 178; SPADA, voce Impresa, 47 s.; CAMPOBASSO, I, 28 s. 28 Il punto è sottolineato in particolare da SPADA, Domain names e dominio dei nomi, in Riv. dir. civ., 2000, I, 721 s.; ID., I, 59 s., il quale mette in rilievo come la telematica affranca dal bisogno di un ordine strutturale e funzionale di cose e persone nella produzione di beni e servizi. 25 Antonio Cetra 13 Il lavoro autonomo è un’attività produttiva che si caratterizza per essere svolta esclusivamente con l’intervento esecutivo di chi la pone in essere. Cioè, un’attività nella quale il lavoro personale può considerarsi, non solo necessario, ma anche sufficiente per il compimento dell’intero processo produttivo. Il lavoro autonomo è un fenomeno produttivo che di per sé rileva sul piano normativo. Esso è definito dall’art. 2222, il quale recita: «quanto una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente si applicano le norme di questo capo». Da tale norma si desume che il lavoro autonomo può dirsi integrato allorché la produzione è posta in essere: verso un corrispettivo, ossia a titolo oneroso; da un soggetto che opera senza vincoli di subordinazione, cioè in proprio; con il lavoro prevalentemente proprio. E gli esempi di iniziative riconducibili alla definizione appena richiamata sono i più vari: basti pensare all’imbianchino, all’idraulico, all’elettricista, ecc. Giova osservare che il fatto che il dato normativo richieda che la prestazione debba essere realizzata con il lavoro prevalentemente proprio potrebbe risultare una contraddizione rispetto quanto si è detto più sopra, cioè che il lavoro autonomo si caratterizza per la circostanza che il lavoratore debba utilizzare soltanto il suo lavoro personale. Con riguardo al termine «prevalentemente» può tuttavia considerarsi pressoché acquisito che esso sia da intendersi nel senso che il soggetto possa utilizzare o fattori necessari per esternare la propria capacità lavorativa (si pensi al pennello utilizzato dall’imbianchino o alla pinza, alla tenaglia o al cacciavite utilizzati dall’elettricista o dall’idraulico); oppure fattori neutri, ossia inespressivi, ai fini della qualificazione del fenomeno: fattori, cioè, che possono essere impiegati in ogni attività, anche non produttiva (si pensi al telefono o anche al computer, che, in virtù della loro diffusione, possono senz’altro essere considerati fattori privi di capacità qualificativa)29. 5. Segue: l’economicità. Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, dev’essere, infine, economica, cioè deve soddisfare il terzo ed ultimo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a dire il requisito dell’economicità. Si tratta del requisito che connota l’attività sul piano del metodo che dev’essere seguito nel suo svolgimento. Tale requisito, a differenza degli altri due precedentemente esaminati, è stato a lungo controverso, nel senso che è stata a lungo incerta (e, ad onor del vero, ancora non del tutto pacifica) l’identificazione del metodo cui allude30. Secondo un primo orientamento, che soprattutto in passato riscuoteva grande seguito, specialmente da parte di chi era dell’idea che l’economicità fosse un requisito «inautonomo» dalla (e, quindi, un rafforzativo della) professionalità, il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo lucrativo (se non proprio del 29 In questi termini, sottolineando che si tratta di lavoro autonomo fin quando non può ritenersi superata la soglia di semplice autorganizzazione del proprio lavoro, CAMPOBASSO, I, 31. Peraltro, resta incerto quale sia il livello di eterorganizzazione necessario ad integrare un fenomeno imprenditoriale: sul punto, anche per una sintesi del dibattito, BUONOCORE, L’impresa, 114 ss. 30 Per una sintesi del dibattito, LOFFREDO, Economicità, 3 ss. e 207 ss. Per una recente rivisitazione del problema, TERRANOVA, L’impresa, 54 ss. 14 L’impresa tornaconto), cioè un metodo che tende a far conseguire un margine di profitto31 (o il maggior profitto possibile32). Pertanto, secondo quest’orientamento, un fenomeno produttivo per potersi qualificare come impresa dev’essere un’attività lucrativa (oltre che professionale e organizzata): un’attività nella quale i prezzi di cessione dell’oggetto della produzione (cc.dd. prezzi-ricavo) devono essere fissati ex ante (oltre che in funzione di quella che può essere la ragionevole capacità di assorbimento da parte del mercato della produzione offerta) in modo non solo da consentire di recuperare i costi sostenuti nel corso del processo produttivo (cc.dd. prezzi-costo), ma anche di conseguire un margine di profitto (se non addirittura il maggior profitto possibile), a prescindere, poi, dalla destinazione impressa al profitto così ottenuto: se è una destinazione interessata al titolare dell’iniziativa o, nel caso di impresa collettiva, ai suoi partecipanti (come i soci in una società) ovvero una destinazione disinteressata a soggetti differenti (come avviene normalmente in un’associazione o fondazione o in una società caratterizzata dalla presenza di una clausola non lucrativa). Secondo un diverso orientamento, che attualmente può considerarsi prevalente, anche in seguito alla consapevolezza che l’economicità sia un requisito autonomo (e, quindi, ulteriore) rispetto alla professionalità, il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo economico in senso stretto, cioè un metodo che tende ad assicurare il pareggio tra ricavi e costi, essendo del tutto eventuale e, comunque, irrilevante il profitto33. Pertanto, secondo quest’orientamento, un fenomeno produttivo si qualifica come impresa se è un’attività meramente economica e non necessariamente lucrativa: un’attività nella quale i prezzi di vendita devono essere fissati ex ante (oltre che in funzione di quella che può essere la ragionevole capacità di assorbimento da parte del mercato della produzione offerta) in modo da consentire di coprire i costi relativi all’acquisito dei diversi fattori variamente impiegati nel processo produttivo sottostante, ossia di recuperare attraverso i ricavi della vendita dei beni e dei servizi i costi di produzione sostenuti, restando invece superflua un’eventuale differenziazione in senso positivo tra ricavi e costi. In altre parole, affinché un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa, è sufficiente che il titolare sia in grado di riprendere dal mercato – e sempre che il mercato risponda assorbendo la produzione offerta – l’investimento di capitali risultato necessario per lo svolgimento del processo produttivo e che, di conseguenza, sia nelle condizioni di disporre, anche attraverso il ricorso al credito, quanto occorre per rinnovare gli investimenti che sono richiesti, nell’ottica di una prosecuzione regolare dell’iniziativa, senza ulteriori interventi da 31 In questo senso, tra gli altri, ASCARELLI, Corso, 189 ss.; DE MARTINI, Corso, 103 ss.; BUTTARO, Diritto commerciale. Lezioni introduttive, Bari, 1995, 9; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 435 ss.; BUONOCORE, L’impresa, 71 ss.; FERRI, ?; FERRARA-CORSI, 36 ss. In giurisprudenza, Cass., 9 dicembre 1976, n. 4577, in Giur. comm., 1977, II, 626; Cass., 3 dicembre 1981, n. 6395, in Giur. it., 1982, I, 1, 1276; Trib. Gorizia, 18 novembre 2011, in Fallimento, 2012, 722. 32 In questo senso, GENOVESE, La nozione, 27 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 129 ss. 33 In questo senso, tra gli altri, FRANCESCHELLI, Imprese, 103 s.; OPPO, Scritti, I, 243 e 275 s.; SPADA, voce Impresa, 50 ss.; LOFFREDO, Economicità, 80 ss.; CAMPOBASSO, I, 31 s. e 34 ss.; GALGANO, I, 23 s. In giurisprudenza, Cass., 2 marzo 1982, n. 1282, in Foro it., 1982, I, 1596; Cass., 2 marzo 2003, n. 16435, in Arch. civ., 2004, 1100; Intermedia è la posizione di chi, pur ritenendo superfluo il metodo lucrativo, ritiene comunque necessario il perseguimento di un fine lato sensu egoistico: BIGIAVI, La professionalità, 43 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 28 ss. Antonio Cetra 15 parte di terze economie (cioè di economie ulteriori rispetto all’intervento iniziale o interventi normalmente imposti da esigenze di crescita dell’iniziativa). Deve trattarsi di un’iniziativa che sia in grado di mantenersi in equilibrio economico e, quindi, in equilibrio finanziario, preservando, così, quanto meno nel lungo periodo, l’autonomia da altre economie34. Questa seconda interpretazione del requisito dell’economicità è senz’altro preferibile per un concorso di ragioni. Al riguardo, giova muovere dal rilievo che, accedendo all’interpretazione che intende l’economicità come sinonimo di lucratività, il fenomeno normativamente rilevante (cioè, l’impresa) sarebbe più circoscritto rispetto a quello che risulterebbe accedendo all’interpretazione più letterale del criterio. Infatti, è di tutta evidenza che, nel primo caso, un’attività produttiva potrà configurarsi come impresa soltanto quando si prefigge di conseguire un margine di profitto (eventualmente nel suo livello massimo) e non si limiti a recuperare invece attraverso i ricavi i costi di produzione. Una simile restrizione non sembra tuttavia trovare giustificazione. Ciò in quanto essa avrebbe come conseguenza quella di rendere estranei dalla fattispecie – e, quindi, dall’assoggettamento alla disciplina che a quella fattispecie si riferisce (ossia, la disciplina dell’impresa: vale a dire, il diritto commerciale) – una serie di fenomeni che sollecitano interessi, se non pienamente coincidenti quanto meno non molto diversi rispetto a quelli sollecitati dai fenomeni che si realizzano secondo il metodo lucrativo (o addirittura del tornaconto). Ed invero, occorre considerare che un qualsiasi fenomeno produttivo, a prescindere dal metodo che ne informa lo svolgimento, necessita ex ante degli investimenti per acquisire i fattori produttivi da impiegare nel corso del suo processo produttivo, investimenti che possono essere sostenuti nella misura in cui si disponga di sufficienti risorse finanziarie, suscettibili di essere acquisite o a titolo di capitale proprio (cioè, senza vincolo di restituzione) o a titolo di capitale di credito (cioè, con vincolo di restituzione). Ora, il fatto che il fenomeno produttivo si svolga secondo un metodo economico, a prescindere dalla sua esatta identificazione (se lucrativo o meramente economico) significa essenzialmente che tale fenomeno si prefigge di appagare le istanze di coloro che soddisfano le sue esigenze finanziarie, per il tramite della collocazione della propria produzione sul mercato: attraverso la vendita dei beni o servizi prodotti o la rivendita dei beni acquistati, riuscendo così a recuperare le risorse finanziarie necessarie per assecondare le pretese dei finanziatori. È perciò evidente che nel fenomeno produttivo divisato le pretese di tutti coloro che lo finanziano o lo hanno finanziato – a prescindere dal titolo con cui il finanziamento è avvenuto – sono esposte al rischio che l’iniziativa non riesca ad ottenere dal mercato le suddette risorse. Sono esposte cioè al rischio che l’offerta della produzione non trovi riscontro nella domanda dei destinatari di quella produzione: con il che realizzandosi ricavi inferiori ai costi, che portano ad uno squilibrio economico (perdita), il quale, a lungo andare, si riflette, squilibrandola, sulla situazione finanziaria e patrimoniale e, in definitiva, provocando uno stato di dissesto. In altre parole, tutti coloro che finanziano 34 LIBONATI, 15.; SPADA, I, 61 s. 16 L’impresa un’iniziativa produttiva autonoma da terze economie, che pretende di sopravvivere attraverso il collocamento della propria produzione sul mercato e di ottenere le risorse necessarie a remunerare i fattori produttivi impiegati (in ciò si sostanzia normalmente un’impresa) sono esposti al rischio di mercato (che è la configurazione tipica del rischio di impresa): al rischio di non riuscire a soddisfare le proprie legittime aspettative originate dall’operazione finanziaria posta in essere, se il mercato non assorbe (quanto meno una parte del)la produzione offerta35. Non può comunque essere trascurata la differenza fra coloro che finanziano a titolo di capitale proprio e coloro che finanziano a titolo di capitale di credito. I primi non hanno alcun diritto alla restituzione del capitale apportato o alla sua remunerazione, atteso che la restituzione e la remunerazione sono subordinate, rispettivamente, alla circostanza che residui un avanzo patrimoniale al termine dell’iniziativa o che si siano prodotti utili (non a caso, è invalso qualificare tali finanziatori con l’espressione anglosassone di residual claimans). I secondi hanno un vero e proprio diritto alla restituzione del capitale e alla remunerazione normalmente convenuta (non a caso è invalso qualificare tali finanziatori con l’espressione anglosassone di fixed claimans). Sicché, è ragionevole ritenere che i primi debbano essere esposti al rischio di impresa con più intensità dei secondi. È allora evidente che in un fenomeno produttivo economico, a prescindere dal metodo che ne informa lo svolgimento, ricorre il presupposto che rende congruo l’assoggettamento al diritto dell’impresa: il fatto che tali fenomeni si interfaccino con il mercato, cioè cerchino di acquisire dal mercato le risorse necessarie per soddisfare le istanze di coloro che li finanziano (o li hanno finanziati) e, quindi, sono esposti al rischio che il mercato non consenta la relativa acquisizione o, quanto meno, un’acquisizione sufficiente. Di conseguenza, devono essere governati dal diritto dell’impresa – devono, cioè, svilupparsi nell’osservanza delle regole comportamentali imposte dall’ordinamento proprio con l’obiettivo di realizzare la ricordata graduazione rispetto all’esposizione al rischio di impresa, ossia una posizione poziore dei primi finanziatori (e, conseguentemente, deteriore dei secondi) rispetto a tale rischio – non solo i fenomeni che si svolgono con metodo lucrativo, ma anche quelli che si svolgono con metodo meramente economico36. Del resto, una simile conclusione ha trovato talvolta avallo nello stesso dato normativo, il quale, soprattutto in passato, qualificava, non a caso, come «impresa» iniziative che non devono essere necessariamente svolte con un metodo lucrativo (e 35 In questo senso, le chiare pagine di FRANCESCHELLI, Imprese, 33 ss. Nello stesso senso, sottolineando che quale che sia il metodo di gestione (lucrativo o meramente economico), c’è sempre il rischio che il risultato non si verifichi, CAVAZZUTI, voce Rischio d’impresa, in Enc. dir., III aggiornam., Milano, 1999, 1094 ss. 36 In questo senso, sottolineando come non solo nelle iniziative lucrative ma anche il quelle non lucrative ci sono interessi meritevoli di una tutela della stessa intensità, CETRA, L’impresa, 48. Ma già, nell’ottica di vedere l’economicità un «imperativo» della disciplina dell’impresa, seppur ad altro proposito, SPADA, L’incognità, cit., 757 s; ANGELICI, I, 33 s. Più in generale, sull’idea che la disciplina dell’impresa risenta della naturale destinazione al mercato della produzione, FANELLI, Introduzione, 52 ss.; GHIDINI, Lineamenti, 89 ss. e 132 ss. Antonio Cetra 17 men che meno del tornaconto), tra le quali basti ricordare le iniziative mutualistiche e le iniziative economiche degli enti pubblici37. Alla luce di quanto precede, si può dedurre che il fenomeno produttivo che difetti dell’economicità si configura come attività di erogazione: attività, quest’ultima, che si caratterizza per cedere i beni o servizi prodotti (o i beni acquistati) a prezzi che non riescono a recuperare nemmeno i costi sostenuti per il loro ottenimento (o acquisito) o, addirittura, gratuitamente: un’attività, cioè, che, in definitiva, dà luogo ad un vero e proprio trasferimento di ricchezza da chi produce a vantaggio dei destinatari della produzione. Pertanto, questi fenomeni, non riuscendo a recuperare attraverso i ricavi (peraltro eventuali) i costi sostenuti per la produzione, presentano l’attitudine ad esaurire le risorse messe a disposizione inizialmente a copertura degli investimenti necessari per realizzare il processo produttivo (che, non a caso, sono risorse acquisite a titolo diverso dal credito, peraltro non solo senza pretese restitutorie, ma neanche di remunerazione), sicché l’iniziativa posta in essere sarà costretta ad arrestarsi, a meno che non ci siano nuove iniezioni di risorse da parte di terze economie. Si tratta, cioè, di una tipologia di iniziative che tende ad esaurirsi al termine di qualche ciclo produttivo o altrimenti riesce a proseguire in quanto sostenute da terze economie. Ed invero, tali fenomeni si riscontrano essenzialmente nel mondo non profit, dove infatti una parte (forse la maggior parte e, comunque, la parte più importante) delle iniziative, presenti perlopiù nei settori a spiccata rilevanza sociale (assistenza sociale, assistenza sanitaria, assistenza socio-sanitaria, prevenzione della dispersione scolastica, ecc.), opera secondo un metodo erogativo, cioè cedendo i beni o i servizi prodotti sotto costo o gratuitamente. Queste iniziative sono riconducibili essenzialmente alle associazioni di volontariato (l. 11 agosto 1991, n. 266), le quali infatti producono servizi che cedono prevalentemente in forma gratuita. Non a caso, le associazioni operano grazie all’apporto rappresentato dal lavoro dei volontari, che non solo è spontaneo ma anche privo di remunerazione. Ad esso si aggiunge qualche forma di apporto di risorse di altra natura, principalmente finanziarie, a titolo di donazione disinteressata. Questi fenomeni, pur essendo fenomeni produttivi, sono tuttavia senz’altro estranei ai fenomeni che qui interessano. D’altra parte, resta incerto se possa considerarsi economica o erogativa quell’attività che viene svolta, stabilendo inizialmente un livello dei prezzi-ricavo senz’altro insufficiente a coprire i costi di produzione, di conseguenza sapendo di pervenire ad una perdita, ove tuttavia il differenziale negativo tra ricavi e costi non è casuale, ma è fissato in funzione dell’impegno assunto ex ante da qualcuno di coprire tale differenziale. In altre parole, resta incerto se possa considerarsi economica o erogativa quell’attività che viene svolta secondo una logica di perdita programmata38. Nel senso che siffatta logica possa ritenersi compatibile con un criterio di economicità depone la circostanza che l’impegno a coprire il differenziale negativo per ogni unità di prodotto o servizio venduto è un elemento di cui si tiene conto nella fissazione del prezzo, trattandosi di un impegno vincolante da parte di chi ha assunto quest’ultimo. Un simile impegno si sostanzia nell’assunzione dell’obbligo di Sul punto, in luogo di molti, BUONOCORE, L’impresa, 64 s. e 71 ss.; CAMPOBASSO, I, 35 s.; GALGANO, I, 24 s. 38 Per i termini generali della questione, CETRA, L’impresa, 46 s., nt. 22. 37 18 L’impresa corrispondere una parte del (o anche tutto il) prezzo: la parte che non viene corrisposta del destinatario del bene o del servizio. Siffatte situazioni ricorrono nel mondo non profit, nel quale non sono rare le iniziative che producono servizi (generalmente servizi alla persona), che vengono ceduti ad un utente, senza che lo stesso corrisponda l’intero prezzo. Tuttavia, l’iniziativa che riesce a cedere il servizio, in conseguenza del fatto che un utente la abbia scelta, ha la possibilità di accreditarsi per incassare la differenza tra il prezzo del servizio e il prezzo (eventualmente) pagato dall’utente nei confronti di qualcuno che si è impegnato ex ante in questo senso (generalmente un ente pubblico), talvolta a seguito della presentazione di un apposito voucher (incorporante l’impegno in questione), che l’utente ha rilasciato nel momento in cui ha usufruito del servizio39. Situazioni non diverse si riscontrano anche nelle iniziative mutualistico-consortili, specialmente in quelle che assumono la forma giuridica del consorzio, le quali producono servizi a favore degli imprenditori facenti parte del sodalizio, che inizialmente cedono sottocosto o gratuitamente, per poi recuperare quanto necessario per coprire i costi di produzione attraverso i cc.dd. contributi consortili40. 6. La completezza della nozione di impresa. L’esegesi appena conclusa dell’art. 2082 ha permesso di individuare quali siano i fenomeni produttivi che il dato normativo qualifica come impresa, ossia i fenomeni normativamente rilevanti, vale a dire destinatari di una certa disciplina. Come si è visto, il dato normativo appena esaminato individua tali fenomeni, descrivendo un modello comportamentale, generale e astratto, contenente gli elementi minimi che devono ricorrere in un fenomeno produttivo, affinché lo stesso possa qualificarsi alla stregua di un’impresa. Tale modello costituisce la pietra di paragone o il parametro di confronto di un fenomeno che si verifica in concreto nella realtà, nel senso che ai fini di una qualificazione di quest’ultimo in termini di impresa occorre verificare se c’è conformità tra il fenomeno medesimo e la descrizione normativa. E ai fini della riconducibilità di un fenomeno produttivo alla fattispecie il riscontro deve arrestarsi lì: nel senso che non deve spingersi nel verificare se ricorrono elementi che il dato normativo non richiede esplicitamente, a prescindere se essi abbiano carattere oggettivo o soggettivo, ovvero siano legati alle intenzioni di chi pone in essere il fenomeno oggetto di qualificazione. Altrimenti detto, il modello comportamentale descritto dal dato normativo non può essere arricchito di elementi qualificanti il fenomeno produttivo non richiesti dalla Sul punto, MARASÀ, Contratti, 5 e 168. E v., anche, PERRINO, Esercizio indiretto dell’impresa «scolastica», associazione e fallimento, in Giur. comm., 1992, II, 77 ss. Sul ricorso ai vouchers quali forme di finanziamento dei soggetti del terzo settore cui è affidata la gestione dei servizi sociali ex legge 11 novembre 2000, n. 328 e delle imprese sociali, BELTRAMETTI, Vouchers. Presupposti, usi e abusi, Bologna, 2004, 7 ss.; FREGO LUPPI, Art. 17, in Il sistema integrato dei servizi sociali2, a cura di BalboniBaroniMattioni-Pastori, Milano, 2007, 392 ss. 40 SPADA, Funzione e organizzazione consortile tra legge e prassi contrattuale, in Riv. dir. impr., 252; 1990, VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Tr. Galgano, IV, 1981, 339. 39 Antonio Cetra 19 norma stessa, né può essere inquinato da elementi intenzionali di chi pone in essere materialmente il fenomeno. Il modello comportamentale descritto dalla norma è perciò esaustivo: contiene gli elementi non solo necessari ma anche sufficienti che devono caratterizzare un certo «fatto» affinché esso possa considerarsi giuridicamente come «impresa». In quest’ottica, ci si può sbarazzare agevolmente di due (pseudo) questioni che affiorano tradizionalmente nel dibattito sulla fattispecie: se un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa nel caso in cui la produzione non sia destinata ad essere collocata sul mercato (c.d. impresa per conto proprio) o nel caso in cui tale fenomeno si sia svolto senza osservare le condizioni richieste dalla legge per la sua iniziazione (c.d. impresa illegale) o persegua direttamente o indirettamente una finalità illecita (c.d. impresa immorale o mafiosa). Ed è agevole a questo punto affermare che tanto nel primo quanto nel secondo caso la conclusione non può che dipendere dal riscontro che il fenomeno posto in essere sia riconducibile a quello astrattamente descritto dall’art. 2082, ossia sia un fenomeno produttivo che presenta le tre caratteristiche oggettive di professionalità, organizzazione ed economicità: nel caso affermativo, si tratta di un’impresa; altrimenti, nel caso contrario. In ogni caso, a poco rileva la destinazione impressa alla produzione ottenuta o l’osservanza di regole ulteriori o le finalità perseguite attraverso l’iniziativa. Con riferimento alla prima questione il punto è se un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa anche quando il risultato della produzione non venga destinato al mercato (e rimanga invece nella disposizione di chi ha dato luogo alla stessa). È evidente che si tratta di ipotesi con rilevanza pratica marginale. Possono essere rappresentate, ad esempio, dall’agricoltore che coltiva il terreno ottenendo una produzione che, anziché destinare al mercato, utilizza per l’auto-consumo o per le esigenze della propria famiglia o il costruttore edile che costruisce un’abitazione che, anziché collocare sul mercato, adibisce a sua abitazione personale. Ora, decidere se in questi casi c’è o meno un’impresa è un riscontro che occorre fare solo avendo riguardo, da un lato, al modello comportamentale astratto previsto dal dato normativo e, dall’altro, al fenomeno che in concreto è stato posto in essere: ossia, verificare se quest’ultimo è idealmente riconducibile al primo. In altri termini, è un riscontro che occorre fare sul piano oggettivo, verificando che il fenomeno produttivo realizzato soddisfi i tre requisiti di professionalità, organizzazione ed economicità richiesti dal dato normativo. E con riferimento ad entrambi gli esempi appena fatti, non sembra remota la possibilità che possano esserci i requisiti della professionalità e dell’organizzazione; soltanto sull’economicità si è a volte dubitato. Invero, si è sostenuto che il requisito di economicità non poteva accertarsi in assenza di un’operazione di scambio, atteso che in tal caso non si può verificare se i ricavi coprono (e, eventualmente, superano) i costi, non essendovi alcun ricavo41. Tuttavia, si è replicato che il requisito poteva essere accertato, eventualmente sostituendo il ricavo con il risparmio di spesa o considerando il ricavo come equivalente al risparmio di spesa, nell’ottica di ritenere che quest’ultimo sia una particolare configurazione del primo42. In questa prospettiva, ricorrendo i tre requisiti che qualificano l’attività produttiva, non si possono avere esitazioni a ricondurre il fenomeno a quello normativamente rilevante. Ed 41 42 In questo senso, BONFANTE-COTTINO, 420 s.; AULETTA-SALANITRO, 6; GALGANO, I, 26 s. In questo senso, soprattutto, OPPO, Scritti, I, 61 s.; SPADA, voce Impresa, 53. 20 L’impresa invero, è ipotesi normale che un’impresa si svolga sul mercato, cioè che la produzione sia destinata al mercato. Infatti, come sarà messo in luce a suo tempo (v., infra, ), tutta la disciplina dell’impresa postula che l’iniziativa si svolga sul mercato, cercando di assicurare ai diversi interessi in gioco la più congrua intensità di esposizione rispetto al rischio di impresa. Non può tuttavia in alcun modo rilevare il fatto che in alcuni casi la produzione non abbia la sua naturale destinazione di mercato, atteso che la produzione, anche a prescindere dalla destinazione al mercato, richiede investimenti, ai quali si associa un’esigenza finanziaria, che in parte può essere soddisfatta a titolo di credito (cioè, con capitali acquisiti con vincolo di destinazione). Sicché, gli interessi sollecitati durante la fase di produzione non possono avere una tutela differente a seconda della destinazione impressa o che s’intenda imprimere ai beni ottenuti: se al mercato o al consumo personale. Ritenere il contrario equivarrebbe a introdurre nella fattispecie un elemento ulteriore che il dato normativo non richiede o far dipendere l’integrazione della fattispecie da un elemento soggettivo quale la scelta su come destinare l’oggetto della produzione. Con riferimento alla seconda questione il punto è se un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa anche se è illecito: altrimenti detto, se anche un’attività illecita possa considerarsi impresa (che allora sarebbe impresa illecita). Al riguardo, giova anzitutto precisare che con il sintagma «impresa illecita» si identificano due tipologie di fenomeni produttivi. Una prima tipologia è quella dell’impresa illegale. Essa ricorre tutte le volte in cui un’attività produttiva inizia senza chiedere o ottenere le autorizzazioni per essa previste, generalmente rilasciate da un’autorità amministrativa. Ad esempio, si pensi all’attività bancaria o, più in generale, all’attività di investimento finanziario: un’attività bancaria o un’attività finanziaria possono cominciare solo dopo che hanno ottenuto l’autorizzazione dall’autorità amministrativa competente (Banca d’Italia: art. 14 tub; Consob: art. 19 tuf), sicché, se avviate in difetto di tale autorizzazione, si configurano come imprese illegali (banca illegale; attività di investimento illegale; ecc.). Una seconda tipologia è quella dell’impresa immorale. Essa ricorre tutte le volte in cui un’attività produttiva è finalizzata a realizzare un bene o a prestare un servizio contrario a valori basilari dell’ordinamento: basti pensare ad un’attività di produzione di sostanze stupefacenti o ad una attività di servizi di accompagnamento per signori altolocati con signorine di bella presenza e di generose concessioni (cc.dd. servizio di escort). Per vero, questa seconda tipologia si distingue a sua volta da una sotto categoria, che è qualificata in letteratura come impresa mafiosa. Essa si identifica con un’attività produttiva, di per sé regolare e lecita, che appoggia e sostiene un più ampio disegno criminoso. Un esempio potrebbe essere la creazione e la gestione di un ristorante, col fine precipuo di riciclare del denaro proveniente da attività illecite43. Ebbene, anche in questi casi la qualificazione del fenomeno posto in essere è legata soltanto alla riconducibilità dello stesso al modello comportamentale generale e astratto descritto dal dato normativo. Il che deve senz’altro ritenersi con riferimento ai fenomeni che rientrano nella c.d. impresa illegale, atteso che subordinare l’integrazione della fattispecie al soddisfacimento di un ulteriore adempimento di ordine formale (la richiesta dell’autorizzazione) vorrebbe dire arricchire le condizioni minime alla cui ricorrenza il dato normativo subordina la disciplina dell’impresa. Con la conseguenza che sarebbe lasciato alla volontà di chi pone in essere il fenomeno decidere se integrare o meno quelle condizioni (attraverso, appunto, la richiesta 43 Sulle tipologie di impresa illecita, per tutti, SACCÀ, Impresa individuale e societaria illecita, Milano, 1988, 11 ss.; ID., Contributo allo studio del contenuto e dei limiti della nozione di neutralità dell’attività d’impresa, Milano, 2005, 23 ss. Antonio Cetra 21 dell’autorizzazione) e, quindi, precostituire il presupposto di applicazione della disciplina dell’impresa: il che è a dir poco inaccettabile, finendo per condizionare alla sua volontà l’applicazione di una disciplina che non tutela soltanto il suo interesse. Del resto, una tale conclusione può dirsi ormai ampiamente acquisita a proposito della banca illegale (o banca di fatto). In particolare, si ritiene che, se si svolge un’attività bancaria, cioè la raccolta di risparmio tra il pubblico e la concessione del credito, senza chiedere (o ottenere) la necessaria autorizzazione alla (dalla) Banca d’Italia, la conseguenza non possa essere la sottrazione del fenomeno alla disciplina sua propria (e in particolare alla disciplina relativa alla soluzione di un’eventuale insolvenza), bensì soltanto la punizione della condotta illecita (cioè, il fatto di aver svolto un’attività senza chiedere le necessarie autorizzazioni), con l’applicazione delle relative sanzioni amministrative e penali (art. 131 tub)44. Ma a conclusioni non diverse deve giungersi anche con riferimento ai fenomeni che rientrano nell’impresa immorale (e, a fortiori, mafiosa), atteso che subordinare l’integrazione della fattispecie ad un giudizio di valore dell’oggetto della produzione o alle finalità remote perseguite dall’iniziativa significherebbe rendere troppo incerto il presupposto di applicazione di una disciplina alla quale è affidato il congruo contemperamento di diversi interessi in gioco. Ed invero, anche attività finalizzate alla produzione di sostanze stupefacenti o attività finalizzate allo sfruttamento della prostituzione possono essere caratterizzate da un processo produttivo che sollecita interessi tipici di un qualsiasi fenomeno produttivo e, in particolare, il credito alla produzione: interessi che pertanto meritano tutela a prescindere dalle valutazioni in ordine all’oggetto della produzione o alle finalità perseguite attraverso lo svolgimento di quell’iniziativa45. In altri termini, anche le attività che perseguono un fine immorale o appoggiano un più ampio disegno criminoso possono senz’altro qualificarsi come imprese sul piano normativo: sono fenomeni che se coincidenti con la nozione di impresa sono assoggettati senz’altro alla disciplina propria dei fenomeni produttivi. Tuttavia, con l’eccezione di quella parte di disciplina che è predisposta a tutelare gli interessi di chi svolge l’iniziativa medesima (da identificarsi, più che altro, nella parte «industriale» del diritto commerciale: v., infra, ??). È evidente che chi svolge un’attività apprezzabile come immorale o a sostegno di un progetto criminoso non può beneficiare dell’applicazione degli istituti che sono disposti per tutelare specificamente il suo interesse e, in particolare, la sua posizione sul mercato (ad esempio, gli istituti dei segni distintivi e della concorrenza): il che alla luce di un principio immanente nell’ordinamento per cui nessun soggetto può trarre una qualsiasi forma di vantaggio dalla commissione di un illecito46. In questo senso, in dottrina, MARTORANO, L’impresa bancaria non autorizzata, in Impresa e società. Scritti in memoria di Graziani, III, Napoli, 1967, 1072 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 27 s.; OPPO, Scritti, I, 251 s.; SACCÀ, Impresa, 20 ss.; in giurisprudenza, Cass., 1 luglio 1969, n. 2410, in Foro it., 1969, I, 2886. Nello stesso senso, con riferimento all’attività finanziaria non autorizzata, SALAMONE, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, 61 ss. 45 In questo senso, sottolineando che il comportamento imprenditoriale è un fatto che l’ordinamento regola a prescindere dall’illecito di chi si comporta e di chi ha contatti con questo, SPADA, I, 63 ss. Per l’analoga conclusione, pur con differenti argomentazioni, BRACCO, L’impresa, 192; PANUCCIO, Note in tema di impresa illecita (per una teoria delle anomanlie dell’impresa), in Impresa e società. Scritti in memoria di Graziani, III, Napoli, 1967, 1216 ss. (poi riaffermata in ID., Teoria, cit., 109 ss.); BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 444 s.; LIBONATI, 22. Con specifico riferimento all’impresa mafiosa, ALAGNA, Impresa illecita e impresa mafiosa, in Contratto e impresa, 1991, 159 ss.; SACCÀ, Contributo, 53 ss. 46 In questo senso, tra gli altri, OPPO, Scritti, I, 252 s. e 270 s.; CAMPOBASSO, I, 41. 