Manuale-Cetra-Parte I(bis) - Facoltà di Giurisprudenza

PARTE PRIMA.
L’IMPRESA
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L’impresa
SOMMARIO: § 1. La nozione d’impresa. – 1. La relatività della nozione d’impresa. – 2.
L’impresa quale attività produttiva triplicemente qualificata. – 3. Segue: la professionalità. –
4. Segue: l’organizzazione. – 5. Segue: l’economicità. – 6. La completezza della nozione di
impresa. – § 2. Le categorie di impresa. – 1. L’impresa come fenomeno produttivo di portata
generale e la sua rilevanza normativa. – 2. L’impresa agricola. – 3. La piccola impresa. – 4.
Segue: la piccola impresa nella legge fallimentare. – 5. Segue: il problema dell’impresa
artigiana. – 6. L’impresa commerciale. – 7. Le implicazioni della natura dell’organizzazione
dell’impresa sulla disciplina applicabile. – 7.1 Segue: l’impresa pubblica. – 7.2. Segue:
l’impresa privata. – 7.3 Segue: l’impresa sociale. – §. 3. L’impresa e le professioni
intellettuali. – 1. Il rapporto tra impresa e professioni intellettuali. – 2. L’art. 2232 c.c.
Conclusioni. – 3. Le tendenze a favore dell’assimilazione dei due fenomeni sul piano della
fattispecie. La nozione comunitaria di impresa. – § 4. L’inizio e la fine dell’impresa. – I.
L’inizio dell’impresa. – 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di organizzazione. – II. La
fine dell’impresa. 1. Il criterio di effettività. Le operazioni di liquidazione. – 2. La
cancellazione dal registro delle imprese. La decorrenza degli effetti ex art. 10 l. fall. (rinvio).
– § 5. L’imputazione dell’impresa. – I. Il criterio di imputazione. – 1. La mancanza di un
esplicito criterio di imputazione: la soluzione interpretativa. – 2. L’impresa dell’incapace. –
II. I casi problematici di imputazione. – 1. I casi di imputazione incerta. – 2. Segue: il criterio
della spendita del nome (o formalista). – 3. Segue: il criterio dell’interesse perseguito (o
sostanzialista). La teoria dell’imprenditore occulto. – 4. Le conclusioni in ordine
all’imputazione dell’impresa.
§ 1. La nozione d’impresa.
LETTERATURA: ANGELICI, Diritto commerciale, I, Roma-Bari, 2002; ASCARELLI, Corso di
diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962; AFFERNI, Gli
atti di organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore, Milano, 1973; ASQUINI,
Profili dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1943, I, 135; BIGIAVI, La professionalità
dell’imprenditore, Padova, 1948; BRACCO, L’impresa nel sistema del diritto
commerciale, Padova, 1960; BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, sez. I, tomo
2.1, 2002; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001; CAPO, La
piccola impresa, in Tr. Buonocore, sez. I, tomo 2.III, 2002; CASANOVA, Impresa e
azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974; CAVAZZUTI, voce Rischio d’impresa, in Enc. dir.,
III aggiornam., 1999, 1093; CETRA, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003;
CORSI, Diritto dell’impresa2, Milano, 2003; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale,
I, Parte generale, Milano, 1983; FERRI, Delle imprese soggette a registrazione. Art.
2188-22462, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1968; FERRO-LUZZI,
L’impresa, in L’impresa, a cura di Libonati-Ferro-Luzzi, Milano, 1985, 8; ID., Lezioni
di diritto bancario2, I, Parte generale, Torino, 2004; FANELLI, Introduzione alla teoria
giuridica dell’impresa, Milano, 1950; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3,
Milano, 1972; GALGANO, L’imprenditore, in Tr. Galgano, II, 1978, 3; GENOVESE, La
nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990; GHIDINI, Lineamenti del diritto
dell’impresa2, Milano, 1978; GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggi sui limiti del
Antonio Cetra
3
formalismo giuridico, Bologna, 1998; JAEGER, La nozione d’impresa dal codice allo
statuto, Milano, 1985; LOFFREDO, Economicità e impresa, Torino, 1999; MARASÀ,
Contratti associativi e impresa, Padova, 1995; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie
e statuti, Napoli, 1966; MOSSA, Trattato del nuovo diritto commerciale secondo il
codice civile del 1942, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Milano, 1942;
NIGRO, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione, in Tr. Rescigno2, XV,
1**, 2001, 595; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992; PIRAS,
Nuove forme di organizzazione dell’attività di impresa, in Giur. comm., 1980, I, 70;
RAVÀ, La nozione giuridica di impresa, Milano, 1949; RIVOLTA, Gli atti di impresa, in
Le ragioni del diritto. Studi in onore di Mengoni, II, Diritto del lavoro – Diritto
commerciale, Milano, 1995, 1615; ROMAGNOLI, L’impresa agricola, in Tr. Rescigno2,
XV, 1**, 2001, 233; SPADA, Note sull’argomentazione giuridica in tema di impresa, in
Giust. civ., 1980, 2270; ID., voce Impresa, in Digesto delle materie privatistiche.