44 22 L’impresa § 2. Le categorie di impresa. LETTERATURA: AA. VV., La legge-quadro per l’artigianato, in Giur. comm., 1987, I, 690; ALESSI e PISCIOTTA, L’impresa agricola. Artt. 2135-21402, in Comm. SchlesingerBusnelli, 2010; ANGELICI, Diritto commerciale, I, Roma-Bari, 2002; ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962; BIGIAVI, La «piccola impresa», Milano, 1947; BIONE, L’impresa ausiliaria, Padova, 1972; ID., L’imprenditore agricolo, in Tr. Galgano, II, 1978, 449; ID., voce Piccolo imprenditore, in Enc. giur., XXV, Roma, 2006; BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960; BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, sez. I, tomo 2.1, 2002; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001; CAPO, La piccola impresa, in Tr. Buonocore, sez. I, tomo 2.III, 2002; CASANOVA, Impresa e azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974; CAVAZZUTI, Le piccole imprese, in Tr. Galgano, II, 1978, 549; CETRA, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003; ID., Impresa, sistema e soggetti, Torino, 2008; CIRENEI, Le imprese pubbliche, Milano, 1983; COLUSSI, voce Impresa collettiva, in Enc. giur., XVI, 1989; CORSI, Diritto dell’impresa2, Milano, 2003; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983; FERRI, Delle imprese soggette a registrazione. Art. 2188-22462, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1968; FERRO-LUZZI, Alla ricerca del piccolo imprenditore, in Giur. comm., 1980, I, 37; ID., L’impresa, in L’impresa, a cura di Libonati-Ferro-Luzzi, Milano, 1985, 8; ID., Lezioni di diritto bancario2, I, Parte generale, Torino, 2004; FANELLI, Introduzione alla teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1950; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972; GATTI, voce Piccola impresa, in Enc. dir., XXXIII, 1983, 758; GALGANO, L’imprenditore, in Tr. Galgano, II, 1978, 3; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990; GHIDINI, Lineamenti del diritto dell’impresa2, Milano, 1978; GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggi sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998; JAEGER, La nozione d’impresa dal codice allo statuto, Milano, 1985; MARASÀ, Contratti associativi e impresa, Padova, 1995; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966; MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il codice civile del 1942, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Milano, 1942; NIGRO, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, in Tr. Rescigno2, XV, 1**, 2001, 595; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992; PIRAS, Nuove forme di organizzazione dell’attività di impresa, in Giur. comm., 1980, I, 70; RAVÀ, La nozione giuridica di impresa, Milano, 1949; RIVOLTA, La teoria giuridica dell’impresa e gli studi di Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 1987, I, 203; ROMAGNOLI, L’impresa agricola, in Tr. Rescigno2, XV, 1**, 2001, 233; ROVERSI-MONACO, L’attività economica pubblica, in Tr. Galgano, I, 1977, 385; SPADA, voce Impresa, in Digesto delle materie privatistiche. Sezione commerciale4, Torino, 1992, 32; ID., Diritto commerciale, I, Parte generale. Storia, lessico, istituti2, Padova, 2009. Acquisita la nozione di impresa, occorre passare adesso all’esame della rilevanza normativa dell’impresa, ossia vedere qual è la disciplina che trova applicazione nei confronti dell’impresa. Antonio Cetra 23 Come sarà agevola constatare, la disciplina dell’impresa, intesa quale disciplina organica, in forma di statuto (c.d. statuto dell’impresa) trova applicazione non tanto nei confronti dell’impresa non ulteriormente qualificata (cioè, all’impresa in quanto tale): sono semmai singoli istituti o singole norme o gruppi di norme che costituiscono quella disciplina che trovano applicazione nei confronti dell’impresa non ulteriormente qualificata (cioè, dell’impresa tout court). Invece, una tale disciplina sembra risentire della circostanza che l’impresa abbia una certa natura, assuma una certa dimensione, e, eventualmente, rivesta una certa forma giuridica. In quest’ottica, risulta necessario enucleare le diverse categorie d’impresa rilevanti sul piano normativo (individuate, appunto, in funzione della natura della produzione, della dimensione e della forma giuridica rivestita): le categorie che classificano l’impresa sulla base di elementi (la natura della produzione, la dimensione e la forma giuridica) che possono condizionare la disciplina applicabile. 1. L’impresa come fenomeno produttivo di portata generale e la sua rilevanza normativa. La nozione di impresa che si è appena esaminata ricomprende un qualsiasi fenomeno produttivo che presenti i tre requisiti di professionalità, organizzazione e economicità. Tale nozione introduce nel sistema una marcata discontinuità rispetto al sistema previgente del codice di commercio del 1882: non solo perché descrive un fenomeno produttivo in termini di attività (art. 2082 c.c.) e non invece di atto di commercio (art. 3 c. comm. 1882), con il che escludendo dalla fattispecie fenomeni che si sostanziano in singoli atti (cfr. art. 3, nn. 4, 5, 15, 18) o in un insieme di atti non unitariamente orientati sul piano teleologico (cfr. art. 3, nn. 1, 3, 11, 12, 22, 23); quanto piuttosto perché colloca al vertice del diritto commerciale un fenomeno omnicomprensivo (art. 2082 c.c.), laddove invece al vertice del diritto commerciale contenuto nel codice di commercio erano espressamente esclusi i fenomeni di natura agricola e artigiana (art. 5 c. comm.). La ragione di questo ampliamento del fenomeno normativamente rilevante si coglie nel tentativo perseguito da legislatore storico del 1942 di assoggettare ogni iniziativa produttiva (a prescindere, cioè, dalla natura e purché caratterizzate da un minimo di organizzazione imprenditoriale) ad un nucleo di regole comuni, vale a dire alle regole contenute negli artt. 2084-2093: a regole perlopiù programmatiche che si limitano ad enunciare un principio e a rinviarne la relativa attuazione ad altra legge ordinaria e, soprattutto, alle norme corporative. Più precisamente, l’intento era essenzialmente quello di far sì che tutte le iniziative imprenditoriali informassero, non solo l’indirizzo della produzione (cfr. 2085), ma anche il concreto svolgimento delle stesse (art. 2088), ai principi dell’ordinamento 24 L’impresa corporativo e, di conseguenza, restassero esposte, nel caso di inosservanza dei relativi obblighi, a severe sanzioni (artt. 2089 ss.)47. La ragione, quanto meno principale, che aveva indotto il legislatore storico a uniformare gran parte delle attività produttive (cioè, quelle triplicemente qualificate dagli attributi esaminati) nella nozione d’impresa è venuta meno con la soppressione dell’ordinamento corporativo (d.l.lgt. 14 settembre 1944, n. 287), circostanza, quest’ultima, che ha fatto perdere agli artt. 2084-2093 gran parte della loro importanza e consistenza. Ed invero, in seguito alla caducazione delle norme corporative, l’impresa, quale fenomeno omnicomprensivo, sembra aver smarrito il suo pendant sul piano del diritto positivo48. In particolare, l’impresa in quanto tale non pare assoggettata (più) ad un corpo organico di regole che costituiscono uno statuto. In realtà, nel corso del tempo non sono mancati tentativi di colmare il vuoto derivante dall’abrogazione dell’ordinamento corporativo attraverso uno statuto dell’impresa che ispirasse le relative iniziative ai principi economici fondamentali dell’ordinamento racchiusi nella Costituzione (parte I, Titolo III) e, al tempo stesso, desse attuazione alle corrispondenti norme programmatiche (cfr., ad esempio, artt. 35, 41 e 46 Cost.). Il tentativo senz’altro più importante è da ascriversi ad una commissione ministeriale appositamente costituita e presieduta da Giuseppe Ferri, la quale aveva elaborato uno statuto dell’impresa, tuttavia mai tradotto in legge. Solo di recente, su impulso di una comunicazione della Commissione europea [Com. 25 giugno 2008, n. 394 dal titolo «Una corsia preferenziale per la piccola impresa – Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per la piccola impresa (Un small business act per l’Europa)»], è stato emanato uno statuto delle imprese (l. 11 novembre 2011, n. 180), con il proposito di dare attuazione agli artt. 35 e 41 Cost. e, in particolare: - favorire e facilitare la nascita delle imprese e consentire il relativo sviluppo nelle dinamiche competitive del mercato interno e internazionale (art. 16), anche attraverso gli strumenti dell’associazionismo e della cooperazione (artt. 3 e 4); - semplificare il quadro normativo generale (art. 6) e dei rapporti con la pubblica amministrazione (artt. 7, 8, 9 e 11), con specifico riferimento alla partecipazione agli appalti pubblici (art. 12 e 13); - promuovere l’inclusione delle problematiche sociali e delle tematiche ambientali nello svolgimento dell’attività di impresa (art 14); - ecc. Tuttavia, così come il progetto Ferri non si riferiva all’impresa ex art. 2082 ma (quanto meno precipuamente) ad una categoria (l’impresa medio-grande), anche lo statuto emanato dalla l. 180/2011 non si indirizza a tutte le imprese ma (essenzialmente) ad alcune categorie: alle micro, piccole e medie imprese, come definite dalla Racc. 6 maggio 2003, n. 361 e (tra queste) alle imprese partecipate in prevalenza da donne o da giovani di età non superiore a 35 anni. Sul punto, pur con diverse sfumature di pensiero, le ricostruzioni di GALGANO, L’imprenditore, 24 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 45 ss.; COTTINO, L’imprenditore. Diritto commeriale4, I, 1, Padova, 2000, 54 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 382 ss. 48 Non a caso, FERRO-LUZZI, L’impresa, 26 e 30; ID., Lezioni, 30 considera la nozione generale di impresa una trappola «sistematica» o «metodologica», nella quale è incappata gran parte della dottrina, la quale è stata indotta a concentrare i propri sforzi ricostruttivi nella ricerca del risvolto normativo di tale nozione ormai non più esistente. 47 Antonio Cetra 25 In realtà, secondo l’opinione tradizionalmente consolidata l’impresa in quanto tale risulterebbe (ancora) destinataria di uno statuto, il c.d. statuto generale dell’impresa, costituito da tutti quegli istituti che hanno (rectius: sembrano avere) come ambito di applicazione l’impresa non altrimenti qualificata. In particolare, si tratta degli istituti della concorrenza e dei consorzi (artt. 2595-2620 e l. 10 ottobre 1990, n. 287), dei segni distintivi (artt. 2563-2574 e c.p.i.) e dell’azienda (artt. 2555-2562)49. Tuttavia, con riferimento alla concorrenza e ai segni distintivi, occorre prendere atto del processo di ampliamento del fenomeno normativamente rilevante, che dall’impresa tende ad estendersi ad attività produttive diversamente qualificate, o per scelta del legislatore (le professioni intellettuali: v., infra, ?) o per difetto di uno dei requisiti richiesti dall’art. 2082 (le attività occasionali, il lavoro autonomo: v., supra, ?). Infatti, sarà agevole notare che la parte più significativa della disciplina della concorrenza (l’antitrust) e dei segni distintivi (il marchio: artt. 2569 ss. e 7 ss. c.p.i.) non può considerarsi disciplina esclusiva dell’impresa, atteso che il suo ambito di applicazione ricomprende anche altri fenomeni produttivi. Inoltre, con riferimento all’azienda, occorre sottolineare che almeno parte della relativa disciplina non trova applicazione all’impresa in quanto tale, atteso che qualche disposizione è riservata espressamente ad alcune categorie di impresa (art. 2557) mentre altre disposizioni presuppongono l’osservanza di istituti riservati sempre solo ad alcune categorie di impresa (artt. 2556, 2558, comma 1, 2559, comma 1, 2560, comma 2). Invece, occorre segnalare che all’impresa in quanto tale è stato generalizzato l’ambito di applicazione di un istituto – la pubblicità commerciale – fino a ieri riservato ad una categoria di impresa. Infine, all’impresa in quanto tale si applicano anche delle disposizioni sparse, che si trovano qua e là nella sistematica del codice civile, tra le quali giova ricordare, ad esempio, l’art. 230-bis relativo alla c.d. impresa familiare, l’art. 1368, comma 2, relativo ai criteri di interpretazione del contratto; ecc. Ne consegue che l’impresa, quale fenomeno omnicomprensivo, è destinataria di una disciplina poco organica e molto frammentaria, che senz’altro non esaurisce l’attuale portata del diritto commerciale, quale complesso organico di norme qualificabili a stregua di statuto. Ed invero, il legislatore storico, se, da un lato, tratteggiava per le ragioni appena chiarite una nozione unitaria di impresa, dall’altro, enucleava da tale nozione due sottofattispecie alle quali circoscrivere la disciplina applicabile alle norme appena passate in rassegna50. E ciò sul presupposto che non tutti i fenomeni produttivi 49 Per tutti, CAMPOBASSO, I, 22 s. Non manca chi parla di sottofattispecie a rilevanza negativa sul piano normativo, per mettere l’accento sul fatto che si tratta di fenomeni imprenditoriali sottratte da un corpo organico di regole qualificabili in termini di statuto: tra gli altri, SPADA, voce Impresa, 63 ss.; ID., I, 71 ss.; ANGELICI, I, 25 ss.; ma, sostanzialmente, già, CIAN, Diritto civile e diritto commerciale oltre il sistema dei codici, in Riv. dir. civ., 1974, I, 534 ss. Altri invece hanno escluso che queste sottofattispecie fossero imprese in senso tecnico, proprio per rimarcare la parziarietà e frammentarietà di disciplina cui sono assoggettate: con specifico riferimento all’impresa agricola, FERRI, L’impresa agraria è impresa in senso tecnico?, in Atti del terzo 50 26 L’impresa rientranti nella nozione generale di impresa dovessero essere assoggettati alla stessa disciplina e, segnatamente, che ve ne fossero alcuni rispetto ai quali l’applicazione di tutto il corpo organico di norme che costituisce il diritto commerciale fosse eccessivo e, comunque, inutile rispetto alle finalità precipuamente perseguite51. In particolare, i fenomeni imprenditoriali cui si attribuisce questa più ristretta rilevanza normativa sono due e sono individuati: - il primo, guardando alla natura della produzione e, in quest’ottica, enucleando dalla nozione generale di impresa l’impresa agricola; - il secondo, guardando alla dimensione dell’organizzazione e, in quest’ottica, enucleando dalla nozione generale di impresa la piccola impresa. Pertanto, è agevole notare che queste due categorie di impresa corrispondono grosso modo con le due tipologie di fenomeni che erano estranei al fenomeno normativamente rilevante collocato al vertice del codice di commercio e che continuano ad essere estranee dall’ambito di applicazione di una disciplina che grosso modo ricalca quella contenuta nel codice di commercio52. Si tratta di una disciplina costituita da istituti precipuamente finalizzati alla tutela degli interessi di coloro che finanziano l’iniziativa imprenditoriale e, in particolare, ad assicurare un’adeguata composizione di tali finanziatori rispetto al rischio di impresa, nel senso che coloro che la finanziano a titolo di capitale proprio siano più esposti al rischio di impresa rispetto a coloro che la finanziano a titolo di capitale di credito. In altre parole, si tratta di istituti precipuamente finalizzati a tutelare il credito alla produzione, riservati ai fenomeni imprenditoriali in cui questa forma di finanziamento ricorre in maniera più intensa. Passiamo allora a individuare i tratti identificativi delle due categorie di impresa destinatarie solo in modo parziale e frammentario del diritto commerciale, per poi passare a individuare i tratti identificativi della categoria di impresa destinataria di tutto il diritto commerciale, quale complesso organico di norme costituenti lo statuto delle attività produttive organizzate in forma imprenditoriale (= diritto dell’impresa) . 2. L’impresa agricola. La nozione di impresa agricola si desume dall’art. 2135, il quale la descrive come attività di coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse: tradizionalmente, si suole qualificare le prime come attività agricole essenziali mentre le seconde come attività agricole per connessione. congresso nazionale di diritto agrario. Palermo 19-23 ottobre 1952, a cura di Orlando Cascio, Milano, 1954, 394 ss.; ID., ?; con riferimento anche alla piccola impresa, BRACCO, L’impresa, 138 ss. 51 Per tutti, GHIDINI, Lineamenti, 77 ss.; OPPO, Scritti, I, 63 ss. e 195 ss. 52 Infatti, non manca chi sottolinea che l’accennato cambiamento del presupposto di vertice, cui si è parlato all’inizio del paragrafo, risulta più pletorico che reale (così, DE MARTINI, Corso, 36 s.) o per molti versi artificiosa (così, FERRARA-CORSI, ?), essendo dettato da ragioni tramontate all’indomani dell’entrata in vigore del codice civile e non più ripristinate con l’avvento dell’ordinamento repubblicano. Antonio Cetra 27 Anzitutto, occorre soffermarsi sulla ragione della scelta di attribuire all’impresa agricola rilevanza normativa più ristretta, cioè escludere dal novero dei fenomeni imprenditoriali destinatari della disciplina dell’impresa nella sua interezza e, soprattutto, della parte posta a tutela del credito alla produzione. La ragione può cogliersi probabilmente considerando il fenomeno in questione nel momento in cui detta scelta è avvenuta. Tale fenomeno si caratterizzava per avere un processo produttivo incentrato essenzialmente sul fondo: un fenomeno in cui il fattore produttivo principale era rappresentato dal fondo, il cui esercizio compenetrava con l’esercizio del diritto di proprietà sul fondo, atteso che il titolare del fenomeno era normalmente il proprietario del fondo su cui lo stesso si svolgeva53. In particolare, l’impresa agricola si sostanziava nello sfruttamento del fondo attraverso la sua messa a coltura e/o la sua utilizzazione come luogo di allevamento del bestiame, attività alla quale poteva aggiungersi un’ulteriore attività di trasformazione e/o commercializzazione di prodotti provenienti dalla coltivazione o dall’allevamento del bestiame, sempre che quest’ultima attività rientrasse nel normale esercizio dell’agricoltura (cioè, un’attività che costituiva il tipico prolungamento dello sfruttamento del fondo in un determinato momento storico e in una determinata area geografica) e/o risultasse economicamente subordinata alla prima (cioè, un’attività secondaria rispetto allo sfruttamento del fondo)54. È allora ragionevole ritenere che il legislatore del 1942 (in perfetta continuità rispetto al legislatore precedente) si sia orientato nel senso di assoggettare l’impresa agricola ad una disciplina di portata più circoscritta, sul presupposto che l’impresa agricola non presentava particolari esigenze di investimento in fattori produttivi necessari per lo svolgimento del processo produttivo sottostante, poiché quei fattori produttivi coincidevano in larga parte con il fondo, ossia con un bene che già si possedeva, in quanto bene di proprietà. Né investimenti significati potevano essere richiesti dall’attività di trasformazione o di commercializzazione di prodotti, dato il suo carattere tipicamente accessorio e secondario rispetto all’attività principale di coltivazione e/o di allevamento55. 53 IRTI, Proprietà e impresa agricola, Napoli, 1965, 1 ss. e 89 ss.; G.B. FERRI, Proprietà produttiva e impresa agricola, Torino, 1992, ?. 54 Sul fenomeno produttivo sottostante alla versione originaria della nozione di impresa agricola, v., con riguardo alle attività essenziali, sottolineando, in particolare, la centralità del fondo nel relativo processo produttivo, FERRI, L’impresa agraria, cit., 397 s.; ID., ?; MINERVINI, L’imprenditore, 53 s.; FRANCESCHELLI, Imprese, 220 ss.; DE MARTINI, Corso, 158 ss.; GENOVESE, La nozione, 82 ss.; COTTINO, L’imprenditore, cit., 101 ss.; nello stesso senso, ma rimarcando l’autonomia dall’esercizio del diritto di proprietà sul fondo sul quale potrebbe anche non esserci tale diritto, CASANOVA, Impresa, 105 ss.; con riguardo alle attività per connessione, sottolineando, in particolare, la concorrenza del criterio di normalità e di subordinazione economica, RAVÀ, La nozione, 88 ss.; nel senso, invece, di ritenere i due criteri alternativi e, segnatamente, il primo (la normalità) riservato alle attività connesse «tipiche» (cioè, quelle menzionate nell’art. 2135, comma 2, c.c., testo originario) mentre il secondo (la subordinazione economica) alle attività connesse «atipiche» (cioè, diverse da quelle menzionate nell’art. 2135, comma 2, c.c., testo originario), MASI, in Manuale di diritto agrario italiano, a cura di Irti, Torino, 1978, 97 ss. e 104 ss.; NIGRO, Imprese, 619 s.; o nel senso di far entrare in gioco la normalità laddove non può essere rispettata la subordinazione economica, BIONE, L’impresa, 114 ss. e 125 ss.; ID., L’imprenditore, 502 ss. 55 Sulle ragioni alla base del trattamento normativo dell’impresa agricola, ampiamente, JANNARELLI(VECCHIONE), L’impresa, 92 ss. spec. 114 ss.; e v., anche, GERMANÒ, Sul perché dello speciale «statuto» dell’impresa agricola: una ricerca sulla dottrina italiana, in Impresa agricola e impresa commerciale: le 28 L’impresa Pertanto, le esigenze finanziarie sollecitate dal processo produttivo sottostante l’impresa agricola apparivano tendenzialmente minime e, quindi, minimo poteva immaginarsi il ricorso al credito alla produzione, tanto da non giustificare l’assoggettamento dell’iniziativa ad una disciplina che impone regole comportamentali finalizzate a comporre adeguatamente i diversi interessi in gioco rispetto al rischio di impresa. D’altra parte, non può essere trascurato che l’eventuale credito alla produzione veniva acquisito attraverso operazioni che consentivano al creditore di attivare forme di autotutela, cioè forme di tutela contemplate dal diritto privato classico per la salvaguardia del credito, rappresentate perlopiù dall’ottenimento di garanzie (reali): da ipoteche sul fondo (tipicamente, nel credito fondiario) o da privilegio su bestiame, merci, scorte, materie prime, macchine, attrezzi e altri beni, comunque acquistati con il finanziamento concesso (tipicamente, nel credito agrario)56. Sta di fatto che, nell’ambito di una più ampia riforma di modernizzazione del settore agricolo (d. lgs. 18 maggio 2001, n. 228), la versione originaria dell’art. 2135 è stata integrata di due commi (il 2° e il 3°), che descrivono, rispettivamente, che cosa siano le attività agricole essenziali (2° comma) e le attività agricole per connessione (3° comma). Ai sensi dell’art. 2135, comma 2 per attività essenziali si intendono le attività dirette alla cura dello e allo sviluppo di un ciclo biologico (o di una sua fase necessaria) di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque (dolci salmastre o marine). Ai sensi dell’art. 2135, comma 3 per attività connesse si intendono comunque le attività di conservazione, manipolazione, trasformazione e commercializzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalle attività agricole essenziali, nonché le attività dirette alla produzione e alla fornitura di beni o servizi ottenuti mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda agricola57. È allora di tutta evidenza che ne è fuoriuscita una nozione di impresa agricola decisamente più ampia di quella immaginata dal legislatore storico del ’42 e considerata tale dalla dottrina commercialistica e dalla giurisprudenza prevalente58. Giova precisare che la nozione codicistica di impresa agricola è da considerarsi del tutto autonoma e, quindi, non integrata dalla nozione di imprenditore agricolo professionale (= iap) stabilita dall’art. 1 d. lgs. 29 marzo 2004, n. 99, la quale mira ad individuare tra i titolari ragioni di una distinzione, a cura di Mazzamuto, Napoli, 1992, 205 ss. E v., anche, la rassegna di MASI, L’impresa agricola: tra diritto agrario e impresa commerciale, in Riv. dir. civ., 1983, II, 479 ss. e 485 ss. 56 Al riguardo, le chiare considerazioni di OPPO, Credito agrario ad imprese commerciali?, in Scritti giuridici, V, Banca e titoli di credito, Padova, 1992, 72 ss. E v., anche, GHIDINI, Lineamenti, 77 ss. 57 In termini generali, sulle attività essenziali ed attività connesse, (JANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, 233 ss. e 306 ss.; (ALESSI-)PISCIOTTA, L’impresa, 113 ss. e 147 ss. 58 Infatti, la riforma del 2001 ricordata nel testo accoglie la nozione di impresa agricola dominante tra gli studiosi di diritto agrario (tra i quali, LAZZARA, Impresa agricolaa Art. 2134-2140, in Comm. ScialojaBranca, 1981, 42 ss. e 55 ss.; CARROZZA, Lezioni di diritto agrario, Milano, 1998, 10 ss.; ROMAGNOLI, L’impresa agricola, in Tr. Rescigno2, XV, 2, 2001, 454 ss.) e capace di ricomprendere tutta una serie di ipotesi di coltivazioni fuori fondo contemplate dalla legislazione speciale (sulle quali, prospettando l’attitudine ad incidere, ampliandola, sulla nozione originaria di impresa agricola, RIVOLTA, Sull’impresa agricola: vitalità ed espansione di una fattispecie codicistica, in Riv. dir. civ., 1989, I, 559 ss.): sul punto, GALLONE, Impresa agricola. Art. 2135-2140, in Comm. Scialoja-Branca, 2003, 25 ss. Antonio Cetra 29 di imprese agricole quelli che si occupano dell’iniziativa come professione principale, dedicando all’impresa almeno il 50% del loro tempo lavorativo e riuscendo a trarre dall’impresa almeno il 50% del proprio reddito globale di lavoro (ai fini della qualificazione iap gli stessi requisiti sono richiesti anche ai soci di una società di persone o cooperativa o agli amministratori di una società di capitali, requisiti che peraltro consentono alla stessa società di assumere la qualifica di iap, nel caso in cui il proprio atto costitutivo prevede quale oggetto sociale esclusivo una o più attività rientranti nella nozione di impresa agricola descritta dall’art. 2135). Infatti, dovrebbe essere chiaro come le due nozioni siano strumentali rispetto a finalità profondamente diverse: la prima per selezionare i fenomeni produttivi da sottrarre all’applicazione del diritto dell’impresa; la seconda per selezionare i titolari di un’impresa agricola che possono beneficiare delle misure agevolative previdenziali e finanziarie di incentivazione all’agricoltura, previste dalla legislazione nazionale e, prima ancora, dalla legislazione comunitaria. Ed invero, se nella costanza della versione originaria della norma in esame poteva ritenersi che rientrassero nell’impresa agricola soltanto le attività di coltivazione e di allevamento di bestiame che avevano luogo sul fondo (non invece tutte quelle colture o allevamenti fuori fondo, come le coltivazioni artificiali o in laboratorio – ad es., l’ortoflorivivaismo; la funghicoltura – gli allevamenti in batteria o di animali da cortile – ad es., il pollame –)59, oggi questa conclusione non è più sostenibile, perché il dato normativo stabilisce espressamente che un’attività di coltivazione o di allevamento utilizza o può utilizzare il fondo. Con la conseguenza che il fondo è passato dall’essere fattore produttivo essenziale a fattore produttivo eventuale e, quindi, non più elemento costitutivo o caratterizzante della fattispecie60. Nella nuova nozione di impresa agricola l’elemento costitutivo o caratterizzante è rappresentato dalla cura e dallo sviluppo di un ciclo (o di una parte di un ciclo) biologico (animale o vegetale), sicché può essere qualificata come impresa agricola qualunque attività che si sostanzia in tale cura o tale sviluppo61. Ne consegue che iniziative, che in passato non potevano qualificarsi come impresa agricola (in quanto, appunto, avvenivano fuori fondo), oggi devono qualificarsi senz’altro come imprese agricole (anche se avvengono fuori dal fondo). Gli esempi possono essere più vari. Basti ricordare che sono ormai senz’altro imprese agricole le attività ortoflorivivaiste che si realizzano in strutture specializzate (le serre) o le attività di funghicoltura che pure si realizzano in strutture specializzate (le serre, i laboratori) Per un quadro di sintesi, BIONE, L’imprenditore, 473 ss. Infatti, proprio alla luce della centralità del fondo nel processo produttivo veniva interpretato il lemma «bestiame», ricomprendendovi soltanto le specie bovine, suine, equine e caprine (ossia, animali da macello, da lavoro, da latte e da lana) ed escludendovi invece le altre specie e, in particolare, gli animali da cortile (ossia, gallinacei e conigli) (sul punto, CASANOVA, Impresa, 106; DE MARTINI, Corso, I, 159 s.). Peraltro, era controverso se potessero ricomprendersi allevamenti diversi come quello dei cavalli da corsa e dei cani da razza (per un quadro di sintesi, ALESSI-PISCIOTTA, L’impresa, 136 ss.). 60 In questo senso, tra gli altri, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 468 ss.; CAMPOBASSO, I, 50 s.; GAMBINO, I, 100; BUONOCORE/BUONOCORE, ?; GALGANO, I, 48; PRESTI-RESCIGNO, I, 31. 61 Ex multis, anche per altri riferimenti, BUONOCORE, Il «nuovo» imprenditore agricolo, l’imprenditore ittico e l’eterogenesi dei fini, in Giur. comm., 2002, I, 5 ss.; NLCC??; GALLONE, op. cit., 52 ss.; (IANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, 246 ss.; ALESSI(-PISCIOTTA), L’impresa, 26 ss. 59 30 L’impresa o gli allevamenti di pollame in batteria62. Così come lo sono le attività di acquicoltura, cioè l’attività che si prefigge di curare o sviluppare un ciclo biologico di animali che vivono nell’acqua (pesci, crostacei, molluschi, ecc.)63. Invece, di per sé non è un’impresa agricola la c.d. impresa ittica, come definita dall’art. 2, comma 1, d. lgs. 18 maggio 2001, n. 226, cioè l’attività di pesca professionale, diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri o dolci: quindi, all’evidenza, non alla cura o allo sviluppo di un ciclo biologico. Nondimeno, è dubbio se un’equiparazione tra le due fattispecie non sia disposta dal dato normativo, laddove all’art. 2, comma 5, d. lgs. 226/2001 stabilisce che «fatte salve le più favorevoli disposizioni di legge, l’imprenditore ittico è equiparato all’imprenditore agricolo». In particolare, è dubbio se una siffatta equiparazione sia disposta anche ai fini di individuare un fenomeno produttivo da sottrarre al diritto dell’impresa (della quale, francamente, non se ne capirebbe la ragione) oppure soltanto ai fini dell’applicazione della normativa speciale di agevolazione (come, peraltro, sembrerebbe preferibile)64. L’ampliamento della nozione si coglie soprattutto sul versante delle attività connesse. Ed invero, le attività connesse non si identificano soltanto con le attività tipicamente poste in essere da un agricoltore o da un allevatore in un determinato momento storico o in una certa area geografica e/o subordinate sul piano economico alle attività essenziali. Il dato normativo stabilisce che sono comunque connesse anche le attività che utilizzano come materia prima prevalente (e non esclusiva, una parte della quale potendo essere allora acquisita sul mercato) i prodotti derivanti dalla coltivazione e dall’allevamento di animali, pertanto a prescindere dal fatto che tali attività restino subordinate rispetto all’attività essenziale o costituiscono qualcosa di normale nell’agricoltura (latamente intesa)65. Pertanto, oggi sono attività agricole per connessione tutte le attività di manipolazione, trasformazione e commercializzazione di prodotti che provengono prevalentemente dall’attività agricola essenziale, anche nel caso in cui per il tramite di queste attività si realizzi la parte principale se non proprio l’intero risultato economico dell’iniziativa. Ad esempio, esercita senz’altro attività agricola per connessione il produttore di uva che anziché vendere (tutta) la stessa sul mercato ortofrutticolo la utilizza (in parte o in tutto, eventualmente aggiungendovene un’altra minor parte acquistata sul mercato) per trasformarla in vino e vendere il vino così ottenuto. Parimenti, il produttore di olive che anziché vendere (tutte) le stesse nel mercato ortofrutticolo le utilizza (in parte o in tutto, In questo senso, rimarcando che l’art. 2135, comma 2, c.c. non si limita ad esplicitare bensì ad innovare la nozione originaria di impresa agricola, Cass., 5 dicembre 2002, n. 17251, in Foro it., 2003, I, 452 (con riferimento ad un’attività ortoflorivivaista); Trib. Santa Maria Capua Vetere, 9 aprile 2002, in Giur. merito, 2002, ? (con riferimento ad un’attività di funghicoltura e floricolutura al chiuso effettuata mediate serre coperte e riscaldate); Cass., 2 dicembre 2002, n. 17042, in Foro it., 2002, I, 3530 (con riferimento ad un’attività di allevamento di polli in batteria). 63 PRESTI-RESCIGNO, I, 31. 64 Un’analoga equiparazione è prevista dall’art. 8 d. lgs. 18 maggio 2001, n. 227 con riguardo alle cooperative ed i loro consorzi che forniscono in via principale, anche nell’interesse dei terzi, servizi nel settore selviculturale, ivi comprese le sistemazioni idraulico-forestali: su tali equiparazioni, tra gli altri, BUONOCORE, Il «nuovo», cit., 20 ss.; ID., L’impresa, 564 s.; ALESSI-PISCIOTTA, L’impresa, 89 s. e 225 ss. 65 Sulle attività connesse aventi ad oggetto i prodotti agricoli e sul criterio di prevalenza ai fini della loro identificazione, per tutti (IANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, 306 ss. 62 Antonio Cetra 31 eventualmente aggiungendovene un’altra minor parte acquistata sul mercato) per trasformarla in olio e vendere l’olio così ottenuto. Ma è considerata attività agricola anche quell’attività in cui manchi la connessione soggettiva, cioè in cui non sia lo stesso titolare di un’attività agricola essenziale a svolgere un’attività di manipolazione, trasformazione e commercializzazione di prodotti che provengono prevalentemente dall’attività agricola essenziale. Il che accade nelle cooperative tra imprenditori agricoli e nei loro consorzi, se svolgono un’attività di cui all’art. 2135 utilizzando prevalentemente prodotti dei soci o se forniscono beni e servizi diretti alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico prevalentemente ai soci. Basti pensare ad una cooperativa che produce e commercializza olio utilizzando prevalentemente le olive prodotte dai soci nonché servizi di disinfestazione periodica antiparassitaria specifici per gli alberi di ulivo che rivolge prevalentemente ai soci. Inoltre, sono comunque connesse le attività di produzione e di fornitura di beni e servizi ottenuti impiegando principalmente le attrezzature o le risorse che costituiscono l’azienda agricola, a prescindere, ancora una volta, dalla circostanza che tale attività resti subordinata all’attività essenziale o costituisca qualcosa di normale nell’agricoltura (latamente intesa)66. Il riferimento è principalmente alle attività di agriturismo, le quali sono qualificate come imprese agricole se le strutture di recezione degli ospiti per offrire loro servizi di ristorazione o finanche alberghieri sono le strutture che compongono l’azienda agricola. Occorre tuttavia segnalare che la legge recante la disciplina dell’agriturismo (l. 20 febbraio 2006, n. 96) demanda alla legislazione regionale la fissazione dei limiti entro i quali deve mantenersi l’attività agrituristica al fine di conservarsi come attività connessa, in particolare assicurando che la somministrazione di alimenti e bevande debba realizzarsi con una quota significativa di prodotto della propria azienda o delle aziende della zona (art. 4). La stessa legge individua le tipologie di iniziative attraverso le quali l’attività agrituristica può manifestarsi in concreto (art. 2, comma 3). Peraltro, ove si ritenga che l’impresa ittica sia equiparata all’impresa agricola, anche ai fini che qui interessano (v., supra, in questo par.), rientrano nelle attività agricole per connessione tutte le attività alla prima connesse alla prima, come elencate dall’art. 3, comma 1, lett. a-c, d. lgs. 226/2001, il quale tuttavia precisa che queste ultime attività devono restare secondarie rispetto all’attività di pesca e che devono realizzarsi mediante l’utilizzazione prevalente di prodotti derivanti dall’attività di pesca ovvero di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegata nell’attività ittica. Ora, dovrebbe essere evidente che in seguito ad un siffatto ampliamento della nozione di impresa agricola, si apre la fattispecie ad una serie di fenomeni, in relazione ai quali non può riscontrarsi l’accennato presupposto che ne giustifica la rilevanza negativa sul piano normativo, ossia la sottrazione dall’ambito di applicazione del diritto dell’impresa. Infatti, giova considerare che, se l’impresa agricola non è più connotata sul piano della fattispecie da un processo produttivo che si incentra sul fondo e dall’eventuale presenza di attività ontologicamente diverse da un’attività agricola solo se economicamente subordinate (quanto meno tipicamente), non è raro che le iniziative 66 Sulle attività connesse aventi ad oggetto la fornitura di servizi, ancora (IANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, 318 ss. 32 L’impresa corrispondenti, potendo realizzarsi in strutture molto sofisticate e costose nonché sostanziarsi in attività produttive e commerciali che richiedono non trascurabili investimenti, presentino significative esigenze finanziarie, le quali vengono coperte attraverso un sempre più consistente ricorso al capitale di credito. Sicché, desta non poche perplessità il risultato che ne deriva: consentire a qualche iniziativa imprenditoriale, che soddisfa le proprie esigenze finanziarie ricorrendo al credito alla produzione in maniera non marginale ma nella stessa misura di altre, di beneficiare di un trattamento normativo differente e deteriore: con buona pace del contemperamento degli interessi in gioco! Né si può provare a giustificare questo risultato adducendo che esso costituisca un favor necessario verso il titolare delle iniziative imprenditoriali agricole, le quali, impuntandosi sulla cura e sullo sviluppo di un ciclo biologico, sono esposte ad un rischio ulteriore rispetto ad un’iniziativa imprenditoriale di diversa natura: non solo al rischio di impresa ma anche al rischio naturale insito al ciclo biologico67. Al riguardo, è ragionevole ritenere che se il risultato produttivo e, di conseguenza, economico di un’iniziativa appare molto più incerto rispetto ai corrispondenti risultati di iniziative di diversa natura, occorrerebbe approntare meccanismi di tutela più efficaci e penetranti, non invece eliminarne addirittura la presenza68. Ed invero, occorre ricordare che all’ampliamento dell’impresa agricola sul piano della fattispecie non si è accompagnato con un contestuale adeguato ampliamento della disciplina. Il fatto che nell’impresa agricola siano stati ricompresi fenomeni produttivi cc.dd. «industrializzati» avrebbe dovuto indurre a considerare ormai superata la sua originaria rilevanza normativa e applicando a quest’ultima il diritto dell’impresa nella sua interezza. Invece, gli interventi sul piano della disciplina sono stati parziali e senz’altro insufficienti, attenendo soltanto a profili di pubblicità di impresa e, in particolare, assoggettando le informazioni relative all’organizzazione dell’impresa per le quali è prescritto l’obbligo di pubblicità ad efficacia dichiarativa (v., infra, ). 3. La piccola impresa. La nozione di piccola impresa si desume dall’art. 2083, il quale la descrive come un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro del titolare e dei Infatti, la rilevanza normativa riservata all’impresa agricola è stata considerata come una forma di privilegio accordato al titolare in ragione della contestuale esposizione ad un doppio rischio (c.d. teoria del doppio rischio): al rischio d’impresa, come qualsiasi iniziativa economica e al rischio ambientale, in ragione del fatto che l’iniziativa doveva svolgersi sul fondo (così, GALGANO, voce Imprenditore commerciale, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4, VII, 27; NIGRO, Imprese, 622 s. e 767 s.); rischio quest’ultimo poi tramutato in rischio insito al ciclo biologico con la nuova nozione di impresa agricola: tra gli altri, GAMBINO, I, 101 s.; ma già GENOVESE, La nozione, 80 s.; CARROZZA, Lezioni, 19 ss. 68 E v., infatti, le chiare considerazioni di IANNARELLI(-VECCHIONE), L’impresa, 120 ss. e di GLIOZZI, L’imprenditore, 178 ss. Nel senso del testo, anche, NIGRO(-VATTERMOLI), 58. Non a caso, sottolineano l’inutilità di manterere un’autonoma nozione di impresa agricola ai fini normativi di cui si è detto nel testo, ALESSI(-PISCIOTTA), L’impresa, 80 ss. 67 Antonio Cetra 33 componenti della famiglia di quest’ultimo e la specifica poi nelle figure soggettive del coltivatore diretto del fondo, dell’artigiano e del piccolo commerciante. La scelta di attribuire alla piccola impresa rilevanza normativa più ristretta può cogliersi agevolmente nelle caratteristiche che connotano il relativo processo produttivo e, in particolare, nella circostanza che tale processo debba essere organizzato prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia, ossia debba incentrarsi essenzialmente sul fattore produttivo rappresentato dal proprio lavoro e dal lavoro dei propri familiari: quindi, su un fattore produttivo che – non diversamente da quel che si verificava nell’impresa agricola con il fondo di proprietà – già si dispone, senza bisogno di dover acquisire lo stesso. In quest’ottica, appare evidente che la piccola impresa – esattamente come l’impresa agricola prefigurata dal legislatore storico del ’42 – risulta come un fenomeno produttivo nel quale le esigenze di investimento attengono essenzialmente a fattori produttivi secondari, cioè ai fattori produttivi diversi dal lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia: perciò si dovrebbero manifestare esigenze finanziarie non significative e, quindi, non significativo dovrebbe essere l’eventuale ricorso al credito alla produzione. Di conseguenza, nella piccola impresa – esattamente come nell’impresa agricola prefigurata dal legislatore storico del ’42 – non è sembrato necessario l’assoggettamento delle corrispondenti iniziative al diritto dell’impresa nella sua interezza e, in particolare, alla parte corrispondente alle regole finalizzate a comporre adeguatamente i diversi interessi in gioco rispetto al rischio di impresa69. Ed invero, il fatto che la piccola impresa debba essere organizzata prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia mette in posizione di preminenza siffatto lavoro rispetto agli altri fattori produttivi. Giova subito precisare che la piccola impresa è pur sempre un’impresa e, come qualunque impresa, deve risultare un’attività organizzata, ossia deve avere un minimo di eterorganizzazione, sebbene rispetto all’organizzazione debba prevalere il lavoro del titolare e dei componenti della famiglia. Il che significa che nel sottostante processo produttivo devono essere comunque impiegati anche altri fattori produttivi, rappresentati dal capitale o dal lavoro altrui, e non soltanto dal lavoro del titolare70. In quest’ottica, è perciò evidente la differenza tra piccola impresa e lavoro autonomo e, in particolare, tra i due concetti di prevalenza richiamati in termini pressoché identici dalle due norme definitorie (artt. 2083 e 2222). La piccola impresa è un fenomeno produttivo nel quale il lavoro del titolare e dei componenti della famiglia figura come fattore produttivo necessario ma non sufficiente, nel senso che non è l’unico fattore produttivo impiegato nel relativo processo, ma deve essere affiancato da altri fattori produttivi (lavoro altrui o capitale). Invece, il lavoro autonomo è un fenomeno produttivo nel quale il lavoro del titolare (e solo del titolare) figura come fattore produttivo necessario e sufficiente, nel senso che è l’unico fattore produttivo impiegato nel Al riguardo, le chiare considerazioni di AULETTA, L’impresa dal codice di commercio del 1882 al codice civile del 1942, in 1882-1982. Cento anni dal codice di commercio, Milano, 1984, 75 ss. 70 Il punto può considerarsi pressoché pacifico (in luogo di molti, BIGIAVI, La «piccola impresa», 1 ss.; CASANOVA, Impresa, 142 ss.; DE MARTINI, Corso, I, 120 s.; GENOVESE, La nozione, 172 s.; CAPO, La piccola impresa, 9), sebbene non manchi chi si dimostri di avviso contrario, ritenendo superfluo il requisito dell’organizzazione nell’impresa (GALGANO, I, 31; GLIOZZI, L’imprenditore, 162). 69 34 L’impresa relativo processo, pur con l’ausilio di altri elementi (pennello, pinza, tenaglia, cacciavite, telefono, ecc.) che però non sono dei veri e propri fattori produttivi (v., supra ). Si ritiene che la prevalenza vada accertata non tanto in senso quantitativo, cioè verificando che il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia valga di più in termini economici rispetto agli altri fattori (lavoro altrui e/o capitale) impiegati nel processo produttivo71; quanto piuttosto in senso qualitativo, cioè verificando che il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia costituisca un fattore essenziale e imprescindibile nel processo produttivo sottostante72. Ciò vuol dire che tale lavoro non può essere sostituito in tutto e per tutto dall’organizzazione e, quindi, rappresenta un fattore infungibile rispetto all’organizzazione e agli altri fattori produttivi impiegati. In altri termini, vuol dire che senza l’intervento di siffatto lavoro il processo produttivo o non potrebbe completarsi (se non proprio iniziare) o pervenire ad un certo specifico risultato produttivo (un certo bene o servizio)73. Dovrebbe essere allora evidente la distinzione tra piccola impresa e impresa (non piccola o medio-grande). Si ha la prima tutte le volte che il titolare (e gli eventuali componenti della famiglia) è (sono) chiamato (i) a svolgere un ruolo esecutivo che caratterizza e connota il sottostante processo produttivo. Si ha la seconda tutte le volte che il titolare può non avere alcun ruolo esecutivo nell’iniziativa, in quanto pienamente surrogabile dall’organizzazione, e limitarsi a svolgere un ruolo, questo sì imprescindibile e indefettibile, di carattere organizzativo, approntando i diversi fattori produttivi secondo l’ordine funzionale e strutturale richiesto da un efficiente impiego nel processo produttivo. Alcuni esempi possono chiarire tale distinzione. Si prenda il caso del trasportatore. Il trasportatore è titolare di una piccola impresa se cura personalmente la produzione del servizio di trasporto. Il suo lavoro non è l’unico fattore produttivo, dovendosi affiancare quanto meno all’automezzo strumentale alla realizzazione del servizio. È però il fattore produttivo prevalente, nel senso che senza il suo intervento il servizio non si produce. Invece, il trasportatore non è più titolare di una piccola impresa nel momento in cui decida di assumere stabilmente un’altra persona con mansioni di autista. In questo caso, il suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso che può essere senz’altro sostituito dal lavoro del dipendente. Si prenda ancora il caso del sarto. Il sarto è titolare di una piccola impresa se cura personalmente la confezione di tutti gli abiti dei clienti. Il suo lavoro non è l’unico fattore produttivo, dovendosi affiancare quanto meno ai macchinari minimi necessari nelle diverse fasi della lavorazione. È però il fattore produttivo prevalente, nel senso che senza il suo intervento la confezione non si produce. Invece, il sarto non è più titolare di una piccola impresa nel momento in cui decida di assumere stabilmente uno o più dipendenti che siano in grado di svolgere l’intero processo produttivo di confezione dei vestiti. In questo caso, il suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso che può essere surrogato dall’organizzazione (lavoro altrui), ormai capace di sviluppare dall’inizio alla fine il processo produttivo. 71 In questo senso, invece, la dottrina più risalente: BIGIAVI, La «piccola impresa», 41 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 66 s.; ma ancora, GLIOZZI, L’imprenditore, 163 ss.; Trib. Torino, 15 giugno 1991, in Fallimento, 1991, 203; Trib. Milano, 7 novembre 1996, in Fallimento, 1997, 431. 72 In questo senso, tra gli altri, GATTI, voce Piccola impresa, 762; GENOVESE, La nozione, 182 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 490; CAPO, La piccola impresa, 63 ss. e 72 ss.; CAMPOBASSO, I, 61; PRESTI-RESCIGNO, I, 34.; Cass., 28 marzo 2000, n. 3690, in Fallimento, 2001, 622. 73 In questi termini, FERRO-LUZZI, Alla ricerca, 43 ss. Antonio Cetra 35 Si prenda infine il caso del pasticciere. Il pasticciere è titolare di una piccola impresa se cura personalmente la preparazione di tutti i prodotti della pasticceria. Il suo lavoro non è l’unico fattore produttivo, dovendosi affiancare quanto meno alle materie prime che costituiscono gli ingredienti dei singoli prodotti. È però fattore produttivo prevalente, nel senso che senza il suo intervento i dolci non si ottengono. Invece, il pasticciere non è più titolare di una piccola impresa nel momento in cui decide di acquistare macchinari che siano in grado di svolgere l’intero processo produttivo e di assumere un dipendente che si occupi della relativa manutenzione. In questo caso, il suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso che può essere surrogato dall’organizzazione (capitale e lavoro altrui). Accedendo a quest’ultima accezione del concetto di prevalenza, resta dubbio se si tratti di un criterio impiegabile soltanto quando l’impresa fa capo ad una persona fisica o anche quando fa capo ad un soggetto di diversa natura, cioè un ente collettivo e, in particolare, una società74. Giova osservare che, sebbene il criterio appaia attagliato senz’altro alla persona fisica, non sembra potersi escludere per ciò stesso che tale criterio non possa trovare applicazione nelle imprese di altri soggetti e, in particolare, delle società. In questi ultimi contesti, il problema sarà semmai quello di applicare concretamente detto criterio e, anzitutto, di individuare qual è il lavoro che deve prevalere sugli altri fattori produttivi (lavoro altrui e capitale). Quanto meno nelle società a ristretta compagine sociale si potrebbe ritenere che il lavoro che debba prevalere è il lavoro dei soci, con la conseguenza che si potrà parlare di piccola impresa (societaria) se il lavoro dei soci prevale sul lavoro altrui e sul capitale75. Più incerto è invece se nelle società ad ampia base sociale possa ancora farsi riferimento al lavoro dei soci, atteso che alla qualifica formale di piccola impresa che ne potrebbe derivare potrebbe non corrispondere una piccolezza oggettiva dell’attività esercitata, tale da giustificare la non applicazione del diritto dell’impresa per mancanza di significative esigenze di tutela degli interessi coinvolti76. 74 Nel primo senso, GENOVESE, La nozione, 185 ss. Nel secondo, invece, pur nella difformità delle conclusioni in ordine alla concreta configurabilità della piccola impresa societaria, BIGIAVI, La «piccola impresa», 152 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 74 s.; FERRO-LUZZI, Alla ricerca, 48 ss.; GATTI, voce Piccola impresa, 763.; MASI, «Piccole società» e statuto dell’imprenditore, in Studi in onore di Cottino, I, Padova, 1997, 303 ss. e 310 ss.; COTTINO-BONFANTE, L’imprenditore, 504 s.; CAPO, La piccola impresa, 138 s. 75 In questo senso, sul presupposto di poter misurare la prevalenza in base al criterio stabilito dal combinato disposto artt. 2, comma 1 e 3, comma 2, l. 8 agosto 1995, n. 443 (legge-quadro sull’artigianato) ai fini della qualificazione come artigiana di una società, GATTI, voce Piccola impresa, 763. E ciò probabilmente nel tentativo di generalizzare una risalente (e per molti versi non più attuale) posizione della Corte Costituzionale secondo cui una società artigiana può essere piccola impresa (cfr., con riferimento ad un contesto normativo non più attuale, Corte Cost., 23 luglio 1991, n. 368 e già in obiter dictum Corte Cost., 6 febbraio 1991, n. 54, entrambe in Giur. comm., 1993, II, 5). D’altra parte, nel senso che se si ritiene che una società sia una piccola impresa non può ulteriormente indugiarsi a generalizzarsi questa conclusione a qualunque società, quale che sia, cioè, l’oggetto sociale (purché non agricolo), BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 505 s. Nello stesso senso, Cass., 28 settembre-2 ottobre 2004, n. 20640, in Giur. comm., 2005, II, 237. 76 In questo senso, seppur con considerazioni riferite ad un contesto non societario, CETRA, L’impresa, 67 s., nt. 65. 36 L’impresa 4. Segue: la piccola impresa nella legge fallimentare Se il concetto di prevalenza deve intendersi nell’accezione che si è illustrata nel paragrafo precedente, è evidente che la valutazione del se la prevalenza ricorra in concreto, cioè se il lavoro del titolare sia preminente rispetto agli altri fattori produttivi, non è sempre agevole e, quindi, non è sempre agevole tracciare una linea di confine tra le piccole imprese e le imprese (non piccole o medio-grandi). Per questa ragione, al criterio di prevalenza ora esaminato si affianca un criterio quantitativo, quindi di più immediata e oggettiva applicazione, ove occorra individuare i fenomeni produttivi passibili di applicazione di un istituto affatto particolare che compone lo statuto predisposto all’indirizzo dell’impresa, vale a dire le procedure concorsuali. Ciò in quanto allorché si tratti di decidere sull’apertura di una procedura concorsuale, non solo occorre ridurre il più possibile le incertezze in merito alla sussistenza del presupposto, anche in conseguenza degli effetti che dall’apertura della procedura possono derivare, ma occorre essere pure abbastanza tempestivi, per evitare che la gestione concorsuale cominci troppo tardi e non sia in grado di perseguire efficacemente l’intento compositorio degli interessi in gioco77. In particolare, l’art. 1, comma 2, l. fall. esclude l’apertura delle procedure concorsuali di fallimento e di concordato preventivo nei confronti (dei titolari) delle imprese78 che si attestino al di sotto di tre parametri: due di carattere patrimoniale (l’esposizione debitoria e l’attivo patrimoniale) e uno di carattere reddituale (i ricavi lordi). Più in dettaglio i tre parametri sono i seguenti: 1. l’esposizione debitoria complessiva sussistente al momento di apertura della procedura concorsuale non superiore a 500 mila euro; 2. l’attivo patrimoniale nei tre esercizi precedenti non superiore per ogni esercizio a 300 mila euro; 3. i ricavi lordi nei tre esercizi precedenti non superiore per ogni esercizio a 200 mila euro. Soprattutto la seconda e la terza soglia dimensionale sollevano non pochi problemi con riguardo alla loro esatta identificazione. Ad esempio, con riferimento all’attivo patrimoniale è dubbio se tale grandezza debba essere calcolata a valori contabili (che talvolta non rispecchiano più il valore delle entità valutate) o a valori effettivi (che peraltro coincidono con i valori contabili se l’impresa redige il bilancio d’esercizio secondo i principi contabili internazionali); oppure se debba ricomprendere anche beni attualmente di terzi ma nella piena disponibilità dell’impresa e che verosimilmente nel prossimo futuro diventeranno beni dell’impresa (i beni condotti in Sull’efficacia del criterio quantitativo, v., però, i rilievi di TERRANOVA, Che cosa resta del piccolo imprenditore?, in Riv. dir. comm., 2010, I, 733 s. e 758 ss. 78 La norma si riferisce senz’altro alle imprese a prescindere se individuali o collettive, con il che facendo perdere gran parte dell’importanza agli interrogativi che ruotano attorno al se una società possa essere qualificata come piccola impresa: per tutti, ALLECA, La piccola impresa societaria e la riforma del fallimento, in Riv. dir. comm., 2006, I, 461 ss.; (AMBROSINI-)CAVALLI(-JORIO), Il fallimento, in Tr. Cottino, XI, 2, 2010, 49. 77 Antonio Cetra 37 leasing)79. Con riferimento ai ricavi lordi è dubbio se tale grandezza debba computare soltanto i ricavi della gestione caratteristica (o al più della gestione finanziaria) o qualunque componente positivo di reddito (quindi anche straordinario)80. Ebbene, la norma fallimentare sembra stabilire una presunzione di piccolezza, nel senso che presume sia piccola impresa quell’impresa che si attesta al di sotto di tutti e tre i parametri ricordati. E se così è, ne consegue che la norma stabilisce implicitamente pure una presunzione di grandezza, nel senso che presume non sia piccola impresa quell’impresa che supera anche uno solo dei tre parametri ricordati. Resta invece da chiarire se le due presunzioni testé menzionate siano assolute o relative: incertezza, quest’ultima, riconducibile alla più generale incertezza che ruota attorno al rapporto che deve intercorrere tra i criteri di determinazione della dimensione dell’impresa contenuti nell’art. 1, comma 2, l. fall. e nell’art. 2083: si tratta di verificare se il rapporto si configura come alternativo oppure complementare. Al riguardo, l’opinione pressoché unanime riconosce alla presunzione di piccolezza il carattere di presunzione assoluta, ritenendo che se l’impresa si attesta al di sotto dei tre parametri dimensionali ricordati essa è senz’altro un’impresa non fallibile (quindi, senz’altro piccola)81. Invece, non altrettanto pacifica è la conclusione che attiene alla presunzione di grandezza. L’opinione senz’altro prevalente è orientata a riconoscere anche alla presunzione di grandezza il carattere di presunzione assoluta, muovendo dal presupposto che la norma fallimentare abbia approntato dei criteri di determinazione della dimensione dell’impresa del tutto autonomi e autosufficienti e, quindi, alternativi rispetto al criterio di prevalenza di cui all’art. 208382. Tuttavia, non mancano opinioni contrarie: vi è chi ritiene che la norma fallimentare stabilisca un criterio di determinazione della dimensione dell’impresa complementare al criterio individuato dall’art. 2083 e che il trait d’union tra le due norme (e i relativi criteri) sia rappresentato dall’art. 2221: il quale esclude espressamente i piccoli imprenditori (da individuarsi ai sensi dell’art. 2083) dalle procedure concorsuali di fallimento e di Per l’affermativa, TEDESCHI, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 15; POTITO(SANDULLI)/Nigro-Sandulli-Santoro, sub Art. 1, 27; Trib. Milano, 30 luglio 2007, ?. Per la negativa, quanto meno per le imprese che adottano i principi contabili nazionali, M. CAMPOBASSO, Il piccolo imprenditore…da una riforma all’altra, in Temi del nuovo diritto fallimentare, a cura di Palmieri, Torino, 2009, 11. 80 Nel primo senso, M. CAMPOBASSO, op. cit., 13 s. Nel secondo senso, FORTUNATO/Iorio, sub Art. 1, 67; COLOMBO, L’esenzione dalle procedure concorsuali per ragioni dimensionali, in Fallimento, 2008, 630.; e, sostanzialmente, ritenendo che sia possibile escludere soltanto i ricavi del tutto straordinari, quali le plusvalenze da realizzo e, eventualmente da valutazione e le sopravvenienze attive, POTITO(SANDULLI)/Nigro-Sandulli-Santoro, op. cit., 28. 81 In questo senso, tra gli altri, NOTARI/Dir. fall. – Man. breve, 107; CAMPOBASSO, I, 64; ID., III, 307; MARASÀ, Il presupposto soggettivo del fallimento, in Riv. dir. comm., 2008, I, ?; IBBA, Il presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Profili della nuova legge fallimentare, a cura di Ibba, Torino, 2009, 7 s.; GUGLIELMUCCI, 30 s.; NIGRO(-VATTERMOLI), 61; (AMBROSINI-)CAVALLI(-JORIO), 47 s. 82 V. gli Autori citati nella nota precedente e, sostanzialmente, TERRANOVA, Che cosa resta, cit., 743 s. 79 38 L’impresa concordato preventivo83. In quest’ottica, se anche una (o più) soglia (e) dimensionale (i) venisse(ro) superata (e) la conseguente presunzione di grandezza potrebbe venire rovesciata dimostrando attraverso il criterio della prevalenza che l’impresa in questione è una piccola impresa84. Rinviando alla parte dedicata alle procedure concorsuali ogni approfondimento sul punto, giova sin d’ora segnalare che quest’ultima opinione risulta tutt’altro che peregrina. Ciò solo che si consideri che il legislatore che attribuiva la delega per la riforma delle procedure concorsuali fissava tra gli altri principi quello di «semplificare la disciplina [del fallimento] attraverso l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto» (art. 1, comma 6, lett. a, n. 1, l. 14 maggio 2005, n. 80): obiettivo, quest’ultimo, che sembra essersi un po’ perso per strada lungo il travagliato percorso che ha portato alla «nuova» legge fallimentare e, soprattutto, quando le soglie dimensionali dell’impresa son passate dall’essere alternative (cfr. art. 1, comma 2, l. fall. nella versione riscritta dall’art. 1 d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) a complementari, dovendo i requisiti sussistere congiuntamente85. È perciò evidente che deporrebbe senz’altro nel senso del perseguimento del suddetto obiettivo consentire al titolare di un’iniziativa imprenditoriale di sottrarsi all’apertura delle procedure concorsuali, se in seguito al superamento di una (o più) soglia (e) dimensionale (i) potesse dimostrare la piccolezza della sua iniziativa attraverso il criterio di prevalenza di cui all’art. 208386. 5. Segue: il problema dell’impresa artigiana. La piccola impresa è specificata poi nelle tre figure soggettive del coltivatore diretto del fondo, del piccolo commerciante e dell’artigiano, cioè in tre figure che nella tipologia della realtà del tempo del legislatore storico del ’42 potevano considerarsi 83 In questo senso, in particolare, FERRI jr., In tema di piccola impresa fra codice civile e legge fallimentare, in Riv. dir. comm., 2008, I, 749 ss.; (BONFATTI-)CENSONI, 33 ss.; in senso dubitativo, SPADA, I, 75. 84 V., ancora, FERRI jr., op. cit., ?; (BONFATTI-)CENSONI, 37 s. 85 Infatti, la riformulazione dell’art. 1, comma 2, l. fall., sostituendo le due soglie alternative (rappresentate la prima dalla media dell’ammontare degli investimenti aziendali nell’ultimo triennio la seconda dalla media dell’ammontare dei ricavi lordi nell’ultimo triennio) con le tre soglie complementari (peraltro computate su valori puntuali relativi ad ogni singolo anno del triennio considerato) di cui nel testo, è stato fatto, tra l’altro, per contenere il crollo dei fallimenti che era conseguito con il primo criterio di determinazione della dimensione dell’impresa, tanto da indurre a dubitare che un siffatto ampliamento dell’area di non fallibilità corrispondesse alle reali intensioni del legislatore delegante (sul punto, tra gli altri, M. CAMPOBASSO, op. cit., 7; IBBA, op. cit., 5 s.; NIGRO(-VATTERMOLI), 60 s.). 