Sezione commerciale4, Torino, 1992, 32; ID., Diritto commerciale, I, Parte generale.
Storia, lessico, istituti2, Padova, 2009; TANZI, Godimento del bene produttivo e impresa,
Milano, 1998; TERRANOVA, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, in Riv. dir.
comm., 2009, I, 1.
Nell’iniziare un manuale universitario di diritto positivo, qual è senz’altro un
manuale di diritto commerciale, sembra opportuno partire dall’individuazione della
fattispecie, cioè del destinatario o referente dell’esperienza normativa che ne
rappresenta l’oggetto.
In quest’ottica, è evidente che la fattispecie dev’essere ricercata e/o inferita
guardando al corpo di norme che contengono la relativa esperienza. E accingendoci
alla loro identificazione, giova subito constatare che nell’ordinamento giuridico
italiano – a differenza di altri – tali norme – quanto meno per la parte più importante
che sarà oggetto di trattazione in questa sede – sono contenute, non già in un codice di
commercio (cioè, in una legge organica tematicamente uniforme), bensì nel codice
civile (cioè, in una legge organica tematicamente molteplice) e, esattamente, nel libro
V (intitolato Del lavoro). Più in particolare, la parte che interessa comincia dal titolo II
(intitolato Del lavoro nell’impresa), che si apre con l’art. 2082 (rubricato
Imprenditore), che recita: “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività
economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
Stando al tenore letterale dell’art. 2082, la conclusione che se ne dovrebbe trarre è
di riconoscere il presupposto di vertice dell’esperienza normativa riguardata nella
figura di un soggetto, ossia nell’imprenditore1. Del resto, una siffatta conclusione
apparirebbe pienamente in linea con la struttura del testo normativo che racchiude il
diritto commerciale. Ed invero, tale testo, contenendo perlopiù la regolamentazione
giuridica dei rapporti tra persone, presenta una struttura antropocentrica, atteso che non
può non essere un soggetto (l’uomo) l’a priori del sistema giuridico dei privati. Basti
ricordare che il soggetto entra nel sistema giuridico-privatistico con due qualità
fondamentali, idoneità, cioè capacità generali: la capacità giuridica e la capacità di
1
Sulle ragioni che possono aver indotto ad una conformazione su base soggettiva della disposizione
contenuta nell’art. 2082, da ultimo, TERRANOVA, L’impresa, 34 s.
4
L’impresa
agire. La prima come capacità all’imputazione, alla titolarità di situazioni giuridiche
soggettive, situazioni di supremazia o subordinazione rispetto agli altri uomini, del suo
interesse alle cose, cioè ai beni della vita, beni che sono il termine oggettivo dei suoi
comportamenti leciti o doverosi. La seconda come capacità all’azione, a tutela dei suoi
interessi, che si realizza con l’atto di autoregolamentazione degli stessi, producendo la
modifica delle situazioni soggettive di cui è titolare2. Ed è agevole constatare come il
soggetto sia al centro di tutto il sistema di valori che informa il materiale normativo
contenuto nei primi quattro libri del codice civile, non a caso collocabile nelle «aree»
appena ricordate: dalle norme sul singolo e sulla sua famiglia (contenute nel libro I
intitolato Delle persone e della famiglia) a quelle sui comportamenti leciti o dovuti
rispetto al referente oggettivo costituito dai beni (contenute nel libro III intitolato Della
proprietà); a quelle, ancora, sul potere di disporre dei propri interessi patrimoniali
culminanti nell’atto di autonomia negoziale (contenute nel libro IV intitolato Delle
obbligazioni); a quelle, infine, sulle successioni per causa di morte (contenute nel libro
II intitolato Delle successioni)3.
Tuttavia, è stato dimostrato ormai da tempo che la suddetta conclusione è senz’altro
inesatta, atteso che non è un soggetto, appunto l’imprenditore, il punto dal quale muove
e si sviluppa il diritto commerciale, in funzione delle sue caratteristiche e delle sue
esigenze4.