86 In quest’ottica, il rapporto tra la norma codicistica e la norma fallimentare si ricomporrebbe negli stessi termini nei quali era stato identificato con riferimento al criterio di determinazione della grandezza dell’impresa contenuta nella versione originaria della norma fallimentare: FRANCESCHELLI, Imprese, 182 ss. Non esclude questa conclusione, SPADA, I, 75 Nel senso invece che il criterio di prevalenza di cui alla norma codicistica manterrebbe rilevanza centrale e quindi le soglie dimensionali di cui all’art. 1, comma 2, l. fall. entrerebbero in gioco una volta accertato che in applicazione del primo criterio non si tratti di piccola impresa, Trib. Salerno, 7 aprile 2008, in Fallimento, 2008, 939. Antonio Cetra 39 espressione di fenomeni produttivi caratterizzati dalla prevalenza del lavoro del titolare sugli altri fattori produttivi87. Se con riferimento alla prima e alla seconda figura non è necessario indugiare oltre, con riferimento alla terza, invece, qualche parola occorre spenderla ancora, atteso che la figura dell’impresa artigiana è, non solo menzionata, ma anche definita dall’ordinamento e, precisamente, dalla l. 8 agosto 1985, n. 443 (c.d. legge-quadro per l’artigianato). In particolare, nella legge appena richiamata la nozione di impresa artigiana si può cogliere leggendo il combinato disposto degli artt. 3 e 2. Ai sensi di queste due norme, l’impresa artigiana è, anzitutto, un’attività di produzione di beni, anche semilavorati, o prestazione di servizi, con l’eccezione delle produzioni agricole, dei servizi commerciali e di intermediazione e della somministrazione al pubblico di alimenti e bevande (art. 3, comma 1); è, poi, un’attività produttiva nella quale il titolare o, nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di una società commerciale (con l’eccezione delle sole società azionarie), la maggioranza dei soci – o, se la compagine sociale è composta da soli due soci, da uno solo di questi – svolge in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo (artt. 2, comma 1 e 3, comma 2). Come è agevole notare, la nozione di impresa artigiana fa riferimento ad un fenomeno di produzione di beni e servizi (con l’esclusione di alcuni beni e di alcuni servizi) nel quale il lavoro del titolare o della maggioranza dei soci deve risultare prevalente. Sicché, sembra naturale chiedersi in che senso tale lavoro debba risultare prevalente. Invero, dal fatto che il concetto di prevalenza cui allude la legge-quadro è non diverso dal concetto di prevalenza già esaminato a proposito dell’art. 2083, si può dedurre che l’impresa artigiana costituisca ancora oggi una specificazione della piccola impresa. Viceversa, se se si assume che i due concetti di prevalenza sono diversi, bisogna accertare qual è la relazione che intercorre tra impresa artigiana e piccola impresa. In quest’ottica, sembra necessario andare oltre nell’esame della legge-quadro e, in particolare, soffermarsi sull’art. 4. Tale norma stabilisce i limiti dimensionali che può assumere l’impresa artigiana, ossia i limiti entro i quali il sottostante processo produttivo può servirsi di lavoro altrui: limiti che sono fissati a seconda della tipologia di iniziativa. In particolare, ai sensi dell’art. 4, l’impresa artigiana può servirsi delle prestazioni d’opera di personale dipendente, diretto personalmente dal titolare o dai soci, sempre che non superino le seguenti unità: a) nelle imprese che non lavorano in serie fino ad un massimo di 18 dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 9 (massimo che può essere elevato a 22, a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti); 87 Infatti, è stato ampiamente dimostrato che il criterio di prevalenza rappresenta criterio generale e comune e che le tre figure menzionate dall’art. 2083 rappresentano casi particolari di piccole imprese: CAVAZZUTI, Le piccole imprese, 569 s.; ma già, BIGIAVI, La «piccola impresa», 41 ss. E ciò può considerarsi pressoché pacifico: tra gli altri, DE MARTINI, Corso, 122 ss.; GENOVESE, La nozione, 174 ss.; CAPO, La piccola impresa, 48 ss.; CAMPOBASSO, I, 60; GALGANO, I, 55 S. 40 L’impresa b) nelle imprese che lavorano in serie fino ad un massimo di 9 dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 5 (massimo che può essere elevato a 12, a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti); c) nelle imprese operanti nei settori delle lavorazioni artistiche tradizionali e nell’abbigliamento su misura, fino ad un massimo di 32 dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 16 (massimo che può essere elevato a 40, a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti); d) nelle imprese di trasporto, fino ad un massimo di 8 dipendenti; e) nelle imprese di costruzioni edili, fino ad un massimo di 10 dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 5 (massimo che può essere elevato a 14, a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti). Ora, dopo un rapido esame di questi limiti, si può dubitare senz’altro che il concetto di prevalenza sia utilizzato dalla legge-quadro nella medesima accezione dell’art. 208388. Si prendano alcuni degli esempi già fatti supra al par. ? Il trasportatore che decide di assumere stabilmente un’altra persona con mansioni di autista, magari al fine di affidargli la guida del mezzo tutte le volte che non può o non vuole farlo lui personalmente, è senz’altro un artigiano anche se – si è visto – non è titolare di una piccola impresa. Il sarto che decide di assumere stabilmente uno o più dipendenti, che abbiano l’abilità professionale per curare interamente la confezione dei vestiti dei clienti (o quanto meno di qualcuno di questi), è senz’altro un artigiano anche se – si è visto – non è titolare di una piccola impresa. E una conferma di questa conclusione può cogliersi nell’ultimo inciso dell’art. 3, comma 2. Questa disposizione stabilisce che un’impresa, per potersi qualificare come artigiana, dev’essere caratterizzata da un processo produttivo nel quale il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Tuttavia, tale disposizione non distingue il lavoro a seconda della fonte di provenienza, cioè se si tratti di lavoro del titolare, dei soci o dei terzi, ma dispone solo che il lavoro, quale che sia allora la fonte di provenienza, deve prevalere sul capitale. In altre parole, essa richiede che il sottostante processo produttivo si connoti per essere labour intensive89. Ne consegue che la prescrizione secondo cui il lavoro del titolare dell’impresa artigiana o della maggioranza dei soci della società artigiana debba essere prevalente è da intendersi probabilmente nel senso che siffatto lavoro debba rappresentare l’occupazione principale del titolare o della maggioranza dei soci, cioè debba essere l’impiego che assorbe la parte più importante della loro vita lavorativa. Alla luce di quanto precede, se ne può dedurre che l’impresa artigiana nell’attuale tipologia della realtà è fenomeno più ampio rispetto al fenomeno che si configurava ai 88 Nello stesso senso, tra gli altri, ALLEGRI, Impresa artigiana e legislazione speciale, Milano, 1990, 56 s. spec. 137 ss.; GENOVESE, La nozione, 198 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 496 ss.; CAPO, La piccola impresa, 104.; BIONE, voce Piccolo imprenditore, 4. Diversamente, invece, PAVONE LA ROSA, Artigiani, società artigiane e «statuto» dell’imprenditore commerciale, in Giur. comm., 1997, I, 648 s. 89 Sul punto, molto chiaramente, CAMPOBASSO, I, 68. Antonio Cetra 41 tempi in cui il codice civile è stato scritto: un’impresa artigiana può essere una piccola impresa ma può essere anche eccedente la piccola impresa90. D’altra parte, una simile conclusione può considerarsi ormai ampiamente acquisita anche dalla giurisprudenza, la quale costantemente afferma che l’artigiano diventa un normale imprenditore quando imprima alla sua attività i caratteri propri dell’ordinaria impresa industriale, a struttura capitalistica, costituendo una base di intermediazione speculatoria e facendo assumere al suo guadagno, normalmente modesto, i caratteri del profitto: preposizione, quest’ultima, che vale a sottolineare il mutamento quantitativo e qualitativo che si verifica nell’organizzazione dell’impresa, la quale cessa di essere il supporto per la esplicazione della attività dell’artigiano, cioè per una produzione che rechi l’impronta della sua personale abilità, e realizza, invece, una vera e propria organizzazione industriale, avente autonoma capacità produttiva e in cui l’opera del titolare non è più essenziale né principale con la conseguenza che non si è in presenza di un piccolo imprenditore91. Del resto, la legge-quadro non ha definito l’impresa artigiana con l’obiettivo di rimodulare il perimetro dei fenomeni produttivi cui attribuire rilevanza normativa più ristretta. La legge-quadro ha definito l’impresa artigiana solo al fine di selezionare i fenomeni che possono beneficiare degli incentivi previsti a favore dell’artigianato e, in particolare, delle agevolazioni previdenziali e creditizie92. In quest’ottica, la leggequadro è un provvedimento che dà attuazione al principio costituzionale, secondo cui la Repubblica provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato (art. 45, comma 2, Cost.)93. 6. L’impresa commerciale. La nozione generale di impresa depurata dell’impresa agricola e della piccola impresa dovrebbe residuare nella specie di impresa destinataria del diritto commerciale nella sua interezza e organicità. Questa categoria di impresa è l’impresa commerciale (non piccola o medio grande). A differenza delle due categorie appena studiate, con riferimento all’impresa commerciale non si rinviene una norma che contenga la relativa nozione. Infatti, la norma dalla quale si ritiene possa desumersi siffatta nozione, l’art. 2195, non è una norma definitoria, bensì una norma di disciplina, una norma, cioè, che contiene un In questo senso, MASI, La legge quadro sull’artigianato e diritto privato, in Dir. lav., 1987, I, 247; SPADA, Imprenditore e impresa artigiana fra codice e legislazione speciale, in Giur. comm., 1987, I, 711 ss.; ID., I, 73 s.; BIONE, voce Piccolo imprenditore, 4. 91 È questa la posizione consolidata della Cassazione già sotto l’ègida della precedente l. 25 luglio 1956, n. 860: Cass., 14 marzo 1962, n. 519, in Giur. it., 1962, I, 1, 809; Cass., 15 ottobre 1981, n. 5403, in Giur. comm., 1982, II, 11; più di recente: Cass., 5 marzo 1987, n. 2310, in Fallimento, 1987, 938; Cass., 20 settembre 1995, n. 9976, in Fallimento, 1996, 244. 92 Sulle quali, in luogo di molti, ALLEGRI, op. cit., 101 ss. Nello stesso senso, v., anche, PRESTI-RESCIGNO, I, 34 s. 93 In questi termini, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 496. 90 42 L’impresa primo precetto comportamentale (l’obbligo di pubblicità) all’indirizzo di chi pone in essere un comportamento che si sostanzia in una delle seguenti attività: 1. un’attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi; 2. un’attività intermediaria nella circolazione di beni; 3. un’attività di trasporto per terra, per acqua e per aria; 4. un’attività bancaria o assicurativa; 5. un’attività ausiliaria alle precedenti. Sono allora queste le attività produttive che esemplificano l’impresa commerciale, dalle quali occorre enucleare una nozione più generale. Al riguardo, giova premettere che può ritenersi ormai ampiamente acquisito che siano le attività di cui ai punti sub 1 e 2 che racchiudono la nozione di impresa commerciale, atteso che le altre attività enunciate nei successivi punti sub 3, 4 e 5 costituiscono delle specificazioni delle prime94. Ed invero, è di tutta evidenza che l’attività di trasporto sia un’attività di produzione di un servizio; così come l’attività assicurativa (infatti, l’assicuratore presta il servizio di accollarsi un rischio specifico cui è esposto l’assicurato: ciò acquisendo anzitutto del risparmio dall’assicurato in forma di premio e impegnandosi poi a restituirlo all’assicurato o a un terzo o a titolo di risarcimento di un danno prodotto da un sinistro o pagando un capitale o una rendita al verificarsi di un evento che attiene alla vita umana: cfr. art. 1882); e lo stesso dicasi per le attività ausiliarie, ossia per le attività di supporto a quelle precedentemente elencate (ad esempio, l’attività di pubblicità, di commissione, di concessione, di mediazione, ecc.). Invece, l’attività bancaria può essere considerata, non solo come un’attività di produzione di un servizio (tipicamente, il servizio di trasformare il risparmio raccolto in moneta bancaria o il servizio di concessione di credito), ma anche come un’attività di circolazione di un bene, seppure un bene affatto particolare qual è il denaro, raccogliendo quest’ultimo dal pubblico dei risparmiatori ed erogando lo stesso in forma di credito (cfr. art. 10, comma 1, tub)95. Pertanto, l’impresa commerciale è un’attività di produzione di beni e di servizi che si qualifica come industriale e/o un’attività di circolazione di beni che si qualifica come intermediaria. Cioè, un’attività di produzione di beni e servizi e/o di circolazione di beni che si distingue dalle produzioni di beni e servizi e/o circolazioni di beni ricomprese nella nozione generale di impresa per il fatto di essere, la prima (produzione di beni e servizi) industriale, la seconda (circolazione di beni) intermediaria. Se ne deduce che i tratti identificativi dell’impresa commerciale sono racchiusi nei requisiti di industrialità e di intermediarietà, sui quali allora occorre soffermarsi. L’interpretazione di questi due requisiti è stata a lungo controversa e, in particolare, al riguardo, sono state avanzate due differenti opzioni interpretative. In questi termini, tra gli altri, BUONOCORE, L’impresa, 478 e 480, CAMPOBASSO, I, 54 s.; PRESTIRESCIGNO, I, 34; GALGANO, I, 36 ss. 95 Sul punto, le pronunce rese in occasione della vicenda nota come «caso Giuffrè»: Trib. Bologna, 10 marzo 1961, in Riv. dir. comm., 1961, II, 221; App. Bologna, 12 giugno 1962, in Riv. dir. comm., 1963, II, 56; Cass., 8 aprile 1965, n. 611, in Foro it., 1965, I, 1034. 94 Antonio Cetra 43 Secondo una prima interpretazione, i requisiti di industrialità e intermediarietà sono da intendersi in un’accezione strettamente letterale o, se si vuole, storica: l’industrialità alluderebbe al processo produttivo inaugurato con la rivoluzione industriale a cavallo tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo; l’intermediarietà alluderebbe alle attività classicamente commerciali di acquisto (all’ingrosso) per la rivendita (al dettaglio). Sicché, l’attività sarebbe industriale solo se si tratti di attività automatizzata o che si sostanzia nella trasformazione fisico-tecnica della materia; l’attività sarebbe intermediaria solo se si tratti di attività originata da un acquisito di qualcosa per la rivendita di quel qualcosa96. Dunque, accedendo a questa interpretazione si perviene ad una nozione di impresa commerciale in positivo, non diversa da quelle già esaminate (artt. 2082, 2135, 2083). In particolare, essa si riferisce a tutti i fenomeni produttivi caratterizzati dal processo produttivo anzidetto (cioè, automatizzato o che dà luogo alla trasformazione fisicotecnica della materia) o diretti alla circolazione dei beni attraverso un prioritario acquisto e una successiva rivendita (cioè, di intermediazione commerciale). Ne consegue che chi propone l’interpretazione appena illustrata circoscrive l’impresa commerciale ai fenomeni anzidetti, tuttavia senza escludere che vi possano essere ulteriori fenomeni produttivi che, pur non avendo natura agricola, non hanno nemmeno natura commerciale. In quest’ottica, la nozione generale di impresa si articolerebbe, in base alla sua natura, non solo nell’impresa agricola, da un lato, e nell’impresa commerciale, dall’altro, ma a questa bina di categorie se ne aggiungerebbe una terza che è invalso qualificare come impresa civile97. Sulla base di queste premesse i seguenti fenomeni imprenditoriali sono stati considerati imprese civili: a) le imprese artigiane, sul presupposto che il sottostante processo produttivo non possa qualificarsi industriale, in quanto mai interamente automatizzato, neanche per le eventuali lavorazioni in serie (cfr. art. 4, comma 1, n. 2, l. 443/1985); b) le imprese primarie o le imprese di pubblici spettacoli, sempre sul presupposto che il sottostante processo produttivo non possa qualificarsi come industriale, in quanto non dà luogo ad una trasformazione fisico-tecnica della materia, ma si limita a sfruttare risorse che si trovano in natura (come le pietre estratte dalle cave; il gas estratto dai giacimenti; il calore solare sfruttato a fini energetici; il vento sfruttato a fini energetici; ecc.) o risorse che rientrano nelle abilità umane (la capacità di recitare); c) le imprese finanziarie, sul presupposto che facciano circolare il denaro non in modo intermediario, limitandosi a raccogliere risparmio da collocare in opportune soluzioni di investimento o a concedere credito utilizzando denaro appartenente al patrimonio personale del titolare; 96 Per questo senso, pur nella diversità delle argomentazioni e delle sfumature di pensiero, OPPO, Scritti, I, 178 ss. e 194 ss.; DE MARTINI, Corso, 144 ss. e 147 ss.; RIVOLTA, La teoria, 227; e più ampiamente, sottolineando, in particolare, che l’industrialità alluda ad un processo produttivo fondato sulla trasformazione fisico-tecnica della materia, ID., Sull’impresa agricola, cit., 554 ss. 97 Pervengono a questa conclusione, OPPO, Scritti, I, 196 ss.; condiviso da RIVOLTA, La teoria, 229; ID., Sull’impresa agricola, cit., 551 ss.; DE MARTINI, Corso, 165 ss; e dottrina più risalente: tra gli altri, SALIS, L’imprenditore civile, in Dir. giur., 1948, I, 1 ss. e 97 ss.; LA LUMIA, Corso di diritto commerciale, Milano, 1950, 122; CASANOVA, Impresa, 119 ss. 44 L’impresa d) le agenzie matrimoniali, le agenzie di collocamento o il mediatore di prodotti agricoli, sul presupposto che si tratti di attività ausiliarie ad iniziative che non rientrano nell’elenco di cui all’art. 2195, comma 1, nn. 1-4, peraltro non necessariamente imprenditoriali (il matrimonio; il lavoro). L’interpretazione appena riferita è stata oggetto di numerose critiche, mosse anche da parte di chi ne ha sottolineato l’inappuntabilità sul piano dell’argomentazione che la sorregge. E la principale ragione di simili critiche è senz’altro da ricondurre alle incertezze che caratterizzano l’impresa civile con riferimento alla rilevanza normativa di quest’ultima nozione: il problema concerne l’individuazione della disciplina ad essa applicabile98. Al riguardo, prevale l’idea che l’impresa civile abbia una rilevanza normativa non diversa dalla rilevanza riconosciuta all’impresa agricola e alla piccola impresa, sull’assunto che quanto meno una parte degli istituti che compongono la disciplina dell’impresa si riferisca espressamente alla sola impresa commerciale. In quest’ottica, i fenomeni produttivi ricompresi nell’impresa civile sarebbero assoggettati al diritto commerciale in modo parziale e frammentario, pur mancando valide ragioni – come quelle alla base della scelta di attribuire analoga rilevanza normativa all’impresa agricola e alla piccola impresa – che giustifichino una simile rilevanza normativa99. Ed invero, è agevole constatare che in molti, se non in tutti, gli esempi di impresa civile più sopra individuati si riscontrano fenomeni produttivi nei quali gli investimenti richiesti dal processo produttivo sono assecondati, quanto meno tipicamente, non solo attraverso il capitale proprio ma anche attraverso il capitale di credito. Cioè, sono fenomeni che sollecitano il credito alla produzione in misura non inferiore, anzi talvolta ben superiore (si pensi ad alcune attività primarie), rispetto ad un fenomeno produttivo senz’altro riconducibile all’impresa commerciale (si pensi ad un supermercato). Sicché, appare poco congruo assoggettare i fenomeni che rientrano nell’impresa civile ad un trattamento normativo deteriore rispetto a quello riservato alle imprese commerciali, atteso che gli interessi in gioco nei primi e nelle seconde non giustificano una simile diversità. E ciò soprattutto laddove un tale risultato non sia inequivocabilmente stabilito dal dato normativo ma sia frutto di una scelta interpretativa sui requisiti di industrialità e di intermediarietà di cui all’art. 2195, comma 1, nn. 1 e 2100. Pertanto, proprio nella prospettiva di evitare il suddetto risultato, l’opinione prevalente è ormai orientata nel senso di interpretare in altro modo i due requisiti appena menzionati, in particolare attribuendo al primo (all’industrialità) il significato di non agricolo e al secondo (all’intermediarietà) il significato di scambio101. 98 In questi termini, SPADA, voce Impresa, 64 s.; ID., I, 76 s. Per quest’ordine di idee, ancora, SPADA, voce Impresa, 64 s.; ID., I, 76 s. 100 In questi termini, sottolineando che alcune delle pretese imprese civili erano sicuramente commerciali sotto l’abrogato codice di commercio e nulla induce a pensare che con il passaggio al codice civile si sia voluta restringere l’area della commercialità, NIGRO, Imprese, 606 ss. 101 Pervengono a questa conclusione, tra gli altri, ASCARELLI, Corso, 262 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 45 s.; FRANCESCHELLI, Imprese, 81 ss. e 200; GENOVESE, La nozione, 68 ss.; BONFANTE-COTTINO, 99 Antonio Cetra 45 In quest’ottica, si perviene ad una nozione di impresa commerciale residuale, diversa, perciò, rispetto alle altre già esaminate (artt. 2082, 2135 e 2083), atteso che si configura nozione in grado di assorbire tutti i fenomeni imprenditoriali che, in ragione della loro natura, non possono qualificarsi come agricoli (benché, tra questi, si debba riconoscere rilevanza normativa positiva solo a quelli che non siano piccole imprese). Ed invero, se si accede a questa seconda interpretazione è agevole notare che non possono esservi fenomeni imprenditoriali che riguardati sotto il profilo della loro natura non possono non essere riconducibili o all’impresa agricola o all’impresa commerciale. In altri termini, in base alla natura, un fenomeno imprenditoriale è o un’impresa agricola o un’impresa commerciale, non residuando invece alcuno spazio per l’ulteriore categoria dell’impresa civile102. Infatti, nell’accezione interpretativa dei due requisiti di industrialità e intermediarietà che si è appena illustrata, è agevole constatare che gli esempi più sopra ricordati esprimerebbero fenomeni produttivi che sono senz’altro qualificabili come imprese commerciali, sostanziandosi nella produzione di un bene o servizio attraverso un processo produttivo che non ruota attorno alla cura di un ciclo biologico animale o vegetale (imprese artigiane, imprese primarie, imprese di pubblici spettacoli, agenzie matrimoniali, agenzie di collocamento, mediatore di prodotti agricoli) ovvero nello scambio di un bene (imprese finanziarie). 7. Le implicazioni della natura dell’organizzazione dell’impresa sulla disciplina applicabile. Acquisito che la categoria d’impresa destinataria del diritto commerciale nella sua interezza sia rappresentata dall’impresa commerciale (non piccola), resta adesso da vedere se tale categoria di impresa debba essere articolata in ulteriori categorie, nel senso che la disciplina che ad essa si riferisce possa risentire di altri elementi e, in particolare, della forma giuridica rivestita dall’impresa. In questa prospettiva, l’impresa commerciale può essere classificata nelle categorie dell’impresa pubblica e dell’impresa privata. 7.1. Segue: l’impresa pubblica. Cominciando dalla prima, conviene muovere dalla premessa che l’espressione impresa pubblica fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale di natura L’imprenditore, 513 ss.; CAMPOBASSO, I, 57 s.; GALGANO, I, 36 ss. In giurisprudenza, già, Trib. Bologna, 10 marzo 1961, cit.; più di recente, Trib. Milano, 21 aprile 1997, in Giur. comm., 1998, II, 625. 102 In questi termini, sottolineando che l’impresa delineata dall’art. 2082 possa distinguersi, in base alla natura, in agricola o commerciale e tertium non datur, ASQUINI, Profili, ?, nt. 16; evocando i lavori preparatori del V libro del codice civile, GENOVESE, L’artigiano e le attività commerciali, in Riv. dir. comm., 1968, I, 183 ss. 46 L’impresa commerciale esercitato da o riconducibile ad un soggetto di diritto pubblico (= ente pubblico)103. In particolare, un’attività commerciale può costituire oggetto esclusivo o principale di un ente pubblico, che allora si è soliti qualificare come ente pubblico economico; ma può essere anche un’iniziativa secondaria di un ente pubblico, che allora si è soliti qualificare come ente pubblico non economico. L’ente pubblico economico è un ente che si prefigge di perseguire il suo fine istituzionale (principalmente) attraverso un’attività commerciale (fine istituzionale che potrebbe coincidere con lo stesso esercizio dell’iniziativa). Si tratta di una conformazione dell’impresa pubblica che in passato assumeva grande importanza, riscontrandosi nei principali settori dell’economia italiana (bancario, assicurativo, trasporti, energetici, telecomunicazioni, ecc.), ma che ormai assume una dimensione senz’altro più circoscritta, residuando perlopiù nei mercati in regime di monopolio legale (tabacchi, giochi e scommesse) e in qualche mercato a rilevanza locale104. La ragione di questo mutamento sta nel fatto che gran parte degli enti pubblici economici, specie quelli a rilevanza nazionale, sono stati interessati da un processo di privatizzazione, che ne ha comportato la «trasformazione» in società (di capitali). Pertanto, all’esito di tale processo, la forma giuridica dell’impresa, ossia il suo soggetto giuridico, non è più un soggetto di diritto pubblico, essendo diventato un soggetto privato, rappresentato, appunto, dalla società risultante dalla «trasformazione». Solo il soggetto economico rimane di diritto pubblico, atteso che le società risultanti dalla «trasformazione» figurano come società in mano pubblica, in quanto le relative partecipazioni sociali sono attribuite ad un ente pubblico (rappresentato dallo Stato o da altro ente pubblico territoriale). Ragion per cui si suole qualificare il descritto processo con l’espressione di privatizzazione in senso formale105. Sebbene diverse società risultanti dalla «trasformazione» degli enti pubblici economici siano ancora in mano pubblica (nel senso che il relativo processo di privatizzazione si è arrestato al livello formale, atteso che, se non l’intera, quanto meno la partecipazione di controllo appartiene ad un ente pubblico: Stato o altro ente pubblico territoriale), per molte di queste società vi è stata anche una successiva fase di privatizzazione sostanziale, atteso che, se non l’intera, quanto meno la partecipazione di controllo è stata trasferita ai privati. Un tale ulteriore sviluppo del processo di privatizzazione è stato agevolato dal d. l. 31 maggio 1994, n. 332, c. l. 30 luglio 1994, n. 474 (recante norme per l’accelerazione delle 103 In luogo di molti, GIANNINI, Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. soc., 1958, 234 ss.; OTTAVIANO, voce Impresa pubblica, in Enc. dir., XX, 670 ss.; ROVERSI MONACO, L’attività economica pubblica, in Tr. Galgano, I, 1977, 386 ss.; CIRENEI, Le imprese, 111 ss. e 122 ss. 104 Per un quadro di sintesi, v. i saggi raccolti in MARCHETTI (a cura di), Le privatizzazioni in Italia. Saggi, leggi e documenti, Milano, 1995, 1 ss. e in MARASÀ (a cura di), Profili giuridici delle privatizzazioni, Torino, 1998, 1 ss. Più di recente, FRENI, Le trasformazioni degli enti pubblici, Torino, 2004, 15 ss.; IBBA, Il tramonto delle partecipazioni pubbliche?, in Studi in ricordo di Jaeger, Milano, 2011, 353 ss. 105 IBBA, La tipologia delle privatizzazioni, in Giur. comm., 2001, I, 464 ss.; PAVONE LA ROSA, La costituzione delle società per azioni nelle procedure di privatizzazione, in Giur. comm., 2003, I, 5 ss. Antonio Cetra 47 procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e di altri enti pubblici in società per azioni)106. Questo provvedimento normativo prevede anzitutto le modalità attraverso le quali il pacchetto azionario di controllo possa esser ceduto sul mercato. In linea di principio, queste modalità devono essere ispirate al principio di trasparenza e di non discriminazione, finalizzate anche alla diffusione dell’azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali (art. 1, comma 2). In questa prospettiva, le modalità devono essere in grado di creare vere e proprie public companies e, in particolare, si sostanziano nell’effettuare la vendita in una o più tranches del pacchetto azionario di controllo attraverso la tecnica dell’offerta pubblica di vendita (= o.p.v.): si tratta di offrire ad un pubblico indistinto di soggetti (genericamente, al mercato) le azioni oggetto di vendita, a condizioni prefissate, non suscettibili di modificazione per tutto il corso dell’offerta e non discriminatorie, dando tutte le informazioni necessarie per consentire all’oblato di decidere se effettuare o meno l’investimento proposto (cfr. art. 1, comma 1, lett. t, tuf e infra ?)107. D’altra parte, per cercare di mantenere un adeguato livello di diffusione dell’azionariato anche in seguito alla vendita del pacchetto di controllo, è possibile introdurre negli statuti delle società privatizzande operanti in alcuni settori strategici particolarmente importanti nel palinsesto economico complessivo (difesa e sicurezza nazionale; energia; trasporti; comunicazioni; altri servizi pubblici; banche; assicurazioni) clausole che stabiliscano limiti massimi al possesso azionario per ogni socio (salvo che tali limiti non vengano superati in conseguenza di un’offerta pubblica di acquisito: = o.p.a.: cfr. art. 1, comma 1, lett. v, tuf e infra ?) (art. 3, comma 1), senza che tali clausole possano essere modificate per un periodo di tre anni dalla loro introduzione (art. 3, comma 3)108. Una simile modalità di vendita del pacchetto di controllo è stata utilizzata, ad esempio, nelle privatizzazioni di Telecom, Eni, Enel, Banca Nazionale del Lavoro, ecc. In alternativa all’o.p.v. è possibile effettuare la vendita del pacchetto di controllo attraverso una trattativa privata (art. 1, comma 3), con l’obiettivo di cercare uno o più acquirenti che presentino determinate caratteristiche e attitudini imprenditoriali, in grado di dare sicurezza in merito alla continuità ed alla correttezza della gestione, anche con l’impegno di non cedere la partecipazione acquistata per un determinato periodo di tempo (creando così un nucleo stabile di azionisti)109. Una tale modalità di vendita del pacchetto di controllo è stata utilizzata nella privatizzazione di Alitalia. Tuttavia, alcune società operanti nel settore della difesa e della sicurezza nazionale così come alcune società che detengono attivi strategici (reti, impianti, beni e rapporti di rilevanza strategica) nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni anche se privatizzate non recidono completamente i rapporti con lo Stato. Infatti, nei confronti di tali società quale che sia la composizione della loro compagine sociale lo Stato può esercitare i poteri speciali attribuiti dagli artt. 2 e 3 d.l. 15 marzo 2012, n. 21 c. l. 11 maggio 2012, n. 56110: in particolare, nei confronti delle società operanti nel settore della difesa e della 106 Ex multis, BONELLI, Le privatizzazioni delle imprese pubbliche, Milano, 1996, 7 ss.; ID., Il codice delle privatizzazioni nazionali e locali, Milano, 2001, 53 ss. 107 Sul punto, BONELLI, Le privatizzazioni, cit., 14 ss. 108 Sulle clausole di cui nel testo, JAEGER, Privatizzazioni; «Public Companies»; problemi societari, in Giur. comm., 1995, I, 10; LIBONATI, La faticosa «accelerazione» delle privatizzazioni, in Giur. comm., 1995, I, 35 s.; CALVOSA, La partecipazione eccedente e i limiti al diritto di voto, Milano, 1999, 75 ss. 109 Sul punto, BONELLI, Le privatizzazioni, cit., 49 ss. 110 Tali poteri sostituiscono i poteri speciali che dovevano essere introdotti con apposita clausola statutaria prima della privatizzazione delle società operanti in analoghi settori strategici ai sensi dell’art. 2, comma 1, d.l. 332/1994 (c.d. golden share) (sui quali, COSTI, Privatizzazioni e diritto delle società per azioni, in Giur. comm., 1995, I, 80 ss.; VANONI, Le società miste quotate in mercati regolamentati (dalla “golden share” ai fondi sovrani), in Le società “pubbliche”, a cura di Ibba-Malaguti-Mazzoni, Torino, 2011, 197 ss. e 203 s.), 48 L’impresa sicurezza nazionale (da individuarsi con d.P.C.M.) i poteri di cui all’art. 1, comma 1 (veto sull’assunzione di alcune decisioni amministrative e assembleari; veto sull’ingresso di alcuni soggetti in società; imposizione di specifiche condizioni agli acquirenti di partecipazioni rilevanti) da esercitarsi con il procedimento di cui all’art. 1, commi 4 e 5; nei confronti delle società detentrici di attivi strategici nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni (da individuarsi con d.P.R.) i poteri di cui all’art. 2, commi 3 e 6 (veto sull’assunzione di alcune decisioni amministrative e assembleari; imposizioni di specifiche condizioni agli acquirenti non europei di partecipazioni rilevanti) da esercitarsi con il procedimento di cui all’art. 2, commi 2, 4 e 5. Detti poteri – che non sono previsti esclusivamente dall’ordinamento italiano ma che si trovano in pressoché tutti gli ordinamenti nei quali sono intervenuti analoghi provvedimenti di agevolazione delle privatizzazioni – dovrebbero consentire di salvaguardare la correttezza gestoria anche in seguito alla privatizzazione, in particolare evitando che i nuovi titolari (di diritto o di fatto) del potere gestorio antepongano i propri personali interessi agli interessi di natura pubblica o generale che dovrebbero continuare a connotare l’interesse delle società divisate. L’ente pubblico non economico è invece un ente che realizza i molteplici fini istituzionali attraverso un’azione dalla conformazione assai variegata, che si articola in numerose iniziative (anche produttive), le quali tipicamente non presentano i caratteri dell’impresa (soprattutto per difetto del requisito di economicità) ma che talvolta possono essere vere e proprie imprese (svolgendosi in regime di economicità). L’esempio più importante è rappresentato senz’altro dagli enti pubblici locali (comuni e regioni), nei quali non è raro riscontrare, a fianco alle tipiche attività amministrative, anche una o più attività commerciali. Anzitutto, possono assumere le fattezze dell’attività commerciale i servizi pubblici locali: senz’altro i servizi cc.dd. a rilevanza economica, cioè i servizi che possono essere erogati a condizioni che consentono di conseguire un margine di profitto e per i quali è perciò possibile immaginare un mercato concorrenziale di riferimento (tipicamente, i servizi pubblici nei settori energetici come il gas, la luce, l’acqua); ma anche i servizi cc.dd. privi di rilevanza economica, cioè i servizi che non si prestano ad essere erogati a condizioni che consentono di conseguire un margine di profitto e per i quali non è perciò immaginabile un mercato concorrenziale di riferimento (tipicamente, i servizi sociali): infatti, questi ultimi servizi possono essere erogati a condizioni meramente economiche, cioè a prezzi che consentono di recuperare i costi di produzione, e non soltanto a condizioni di erogazione, cioè sottocosto o a prezzi politici. In secondo luogo, possono assumere le fattezze dell’attività commerciale anche iniziative non qualificabili come servizi pubblici (si pensi alle numerose società finanziarie regionali o a società che gestiscono case da gioco comunali). Ora, la gestione dei servizi a rilevanza economica non può essere effettuata direttamente dall’ente pubblico locale ma dev’essere affidata necessariamente ad una poteri che avevano sollevato non pochi problemi di compatibilità con il diritto comunitario e, in particolare, con il principio di libera circolazione dei capitali nell’Unione europea ex art. 63 Tr. FUE (al riguardo, ex multis, BALLARINO-BELLODI, La Golden Share nel diritto comunitario. A proposito delle recenti sentenze della Corte comunitaria, in Riv. soc., 2004, 2 ss.; MUCCIARELLI, La sentenza Volkswagen e il pericolo di una «convergenza» forzata tra gli ordinamenti societari, in Giur. comm., 2009, II, 273 ss.). Antonio Cetra 49 società di capitali a partecipazione interamente pubblica con la quale intercorre una relazione talmente intensa da poter essere qualificata interorganica più che intersoggettiva: società che è invalso qualificare con l’espressione «società in house providing»111. Invece, la gestione dei servizi privi di rilevanza economica è lasciata alla discrezionalità dell’ente pubblico e può essere da quest’ultimo affidata o ad una società in house o ad un’autonomia funzionale con soggettività giuridica (l’azienda speciale) o priva di soggettività giuridica (l’istituzione) ovvero può essere esercitata in economia. Infine, la gestione delle altre iniziative imprenditoriali rimane sempre nella discrezionalità dell’ente pubblico, che può orientarsi a favore o della società in mano pubblica o dell’autonomia funzionale con o priva di soggettività giuridica: nel primo caso, dando vita ad un vero e proprio ente pubblico economico; nel secondo, ad una c.d. impresa-organo112. Pertanto, alla luce di quanto precede, l’impresa pubblica può presentarsi nella forma della società pubblica (impresa-società), dell’ente pubblico economico (impresaente) o all’interno del contesto organizzativo di un ente pubblico non economico (impresa-organo)113. Ciò acquisito, passiamo allora a vedere quali siano le implicazioni sul piano della disciplina applicabile. Nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di diritto privato, cioè la società, l’applicazione della disciplina dell’impresa dovrebbe avvenire in maniera non diversa da una qualsiasi altra società (v., infra, ?). Infatti, non sembra che l’eventuale rilevanza generale degli interessi serviti dall’iniziativa ovvero la natura pubblica del soggetto economico siano motivi sufficienti per giustificare un’applicazione differente e, in particolare, deteriore, cioè priva di uno o più istituti in cui si articola quella disciplina (come invece talvolta ritiene la giurisprudenza, soprattutto quando si tratti di decidere dell’apertura di una procedura concorsuale)114. Nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di diritto pubblico, cioè l’ente pubblico, occorre muovere dall’art. 2093, il quale dispone, nei riguardi degli enti inquadrati nelle associazioni professionali – gli attuali enti pubblici economici – l’applicazione delle disposizioni contenute nel libro V e, nei riguardi degli enti non inquadrati – gli attuali enti pubblici non economici – l’applicazione delle disposizioni del libro V limitatamente alle imprese da essi esercitate. Sul c.d. «controllo analogo» e sulle società in hause, CASALINI, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in hause, Napoli, 2003, 247 ss.; OCCHIOLUPO, Le società in hause, in Giur. comm., 2008, II, 525 ss.; COSSU, Le S.r.l. in hause providing per la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica nel diritto comunitario e nazionale, in Le società “pubbliche”, a cura di Ibba-MalagutiMazzoni, Torino, 2011, 244 ss. e 266 ss. 112 Sulle forme di gestione dei servizi privi di rilevanza economica, PIPERATA, Tipicità e autonomia nei servizi pubblici locali, Milano, 2005, 292 ss. e 297 ss.; CETRA, La trasformazione dell’ente pubblico, in Le società “pubbliche”, a cura di Ibba-Malaguti-Mazzoni, Torino, 2011, 173 ss. 113 La tripartizione è di GIANNINI, op. cit., ? 114 V., da ultimo, Trib. Foggia, 8 settembre 2011, che ha negato l’assoggettamento alle procedure concorsuali di una società a partecipata interamente da un ente pubblico locale, adducendo la natura pubblica della partecipazione e l’essenzialità del servizio reso. Tale pronuncia è stata poi correttamente riformata da App. Bari, 25 ottobre 2011, che ha disposto l’ammissione all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi. In dottrina, nel senso del testo, per tutti, CAMPOBASSO, I, 77. 111 50 L’impresa Pertanto, ai sensi della norma appena menzionata, non sembra che la forma pubblica dell’impresa possa incidere significativamente sull’esperienza normativa oggetto di attenzione. Sennonché, questa conclusione dev’essere valutata alla luce degli artt. 2201 e 2221, i quali, riferendosi specificamente agli enti pubblici che esercitano un’impresa, stabiliscono, il primo, che gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale sono soggetti all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese; il secondo, che gli enti pubblici sono esclusi dalle procedure del fallimento e del concordato preventivo. Se ne deduce che solo gli enti pubblici economici e, quindi, non gli enti pubblici non economici, devono adempiere all’obbligo di pubblicità commerciale; mentre qualunque ente pubblico, economico e non, è sottratto al fallimento ed al concordato preventivo115. La ratio delle disposizioni appena ricordate può cogliersi senz’altro nell’esigenza di adeguare le modalità di applicazione del diritto dell’impresa alla forma giuridica pubblica rivestita dalla stessa. In particolare, la prima norma (art. 2201) esenta l’impresa-organo dalla pubblicità commerciale, muovendo dal duplice presupposto, da un lato, che tale iniziativa sia assoggettata ad altra forma di pubblicità, ritenuta – a torto o a ragione – dal legislatore storico del ’42 del tutto equivalente rispetto alla pubblicità che si realizza tramite l’iscrizione nel registro delle imprese; dall’altro, che sia eccessivo assoggettare l’ente pubblico non economico al sistema di controlli che tipicamente precedono l’iscrizione nel registro delle imprese (art. 2189, comma 2: v., infra, ?)116. La seconda norma (art. 2221) esenta tutti gli enti pubblici dal fallimento e dal concordato preventivo, non già perché un soggetto di diritto pubblico non possa essere insolvente, bensì perché per gli enti pubblici esistono rimedi specificamente approntati per risolvere e superare l’eventuale insolvenza: per gli enti pubblici economici la liquidazione coatta amministrativa; per gli enti pubblici non economici appositi sistemi di diritto pubblico interno e internazionale117. Ne consegue che le due norme in questione contengono disposizioni la cui ratio non eccede il particolare contesto al quale si riferiscono. Pertanto, esse sono da intendersi come eccezionali, dunque suscettibili di applicazione nei limiti tracciati dal loro tenore letterale118. Dal che discende l’importante corollario che nei confronti dell’impresa pubblica trova applicazione tutta la parte della disciplina dell’impresa per la quale non è stabilito diversamente (v., infra, ?)119. 115 Nel senso del testo, in luogo di molti, FRANCESCHELLI, Imprese, 119 s.; CIRENEI, Le imprese, 160 ss.; GENOVESE, La nozione, 221 ss. 116 In questo senso, già, PAVONE LA ROSA, Il registro delle imprese. Contributo alla teoria della pubblicità, Milano, 1954, 224, nt. 2; OTTAVIANO, op. cit., 675; più di recente, CIRENEI, Le imprese, 167. Nel senso, invece, che la pubblicità debba trovare comunque applicazione nei confronti dell’impresa-organo, COSTI, Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1968, I, 34 ss.; più di recente, NIGRO, Imprese, 666 s. 117 In questo senso, tra gli altri, GHIDINI, Lineamenti, 71; AULETTA, L’impresa, cit., 86 s. 118 MINERVINI, L’imprenditore, 210 ss.; GENOVESE, La nozione, 214 ss.; NIGRO, Imprese, 642 ss.; CAMPOBASSO, I, 78. 119 Diversamente, invece, ritenendo che dall’esenzione dalla pubblicità commerciale per gli enti pubblici non economici possa desumersi una più generale esenzione dalla disciplina specifica per le imprese commerciali, BIGIAVI, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, 40; adde, BONFANTE-COTTINO, Antonio Cetra 51 7.2. Segue: l’impresa privata. Passando all’impresa privata, conviene anzitutto precisare che con questa espressione si fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale di natura commerciale, che assume la forma giuridica di diritto privato: vale a dire, la persona fisica (impresa individuale), la società (impresa societaria) o un altro ente privato non societario (impresa collettiva non societaria). Se l’impresa assume la forma individuale, sembra che non si verifichino particolari ripercussioni con riguardo alla disciplina applicabile, ulteriori, cioè, rispetto a quelle già viste studiando le due categorie di impresa a rilevanza negativa (impresa agricola e piccola impresa). Se l’impresa assume la forma societaria, sembra potersi replicare la medesima conclusione. Con la precisazione tuttavia che se si tratta di società commerciale (società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società a responsabilità limitata e società azionarie: v., infra, ?) la disciplina della forma giuridica – che è la disciplina di una forma commerciale, vale a dire di una forma approntata sul presupposto di essere utilizzata quale veste giuridica delle attività commerciali – implementa alcune regole mutuate dalla disciplina dell’impresa: in particolare, l’obbligo di tenuta delle scritture contabili (artt. 2302, 2315, 2478, comma 1, 2421 e 2454) e l’obbligo di pubblicità commerciale (artt. 2296, comma 1, 2315, 2463, comma 3, 2330, comma 1 e 2454). Con la conseguenza che se una società commerciale viene impiegata per dare forma giuridica ad un’attività non commerciale (o, ove se ne ammetta la configurabilità, ad una piccola impresa: v., supra, ?) troveranno comunque applicazione le suddette regole della disciplina dell’impresa (non invece – ça va sans dire – la parte restante di quella disciplina), in quanto regole della forma giuridica120. Se l’impresa assume la forma di un altro ente privato non societario (gruppo europeo di interesse economico, consorzio tra imprenditori con attività esterna, rete d’impresa, associazione o fondazione del libro I), la conclusione è meno immediata. Ciò in quanto nella sistematica del codice civile manca qualsiasi riferimento in merito all’applicazione della disciplina dell’impresa nei confronti degli enti non societari, che invece si limita a considerare le sole varianti dell’impresa pubblica, impresa individuale e impresa societaria. Peraltro, la circostanza che il legislatore abbia riservato il più assoluto silenzio in proposito ha indotto per lungo tempo a dubitare della stessa ammissibilità dell’impresa collettiva non societaria121. Tuttavia, può ritenersi ormai pressoché acquisito che un ente non societario possa esercitare un’attività commerciale e che l’impresa possa essere il suo oggetto esclusivo, principale o secondario. In altri termini, può ritenersi acquisito che un ente non L’imprenditore, 520; GALGANO, I, 52 s. Perviene ad analoga conclusione, sul presupposto che l’impresa degli enti pubblici non economici rappresenti un caso di impresa senza imprenditore, FERRI, ?. 120 Il riferimento è a OPPO, Scritti, I, 128 ss. e 146 ss. 121 Per un quadro di sintesi, TIDU, Associazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1986, II, 501 ss. e 507 ss. 52 L’impresa societario – non diversamente da una società – possa esercitare un’impresa per il perseguimento del suo fine istituzionale122. In quest’ottica, è lasciato all’interprete (teorico e pratico) il compito di risolvere la questione relativa all’applicazione dell’impresa nei contesti adesso in esame. Al riguardo, giova ricordare che il profilo di tale questione maggiormente controverso attiene all’applicazione della disciplina dell’impresa alle associazioni e fondazioni del libro I. È fenomeno sempre più frequente che un’associazione o una fondazione si trovi ad esercitare un’attività commerciale, che può costituire il suo oggetto esclusivo, principale o secondario. Normalmente, tali enti esercitano un’impresa in quanto modalità diretta e immediata per realizzare il proprio scopo istituzionale. A titolo di esempio, si possono ricordare le fondazioni che gestiscono teatri; o le fondazioni che gestiscono collegi universitari, ospedali, case di cura; o, ancora, le associazioni che producono servizi di assistenza alle persone anziane o disabili; oppure le associazioni sportivo-dilettantistiche che gestiscono scuole sportive o organizzano pubblici spettacoli. Inoltre, si possono ricordare le associazioni culturali che gestiscono un punto vendita di oggetti correlati con il fine istituzionale perseguito (ad esempio, un’associazione che promuove la lettura e lo studio della letteratura italiana del ‘900 gestisce una libreria specializzata sugli autori del ‘900; un’associazione che promuove la passione per la musica classica gestisce una negozio di musica di quel genere; ecc.); e così via. Ma non è raro che siffatti enti esercitino un’impresa anche se in rapporto mediato e indiretto rispetto al proprio scopo istituzionale. A titolo di esempio, basti pensare all’associazione sportiva, culturale o ricreativa che gestisce un punto di ristoro o ad una fondazione filantropica che esercita un’attività commerciale per procacciarsi i mezzi finanziari da destinare a sostegno delle proprie finalità statutarie. Una prima corrente di pensiero, muovendo dalla constatazione che i fenomeni imprenditoriali adesso riguardati siano assimilabili alla impresa pubblica e, in particolare, condividano con quest’ultima il carattere non speculativo e l’essere a servizio di interessi generali e collettivi, prospetta l’applicazione del diritto dell’impresa in maniera non diversa da come è stabilita per l’ente pubblico e, quindi, a seconda che l’associazione o la fondazione eserciti l’impresa in via esclusiva o principale oppure solo in via secondaria123. Tuttavia, una simile conclusione non si presta ad essere condivisa, alla luce di quanto affermato supra nel par. precedente, soprattutto laddove si è detto che le particolari modalità di applicazione del diritto dell’impresa nei confronti dell’impresa pubblica rappresentano nient’altro che un adattamento alla forma giuridica pubblica rivestita dall’impresa, sicché non si giustificherebbero in un contesto differente. In particolare, non si giustificherebbe l’esonero dall’obbligo di pubblicità commerciale nei confronti delle associazioni e fondazioni che esercitano un’attività commerciale secondaria, atteso che non esiste un sistema di pubblicità reputato equivalente al registro delle imprese; così come non si giustificherebbe la sottrazione Sul punto, PIRAS, Nuove forme, 76 ss.; per altri riferimenti, CETRA, L’impresa, 42 ss. In questo senso, BIGIAVI, La professionalità, 86 ss.; adde, tra gli altri, GALGANO, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati. Art. 36-422, in Comm. Scialoja-Branca, 1978, 88 ss. e 99 ss. In giurisprudenza, seppur in obiter dictum, Cass., 18 settembre 1993, n. 9589, in Fallimento, 1994, 156. 122 123 Antonio Cetra 53 alle procedure concorsuali di fallimento e di concordato preventivo, nei confronti di tutte le associazioni e fondazioni, atteso che l’eventuale insolvenza resterebbe affidata a meccanismi inadeguati quali quelli del diritto comune124. Non a caso, può considerarsi ormai prevalente l’idea che la disciplina dell’impresa debba trovare applicazione nella sua interezza nelle associazioni e nelle fondazioni che esercitano un’attività commerciale, quale che sia la posizione o il ruolo assunto da quest’ultima (cioè, se attività esclusiva o principale oppure solo secondaria)125. E una conferma di questa conclusione sembra adesso emergere dalla recente disciplina dell’impresa sociale. 7.3. Segue: l’impresa sociale. Il d. lgs 24 marzo 2006, n. 155 utilizza l’espressione «impresa sociale» per qualificare due tipologie di fenomeni imprenditoriali (ex art. 2082). Un primo tipo di fenomeni sono quelli caratterizzati dalla circostanza che i beni e i servizi prodotti siano beni e servizi di utilità sociale, tali essendo i beni e i servizi prodotti e scambiati nei seguenti settori: assistenza sociale; assistenza sanitaria; assistenza socio-sanitaria; educazione, istruzione e formazione; tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; valorizzazione del patrimonio culturale; turismo sociale; formazione universitaria e post-universitaria; ricerca ed erogazione dei beni culturali; formazione extrascolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica ed al successo scolastico formativo; servizi strumentali alle imprese sociali (art. 2, comma 1). Un secondo tipo di fenomeni sono quelli che utilizzano nel proprio processo produttivo fattore lavoro proveniente in misura non inferiore al 30% del lavoro complessivo da lavoratori svantaggiati ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. f, punti i, ix e x Reg. 5 dicembre 2002, n. 2204 (giovani disoccupati, persone affette da dipendenze e ex detenuti) e/o lavoratori disabili ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. g, del medesimo regolamento 2204/2002 (persone disabili) (art. 2, comma 2)126. In questo senso, CETRA, L’impresa, 62 ss. e 68 ss. Per questa conclusione, in luogo di molti, MINERVINI, L’imprenditore, 220; COSTI, Fondazione, cit., 24 ss.; GATTI, L’impresa collettiva non societaria e la sua disciplina fallimentare, in Riv. dir. comm., 1980, I, 108 ss.; FARENGA, Esercizio di impresa commerciale da parte di enti privati diversi dalle società e fallimento, in Dir. fall., 1981, I, 222 ss.; COLUSSI, voce Impresa collettiva, in Enc. giur, XVI, 5; CAMPOBASSO, Associazioni e attività di impresa, in Riv. dir. civ., 1994, II, 589 ss.; MARASÀ, Contratti associativi e impresa. Attualità e prospettive, Padova, 1995, 146 s. e 173 s.; ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, 176 ss.; in giurisprudenza, da ultimo, Trib. Gorizia, 18 novembre 2011, in Fallimento, 2012, 722; Trib. Milano, 28 ottobre 2011, in Fallimento, 2012, 78; Trib. Alba, 25 marzo 2009, in Fallimento, 2009, 1427. 126 Sul punto, BUCELLI, Art. 2, in La nuova disciplina dell’impresa sociale. Commentario al d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di De Giorgi, Padova, 2007, 79 ss. 124 125 54 L’impresa Si tratta di iniziative che per lungo tempo sono state appannaggio esclusivo dell’intervento pubblico: solo lo Stato o altri enti pubblici locali operavano nei settori a rilevanza sociale più sopra menzionati o si preoccupavano dell’inserimento nel mondo del lavoro dei soggetti svantaggiati o disabili. Tuttavia, per diverse ragioni (tra le quali, anzitutto, i problemi di finanza pubblica), l’intervento pubblico è in corso di progressiva sostituzione con l’intervento privato: sempre maggiori sono gli spazi occupati dai privati nei settori ricordati nonché le iniziative private che perseguono fini di particolare benemerenza, come l’inserimento nel mondo del lavoro di soggetti svantaggiati o disabili. Peraltro, l’intervento privato è improntato non più soltanto a logiche erogative (cioè, caratterizzato dalla cessione gratuita o sottocosto dei beni e servizi prodotti), bensì anche a logiche economiche (cioè, caratterizzato dalla cessione dei beni e servizi a condizioni che consentono di recuperare quanto meno i costi dei fattori produttivi impiegati nel sottostante processo produttivo), sostanziandosi allora in una vera e propria iniziativa imprenditoriale127. Simili iniziative possono assumere in linea di principio tutte le forme giuridiche private (art. 1, comma 1). Siffatte forme devono peraltro essere causalmente compatibili con la possibilità di inserire nel loro statuto una clausola non lucrativa confezionata ai sensi dell’art. 3 d. lgs. 155/2006: una clausola che impone all’ente privato di svolgere l’iniziativa senza dar luogo ad alcuna produzione di utili ovvero di eterodestinare gli eventuali utili prodotti in conformità con gli scopi statutari oppure di mantenerli ad incremento del patrimonio128. In questa prospettiva, è di tutta evidenza che le imprese sociali possono essere gestite anzitutto da associazioni e fondazioni del libro I (che, come è noto, sono enti senza scopo di lucro), nelle quali devono figurare come oggetto esclusivo o principale (art. 1, comma 1). Inoltre, possono essere gestite anche da enti ecclesiastici (che pure sono enti senza scopo di lucro), nei quali devono figurare necessariamente come attività secondarie (art. 1, comma 3) (atteso che l’attività principale degli enti ecclesiastici dev’essere attività religiosa o di culto)129. Il d. lgs. 155/2006 stabilisce alcuni profili di disciplina dell’impresa sociale, i quali possono essere suddivisi idealmente in due gruppi: da un lato, ci sono regole dettate sul presupposto che l’iniziativa svolta abbia carattere sociale e si svolga nell’ambito di settori socialmente rilevanti (l’obbligo di inserire la clausola non lucrativa: art. 3; l’obbligo di improntare il rapporto sociale a principi di non discriminazione: art. 9; l’obbligo di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività: art. 12; l’obbligo di redigere e pubblicare il bilancio sociale: art. 10; il divieto disposto all’indirizzo di imprese private con finalità lucrative di acquisire posizioni di controllo: art. 4; la prescrizione di particolari requisiti per gli esponenti aziendali: art. 8); dall’altro, ci sono regole dettate sul presupposto che l’iniziativa posta in essere è un’impresa, tipicamente non agricola e, quindi, di natura commerciale (l’obbligo di pubblicità commerciale: art. 5; l’obbligo di tenuta delle scritture contabili: art. 10; l’assoggettamento alle procedure concorsuali in caso di insolvenza: art. 15). In questa sede, l’attenzione verrà concentrata esclusivamente sulle regole del secondo tipo e, segnatamente, sull’applicazione delle stesse nei confronti degli enti che svolgono l’impresa sociale. Sul punto, anche per i riferimenti, CETRA, L’impresa, 4 ss. e 13 ss. Al riguardo, CETRA, Impresa, 148 s., nt. 2. Sulla clausola non lucrativa di cui nel testo, CAPECCHI, Art. 3, in La nuova disciplina dell’impresa sociale. Commentario al d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di De Giorgi, Padova, 2007, 116 ss.; FICI, Art. 3, in Commentario al decreto sull’impresa sociale (d. lgs. 24 marzo 2006, 155), a cura di Fici-Galletti, Torino, 2007, 41 ss. 129 Sul punto, anche per gli altri riferimenti, FUSARO-COEN-FUCCILLO, Art. 1, in La nuova disciplina dell’impresa sociale. Commentario al d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di De Giorgi, Padova, 2007, 19 ss., 37 ss. e 49 ss. 127 128 Antonio Cetra 55 Al riguardo, è agevole constatare che tanto l’obbligo di pubblicità tanto l’obbligo di tenuta delle scritture contabili trovino applicazione, senza distinzione, nei confronti di tutti gli enti che esercitano un’impresa sociale (artt. 5, commi 2 e 4 e 10, commi 1 e 3): non solo, cioè, nei confronti degli enti che esercitano l’impresa in via esclusiva o principale (le associazioni e le fondazioni), ma anche nei confronti degli enti che esercitano l’impresa in via secondaria (ossia, gli enti ecclesiastici)130. Per contro, la conclusione non è altrettanto immediata per l’assoggettamento alle procedure concorsuali in caso di insolvenza, atteso che, in prima battuta, si dispone la liquidazione coatta amministrativa all’indirizzo di tutte le organizzazioni che esercitano l’impresa sociale, salvo, poi, aggiungere che tale disposizione non si applica agli enti ecclesiastici (art. 15, comma 1). Infatti, è evidente la ragione per cui la procedura concorsuale prescelta sia la liquidazione coatta amministrativa, ragione non diversa da quella che è tipicamente alla base di tale scelta tutte le volte che viene operata, vale a dire per via della presenza di un sistema di eterocontrollo pubblicistico. Ed invero, attraverso la liquidazione coatta, l’autorità amministrativa deputata al controllo sugli enti che esercitano un’impresa sociale (il Ministero del lavoro e delle politiche sociali) mantiene il suo potere (che, di conseguenza, non passa all’autorità giudiziaria) anche nel corso della gestione della crisi dell’impresa. E ciò con il preciso obiettivo di propiziare la soluzione della crisi, senza trascurare gli interessi generali, a spiccata colorazione pubblicistica, a vario titolo sollecitati da un’iniziativa a rilevanza sociale (i finanziatori esterni a titolo di liberalità; i beneficiari dei beni e servizi resi; i lavoratori svantaggiati e/o disabili eventualmente impiegati nell’impresa; ecc.): più precisamente, in modo da contemperare questi ultimi interessi con gli altri tipicamente coinvolti da un’iniziativa di natura imprenditoriale (i finanziatori esterni con vincolo di restituzione; i fornitori di materie prime; gli altri lavoratori; ecc.), senza correre il rischio che ai primi venga riservata una posizione deteriore rispetto ai secondi e, in particolare, a vantaggio dei creditori. Invece, potrebbe non essere altrettanto evidente la ragione dell’esenzione disposta all’indirizzo degli enti ecclesiastici, con il rischio di generare equivoci. Essa è da intendersi come esenzione dalla procedura di liquidazione coatta amministrativa, data l’incompatibilità tra quest’ultima procedura concorsuale (che è una procedura con finalità estintiva) e l’ente ecclesiastico (sulle cui vicende estintive l’ordinamento italiano non può in alcun modo disporre). Viceversa, essa non può intendersi come esenzione più generale dalle procedure concorsuali, solo che si ricordi che un ente ecclesiastico è assoggettato all’ordinamento statuale per tutte le attività diverse da quelle di religione e di culto poste in essere. Sicché, l’ente ecclesiastico sarà assoggettato alla disciplina dell’impresa per le iniziative imprenditoriali svolte e, tra queste, per le imprese sociali: ad una disciplina, cioè, che prevede l’assoggettamento alle procedure concorsuali in caso di insolvenza, benché, nel caso di specie, esclusivamente alle procedure prive di finalità estintiva (quindi, tipicamente, al fallimento)131. 130 Sul punto, anche per altri riferimenti, FUSARO, Art. 5 e BAGNOLI, Art. 10, in in La nuova disciplina dell’impresa sociale. Commentario al d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di De Giorgi, Padova, 2007, 169 ss. e 241 ss. 131 Per questa conclusione, CETRA, Impresa, 197 ss. Diversamente, GALLETTI, Art. 15, in Commentario al decreto sull’impresa sociale (d. lgs. 24 marzo 2006, 155), a cura di Fici-Galletti, Torino, 2007, 216 ss. 56 L’impresa § 3. L’impresa e le professioni intellettuali. LETTERATURA: AFFERNI, voce Professioni III) Professioni intellettuali – Diritto commerciale, in Enc. giuridica, XVIII, Roma, 1989; FARINA, Esercizio di professione intellettuale ed organizzazione ad impresa, in Impresa e società. Scritti in memoria di Graziani, V, Napoli, 1967, 2089; GUIZZI, Il concetto di impresa tra diritto comunitario, legge antitrust e codice civile, in Riv. dir. comm., 1993, I, 279; IBBA, Professione intellettuale e impresa, in Riv. dir. civ., 1982, II, 353 e 558; 1983, II, 331; 1985, II, 53; ID., La categoria «professione intellettuale», in Ibba-Latella-Piras-De Angelis-Macri, Le professioni intellettuali, Torino, 1987, 3; ID., Professioni intellettuali e diritto commerciale, in Ibba-Latella-Piras-De Angelis-Macri, Le professioni intellettuali, Torino, 1987, 269; MUSOLINO, Contratto d’opera professionale. Artt. 2229-2238, in Il codice civile. Commentario, fondato da Schlesinger e diretto da Busnelli, Milano, 2009.; SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società nell’esercizio delle professioni intellettuali, Milano, 1974. Occorre spostare adesso l’attenzione sul rapporto che intercorre tra il fenomeno imprenditoriale e, in particolare, l’impresa commerciale (non piccola o medio-grande) e un altro fenomeno produttivo, con riguardo al quale è da sempre incerto se possa a sua volta qualificarsi come imprenditoriale e, quindi, sia riconducibile o resti ai margini del perimetro della fattispecie imprenditoriale disciplinata: le professioni intellettuali. Occorre muovere dalla premessa che anche le professioni intellettuali, come l’impresa, sono fenomeni produttivi che si presentano nella forma dell’attività produttiva, vale a dire sono immaginabili come una successione di comportamenti, coordinati strutturalmente e funzionalmente, ossia teleologicamente orientati rispetto al raggiungimento di un determinato risultato socialmente apprezzabile in termini di prestazione professionale. In quest’ottica, ai fini che qui interessano, bisogna verificare se tra i due fenomeni produttivi, le professioni intellettuali e l’impresa, c’è o meno coincidenza sul piano ontologico. Infatti, se non c’è coincidenza, il discorso finisce qui. Invece, se c’è coincidenza, bisogna verificare qual è il trattamento normativo delle professioni intellettuali e, in particolare, se sono assoggettate o meno alla disciplina dell’impresa. Al riguardo, sembra ragionevole ritenere che il legislatore del ’42 abbia considerato i due fenomeni così come si presentavano nella tipologia della realtà del tempo: in particolare, abbia rilevato una sostanziale diversità tra essi e, di conseguenza, si sia orientato per un trattamento normativo profondamente diverso. Peraltro, è agevole constatare come i due fenomeni ad oggi non appaiano sempre diversi, nel senso che nell’attuale tipologia della realtà, le professioni, in molti casi, continuano a restare fenomeni differenti dall’impresa ma, in altri casi, sono fenomeni in tutto e per tutto coincidenti con l’impresa. Nondimeno, il trattamento normativo delle professioni Antonio Cetra 57 sembra restare insensibile alla circostanza che il relativo fenomeno possa manifestarsi in molteplici configurazioni. Pertanto, quest’ultimo, quand’anche assuma i connotati dell’impresa, sembra figurare comunque come un «fatto» estraneo al diritto commerciale, dovendosi allora comprendere, da un lato, le ragioni di questo diverso trattamento rispetto all’impresa, dall’altro, i presupposti in presenza dei quali si può beneficiare di detto trattamento. Questo eventuale diverso trattamento normativo appare tuttavia per certi versi già attenuato su iniziativa del diritto comunitario e della relativa elaborazione giurisprudenziale, atteso che, come sarà dimostrato, le professioni intellettuali rientrano nella nozione d’impresa comunitaria, che costituisce il presupposto di vertice della disciplina (non solo comunitaria ma anche interna) antitrust. Sicché, le professioni, in quanto imprese nell’accezione comunitaria, sono assoggettate quanto meno alla disciplina antitrust. 