Probabilmente, bisogna risalire agli albori dell’esperienza normativa considerata per
riscontrare una regolamentazione strutturata su base soggettiva. Infatti, tale esperienza nasce
su impulso della casta dei mercanti, che si era fatta istante della pretesa di approntare un
diritto, che risultasse per molti versi speciale e derogatorio rispetto al diritto dei privati: ad
un diritto, cioè, che, in quanto incentrato sul riconoscimento e sulla tutela della proprietà, era
incapace di adattarsi alle esigenze connaturate alle iniziative da questi poste in essere:
iniziative finalizzate a far circolare (e non invece a conservare) qualcosa o a produrre
qualcosa da vendere (e non invece da consumare). Sicché, il diritto dei mercanti, proprio in
quanto diritto speciale e derogatorio rispetto al diritto comune, era destinato esclusivamente
nei confronti dei soggetti che appartenevano alla casta dei mercanti (le corporazioni), ed era
quindi subordinato ad una qualifica soggettiva, precisamente la qualifica di mercante, che si
conseguiva con l’ingresso nelle corporazioni: ingresso riservato a coloro che svolgevano le
arti e i mestieri per professione abituale e formalizzato attraverso una dichiarazione solenne
di adesione (la professio) sigillata dall’iscrizione nella matricola mercatorum.
Con il passare del tempo, man mano, cioè, che l’economia mercantile e produttiva
diventa centrale nella vita sociale, viene meno tuttavia la ragione per la quale il diritto dei
mercanti doveva essere considerato diritto derogatorio rispetto al diritto statale. In
2
In questi termini, FERRO-LUZZI, Lezioni, I, 22 s.
In questi termini, ancora, FERRO-LUZZI, Lezioni, I, 21 ss.
4
Per il superamento dell’impostazione «a soggetto», cioè dell’idea di vedere nella figura dell’imprenditore
il termine di riferimento del diritto commerciale o, quanto meno, della parte relativa al diritto dell’impresa,
FERRO-LUZZI, I contratti associativi, Milano, 1971, 128 ss. e 188 ss.; ID., L’impresa, 15 ss. E v., anche,
ANGELICI, I, 22 ss.; SPADA, Note sull’argomentazione giuridica in tema d’impresa, in Giust. civ., 1980, I,
2270 ss.; ID., voce Impresa, 36 ss.; ID., La rivoluzione copernicana (quasi una recensione tardiva ai
Contratti associativi di Paolo Ferro-Luzzi), in Riv. dir. civ., 2009, II, 145 ss.; ID., I, 47 ss.; NIGRO, Imprese,
597 ss.; BUONOCORE, L’impresa, 534 ss.; CORSI, Diritto, 3 ss. e 10 ss. Ma già, seppur attribuendo ad un
siffato superamento una diversa valenza normativa, MOSSA, Trattato, I, 162 ss.; ASCARELLI, Corso, 145
ss.; e v., anche, PANUCCIO, Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, 160 ss.
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Antonio Cetra
5
particolare, si prende atto che il diritto dei mercanti è anzitutto il diritto dei traffici
mercantili, cioè un diritto approntato per le esigenze e le caratteristiche di questi ultimi e dei
diversi interessi che sono sollecitati e coinvolti, cercando di trovare il giusto equilibrio tra gli
stessi. Ed infatti, progressivamente, il materiale normativo prodotto nei periodi precedenti
dalle corporazioni – che via via divengono parte integrante dell’ordinamento – viene
consolidato in testi scritti che assumono la veste di atti sovrani.
Per di più, in seguito alla rivoluzione francese e, segnatamente, all’abolizione del
generale divieto all’esercizio del commercio e delle produzioni e la speculare introduzione
del principio di libertà di tali iniziative, l’applicazione del relativo diritto resta subordinato
inequivocabilmente al concreto svolgimento del fenomeno produttivo, cioè di un fenomeno
riconducibile alla – e, quindi, coincidente con la – descrizione dello stesso fatta dal dato
normativo in termini generali e astratti5.