1. Il rapporto tra impresa e professioni intellettuali. Le professioni intellettuali sono fenomeni produttivi che si sostanziano nella produzione di servizi professionali: l’assistenza, la rappresentanza e la difesa in giudizio (servizio professionale prodotto dall’avvocato); la progettazione di un immobile (servizio professionale prodotto dall’ingegnere); il design degli interni di un’abitazione (servizio professionale prodotto dall’architetto); la diagnosi di una malattia e la prescrizione della relativa cura (servizio professionale prodotto dal medico); ecc. Esse si distinguono in professioni protette e in professioni non protette: le prime, a differenza delle seconde, sono regolate da una propria specifica disciplina, la quale si aggiunge ad una disciplina più generale contenuta nel capo II del titolo III del libro V del codice civile (artt. 2229 ss.); le seconde, oltre a non avere una propria specifica disciplina, possono anche derogare alla disciplina generale contenuta nel capo II del titolo III del libro V del codice civile (artt. 2229 ss.)132. Ai nostri fini, interessa, non tanto soffermarsi sulla disciplina (specifica o generale) testé menzionata, quanto piuttosto comprendere se a questa disciplina possa aggiungersi la disciplina dell’impresa. E, in questa prospettiva, appare senz’altro utile accertare il rapporto che intercorre tra le professioni intellettuali e l’impresa sul piano ontologico, cioè verificare se le prime siano un fenomeno produttivo differente o coincidente con la seconda. Infatti, è evidente che una simile questione non si porrebbe nemmeno nella prima ipotesi; si porrebbe invece solo nella seconda133. Per un quadro d’insieme sulla disciplina delle professioni intellettuali, LEGA, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, Milano, 1974, 119 ss. e 477 ss.; più di recente, MUSOLINO, Contratto d’opera, 3 ss. e 47 ss. 133 L’impostazione è adottata in particolare da FARINA, Esercizio, 2096 ss. Successivamente, anche da GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggio sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998, 174 ss.; BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, Sez. I – Tomo 2.1, 2002, 129 ss. e 551. 132 58 L’impresa Giova muovere dalla constatazione che le professioni intellettuali sono un fenomeno produttivo che può dirsi integrato già quando viene reso un singolo servizio professionale134. Sicché, se un soggetto si limita a svolgere la professione intellettuale di tanto in tanto, producendo singoli servizi professionali (si pensi al professore universitario in materie giuridiche che una o un paio di volte l’anno patrocina in giudizio una controversia), si realizza un fenomeno che costituisce specificazione dell’attività produttiva occasionale, quindi dell’attività che non è esercitata «professionalmente» ex art. 2082. Nondimeno, l’ipotesi più frequente è quella di un soggetto che svolge la professione intellettuale a tempo pieno, non, cioè, sporadicamente o occasionalmente, producendo servizi professionali in maniera sistematica e continuativa (si pensi a chi fa l’avvocato quale occupazione principale). In tal caso, è evidente che si realizza un fenomeno che è un’attività esercitata «professionalmente» ex art. 2082 e, quindi, sotto il profilo riguardato, assimilabile all’impresa. Occorre ancora constatare che le professioni intellettuali possono essere un’attività produttiva che si sviluppa attraverso il solo lavoro del professionista. Anzi, può essere non casuale il fatto che le professioni intellettuali siano state collocate nel capo II del titolo III del libro V del codice, ossia come caso particolare di lavoro autonomo. Evidentemente, il legislatore del ’42 aveva presente un fenomeno di questo tipo, cioè un fenomeno che condivideva con il lavoro autonomo in senso stretto la circostanza di svilupparsi attraverso il solo lavoro del titolare: sebbene, nel primo caso, lavoro speculativo-intellettivo; nel secondo, lavoro manuale. In altre parole, la collocazione delle professioni intellettuali nella sistematica del codice induce a pensare che il legislatore del ’42 facesse riferimento ad un’attività produttiva in cui il lavoro (speculativo intellettuale) del professionista fosse, non solo necessario, ma anche sufficiente, pertanto, ad un’attività produttiva non qualificabile come «organizzata» ex art. 2082135. Le professioni quali prefigurate dal legislatore del ’42 non esauriscono peraltro le fattezze che le stesse possono assumere nell’attuale tipologia della realtà. Anzi, al giorno d’oggi è senz’altro più verosimile che il professionista si avvalga di veri e propri fattori produttivi: si pensi ad un avvocato che ha una segretaria o dei collaboratori; o ad un ingegnere o ad un architetto che utilizzano un programma di progettazione particolarmente sofisticato e costoso che consente loro di elaborare diversi progetti in tempi rapidi; o ad un medico che utilizza macchinari molto sofisticati e costosi che gli consentono di pervenire a diagnosi in termini più oggettivi. Pertanto, se dall’attuale tipologia della realtà emerge che la professione (non deve ma) può essere un’attività «organizzata» nell’accezione di cui all’art. 2082, ne consegue che per vedere se questo fenomeno è almeno idealmente riconducibile a quello qui riguardato occorre accertare se il lavoro del professionista è o meno prevalente rispetto agli altri fattori, ossia qual è la dimensione dell’organizzazione In questo senso, MASI, Articolazioni dell’iniziativa economica e unità dell’imputazione giuridica, Napoli, 1985, 42 s. e 115 ss. E v., anche, BUSSOLETTI, Le società di revisione, Milano, 1985, 118 ss. IBBA, La categoria, 12 s. 135 In questo senso, GRAZIANI, L’impresa e l’imprenditore2, Napoli, 1959, 26. Altri riferimenti alla dottrina parimenti orientata in IBBA, Professione intellettuale, 373 s. 134 Antonio Cetra 59 impiegata nell’attività professionale: in altri termini, se l’organizzazione resta o meno al di sotto del livello di piccolezza segnato dall’art. 2083136. In quest’ottica, è agevole rendersi conto che le professioni intellettuali possono assumere fattezze sia del primo sia del secondo tipo. Ed invero, se ci sono alcuni casi in cui il lavoro del professionista può dirsi comunque preminente rispetto agli altri fattori (che di conseguenza restano ancillari); ci sono altri casi in cui il lavoro del professionista può essere senz’altro sostituito dall’organizzazione, fino a rendere, cioè, l’intervento esecutivo del professionista pressoché o del tutto irrilevante. Si pensi al grande studio legale caratterizzato dalla presenza di decine e decine di avvocati, tutti in grado di assistere il cliente in tutto e per tutto; o allo studio di un medico ematologo dotato di macchinari in grado di effettuare l’intera analisi del prelievo sanguigno e di pervenire alla diagnosi: in altri termini, ai casi in cui l’attività professionale può senz’altro realizzarsi, anche a prescindere dalla presenza o dalla concreta partecipazione del professionista. Ebbene, in queste ultime ipotesi, la dimensione dell’organizzazione impiegata nell’attività professionale è al di sopra del livello di piccolezza tracciato dall’art. 2083: l’attività professionale, in ragione della sua natura non agricola, è pertanto potenzialmente riconducibile all’impresa commerciale (non piccola o medio-grande)137. Infine, occorre constatare che le professioni intellettuali sono senz’altro un’«attività economica» ex art. 2082. Anzi, non bisogna avere troppa immaginazione per rendersi conto che si tratta normalmente di un’attività lucrativa, in cui, cioè, il servizio è ceduto ad un prezzo (ben) superiore rispetto al costo sostenuto (benché poi non sia per nulla agevole quantificare qual è il costo dell’attività intellettuale)138. Pertanto, alla luce di quanto precede, la professione intellettuale è un attività produttiva che ormai può presentare tutti e tre i requisiti che ne consentono la qualificazione in termini di impresa ai sensi dell’art. 2082 e, in particolare, può trattarsi di impresa non piccola e, in ragione della sua natura, di impresa commerciale. Sicché, 136 Nel senso che le professioni intellettuali possono essere assimilate al più alle piccole imprese, seppur con diverse argomentazioni, RAVA, La nozione giuridica di impresa, Milano, 1949, 72 ss.; FERRARA jr., La teoria giuridica dell’azienda2, Ristampa, Milano, 1982, 72 ss.; ZANELLI, La nozione di oggetto sociale, Milano, 1962, 158; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 23 ss.; CASANOVA, Impresa e azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974, 24; AFFERNI, voce Professioni, 3. Altri riferimenti sempre in IBBA, Professione intellettuale, 374 ss. 137 In questo senso, CAMPOBASSO, I, 44; GALGANO, voce Imprenditore, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commeciale4, VII, 5 s.; ID., I, 14 s. Diversamente, invece, SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 23 ss., secondo il quale anche qualora la prestazione del servizio si avvalga di un’organizzazione imprenditoriale sussisterebbe comunque una diversità ontologica rispetto all’impresa da ricercarsi nell’unicità del servizio reso. 138 In questo senso, per tutti, CAMPOBASSO, I, 44. Tuttavia, la sussistenza del requisito di economicità è stato a lungo controversa e, essenzialmente, negata sulla base di diverse motivazioni (PORZIO, Il farmacista imprenditore, in Dir. giur., 1967, 379; BIONE, L’impresa ausiliaria, Padova, 1972, 108 ss., testo e nt. 62 e 65, secondo i quali il carattere economico e, specialmente, lucrativo del servizio passa in secondo piano in considerazione del fatto che il servizio professionale è anzitutto un servizio alla collettività; SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 35 ss., secondo il quale il carattere economico e, specialmente, lucrativo del servizio è finalizzato ad assicurare un’etica adeguata del servizio). E nel senso che l’economicità sarebbe diversa nell’impresa e nelle libere professioni, sul presupposto che solo nella prima ma non nelle seconde vi sarebbe un vincolo normativo dell’agire economico, LOFFREDO, Economicità e impresa, Torino, 1999, 122 ss. 60 L’impresa se può esservi coincidenza tra i due fenomeni – da un lato le professioni intellettuali dall’altro l’impresa commerciale (non piccola) – al ricorrere di una siffatta coincidenza bisogna allora vedere quali sono le implicazioni che conseguono sul piano della disciplina applicabile. 2. L’art. 2232 c.c. Conclusioni. Sebbene non manchi chi sia dell’avviso che ove le professioni intellettuali siano organizzate in forma d’impresa debbano essere assoggettate alla relativa disciplina139, l’opinione senz’altro prevalente milita in senso contrario, sul presupposto che una diversa conclusione sarebbe preclusa dalla disposizione contenuta nell’art. 2238, comma 1140. Infatti, l’art. 2238, comma 1 subordina l’applicazione delle disposizioni contenute nel titolo II (comprendenti lo statuto dell’impresa commerciale) alla condizione che l’esercizio della professione costituisca elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa: condizione, quest’ultima, che viene intesa come allusiva all’ipotesi in cui la professione rappresenti un fattore produttivo di una più ampia attività organizzata in forma d’impresa, in cui, cioè, il servizio professionale sia realizzato a favore di o confluisca in un’attività imprenditoriale. A titolo di esempio, s’immagini un ingegnere o un architetto che fanno progetti in seno alla propria impresa edile (che è un’attività che non si limita a produrre un servizio professionale ma qualcosa di più complesso); o il medico che presta assistenza all’interno della propria clinica (che è sempre un’attività che non si limita a produrre un servizio professionale ma qualcosa di più complesso)141. Pertanto, alla luce di una siffatta interpretazione dell’art. 2238, comma 1, se ne deve dedurre che non troverà applicazione il titolo II nei casi in cui l’attività produttiva si esaurisca nella realizzazione di un servizio professionale, cioè nei casi in cui si tratti di una prestazione intellettuale tout court. In quest’ottica, la norma in esame traccerebbe un confine dell’ambito di applicazione della disciplina dell’impresa, in particolare tenendo fuori da quest’ambito le professioni intellettuali comunque esse si configurino, a prescindere, cioè, dalle modalità di realizzazione della prestazione: il che poteva avere un senso al tempo in cui la norma è stata scritta ma appare oggi averne molto 139 Per questa conclusione, soprattutto, FARINA, Esercizio, 2110 ss.; GLIOZZI, op. cit., 176 s.; BUONOCORE, op. cit., 129 ss.; sostanzialmente, AFFERNI, voce Professioni, 4 s.; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990, 52 ss. 140 ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 170; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983, 146; SPADA, voce Impresa, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4, VII, 54 s.; ID., I, 52 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001, 448 ss.; CAMPOBASSO, I, 44 s.; LIBONATI, 17; PRESTI-RESCIGNO, I, 22. 141 Per questa interpretazione dell’art. 2238 gli A. citati nella nota precedente. Per un quadro di sintesi del dibattito sorto attorno ad una norma, definita tra le più oscure dell’intero codice (SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 9 ss.), IBBA, Professioni intellettuali, ?. Antonio Cetra 61 meno, se si considera che le attuali professioni intellettuali possono essere fenomeni in tutto e per tutto coincidenti con l’impresa142. Ne consegue che l’art. 2238, comma 1, se interpretato nel modo che si è appena ricordato, è da intendersi come una norma che costituisce una sorta di privilegio a favore di una figura soggettiva o di una categoria di soggetti, privilegio del quale può beneficiare solo chi integra tale figura soggettiva o appartiene alla relativa categoria: vale a dire, i professionisti intellettuali143. Ed invero, si tratta di soggetti comunque sottratti alla disciplina dell’impresa in quanto tali e perché tali, anche, cioè, qualora essi pongano in essere un fenomeno che in sé considerato non avrebbe ragione di andare esente da detta disciplina144. Il corollario che se ne trae è che bisogna far ricorso ad un criterio oggettivo per individuare la figura soggettiva o la categoria dei professionisti intellettuali, criterio che viene ravvisato nella circostanza che nello svolgimento dell’attività e nella cessione del servizio che ne deriva venga utilizzata una particolare tipologia di contratti, ossia il contratto d’opera intellettuale. Un contratto, quest’ultimo, che sul piano della fattispecie è connotato dai requisiti di cui agli artt. 2230 e 2232: vale a dire, da un minimo di intellettualità nello sforzo professionale profuso nella produzione del servizio e da un minimo di personalità nella prestazione145. Pertanto, un soggetto non sarà qualificabile come professionista intellettuale nel caso in cui non utilizzi il contratto d’opera intellettuale quale mezzo negoziale di cessione dell’oggetto della sua produzione, cioè un contratto nel quale non ricorrano entrambi i due elementi caratterizzanti il contratto d’opera intellettuale: la intellettualità e la personalità 146. In quest’ottica, ad esempio, è orami pacifico che il farmacista non sia un professionista intellettuale, in quanto il mezzo negoziale utilizzato nei rapporti con il mercato è un contratto non più qualificabile come contratto d’opera intellettuale, difettando, essenzialmente, del requisito dell’intellettualità147. Con la conseguenza che il farmacista pone in essere un’attività che è senz’altro un’impresa commerciale, la quale sarà assoggettata alla relativa Sottolinea la non più attuale giustificazione dell’esonero delle libere professioni dal diritto dell’impresa, tra gli altri, SPADA, voce Impresa, cit., 54 s.; ID., I, 53 ss.; BONFANTE-COTTINO, op. cit., 450; GALGANO, I, 15; PRESTI-RESCIGNO, 21 s.; in senso dubitativo, CAMPOBASSO, I, 43. 143 SPADA, voce Impresa, 54; ID., I, 54 s.; CAMPOBASSO, I, 44; GALGANO, I, 15. 144 In questi termini, ancora, SPADA, I, 54 s. 145 Così, SPADA, I, 52 s.; e, sostanzialmente, sull’assunto che gli artt. 2229 ss. sono, non tanto la normativa di un contratto, quanto piuttosto di un’attività, che costituisce lo statuto della del professionista intellettuale, SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 30 ss.; riferendosi invece al carattere eminentemente intellettuale dei servizi prestati, CAMPOBASSO, I, 45. 146 In altre parole, allorché un soggetto utilizza uno schema contrattuale di tipo diverso dal contratto d’opera intellettuale (come ad esempio un appalto di servizi) esce dalla classe dei professionisti intellettuali per accedere a quella degli imprenditori: così, con specifico riferimento ai soggetti che esercitano una professione non protetta, SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 30 ss.; GALGANO, I , 17 s. In quest’ottica, non manca chi comincia a qualificare come imprenditoriale le attività creative ed artistiche (BERTANI, Impresa culturale e diritti esclusivi, Milano, 2000, 61 ss.), tradizionalmente annoverate tra le professioni intellettuali (in luogo di molti, ASCARELLI, op. cit., 168 s.; ZANELLI, op. cit., 241 ss.; SPADA, voce Impresa, cit., 53 s.; CAMPOBASSO, I, 44), adducendo che l’autore o l’artista utilizza schemi contrattuali che non possono essere qualificati o ricondotti al contratto d’opera intellettuale. In generale, sul contratto d’opera intellettuale, da ultimo, MUSOLINO, Contratto d’opera, 77 ss. 147 In dottrina, per tutti, PORZIO, op. cit., 373 ss. In giurisprudenza, da ultimo, Cass., 3 agosto 2007, n. 17116, in Vita not, 2007, II, 794. 142 62 L’impresa disciplina nel caso in cui essa non sia una piccola impresa. Non è per contro agevole comprendere quale sia il livello al di sotto del quale può considerarsi mancante il requisito della personalità, al riguardo ritenendosi sufficiente anche la mera assunzione di paternità del servizio (cioè, ad esempio, sottoscrivendo un documento da altri concretamente realizzato)148. 3. Le tendenze a favore dell’assimilazione dei due fenomeni sul piano della fattispecie. La nozione comunitaria di impresa. La conclusione riferita poc’anzi in merito all’assoggettamento delle professioni intellettuali alla disciplina dell’impresa e il conseguente privilegio che si configura in capo ai professionisti intellettuali sembrano presentare tuttavia qualche segno di cedimento. Infatti, l’esenzione delle professioni intellettuali dalla disciplina dell’impresa non può affermarsi più con riferimento ad ogni istituto che costituisce quella disciplina e, in particolare, alla parte relativa all’antitrust (l. 10 ottobre 1990, n. 287). Come si vedrà a suo tempo (v., infra, ), la disciplina antitrust individua precetti comportamentali destinati agli operatori economici, diretti ad evitare che questi ultimi, attraverso accordi reciproci o abusando della posizione di potere acquisita, modifichino la struttura di mercato, determinando il passaggio da un modello concorrenziale ad un modello oligopolistico o monopolistico, ovvero traggano eccessivo vantaggio da un mercato che ha assunto la forma oligopolistica o monopolistica. Tale disciplina si riferisce ad operatori economici qualificati come «imprese» (cfr. artt. 2, 3, 5, 7 e 8 l. 287/1990). Peraltro, va detto che ai sensi dell’art. 1, comma 4, l. 287/1990 l’interpretazione delle norme che costituiscono la disciplina in questione dev’essere effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle comunità europee in materia di concorrenza. E un siffatto criterio interpretativo dev’essere utilizzato anzitutto per l’identificazione dei referenti soggettivi destinatari dei precetti comportamentali: vale a dire, le imprese: che allora devono individuarsi nei fenomeni qualificabili come imprese secondo l’ordinamento comunitario, cioè i fenomeni che rientrano nella nozione comunitaria di impresa149. Giova osservare che l’ordinamento comunitario non contiene una norma che stabilisce la nozione di impresa. Si tratta di una nozione di matrice giurisprudenziale, cioè frutto dell’elaborazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee. E si tratta di una nozione che fa riferimento a fenomeni senz’altro diversi da quelli che sottendono alla nozione d’impresa che abbiamo esaminato nelle pagine che precedono, per MUSOLINO, Contratto d’opera, 209 ss. E v., anche, VISCUSI, La società tra avvocati: il regime della responsabilità patrimoniale, professionale e disciplinare, in Le società tra avvocati, a cura di De Angelis, Milano, 2003, 209 s. 149 In luogo di molti, anche per gli altri riferimenti, ALESSI(-OLIVIERI), La disciplina della concorrenza e del mercato, Torino, 1991, 12 ss.; GIANNELLI, Impresa pubblica e privata nella legge antitrust, Milano, 2000, 82 ss. 148 Antonio Cetra 63 certi versi più ampia (cioè, ricomprendendo più fenomeni) per certi versi più stretta (cioè, ricomprendendone meno). Più in particolare, si tratta di una nozione che (come tutte le nozioni di impresa: v., supra, ) è inferita dall’interprete (al pari di quelle stabilite direttamente dal dato normativo) nell’ottica di fissare il presupposto per l’applicazione di una certa disciplina. È perciò una nozione funzionale all’applicazione di una certa disciplina, vale a dire la disciplina (europea) della concorrenza (cfr. Titolo VII Capo 1 del Trattato FUE e Regolamento 30 aprile 2004, n. 139)150. In questa prospettiva, va da sé che la nozione comunitaria di impresa debba alludere ad un fenomeno produttivo che abbia un certo impatto sul mercato, ossia che possa avere un mercato di riferimento, nel quale sia possibile tenere condotte che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza151. In quest’ottica, è evidente che un fenomeno produttivo che abbia la suddetta caratteristica può anche essere un fenomeno produttivo privo dei requisiti che ne consentono la qualificazione come impresa ex art. 2082152. Si consideri un’attività produttiva priva del requisito della professionalità, cioè un’attività occasionale. Anche l’attività occasionale può avere un mercato di riferimento, nel quale il titolare della stessa potrebbe assumere condotte in grado di incidere in senso restrittivo sul gioco della concorrenza. Un esempio che emerge dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia è rappresentato dal licenziatario di marchi (= soggetto che consente ad altri di utilizzare uno o più dei suoi marchi regolarmente registrati attraverso una licenza: v., infra, ), cioè un soggetto che svolge un’attività tendenzialmente occasionale, ossia non reiterabile, che tende ad esaurirsi una volta accordata la licenza. La Corte ravvisa in una simile figura un fenomeno qualificabile come impresa e, di conseguenza, non esita a condannare la stessa per abuso di posizione dominante, allorché essa subordini il rilascio della licenza a condizioni economiche non eque e discriminanti tra i diversi contraenti153. Si consideri ancora un’attività produttiva priva del requisito dell’organizzazione, cioè un’attività fondata esclusivamente sul lavoro del titolare. Anche una tale attività può avere un mercato di riferimento, nel quale il titolare potrebbe tenere condotte in grado di incidere in senso restrittivo sul gioco della concorrenza. Un esempio che emerge dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia è rappresentato dal produttore di marchi (= soggetto che produce un segno distintivo essenzialmente con il suo lavoro personale) o dal titolare di brevetti (= soggetto che realizza invenzioni essenzialmente con il suo lavoro personale). La Corte ravvisa in tali figure un fenomeno qualificabile come impresa e, di conseguenza, non esita a 150 In questi termini, VENEZIA, in CASSOTTANA-NUZZO Lezioni di diritto commerciale comunitario 2, Torino, 2006, 268; LIBERTINI(-MAZZAMUTO), L’impresa e le società, in Manuale di diritto privato europeo, a cura di Castronovo-Mazzamuto, III, Milano, 2007, 22 ss.; GIANNELLI, voce Impresa comunitaria, in Enc. giur., XVIII, 2 s.; MAZZONI, La nozione di impresa nel diritto antitrust, in 20 anni di antitrust. L’evoluzione della autorità garante delle concorrenza e del mercato, I, a cura di Rabitti BodogniBarucci, Torino, 2010, 496 ss. 151 Il punto è sottolineato dalla Corte di Giustizia a partire dal caso Hofner (Corte di Giustizia, 23 aprile 1990, C-41/90). Per l’evoluzione della giurisprudenza della Corte sulla nozione di impresa, VENEZIA, op. cit., 271 ss.; e, soprattutto, DE DOMINICIS, Concorrenza e nozione di impresa nella giurisprudenza comunitaria, Napoli, 2005, 70 ss. e 161 ss. 152 Il punto è molto ben dimostrato da GUIZZI, Il concetto di impresa, 285 ss. e 298 ss. 153 Corte di Giustizia, 30 gennaio 1985, C-35/83, in Foro it., 1986, IV, 65; Corte di Giustizia, 22 giugno 1994, C-9/93, in Giust. civ., 1994, I, 2383. 64 L’impresa condannare le stesse per abuso di posizione dominante, allorché consentono lo sfruttamento economico del marchio o del brevetto a condizioni non eque e discriminanti154. Parzialmente diverso è invece il discorso che riguarda un’attività produttiva priva del requisito di economicità, cioè un’attività di erogazione. È evidente che una tale attività non ha alcun impatto sul mercato perché per essa non può essere immaginato un mercato di riferimento, con la conseguenza che non rientra nella nozione ora in esame. Tuttavia, occorre precisare che neanche l’attività meramente economica, cioè che si svolge con un metodo che consente di pervenire al pareggio tra ricavi e costi, sembra potersi considerare come fenomeno rientrante nella nozione ora in esame. La ragione di siffatta conclusione non si rinviene nel fatto che non sia immaginabile un mercato di riferimento (si pensi, ad esempio, al mercato dei beni e dei servizi di utilità sociale). Il motivo è che pare difficile pensare che nel relativo mercato possano realizzarsi i tipici comportamenti rilevanti per la disciplina antitrust (le intese; l’abuso di posizione dominante): comportamenti, questi ultimi, tipicamente prefigurabili solo nei confronti di chi cerchi di accrescere il proprio profitto, a scapito degli operatori concorrenti e, in ultima istanza, degli utenti finali dei beni e servizi 155. Sicché, sembra ragionevole ritenere che le attività economiche che rientrano nella nozione comunitaria di impresa siano, in realtà, delle vere e proprie attività lucrative156, cioè attività che si svolgono con metodo lucrativo, a prescindere, poi, dalla destinazione che all’utile conseguito si voglia o si debba imprimere: se egoistica o se altruistica157. Occorre ancora precisare che non dev’esserci necessariamente corrispondenza biunivoca tra i fenomeni produttivi che rientrano nella nozione comunitaria di impresa e una figura soggettiva. In altri termini, i primi non devono essere necessariamente riferiti ad un soggetto. Un fenomeno è qualificabile come impresa solo se ha impatto sul mercato ed anche se non è riconducibile ad un centro autonomo di imputazione. In quest’ottica, la Corte di Giustizia attribuisce la qualifica di impresa all’attività di gruppo nel suo insieme, quindi all’attività che le singole componenti del gruppo svolgono all’esterno del gruppo, senza considerare l’attività che viene svolta solo all’interno del gruppo medesimo158. Ebbene, nella nozione comunitaria di impresa rientrano senz’altro fenomeni che si è visto essere esclusi dalla nozione interna di impresa e, quindi, ai sensi dell’art. 1 comma 4, l. 287/1990 si considerano fenomeni che ricadono nell’ambito di applicazione della legge antitrust. In particolare, nella nozione comunitaria di impresa rientrano tutti i fenomeni compresi nel titolo III del libro V del codice civile, vale a dire sia il lavoro autonomo sia le professioni intellettuali. 154 Corte di Giustizia, 8 giugno 1982, C-258/78, in Foro it., 1983, IV, 38; Corte di Giustizia, 25 febbraio 1986, C-193/83, in Giur. dir. ind., 1987, 901; Corte di Giustizia, 27 settembre 1989, C-65/86, in Foro it., 1989, IV, 461. 155 In realtà, tali comportamenti possono essere realizzati anche da associazioni di imprese prive di finalità speculative ma essi vengono posti in essere per avvantaggiare quanto meno indirettamente le imprese che vi aderiscono: Corte di Giustizia, 31 ottobre 1974, C-71/74. 156 Dello stesso avviso, GIANNELLI, Impresa pubblica, cit., 142 ss. e 179 ss. 157 Nel senso che lo scopo di un ente sia irrilevante ai fini dell’applicazione della disciplina antitrust, MARCHETTI, Spunti su enti non profit e disciplina del mercato, in Studi in onore di Cottino, I, Padova, 1997, 102 ss. 158 Per i riferimenti, VENEZIA, op. cit., 269; GIANNELLI, voce Impresa comunitaria, cit. 6, che, tra l’altro, sottolineano come la Corte di Giustizia neghi la qualifica di impresa alla condizione che le componenti di un gruppo non godano di autonomia decisionale e, quindi, non possano entrare in concorrenza tra di loro (non esitando a riconoscerla, invece, laddove le componenti del gruppo mantengano la loro autonomia decisionale e gestionale). Antonio Cetra 65 Peraltro, con riguardo al lavoro autonomo una tale conclusione è ormai finanche codificata dal dato normativo, in particolare nell’art. 3, comma 2, d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 30, il quale dispone espressamente l’equiparazione tra il lavoro autonomo e l’impresa, ai fini della disciplina sulla concorrenza. Invece, con riguardo alle professioni intellettuali la conclusione è acquisita solo a livello interpretativo159 e, in particolare, a seguito dell’elaborazione giurisprudenziale, la quale non esita ad assoggettare le professioni intellettuali al diritto antitrust160: in tal modo reputando gli ordini professionali come associazioni tra imprese; gli esami di abilitazione all’esercizio delle professioni come barriere all’entrata sul mercato; le tariffe professionali obbligatorie come intese161: tariffe che invero sono state recentemente eliminate (artt. 9, comma 1, d. l. 24 gennaio 2012, n. 1 e 10, comma 12, l. 12 novembre 2011, n. 183) dopo esser state private dell’efficacia vincolante sul piano contrattuale (art. 2, comma 1, lett. a, l. 4 agosto 2006, n. 248). 159 GALGANO, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, in Contratto e impresa. Europa, 1997, 2 ss. 160 V., però, l’art. 3, comma 5, d. l. 13 agosto 2011, n. 138, che dispone all’indirizzo degli ordini professionali di garantire l’accesso alle professioni regolamentate e l’esercizio delle stesse secondo principi di libera concorrenza, assicurando la presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale e la pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione relativa ai servizi offerti. E, in attuazione di questi principi, sollecita l’emanazione di uno o più regolamenti di riforma delle libere professioni entro 12 mesi (agosto 2012). 161 Per le conclusioni ricordate nel testo, con riferimento a vari ordini professionali, App. Torino, 11 luglio 1998, in Giur. comm., 1999, II, 302 (ordine degli avvocati); App. Milano, 29 settembre 1999, in Dir. ind., 1999, 338 (consulenti del lavoro); Tar Lazio, 28 gennaio 2000, in Giur. comm., 2000, II, 640 (dottori commercialisti e ragionieri). 66 L’impresa § 4. L’inizio e la fine dell’impresa. LETTERATURA: AFFERNI, Gli atti di organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore, Milano, 1973; BUONOCORE, Fallimento e impresa, Napoli, s.d. (ma 1969); IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, in Riv. soc., 2008, 936; JAEGER, Note critiche sull’inizio dell’impresa commerciale, in Riv. soc., 1966, 756; JORIO, Osservazioni in tema di società, inizio dell’impresa commerciale e fallimento, in Riv. dir. civ., 1968, I, 50; ID., Gli articoli 10 e 11 della legge fallimentare e le società commerciali, Riv. soc., 1969, 288; NIGRO, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Tr. ColomboPortale, IX, 2, Torino, 1993, 207; RAGUSA MAGGIORE, La cessazione dell’impresa commerciale e il fallimento (art. 10 l. fall.), in Riv. dir. civ., 1977, I, 172; SANTAGATA, Fallimento di società cancellata dal registro delle imprese, in Riv. soc., 1968, 328. Esauriti i problemi concernenti l’inquadramento della fattispecie, bisogna spostare adesso l’attenzione sul problema relativo all’individuazione del c.d. inizio e della c.d. fine dell’impresa: sulla questione relativa al momento a decorrere dal quale comincia a trovare applicazione la disciplina dell’impresa e, specularmente, al momento che segna il termine dell’applicazione della medesima disciplina: in altre parole, l’ambito temporale, iniziale e finale, della disciplina che sarà studiata più avanti (v., infra). In ragione di quanto dovrebbe essersi appreso sin qui, dovrebbe risultare agevole a questo punto individuare il primo momento nel momento in cui nel reale giuridico si verifica il fatto «impresa», cioè un fatto conforme al modello comportamentale descritto in termini generali dal dato normativo esaminato più sopra e, specularmente, il secondo momento nel momento in cui nel reale giuridico viene meno un siffatto fenomeno. Infatti, se, come si è chiarito, l’impresa costituisce il destinatario o il referente oggettivo della disciplina approntata per l’impresa medesima, è di tutta evidenza che è al ricorrere dell’impresa che quella disciplina deve cominciare a trovare applicazione così come, specularmente, con la cessazione dell’impresa tale disciplina deve smettere di applicarsi. In altri termini, l’inizio e la fine dell’impresa debbono valutarsi secondo un criterio di effettività rispetto alla sussistenza o meno del fenomeno (l’impresa) cui la disciplina si riferisce. Nel solco di questa impostazione di fondo, che può considerarsi ormai pressoché acquisita, residuano tuttavia ancora non poche incertezze nella giurisprudenza teorica e pratica. Con riferimento all’inizio dell’impresa, in primo luogo ci si chiede se il criterio di effettività riguardi solo l’impresa esercitata da una persona fisica o anche l’impresa esercitata da un ente collettivo e, specialmente, da un ente che abbia l’impresa come oggetto esclusivo, tipicamente una società, atteso che, in questo secondo caso, non si esclude che l’inizio dell’impresa si abbia sin dalla costituzione dell’ente, in quanto destinato ad esercitare l’impresa in via esclusiva; in secondo luogo, ci si chiede se ai Antonio Cetra 67 fini di valutare l’inizio dell’impresa debba ricomprendere anche la fase di organizzazione o se un’impresa possa dirsi iniziata solo al termine di questa fase, quando l’iniziativa è entrata nel vivo della gestione caratteristica. Con riferimento alla fine dell’impresa, non solo si dubita sul se il criterio di effettività debba riguardare solo l’impresa esercitata dalla persona fisica o anche l’impresa esercitata da un ente e, segnatamente, da una società, pure in questo caso non escludendosi che ciò si verifichi solo a completamento della fase di liquidazione e con la conseguente estinzione dell’ente; ma si dubita altresì sul se il criterio di effettività abbia una portata piena o parziale. Ciò in quanto, come sarà messo in luce a breve, la fine dell’impresa non comporta la caducazione integrale della disciplina dell’impresa sopravvivendo ancora la possibilità di dichiarare l’apertura delle procedure concorsuali entro un anno dall’iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese (art. 10, comma 1, l. fall). Pertanto, le pagine che seguono saranno dedicate alle questioni appena passate in rassegna, in particolare cercando di far emergere come l’inizio e la fine dell’impresa debbano accertarsi sempre secondo un criterio di effettività e, soprattutto, a prescindere dalla forma giuridica che assume l’impresa. I. L’inizio dell’impresa 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di organizzazione. Con l’espressione inizio dell’impresa si suole far riferimento – come si è anticipato – al momento dal quale comincia a trovare applicazione la disciplina dell’impresa. Tale momento dev’essere accertato necessariamente secondo un criterio di effettività, vale a dire dev’essere identificato nel momento in cui nella realtà concreta si verifica un fenomeno produttivo qualificabile come impresa (commerciale non piccola)162. Esso prescinde invece da qualunque tipo di adempimento formale si associ allo svolgimento dell’impresa, come, ad esempio, l’iscrizione nel registro delle imprese (v., infra) o l’autorizzazione o la licenza per lo svolgimento di specifiche attività (v., supra). Infatti, simili formalità finirebbero per «inquinare» con elementi soggettivi il presupposto di applicazione di una disciplina che deve riposare sempre su parametri oggettivi163: in altre parole, finirebbero per far dipendere dalla volontà del soggetto che Per questa conclusione, pressoché pacifica con riferimento all’impresa esercitata da una persona fisica o che non costituisca oggetto esclusivo o principale di un ente collettivo, CAMPOBASSO, I, 99 s.; GALGANO, I, 92; BUONOCORE/Buonocore, ?; PRESTI-RESCIGNO, I, 26. 163 Per tutti, SPADA, voce Impresa, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4, VII, 60. E per altri riferimenti, anche giurisprudenziali, IANNELLI, L’impresa, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1987, 67 ss. 162 68 L’impresa è tenuto ad assolvere a tali adempimenti l’applicazione di una disciplina che tutela anche altri soggetti. D’altra parte, non sembra che il discorso possa differenziarsi a seconda che l’impresa sia esercitata da una persona fisica oppure da una società (o da altro ente che esercita l’impresa in via esclusiva). In particolare, non sembra che possa essere condivisa l’idea secondo cui l’inizio dell’impresa societaria (o di altro ente) debba considerarsi anticipato al momento della costituzione della società (o dell’altro ente), a prescindere, cioè, dalla circostanza che si sia cominciato a svolgere in concreto l’oggetto sociale (quindi, l’impresa)164. Basti considerare che, in quanto tale, la costituzione della società è in realtà una mera dichiarazione di intenti rispetto all’inizio dell’impresa o, più precisamente, l’approntamento della veste giuridica dell’impresa, che, di per sé, non giustifica l’applicazione della disciplina dell’impresa in assenza del fenomeno che dovrebbe rivestire165. Meno certo è invece se l’inizio dell’impresa debba aversi sin dalla fase di organizzazione, cioè sin dall’approntamento dei fattori produttivi alla successiva attività produttiva, ovvero debba posticiparsi alla fine di questa fase. Ed invero, non manca chi distingue tra l’attività di organizzazione e l’attività dell’organizzazione e associa l’inizio dell’impresa solo a fronte dell’esercizio di quest’ultima166. Si tratta peraltro di una demarcazione agevole da tracciare solo in teoria e difficile da accertare in pratica. Ciò in quanto non è semplice fissare uno spartiacque tra la fase di preparazione del complesso produttivo e l’attività produttiva in senso stretto. Senza considerare che, nel corso della prima, vengono in considerazione i tipici interessi coinvolti nella seconda e, soprattutto, i finanziatori a titolo di credito. E forse vengono in considerazione in misura finanche più consistente, atteso che in questo momento si realizza la parte più significativa degli investimenti: basti pensare agli investimenti in capitale fisso (impianti, macchinari, ecc.)167. Sicché, potrebbe sembrare non congruo escludere il credito che è stato concesso in questa fase 164 In questo senso, invece, seppur con percorso argomentativo non coincidente, CASANOVA, Impresa e azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974, 169; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983, 281 s.; NIGRO, Le società per azioni, 230 ss. Nello stesso senso, la giurisprudenza pressoché unanime: da ultimo, Cass., 28 aprile 2005, n. 8849, in Fallimento, 2005, 1373; per i riferimenti più risalenti, IANNELLI, op. cit., 69 ss. 165 In questi termini, tra gli altri, JAEGER, Note, 765 ss.; JORIO, Osservazioni, 78 s.; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972, 160 ss.; CAMPOBASSO, I, 100 s.; GALGANO, I, 92. Condivide la conclusione anche SPADA, op. cit., 60 s., il quale, tuttavia, precisa che la questione relativa all’inizio dell’impresa (societaria) non può esser affrontata in modo normativamente unitario bensì nell’ottica di una scomposizione della disciplina dell’impresa accertando per quali istituti abbia senso un’applicazione sin dal momento della costituzione della società e quali invece presuppongano l’avvio dell’iniziativa. 166 In questo senso, ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 267; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 33 s.; e, soprattutto, FRANCESCHELLI, op. cit., 99 ss. e 129 ss., cui si deve la distinzione tra atti di organizzazione e atti dell’organizzazione. In quest’ottica, si ritiene che completata la fase organizzativa del complesso produttivo anche un solo atto sarà sufficiente ad segnare l’inizio dell’impresa, mentre in mancanza della fase di organizzazione sola la ripetizione nel tempo di atti omogenei e funzionalmente coordinati permetterà di qualificare l’attività non occasionale bensì come professionalmente esercitata. Più di recente, OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992, 312 s. 167 Così, CAMPOBASSO, I, 102 s. Antonio Cetra 69 dai sistemi di tutela predisposti dal diritto dell’impresa a favore del credito alla produzione (quali, ad esempio, le procedure concorsuali)168. Tutt’al più, si potrà escludere che l’inizio dell’impresa possa aversi a seguito del completamento di singoli atti di organizzazione e, di conseguenza, ritenere necessaria l’esecuzione di una serie di atti, coordinati tra loro e volti ad organizzare un’attività produttiva, che abbia assunto fisionomia unitaria e finalità non equivoche169. II. La fine dell’impresa 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di liquidazione. Con l’espressione fine dell’impresa si suole fare riferimento – come anticipato – al momento al cui verificarsi cessa di trovare applicazione la disciplina dell’impresa. Esattamente come l’inizio anche la fine dell’impresa dev’essere accertata secondo un criterio di effettività, ossia dev’essere identificata nel momento in cui nella realtà concreta viene meno il fenomeno produttivo qualificabile come impresa, senza che possano aver rilievo, quanto meno generalmente, gli eventuali adempimenti formali obbligatori170. Se con riferimento all’inizio può dubitarsi sul se l’impresa (rectius: la sua disciplina) possa sussistere (trovare applicazione) sin dalla fase di organizzazione, con riferimento alla fine non può esitarsi ad escludere che l’impresa (rectius: la sua disciplina) possa venir meno nella fase di disgregazione del complesso produttivo, cioè durante la liquidazione: fase nella quale si monetizzano tutti i beni costituenti il complesso aziendale e si risolvono tutti i rapporti pendenti (sia creditori che debitori)171. Per queste ragioni, ritengono che l’inizio dell’impresa debba aversi sin dalla fase dell’organizzazione, AFFERNI, Gli atti, 111 ss. e 260 ss.; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990, 50 s.; BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, Sez. I – Tomo 2.1, 2002, 104 ss. Sostanzialmente in questo senso anche SPADA, op. cit., 62, il quale, tuttavia, rimarca sempre l’esigenza di verificare con riferimento ai singoli istituti che costituiscono la disciplina dell’impresa la congruità di una loro applicazione sin dalla fase organizzativa (il punto è sottolineato successivamente pure da ANGELICI, I, 51): esigenza quest’ultima che sembra essere colta dalla giurisprudenza, la quale non esita ad applicare alcuni profili della disciplina sin dalla fase di organizzazione mentre si dimostra molto più incerta per altri (per un quadro di sintesi, IANNELLI, op. cit., 72 s.). 169 Così, PISCITELLO/Dir. fall. – Man. breve, 119. 170 Per questa conclusione, con specifico riferimento all’impresa esercitata da una persona fisica, CAMPOBASSO, I, 104; GALGANO, I, 94; BUONOCORE/Buonocore, ?; PRESTI-RESCIGNO, 27. 171 Nel senso che di fine dell’impresa non possa parlarsi fin tanto che anche in fase di liquidazione vengono compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere durante l’esercizio dell’impresa, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001, 555; BUONOCORE, L’impresa, cit., 170 ss. e la giurisprudenza pressoché unanime: Cass., 9 agosto 2002, n. 12113, in Giust. civ., 2002, I, 168 70 L’impresa Del resto, non può trascurarsi che la liquidazione è una fase non essenziale nell’impresa, nel senso che l’impresa potrebbe cessare anche a prescindere da una formale liquidazione. La liquidazione è più che altro una fase che attiene all’eliminazione dell’ente attraverso il quale si esercita l’impresa, cioè all’eliminazione del centro autonomo di imputazione al quale l’impresa si riferisce. In particolare, la liquidazione è una fase obbligatoria della società (e di ogni altro ente collettivo)172. È allora evidente che i problemi sulla fine dell’impresa e sulla fine dell’ente che esercita l’impresa riposano su piani diversi. Sicché, non può escludersi che l’impresa di una società (o di altro ente) possa cessare anche prima della fine della società (o dell’altro ente), che invece sopravvive fintanto che non è liquidata (o) e, successivamente, estinta (o) attraverso la sua cancellazione dal registro delle imprese (o analoga formalità)173. E così come si è escluso che l’inizio dell’impresa societaria (o di altro ente che esercita l’impresa in via esclusiva) possa essere anticipata al momento della costituzione, parimenti si deve escludere che la fine dell’impresa societaria (o di altro ente che esercita l’impresa in via esclusiva) possa essere posticipata al momento dell’estinzione174. 2. La cancellazione dal registro delle imprese. La decorrenza degli effetti ex art. 10 l. fall. (rinvio). Tutto quanto precede presenta, tuttavia, una significativa eccezione con riferimento ad uno degli istituti nei quali si scompone la disciplina dell’impresa: le procedure concorsuali. Infatti, la fine dell’impresa non comporta di per sé il venir meno della possibilità di aprire una procedura concorsuale: possibilità che residua ancora per l’anno successivo 3077; Cass., 3 novembre 1989, n. 4599, in Giur. it., 1990, I, 1, 320; Trib. Napoli, 14 novembre 1997 e 16 dicembre 1998, in Foro nap., 1999, 45 e altri riferimenti in IANNELLI, op. cit., 76 s. 172 Sottolineano che la fine dell’impresa (individuale) e liquidazione non siano sinonimi e, in particolare, che la prima possa prescindere dalla seconda, JORIO, Gli articoli, 311 ss.; BUONOCORE, Fallimento, 239 ss. e 248 ss.; BONFANTE-COTTINO, op. cit., 555; CAMPOBASSO, I, 104. In giurisprudenza, rimarcando che la liquidazione è una fase della società, Cass., 8 gennaio 1999, n. 89, in Giur. it., 1999, I, 1, 560; Trib. Roma, 17 febbraio 1992, in Fallimento, 1992, 75; App. Catania, 18 gennaio 1997, in Giur. it., 1997, I, 2, 345. 173 Per questa conclusione, muovendo dal presupposto che la fine dell’impresa debba essere accertata in maniera non diversa nelle imprese individuali e societarie e, in particolare, che la fine dell’impresa e la liquidazione vadano tenute distinte anche nelle imprese societarie, BUONOCORE, Fallimento, 265 ss.; BONFANTE-COTTINO, op. cit., 556. 174 Diversamente orientata è invece la dottrina che è dell’avviso che l’inizio dell’impresa societaria debba decorrere dal momento della costituzione che, simmetricamente, posticipa la fine dell’impresa all’estinzione della società: SANTAGATA, Fallimento, 331 ss. e per gli altri riferimenti v., supra, nt. ?. Finanche più radicale è la posizione della giurisprudenza, per la quale la fine dell’impresa societaria non si avrebbe neanche con l’estinzione della società bensì con l’estinzione di tutti i rapporti: tra le altre, Cass., 9 marzo 1876, in Dir. fall., 1996, II, 191; Trib. Torino, 19 aprile 1994, in Fallimento, 1994, 1297. Si tratta tuttavia di una soluzione (condivisa dalla stessa Corte Costituzionale: Corte Cost., 20 maggio 1998, n. 180, in Giur. comm., 2000, II, 281) finalizzata essenzialmente a rendere sempre possibile l’apertura delle procedure concorsuali nei confronti delle società (PRESTI-RESCIGNO, 27), cosa che, però, non è più possibile, come si vedrà or ora nel testo, alla luce della recente riformulazione dell’art. 10 l. fall. Antonio Cetra 71 alla cessazione, a condizione che lo stato di insolvenza sia antecedente alla cessazione dell’iniziativa o si sia verificato nell’anno successivo. È di tutta evidenza la ragione di questa prorogatio. In tal modo, si impedisce al titolare dell’impresa (= l’imprenditore: v., infra ) di sfuggire alla soluzione concorsuale dell’insolvenza attraverso una cessazione ex abrupto della sua iniziativa e, nel contempo, si consente ai creditori o, eventualmente, al pubblico ministero di chiedere l’apertura della procedura concorsuale anche in questa eventualità175. Meno evidente è la ragione per cui il termine dell’anno debba decorrere dalla cancellazione dal registro delle imprese e non invece dalla effettiva cessazione dell’attività (art. 10, comma 1, l. fall.). Si può ritenere che uno dei motivi che hanno indotto ad ancorare il dies a quo all’adempimento di tale formalità sia senz’altro quello di semplificare l’accertamento dell’ambito temporale di assoggettabilità dell’impresa alle procedure concorsuali. Infatti, una simile formalità può essere immaginata come una presunzione dell’effettiva cessazione dell’attività176. In quest’ottica, tuttavia, non è chiaro il motivo per cui la presunzione sia superabile nel solo caso di impresa individuale e di cancellazione d’ufficio di un ente e solo su iniziativa dei creditori o del pubblico ministero (art. 10, comma 2, l. fall.): i quali avranno interesse a dimostrare che al dato formale della cancellazione non ha fatto seguito l’interruzione effettiva dell’iniziativa. Probabilmente, il motivo può ravvisarsi nel tentativo di creare un meccanismo capace di incentivare un corretto adempimento dell’obbligo di pubblicità d’impresa (v., infra ) da parte del suo titolare. Peraltro, resta incerto se decorre e, nell’affermativa, da quando decorre il termine dell’anno per le imprese che abbiano omesso di adempiere all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (benché le imprese «non pubblicizzate» dovrebbero essere in prospettiva sempre di meno: v., infra). Al riguardo, si ritiene, da un lato, che l’omessa iscrizione possa essere sostituita dalla conoscenza effettiva da parte dei terzi della cessazione dell’impresa o dalla sua conoscibilità (laddove della cessazione dell’impresa si sia fatta comunque pubblicità con mezzi idonei)177; dall’altro, che l’omessa iscrizione precluda il decorso del termine dell’anno (salvo un adempimento tardivo e finalizzato alla cancellazione)178: conclusione, quest’ultima, che si lascerebbe Per tutti, PISCITELLO/Dir. fall. – Man. breve, 120. In questi termini, PISCITELLO/Dir. fall. – Man. Breve, 120. 177 In questo senso, in dottrina, PISCITELLO/Dir. fall. – Man. breve, 120 ss.; NIGRO(-VATTERMOLI), 70 s.; in giurisprudenza, in particolare escludendo che le imprese «non pubblicizzate» possano restare esposte alle procedure concorsuali senza limiti di tempo, sul presupposto che ciò contrasterebbe con l’esigenza (rimarcata anche da Corte Cost., 21 luglio 2000, n. 319, in Giur. comm., 2001, II, 5 e 7 novembre 2001, n. 361, in Giur. comm., 2002, II, 563) di contemperare gli opposti interessi dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche, Cass., 28 agosto 2006, n. 18618, in Dir. fall., 2008, II, 245; App. Lecce, 26 giugno 2009, in Fallimento, 2010, 1416; seppur in obiter dictum, App. Torino, 19 febbraio 2008, in Fallimento, 2008, 807; con specifico riferimento ad enti non societari, da ultimo, Cass., 13 luglio 2011, n. 15428, in Fallimento, 2011, 1407; Trib. Gorizia, 18 novembre 2011, in Fallimento, 2012, 722. 178 In questo senso, in dottrina, IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, in Riv. soc., 2008, 943 ss.; ID., Il presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Profili della nuova legge fallimentare, a cura di Ibba, Torino, 2009, 12 s.; SPERANZIN, Il fallimento della società estinta, in Temi del nuovo diritto fallimentare, a cura di Palmieri, Torino, 2009, 143; PERRINO/Nigro-Sandulli-Santoro, sub Artt. 10-11, 138 s.; CAMPOBASSO, I, 106; in giurisprudenza, in particolare sottolineando l’inoperatività del principio di effettività per le società di fatto o irregolari e per gli imprenditori individuali (sia iscritti che non iscritti), Trib. Napoli, 21 aprile 2010, in Fallimento, 2010, 1418; qualificando la cancellazione dal registro delle 175 176 72 L’impresa condividere, ove si condividesse l’idea, poc’anzi prospettata, di vedere nella disposizione dell’art. 10 l. fall. un meccanismo capace di incentivare l’adempimento della pubblicità d’impresa: idea che invero sembra tutt’altro che peregrina dopo che la pubblicità d’impresa è stata elevata ad obbligo prodromico rispetto alle altre formalità, anche di carattere fiscale e previdenziale, che precedono l’avvio di un’impresa (art. 9, d. l. 31 gennaio 2007, n. 7 c. l. 2 aprile 2007, n. 40) (v., infra). imprese presunzione assoluta per il debitore, App. Reggio Calabria, 21 gennaio 2010, in Fallimento, 2010, 1415; con riferimento ad una società, Trib. Milano, 28 maggio 2004, in Banca e borsa, 2006, II, 380. Antonio Cetra 73 § 5. L’imputazione dell’impresa. LETTERATURA: ASCARELLI, Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955; ID., Problemi giuridici, II, Milano, 1959; AULETTA, voce Attività, in Enc. dir., III, Milano, 1959, 981; ID., voce Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 72; BIGIAVI, L’imprenditore occulto, Padova, 1954; ID., Fallimento dei soci sovrani, pluralità di imprenditori occulti, confusione di patrimoni, in Giur. it., 1954, I, 2, 691; ID., L’imprenditore occulto nella società di capitali e il suo fallimento “in esternsione”, in Giur. it., 1959, 149; ID., Responsabilità illimitata del socio tiranno, in Foro it., 1960, I, 1180; ID., Difesa dell’«imprenditore occulto», Padova, 1962; ID., “Imprese” di finanziamento come surrogati del “socio tiranno” – imprenditore occulto (studio giurisprudenziale), in Studi in memoria di Graziani, I, Napoli, 1967, 79; BUONOCORE, Fallimento e impresa, Napoli, s.d. (ma 1969); COLUSSI, Capacità e impresa, I, L’impresa individuale, Padova, 1974; FARINA, L’acquisito della qualità di imprenditore, Padova, 1985; GALGANO, voce Imprenditore occulto e società occulta, in Enc. giur., XVI, Roma, 1989; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992; PAVONE LA ROSA, La teoria dell’«imprenditore occulto» nell’opera di Walter Bigiavi, in Riv. dir. civ., 1967, I, 623; SPADA, voce Impresa, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale4, VII, Torino, 1992; ID., Diritto commerciale, I, Storia, lessico e istituti2, Padova, 2009. Rimane ancora da vedere a chi si imputa l’impresa, cioè chi è il referente soggettivo dell’impresa, vale a dire il soggetto tenuto ad adempiere ai diversi obblighi comportamentali in cui la disciplina dell’impresa si scompone (v., infra, ?), con l’obiettivo di assicurare che l’iniziativa imprenditoriale si produca secondo il paradigma comportamentale giudicato capace di assicurare il più adeguato contemperamento tra i diversi interessi sollecitati. Altrimenti detto, si tratta di comprendere chi è l’imprenditore in senso giuridico. Comprendere chi sia l’imprenditore in senso giuridico postula, preliminarmente, appurare quale sia il criterio di imputazione di un fenomeno descritto in termini di attività, cioè il criterio che consenta di attribuire ad una sfera giuridica soggettiva un’attività oggettivamente considerata e, quindi, quale sua specificazione, l’impresa. Questione, quest’ultima, che si presenta affatto problematica, dato che nell’ordinamento italiano manca, quanto meno in forma esplicita, un siffatto criterio di imputazione, che allora dev’essere ricavato, o esplicitato, in via interpretativa. Le pagine che seguono saranno allora dedicate alla soluzione della questione testé accennata per poi trarre le debite conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa (e all’identificazione della figura dell’imprenditore). 74 L’impresa I. Il criterio di imputazione 1. La mancanza di un criterio esplicito di imputazione: la soluzione interpretativa. L’impresa e, specialmente, l’impresa commerciale non piccola, quale fenomeno rilevante sul piano normativo, necessita di essere ricondotta ad una sfera giuridica soggettiva. Ciò in quanto la relativa disciplina, ossia l’insieme degli obblighi comportamentali ai quali deve informarsi il concreto svolgimento del fenomeno, deve avere un referente soggettivo, cioè un soggetto sul quale gravi l’obbligo di osservare siffatti obblighi. Tale soggetto è colui al quale si imputa l’impresa, vale a dire l’imprenditore in senso giuridico179. L’individuazione del soggetto al quale si imputa l’impresa è tuttavia una questione affatto problematica. Ed è problematica perché nell’ordinamento manca un criterio, quanto meno in termini espliciti, di imputazione di un fenomeno che rileva sul piano normativo come attività oggettivamente considerata e, quindi, in quanto specificazione, dell’impresa: criterio che allora dev’essere ricavato, o esplicitato, ad opera dell’interprete (teorico e pratico). Al riguardo, giova ricordare che i principali orientamenti che si contendono il campo sono due: da un lato, c’è chi ritiene che l’impresa si imputi secondo un criterio formale o della spendita del nome nello svolgimento della stessa, concludendo che è imprenditore colui che svolge l’impresa a suo nome; dall’altro, c’è chi ritiene che l’impresa si imputi secondo un criterio sostanziale o dell’interesse perseguito nello svolgimento della stessa, concludendo che è imprenditore colui che svolge l’impresa nel suo interesse. In quest’ottica, è evidente che la questione relativa all’imputazione dell’impresa appare risolta senza particolare contrasto di opinioni allorché l’impresa venga svolta in nome e per conto di uno stesso soggetto, cioè quando l’elemento formale della spendita del nome e l’elemento sostanziale dell’interesse perseguito convergono sulla stessa sfera soggettiva, concludendo che l’impresa si imputa a tale soggetto che è, quindi, l’imprenditore180. Ad esempio, se una persona fisica svolge l’impresa a suo nome e nel suo interesse non v’è dubbio che la persona fisica sia l’imprenditore; se una società svolge l’impresa a suo nome e nel suo interesse non v’è dubbio che la società sia l’imprenditore; se un ente pubblico svolge l’impresa a suo nome e nel suo interesse non v’è dubbio che l’ente sia l’imprenditore; e così via. Peraltro, una siffatta conclusione prescinde dalla circostanza che il soggetto con riferimento al quale si riscontra la ricorrenza dell’elemento formale e dell’elemento Il termine imprenditore è usato in questa accezione da SPADA, Note, 2270 s.; ID., L’incognita «impresa» dal codice allo statuto, nel libro di Pier Giusto Jaeger, in Giur. comm., 1985, I, 751 s.; ID., voce Impresa, 73 s. 180 In questi termini, molto chiaramente, SPADA, I, 131 ss. 179 Antonio Cetra 75 sostanziale eserciti materialmente l’impresa. Infatti, un soggetto può acquisire la qualifica di imprenditore anche se non esercita materialmente l’impresa181. Ed invero, l’imprenditore può affidare l’esercizio dell’impresa ad uno o più altri soggetti (i quali eseguono tale incarico in nome e per conto del primo). Ipotesi, quest’ultima, non certo infrequente nei fenomeni qui indagati, cioè nelle imprese non piccole, dove l’esercizio concreto dell’iniziativa è affidato all’organizzazione e, in particolare, alla componente personale dell’apparato organizzativo dell’impresa: vale a dire, ai collaboratori d’impresa (quali, ad esempio, l’institore o il procuratore: v., infra). Talvolta, l’imprenditore è addirittura obbligato ad affidare l’esercizio dell’impresa ad un altro o più altri soggetti (i quali eseguono sempre tale incarico in nome e per conto del primo). Ipotesi, quest’ultima, che si concretizza allorché l’imprenditore non abbia capacità di agire e, quindi, non possa compiere in prima persona i diversi atti di disposizione del patrimonio tipicamente connaturati all’esercizio di un’impresa. Pertanto, se un soggetto non ha la capacità di agire, vuoi perché non l’ha ancora acquisita (il minore) vuoi perché non la può acquisire o l’ha persa in tutto (l’interdetto) o in parte (l’inabilitato), deve necessariamente affidare l’esercizio dell’impresa al suo sostituto legale: vale a dire al tutore o al curatore, per poi eventualmente riassumere l’esercizio una volta che abbia (ri)conseguito tale capacità. 2. L’impresa dell’incapace. L’impresa dell’incapace è assoggettata ad una particolare disciplina, che risente della disciplina più generale riguardante la cura dei suoi interessi patrimoniali182. In linea di massima, l’incapace non può da solo curare i propri interessi patrimoniali ma deve farsi coadiuvare dal rappresentate legale. L’incapace totale (minore o interdetto) non può né gestire il patrimonio né compiere atti di disposizione. La gestione, che si sostanzia nel compimento di atti di ordinaria amministrazione, è affidata interamente al tutore mentre il compimento degli atti di disposizione, che si sostanziano nel compimento di atti di straordinaria amministrazione, può essere posta in essere dal tutore, previa autorizzazione del giudice tutelare, il quale deve accertare, per ogni singolo atto da autorizzare, la necessità o l’evidente utilità per il sostituito (art. 320, comma 3). L’incapace parziale (inabilitato) può invece limitarsi a gestire il patrimonio (cioè, fare l’amministrazione ordinaria) (art. 394, comma 1) mentre deve richiedere al giudice tutelare (art. 394, comma 3) o al tribunale (comb. disp. artt. 394, comma 3 e 375), che rilasciano previo consenso del curatore, l’autorizzazione per gli atti di disposizione del patrimonio (cioè gli atti di amministrazione straordinaria). Sul punto, ancora, SPADA, I, 132 e 56 s. Più in generale, RIVOLTA, L’esercizio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, 44 ss.; BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, Sez. I – Tomo 2.1, 2002, 206 ss. 182 Al riguardo, in termini generali, AULETTA, voce Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale, 72 ss.; COLUSSI, Capacità e impresa, 31 ss.; CAPOZZI, Incapaci e impresa, Milano, 1992, 23 ss.; CORSI, Il concetto di amministrazione nel diritto privato, Milano, 1974, 164 ss. 181 76 L’impresa Appare perciò evidente che la gestione del patrimonio dell’incapace è una gestione essenzialmente di stampo conservativo, che mira al mantenimento dell’integrità del patrimonio e relega il compimento di atti di disposizione dello stesso a ipotesi marginali e del tutto eventuali, previa valutazione dell’opportunità rispetto all’interesse dell’incapace al compimento del singolo atto (c.d. sistema di autorizzazione atto per atto). Pertanto, una gestione improntata a questi principi risulta sostanzialmente incompatibile con la presenza di un’impresa commerciale, la quale, quanto meno tipicamente, non si presta ad una gestione di tipo conservativo (non foss’altro per via del fisiologico susseguirsi di atti di disposizione del patrimonio che essa richiede). Si comprende allora la ragione per cui la disciplina della cura degli interessi patrimoniali dell’incapace sia caratterizzata da un generale divieto ad iniziare un’attività di impresa e contempli solo la possibilità di continuare un’impresa eventualmente sopravvenuta, tipicamente in seguito all’acquisizione di un’azienda per successione o per donazione (ovvero che l’impresa preesista ad uno stato di capacità sopravvenuta): nel qual caso, infatti, rischierebbe di essere troppo lesivo degli interessi dell’incapace imporre che l’impresa, postulando una gestione non conservativa, debba cessare o debba essere ceduta (attraverso la cessione dell’azienda)183. Tuttavia, in quest’eventualità, la continuazione dell’impresa dev’essere autorizzata dal tribunale su parere del giudice tutelare (art. 320, comma 5), alla condizione che sia evidentemente utile per l’interesse dell’incapace il mantenimento o la prosecuzione della stessa (si pensi al caso di un’impresa che versa in condizioni floride sul piano economicopatrimoniale e al beneficio che in prospettiva ne potrebbe trarre un minore che ha conseguito per successione o per donazione la relativa azienda)184. Se la continuazione è autorizzata, nel caso di incapacità totale, l’impresa viene gestita dal tutore, il quale può compiere tutti gli atti che rientrano nella relativa gestione, senza distinzione fra atti di ordinaria e atti di straordinaria amministrazione (il tutore dovrà farsi autorizzare solo per compiere qualcosa che esula dalla normale gestione dell’impresa, come, ad esempio, l’alienazione dell’azienda o la cessazione o il cambiamento dell’oggetto dell’attività)185; nel caso di incapacità parziale, l’impresa può essere affidata allo stesso incapace, seppur con l’assistenza del curatore, eventualmente coadiuvato da un institore nominato in sede di rilascio dell’autorizzazione (art. 425)186. Sulla ratio del divieto di iniziare e dell’autorizzazione a continuare l’impresa, v., anche per altri riferimenti, PORZIO, L’impresa commerciale del minore, in Riv. dir. civ., 1962, I, 373 ss.; CASANOVA, Impresa e azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974, 246 ss.; COLUSSI, Capacità e impresa, 66 ss.; CORSI, op. cit., 164 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001, 545 s.; CAMPOBASSO I, 107 s.; GALGANO, I, 84 s. 184 Sulla valutazione del tribunale in punto di autorizzazione, gli AA. citati alla nt. precedente. 185 In questo senso, PORZIO, op. cit., 388; CORSI, op. cit., 168; BONFANTE-COTTINO, op. cit., 346; CAMPOBASSO, 109; Cass., 5 giugno 2007, n. 13154, in Giust. it., 2008, 52. Nel senso invece che resterebbe l’autorizzazione atto per atto per tutto quanto eccede l’amministrazione ordinaria, COLUSSI, Capacità e impresa, 94 ss. E v., anche, RAGUSA MAGGIORE, Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale e fallimento, in Dir. fall., 1980, I, 98 ss. 186 Tuttavia, è controverso fino a che punto debba spingersi l’assistenza del curatore e, in particolare, se debba compiere congiuntamente con l’incapace tutti gli atti di impresa (in questo senso, ad esempio, CASANOVA, op. cit., 253 s.; CAPOZZI, op. cit., 199 ss.) o se debba limitarsi a dare il consenso per il soli atti d’impresa che eccedono l’ordinaria amministrazione (in questo senso, ad esempio, COLUSSI, Capacità e impresa, 197 ss.) o ai soli atti di straordinaria amministrazione che esulano dall’esercizio dell’impresa ai fini dell’autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale (in questo senso, per esempio, BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960, 306 ss.; GALGANO, I, 86). Peraltro, è controverso il rapporto tra incapace e l’eventuale institore e, in particolare, se il rapporto tra le due figure sia complementare (in questo senso, ad esempio, BELVISO, L’institore, I, Napoli, 1966, 40 ss.; COLUSSI, 183 Antonio Cetra 77 II. I casi problematici di imputazione 1. I casi di imputazione incerta. La questione relativa all’imputazione dell’impresa si profila invece in tutta la sua problematicità, allorché l’elemento formale della spendita del nome e l’elemento sostanziale dell’interesse perseguito si riscontrano in capo a soggetti diversi, tipicamente nell’ipotesi – non l’unica ma senz’altro la più ricorrente nella pratica – in cui un soggetto (Tizio) esercita l’impresa a suo nome per perseguire l’interesse di un altro soggetto (Caio). In quest’eventualità, è controverso se ai fini dell’imputazione dell’impresa si debba considerare l’elemento formale o, viceversa, l’elemento sostanziale e, quindi, nel caso prospettato testé, se la qualifica di imprenditore venga acquisita dal primo (Tizio) o dal secondo (Caio) soggetto. 2. Segue: il criterio della spendita del nome (o formalista). L’orientamento quanto meno sino a ieri e forse ancora oggi prevalente è dell’avviso che l’elemento decisivo ai fini dell’imputazione dell’impresa debba individuarsi nella spendita del nome, ritenendo che l’impresa si imputa al soggetto il cui nome viene speso nello svolgimento della stessa187. Una tale conclusione riposa sull’assunto che, a fronte della mancanza nell’ordinamento di un criterio di imputazione dell’attività (e, quindi, in quanto specificazione, dell’impresa), si possa porre rimedio attraverso il ricorso al criterio previsto dall’ordinamento per l’imputazione degli atti giuridici, posto che l’attività è in fin dei conti un insieme di atti giuridici, seppur teleologicamente orientati al raggiungimento di uno scopo (o risultato programmato). Pertanto, poiché quest’ultimo criterio è il criterio della spendita del nome – risultando invece irrilevante l’interesse Capacità e impresa, 199 ss.) o alternativo (in questo senso, ad esempio, CASANOVA, op. cit., 255 s.; BONFANTE-COTTINO, op. cit., 549). 187 Per questa conclusione, in luogo di molti, ASCARELLI, Problemi giuridici, 433 ss., 461 ss., 476 ss. e 512 ss.; ID., Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 232 ss.; BRACCO, op. cit., 198 ss. e 207; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 49 s. e 164 ss.; RIVOLTA, op. cit., 234 ss.; ID., Gli atti d’impresa, in Le ragioni del diritto. Studi in onore di Mengoni, II, Diritto del lavoro – Diritto commerciale, Milano, 1995, 1646 ss.; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972, 141 ss.; CASANOVA, op. cit., 46 ss. e 54 ss.; LIBONATI, 26 s.; OPPO, Scritti, I, 257 ss. e 289 ss.; CAMPOBASSO, I, 88 s.; PRESTI-RESCIGNO, 22 s.; FERRARA-CORSI, ? 78 L’impresa perseguito – (cfr. art. 1705, comma 1), allora – se ne deduce – secondo tale criterio dovranno imputarsi anche gli atti che costituiscono l’attività e, quindi, in definitiva, dovrà imputarsi l’attività medesima (dunque, l’impresa, in quanto specificazione)188. Una tale conclusione ha sicuramente il pregio della semplicità e della immediatezza nell’individuazione dell’imprenditore. Tuttavia, la conclusione che l’impresa si imputi secondo il criterio formale si espone ad una serie di rilievi critici. Anzitutto, non può non destare perplessità il postulato dal quale prende le mosse la suddetta opinione, cioè l’assunto che l’attività è in realtà costituita da un insieme di atti giuridici, che equivale un po’ a dire che la casa è formata da un insieme di mattoni. Infatti, si è avuto già modo di precisare (v., supra) che nell’esperienza normativa riguardata (cioè, nel diritto commerciale) non rilevano i singoli comportamenti da cui l’attività è costituita, pur potendo essi rilevare nell’ambito di altre esperienze normative (ad esempio, nel diritto privato; nel diritto del lavoro; ecc.), ma rileva l’attività come fenomeno unitario nel suo insieme e, in particolare, rileva, per quello che qui interessa, il fenomeno imprenditoriale. In secondo luogo, desta perplessità anche l’idea di fondo che è alla base della relativa ricostruzione, cioè che la sistemazione degli interessi in gioco (in particolare, i creditori dei due soggetti: chi spende il nome e chi realizza l’interesse) debba avvenire secondo il principio dell’affidamento. Sicché, i creditori del soggetto che svolge l’impresa a suo nome possono essere garantiti dal solo patrimonio sul quale hanno fatto affidamento e non da altri, così come i creditori del soggetto nel cui interesse è svolta l’impresa non possono condividere la garanzia patrimoniale del loro debitore con altri. Una simile sistemazione degli interessi presuppone peraltro che l’ordinamento tuteli il credito alla produzione con la stessa intensità del credito al consumo: il che però costituisce un assioma tutt’altro che incontestabile. Tuttavia, non può essere trascurato che la conclusione più sopra riferita rende agevoli alcune forme di abuso. Si supponga che il soggetto che svolge l’impresa a suo nome sia un nullatenente, che non ha, cioè, niente o molto da perdere nel caso in cui l’iniziativa non vada a buon fine, e si presti allora a fungere da prestanome nello svolgimento di un’impresa per conto di un altro soggetto, il quale invece ha interesse a non esporre il suo patrimonio al rischio di impresa. In quest’eventualità (non certo infrequente nella pratica), è evidente che, se l’iniziativa non va effettivamente a buon fine, il peso economico dell’insolvenza è destinato a gravare pressoché integralmente su coloro che hanno finanziato l’iniziativa a titolo di credito. Da un lato, il patrimonio del prestanome non contiene sostanze patrimoniali sufficienti per il soddisfacimento delle ragioni creditorie, sicché l’azione esecutiva promossa dai creditori (e, successivamente, in loro vece, dalla procedura concorsuale di fallimento) è destinata a restare fine a se stessa. Dall’altro, il patrimonio del dominus non può essere aggredito dai creditori del prestanome (e, successivamente, in loro vece, dal fallimento del prestanome), a meno che tali creditori (che sono poi i creditori d’impresa) vantino nei confronti del dominus una qualche forma di garanzia. Deve tuttavia escludersi realisticamente che gran parte di essi (perlopiù coincidenti con È questa l’argomentazione tipicamente addotta a sostegno della conclusione di cui nel testo dagli AA. citati alla nt. precedente. 188 Antonio Cetra 79 i piccoli fornitori e i lavoratori) sia stata in grado di farsi rilasciare dal dominus una garanzia a tutela del credito. La qual cosa può immaginarsi semmai solo con riferimento ai creditori caratterizzati da una forza significativa sul piano della contrattazione (perlopiù coincidenti i grandi fornitori e le banche). Peraltro, questi creditori nel momento in cui vanno ad escutere la garanzia devono sperare comunque di trovare il patrimonio del dominus ancora capiente. In caso contrario, essi devono cercare di ricostruire lo stesso attraverso i blandi mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale previsti dal diritto comune (artt. 2900 ss.). A questo stato di cose la giurisprudenza cerca di porre rimedio attraverso la figura dell’impresa fiancheggiatrice. Infatti, è orientamento diffuso quello secondo cui il dominus dell’iniziativa in questione possa acquisire la qualifica di imprenditore e, quindi, essere assoggettato alla disciplina dell’impresa se si accerta che tale soggetto ha posto in essere un comportamento nei rapporti intercorsi con il prestanome che in sé considerato possa qualificarsi come impresa: un’impresa che allora fiancheggia l’iniziativa svolta dal prestanome (da qui, impresa fiancheggiatrice). Giova osservare che nei casi come quello prefigurato poc’anzi il dominus da dietro le quinte normalmente dirige e coordina e, per certi versi, finanzia il prestanome. In particolare, gli impartisce istruzioni sul contegno da tenere nello svolgimento dell’iniziativa, gli mette a disposizione capitali, sia in forma di mezzi finanziari da utilizzare nell’iniziativa sia in forma di garanzie rilasciate a favore di qualche creditore (per crediti di fornitura o per finanziamenti). Ebbene, l’orientamento giurisprudenziale in esame ritiene che se il dominus ha tenuto un tale comportamento, che assumere dunque le fattezze di un’impresa (cioè, come un’attività produttiva triplicemente qualificata dai requisiti della professionalità, organizzazione ed economicità), allora anche al dominus va riconosciuta la qualifica di imprenditore, con il conseguente assoggettamento di quest’ultimo alla disciplina dell’impresa, ivi compresa l’esposizione alle procedure concorsuali189. Peraltro, è agevole constatare che una siffatta ricostruzione appronta un rimedio solo parziale al problema più sopra rilevato. Infatti, anche il fallimento del dominus, che svolge la sua attività di direzione e coordinamento e di finanziamento in forma di impresa, acquisisca la qualifica di imprenditore e, quindi, se insolvente, venga assoggettato alle procedure concorsuali, consente soltanto ai (pochi) creditori in possesso di causa legittima di prelazione di beneficiare di una tutela più marcata. Ciò in quanto essi possono contare su un patrimonio ricostruito per il tramite dei meccanismi propri della procedura concorsuale e, in particolare, delle azioni revocatorie fallimentari (artt. 64 ss. l. fall.), normalmente più efficaci dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale previsti dal diritto comune (artt. 2900 ss.). Invece, l’eventuale fallimento del dominus è del tutto 189 Per questa conclusione, sul presupposto di non potersi affrancare dal criterio formale di imputazione dell’impresa, Cass., 13 marzo 2003, n. 3724, in Giust. civ., 2003, I, 1198; Cass., 9 agosto 2002, n. 12113, in Società, 2003, 27; App. Bologna, 23 maggio 2007, in Società, 2008, 316; Trib. Napoli, 8 gennaio 2007 e Trib. Vicenza, 23 novembre 2006, in Fallimento, 2007, 407. 80 L’impresa irrilevante per gli altri (molti) creditori che non hanno alcun titolo per potersi insinuare190. Senza trascurare che non è sempre agevole dimostrare che il comportamento posto in essere dal dominus possa essere qualificato alla stregua di un’impresa, tanto che frequentemente si perviene a risultati affatto contrastanti. In particolare, non è raro che per alcuni giudici un certo comportamento venga qualificato alla stregua di un’impresa mentre per altri quel medesimo comportamento non si presti ad essere apprezzato negli stessi termini191. Sintomatico, a tale proposito, è il famoso caso Caltagirone. Tre signori avevano dato vita ad un’impresa operante nel settore immobiliare che avevano articolato su ben 158 società di capitali. I tre avevano tenuto una condotta che si sostanziava nell’esercitare la direzione e coordinamento di tali società nonché nel provvedere alle relative esigenze finanziarie: in particolare, i tre richiedevano i finanziamenti al mondo bancario che facevano confluire in casse comuni e che poi intermediavano alle diverse società, a seconda delle specifiche esigenze dell’una o dell’altra. Sennonché, l’iniziativa è entrata in crisi ed ha provocato lo stato di insolvenza in tutte le società del gruppo, le quali sono state tutte dichiarate fallite. Ebbene, i giudici di prime cure, come anche i giudici di appello, hanno ritenuto che il comportamento posto in essere dai tre fratelli fosse qualificabile alla stregua di un’impresa e, dopo aver accertato il loro personale stato di insolvenza, hanno dichiarato il fallimento degli stessi. Successivamente, la Corte di Cassazione si è dimostrata di avviso opposto, revocando di conseguenza la procedura concorsuale dei tre fratelli192. 3. Segue: il criterio dell’interesse perseguito (o sostanzialista). La teoria dell’imprenditore occulto. Proprio in ragione delle accennate perplessità e del segnalato pericolo di inadeguata sistemazione degli interessi in gioco, non manca chi si affranca dalla ricostruzione esposta più sopra e propenda per l’idea che l’impresa debba imputarsi secondo un criterio che si riferisca al fenomeno in quanto tale e non alle singole frazioni in cui lo stesso si scompone193. Nel solco di questa corrente di pensiero, sono state proposte diverse ricostruzioni, tutte volte a dimostrare che l’impresa si imputi a prescindere dall’imputazione dei singoli atti giuridici e, quindi, dal nome speso nello svolgimento della stessa. Tra queste, quella senz’altro più importante è la teoria dell’imprenditore occulto, 190 Il punto è molto ben sottolineato da SPADA, I, 137 s. E v., nell’ambito di una stessa vicenda (caso Caltagirone), Trib. Roma, 3 luglio 1982, in Dir. fall., II, 1610, che ha ritenuto che un certo comportamento fosse qualificabile come impresa e Cass., 26 febbraio 1990, n. 1439, in Giur. comm., 1990, II, 366, che ha invece escluso che la medesima condotta integrasse i requisiti dell’art. 2082 c.c. 192 Per una più analitica descrizione della vicenda e per una sintesi del dibattito sorto attorno alla (teoria della) impresa fiancheggiatrice, RONDINONE, Esercizio della direzione unitaria ed acquisito della qualità di imprenditore commerciale, in Giur. comm., 1990, II, 397 ss. e 415 ss. 193 Per questa impostazione, molto chiaramente, FARINA, L’acquisito, 53 ss., 126 ss. e 162 ss. 191 Antonio Cetra 81 elaborata e strenuamente difesa a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del secolo appena trascorso da Walter Bigiavi194. La teoria dell’imprenditore occulto (peraltro, non diversamente dalle altre teorie che si collocano nella medesima corrente di pensiero) muove da un presupposto di fondo: dall’assunto, cioè, che nell’ordinamento vi sia una inscindibile relazione biunivoca tra potere e rischio, tanto che chi ha la direzione di un’iniziativa economica e, nello specifico, imprenditoriale, non può sottrarsi alle relative conseguenze sul piano patrimoniale, ossia diventare responsabile delle obbligazioni che sorgono durante il suo svolgimento195. Più d’uno sarebbero i dati normativi dai quali emergerebbe la divisata relazione potererischio. Un primo è rappresentato dall’art. 2208. Questo articolo sancisce la responsabilità patrimoniale dell’imprenditore per tutti gli atti pertinenti all’esercizio della sua impresa, a prescindere dalla circostanza che per il compimento degli stessi si sia speso il suo nome o il nome del collaboratore preposto che li ha posti in essere in concreto: vale a dire, l’institore (v., infra ). Un’altra serie di dati normativi si trova nella disciplina delle società di persone (cfr., ad esempio, artt. 2267, comma 1, 2291, 2320, 2318, 2317, comma 2). In particolare, si ritiene che da essi emerga inequivocabilmente che i soci di una società di persone siano investiti della carica di amministratore, in quanto personalmente e illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali, e che invece i soci privi di poteri di amministrazione siano anche privi della responsabilità personale e illimitata. Pertanto, assumendo come dato di partenza detta relazione, si deduce che il dominus di un’iniziativa imprenditoriale debba essere senz’altro responsabile per le obbligazioni sorte nel corso dello svolgimento di un’impresa per suo conto da parte di un prestanome (quanto meno in solido con quest’ultimo)196. Sulla base di questa conclusione la teoria dell’imprenditore occulto cerca di dimostrare che un dominus, non solo è responsabile per le obbligazioni della sua impresa, ma possa acquisire anche la qualifica di imprenditore: di conseguenza, essere BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 18 ss.; ID., Responsabilità illimitata, 1180 ss.; ID., L’imprenditore occulto nella società di capitali, 149 ss.; ID., Difesa dell’«imprenditore occulto», 46 ss.; ID., “Imprese” di finanziamento, 79 ss. 195 V., in particolare, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 30 s. e 50 ss.; ID., Ingerenza dell’accomandante, accomandante occulto, accomandita occulta, in Riv. dir. civ., 1959, II, 146 ss. e 159 ss.; ID., Difesa dell’«imprenditore occulto», 71 ss. e 119 ss. La relazione tra potere e rischio è sottolineata anche da chi ha nel tempo ripreso e ulteriormente sviluppato la teoria dell’imprenditore occulto, tra i quali, anzitutto, PAVONE LA ROSA, La teoria, 632 ss. e 652 ss.; BUONOCORE, Fallimento, 65 ss. e 112 ss.; ID., voce Imprenditore (dir. priv.), in Enc. dir., XX, 525 s.; COTTINO, L’imprenditore. Diritto commerciale4, I, 1, Padova, 1999, 200 ss.; pur senza accoglierla pienamente, GALGANO, L’imputazione dell’attività di impresa, in Tr. Galgano, II, 1978, 110 ss.; ID., voce Imprenditore occulto e società occulta, in Enc. giur., XVIII, 3 s.; ID., I, 80 ss. A prescindere dalla teoria dell’imprenditore occulto, l’inscindibilità tra potere e rischio è sottolineata, tra gli altri, da FERRI, ?; FARINA, L’acquisto, 131 ss.; ma già, MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Roma-Milano-Napoli, 1942, 202 ss. 196 Per questa conclusione, pur con argomentazioni non coincidenti, già, MOSSA, op. cit., 190 s.; più di recente, FERRI, ?; e, soprattutto, sottolineando che la responsabilità del dominus attiene al saldo della gestione e non ai singoli atti in cui la gestione si articola, FARINA, L’acquisito, 86 ss. e 98 ss. 194 82 L’impresa assoggettato alla disciplina dell’impresa e, soprattutto, in caso di insolvenza, alle procedure concorsuali. Questo ulteriore decisivo passaggio troverebbe riscontro normativo nell’art. 147 l. fall., dal quale, appunto, sarebbe possibile cogliere il principio generale secondo cui l’impresa si imputa a prescindere dal nome speso nello svolgimento della stessa ma in funzione dell’interesse perseguito. In particolare, l’art. 147 si riferisce al caso del fallimento di una società con soci illimitatamente responsabili e stabilisce, in conseguenza del fallimento della società, come la responsabilità personale e illimitata dei soci debba trovare attuazione nell’ambito della procedura concorsuale: segnatamente, dispone che tale responsabilità trovi attuazione attraverso il fallimento in estensione dei soci personalmente e illimitatamente responsabili, cioè con il fallimento personale in proprio di questi ultimi soggetti197. Una simile regola viene poi specificata con riferimento all’ipotesi in cui la società abbia nella sua compagine sociale un socio occulto, stabilendo che se, dopo il fallimento della società, si accerta, attraverso opportuni indizi (ad esempio, sistematica ingerenza della gestione della società; operazioni di finanziamento a favore della società; ecc.), l’esistenza di un ulteriore socio (e, quindi, che il rapporto sociale si estende al di là della cerchia dei soci palesi), allora il fallimento della società dev’essere dichiarato anche nei confronti di quest’ultimo (art. 147, comma 4). In altre parole, il fallimento della società (palese) viene esteso anche nei confronti di un eventuale socio occulto, che così viene equiparato sul piano normativo ai soci palesi. Ebbene, la teoria dell’imprenditore occulto prende spunto da questa disposizione per dimostrare l’irrilevanza del criterio della spendita del nome, ai fini dell’imputazione dell’impresa. In particolare, si afferma che il trattamento normativo riservato dall’art. 147 alla società palese con socio occulto non possa non essere replicato anche alla società occulta, cioè di una società i cui soci tranne uno sono occulti e, di conseguenza, con essi resta occulto anche lo stesso rapporto sociale. La conclusione riposa sull’assunto che la società palese con socio occulto si distingua dalla società occulta solo in ragione di un elemento quantitativo, vale a dire del numero dei soci che costituiscono le rispettive compagini sociali: nel senso che, nel primo caso (società palese), la società è costituita da tre soci, di cui due palesi (e con essi è palese anche la società) ed uno occulto; nel secondo caso (società occulta), la società è invece costituita da due soci, di cui uno palese (che allora esercita l’impresa a suo nome e appare come un imprenditore individuale) e un altro occulto (e con esso resta occulta anche la società). Di conseguenza, sarebbe inammissibile un diverso trattamento normativo delle due realtà societarie esclusivamente per ragioni di questo tipo: in ragione del numero dei soci che costituisce la compagine sociale198. Pertanto, se da quanto precede discende che la società occulta assume la qualifica di imprenditore con conseguente assoggettamento alla disciplina dell’impresa (ivi 197 Sul fallimento in estensione, quale meccanismo cui tradizionalmente nel diritto italiano è affidata l’attivazione della responsabilità personale e illimitata dei soci di una società fallita, NIGRO, Il fallimento del socio illimitatamente responsabile, Milano, 1974, 517 ss. e 529 ss. 198 In questi termini, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 12 ss.; ID., Difesa dell’«imprenditore occulto», 42 ss. Antonio Cetra 83 comprese le procedure concorsuali), è evidente che risulta normativamente confermato l’assunto iniziale: ossia, che l’imputazione dell’impresa prescinde dalla spendita del nome ed è piuttosto legata all’interesse perseguito199. 4. Le conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa. La conclusione cui perviene la teoria dell’imprenditore occulto appare sorretta da un percorso argomentativo che non resta immune da critiche e, non a caso, essa ha avuto nel corso del tempo un’accoglienza tutt’altro che lusinghiera nella giurisprudenza teorica e pratica200. Nondimeno, non può essere ormai ulteriormente trascurato che tale conclusione è stata parzialmente sugellata dal dato normativo e, in particolare, dagli artt. 24, comma 1, d. lgs. 8 luglio 1999, n. 270 e, soprattutto, 147, comma 5, l. fall. 201. In particolare, entrambe queste disposizioni si riferiscono all’ipotesi di un’impresa individuale per la quale sia stato accertato giudizialmente lo stato di insolvenza: nel primo caso, quale accertamento prodromico alla verifica della sussistenza dei presupposti per l’apertura dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (artt. 27 ss. d. lgs. 270/1999); nel secondo caso, quale condicio sine qua non per la dichiarazione di fallimento (art. 5, comma 1, l. fall.). In entrambe le norme si dispone che se dopo la dichiarazione di insolvenza (e, quindi, di fallimento) emerge, attraverso opportuni indizi, che l’imprenditore dichiarato insolvente (e, eventualmente, fallito) sia in realtà legato ad un altro soggetto da un rapporto di società, in cui tanto il primo quanto il secondo sono soci illimitatamente responsabili, allora gli effetti della dichiarazione di insolvenza (e, quindi, In questi termini, ancora, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 18 ss.; ID., Difesa dell’«imprenditore occulto», 48 ss. 200 In particolare, la dottrina, oltre a contestare il postulato da cui muove la teoria dell’imprenditore occulto (cioè, la relazione tra potere e rischio), ravvisa, quale principale punto debole dell’argomentazione che la sorregge, l’assunto secondo cui tra società palese con soci occulti e società occulta vi sia soltanto una differenza quantitativa nel numero di soci che costituiscono la compagine sociale (esemplarmente, tre soci nella prima e solo due nella seconda), con il che trascurando la profonda differenza qualitativa (e gli inevitabili corollari che ne discendono in punto di imputazione dell’impresa) che deriva dal fatto che nella prima resta occulta solo la partecipazione sociale mentre nella seconda resta occulto tutto il rapporto sociale (ASCARELLI, Problemi giuridici, 435 s., 458 ss., 479 ss.; ID., Corso, cit., 234 s.; MINERVINI, op. cit., 161 s.; RIVOLTA, Gli atti d’impresa, cit., 1654 s.; CASANOVA, op. cit., 48 s.; LIBONATI, 26 s.; CAMPOBASSO, I, 94 ss.). Invece, la giurisprudenza si è spinta non di rado fino al punto di riconoscere alla società occulta la qualifica di imprenditore (tra le altre, Cass., 26 marzo 1997, n. 2700, in Fallimento, 1997, 1009; Cass., 30 gennaio 1995, n. 1006, in Fallimento, 1995, 919; Cass., 15 marzo 1995, n. 2981, in Giur. it., 1996, I, 1, 78) mentre è stata univoca nel rifiutare il passaggio successivo verso il riconoscimento della medesima qualifica al dominus persona fisica (tra le altre, Cass., 19 febbraio 1999, n. 1396, in Fallimento, 1999, 1342 e, per altri riferimenti, IANNELLI, L’impresa, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1987, 105 ss.): posizione, quella giurisprudenziale, che sembra trovare riscontro anche in dottrina, GALGANO, L’imputazione, cit., 115; ID., voce Imprenditore occulto e società occulta, cit., 4. 201 Il punto è sottolineato da BONFANTE-COTTINO, op. cit., 575 s. 199 84 L’impresa eventualmente, il fallimento) devono estendersi anche nei confronti del soggetto successivamente scoperto. In altre parole, le disposizioni richiamate contemplano l’ipotesi in cui un’impresa all’apparenza individuale venga esercitata per conto di una società occulta ed equiparano la società occulta alla società palese con soci occulti: proprio come prospettava alcuni decenni fa la dottrina di cui si è riferito il pensiero. Pertanto, se, alla luce dei due dati normativi ricordati, non sembra più revocabile in dubbio che un’impresa esercitata per conto di una società occulta debba imputarsi proprio alla società occulta, non sembra più neanche azzardato verificare se, in base agli stessi dati normativi, sia possibile generalizzare la conclusione anche con riferimento a casi in cui un’impresa sia esercitata per conto di un soggetto diverso da una società parimenti rimasto occulto202. Il che è quanto dire che bisogna accertare se tali dati normativi possano considerarsi come norme eccezionali (e, quindi, applicabili solo alla fattispecie contemplata) o come norme che esprimono un principio più generale (e, quindi, estensibili in via interpretativa ad altri analoghi contesti)203. La questione è tutt’altro che agevole e non può essere compiutamente affrontata e risolta in questa sede. Sembra tuttavia opportuno a chi scrive condividere con il lettore la preferenza per la seconda alternativa, cioè per l’idea secondo cui si possa ravvisare nelle norme divisate un criterio di imputazione dell’impresa di portata più generale. Ed invero, sostenere il contrario, sostenere, cioè, che l’imputazione dell’impresa prescinda dal nome speso e si leghi all’interesse perseguito solo quando tale interesse è di una società, equivarrebbe a sostenere che la sistemazione degli interessi sollecitati dall’impresa debba essere diversa a seconda che il soggetto che ha speso il nome abbia perseguito anche un interesse altrui (quello del socio occulto) o solo un interesse altrui (quello del dominus); in altre parole, a seconda del tipo di rapporto che lega il primo al secondo soggetto: se un contratto di società o se un contratto di interposizione; in termini ancora diversi, a seconda di quanto hanno convenuto tra di loro il primo e il secondo soggetto. Conclusione che sembra francamente inaccettabile nell’ambito di un’esperienza normativa nella quale il presupposto per la relativa applicazione è fondato – per le ragioni già illustrate (v., supra ) – rigorosamente su dati oggettivi necessariamente sottratti alla discrezionalità delle parti in causa. Senza trascurare che la preferenza per la seconda alternativa è avallata anche dall’esigenza di arginare le ricordate modalità improprie di esercitare l’impresa in regime di responsabilità limitata, con l’inevitabile trasferimento ultra modum del rischio di impresa nei confronti dei creditori. Essa costringe un soggetto che intende esercitare un’impresa senza esporre il suo patrimonio al rischio di impresa di servirsi, Ed invero, come si è già ricordato (v., supra, nt. ?), una delle critiche alla teoria dell’imprenditore occulto insisteva proprio sul tentativo di equiparare la società palese con soci occulti alla società occulta, sicché una volta che quest’ultima è stata consacrata sul piano normativo diventa senz’altro più agevole passare da questa ad altre fattispecie di dominus rimasti occulti (JAEGER-DENOZZA-TOFFOLETTO, 29 s.; v. però le perplessità sulla possibilità di qualificare la società occulta come società in senso tecnico avanzate a suo tempo da ASCARELLI, Corso, cit., 240 s.). 203 Nel primo senso, CAMPOBASSO, I, 96 s. 202 Antonio Cetra 85 non già di un prestanome, magari nullatenente, ma delle strutture ad hoc messe a disposizione dall’ordinamento: le società204. Come sarà visto a suo tempo (v., infra, ), il diritto societario mette a disposizione dei privati due strutture attraverso le quali è possibile esercitare, anche individualmente, un’attività di impresa in regime di limitazione di rischio: la società a responsabilità limitata e la società per azioni. Tuttavia, tali strutture impongono di esercitare l’impresa secondo determinate regole comportamentali, che sono essenzialmente, regole di organizzazione patrimoniale e regole di pubblicità: regole, cioè, che possono essere considerate le condizioni minime in presenza delle quali l’ordinamento consente lo svolgimento di un’iniziativa imprenditoriale in regime di limitazione di rischio: regole che, perciò, non possono essere eluse o pretermesse attraverso l’utilizzo di forme giuridiche non approntate per l’esercizio di un’impresa a responsabilità limitata205. D’altra parte, ad una tale conclusione perveniva anche la dottrina che ha sviluppato la teoria dell’imprenditore occulto, la quale era dell’avviso che se un soggetto vuole esercitare un’impresa a responsabilità limitata deve farlo diventando socio sovrano di una società, quindi per il tramite di una società. Tale dottrina si affrettava a precisare che il socio sovrano deve esercitare l’iniziativa osservando le regole comportamentali prescritte nel tipo societario prescelto. Se invece il socio sovrano non osserva queste regole, cioè usa la società come «cosa propria», «togliendo e mettendo, facendo e disfacendo e infischiandosene più o meno allegramente delle norme di diritto societario», allora il socio sovrano si trasforma in socio tiranno. Ed il socio tiranno non usa ma abusa della società ed è assimilabile al dominus che si serve di un prestanome nullatenente. Il socio tiranno acquisisce perciò la qualifica di imprenditore: è, in altri termini, un imprenditore occulto206. 204 Per considerazioni sostanzialmente analoghe BONFANTE-COTTINO, op. cit., 576 ss.; JAEGER-DENOZZATOFFOLETTO, 30 s.; SPADA, I, 136 ss. E v. anche le considerazioni in chiave storica di MONTALENTI, Persona giuridica, gruppi di società, corporate governance. Studi in tema di società per azioni, Padova, 1999, 53 ss. 205 Così, SPADA, I, 138 s. 206 Così, BIGIAVI, Fallimento di soci sovrani, 697; ID., L’imprenditore occulto nelle società di capitali, 153; ID., Responsabilità, 1181; più in generale, ID., «Imprese» di finanziamento, 80 ss. Nella prospettiva di Bigiavi, resterebbe comunque da comprendere quando in concreto le condotte di cui si parla nel testo possano essere qualificate come fenomeno di tirannia, esponendo, quindi, chi le pone in essere a responsabilità per le obbligazioni di impresa (sul punto, ricostruendo la questione in termini di abuso della persona giuridica, GALGANO, Delle persone giuridiche. Art. 11-352, in Comm. Scialoja-Branca, 2006, 42 ss.; più in generale, sull’abuso della persona giuridica, ZORZI, Abuso della personalità giuridica: tecniche sanzionatorie a confronto, Padova, 2002, 1 ss.) e quando, invece, rappresentino un illecito gestorio sanzionabile con la responsabilità per danni (eventualmente, nella variante della responsabilità da direzione e coordinamento non conforme ai principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale: sulla quale, da ultimo, VALZER, La responsabilità da direzione e coordinamento di società, Torino, 2011, 35 ss.).