In altre parole, il diritto dei mercanti passa dall’essere un diritto organizzato su base
soggettiva ad un diritto organizzato su base oggettiva; da un diritto di una categoria di
soggetti, finalizzato a riconoscere e tutelare le relative esigenze, ad un diritto di un fenomeno
commerciale e produttivo, finalizzato a disciplinare il suo svolgimento ed a contemperare i
diversi interessi coinvolti. Pertanto, il suo presupposto di vertice non è più rappresentato
dall’appartenenza ad una certa categoria soggettiva o da una qualifica formale attribuita ad
un soggetto ma dallo stesso fenomeno commerciale e produttivo, descritto in termini
oggettivi dal dato normativo come modello comportamentale. Cosa che avviene sin dalla
prima legge organica, rappresentata dal Code de commerce del 1807, dove il fenomeno testé
menzionato viene descritto come acte de commerce (art. 631)6.
Peraltro, il Code de commerce ha influenzato anche le legislazioni di altri paesi, tra le
quali la legislazione italiana: a partire dal codice di commercio del 1865 (artt. 2 e 3), per poi
passare al codice di commercio del 1882 (art. 3), fino ad arrivare al codice civile del 1942
(art. 2082)7.
Ed invero, la norma di apertura dell’esperienza normativa riguardata definisce, più
che l’imprenditore, il fenomeno che l’imprenditore pone in essere, in modo, però, da
isolarlo idealmente da esso. Cioè, descrive in termini oggettivi un suo
comportamento, che si sostanzia in un un’attività, qualificata come produttiva, a sua
volta triplicemente qualificata dai requisiti di organizzazione, professionalità ed
economicità, che prende il nome di impresa. Il che al fine di rendere l’impresa per il
diritto commerciale ciò che è il soggetto per il diritto privato, ossia di collocare
l’impresa al vertice del sistema del diritto commerciale ed assumere la stessa quale
referente della disciplina corrispondente, che verrà illustrata a cominciare dalla
successiva parte seconda.
Infatti, come sarà agevole constatare, il dato normativo appronta la disciplina
proprio muovendo dall’impresa, come attività oggettivamente considerata: disciplina
che allora è la disciplina dell’impresa. Si noterà che tale disciplina è dettata in funzione
delle caratteristiche e delle peculiarità proprie dell’impresa, risentendo della
circostanza che l’impresa si vada o meno ad insediare in un contesto caratterizzato
dall’autonomia patrimoniale. In particolare, essa stabilisce le regole comportamentali
alle quali occorre attenersi nello svolgimento dell’impresa, in modo da pervenire ad un
giusto equilibrio o contemperamento tra i diversi interessi dall’impresa sono coinvolti,
5
Al riguardo, SPADA, voce Impresa, 33 ss.; ID., I, 1 ss.
Al riguardo, sempre, SPADA, voce Impresa, 33 s.; ID., I, 15 ss.
7
Al riguardo, ASCARELLI, Corso, 62 ss.
6
6
L’impresa
nel suo interno (titolare, soci) e nei rapporti esterni che da essa hanno origine (creditori
e, per certi aspetti, lavoratori, destinatari della produzione), risolvendo, cioè, eventuali
situazioni di conflitto8.
Si coglie allora l’importanza di un esame particolarmente attento della definizione
che il dato normativo dà dell’impresa, per comprendere qual è il fenomeno produttivo
rilevante per il diritto. Infatti, la definizione di impresa costituisce il riferimento
generale e astratto, capace di selezionare i diversi fenomeni produttivi che hanno
riscontro nella realtà, individuando quali tra tali fenomeni produttivi hanno dignità
giuridica di impresa e, di conseguenza, devono essere assoggettati alla disciplina
pensata per l’impresa. In particolare, si tratta di rapportare alla descrizione generale e
astratta del fenomeno imprenditoriale il fenomeno che si è verificato in concreto, al
fine di accertare se c’è o meno coincidenza: nel primo caso (e non nel secondo)
applicando a tale fenomeno (che allora si qualifica come impresa) la disciplina
predisposta per lo stesso (cioè dell’impresa).
Peraltro, in quest’ottica, è anche evidente che il manifestarsi di un fenomeno
qualificabile in termini di impresa può essere considerato la condizione in grado di
sollecitare la disciplina dell’impresa. In altre parole, al ricorrere di un tale fenomeno
viene sollecitata e conseguentemente resa operativa la disciplina che ne stabilisce le
modalità di attuazione e svolgimento.
Qui di seguito ci si soffermerà allora sull’analisi esegetica della norma che
contempla la nozione di impresa, cioè sulla definizione normativa dell’impresa,
terminata la quale si dimostrerà come una tale definizione debba considerarsi esaustiva,
cioè insuscettibile di essere arricchita di ulteriori elementi (generalmente espressione di
profili decisionali o intenzionali del soggetto che pone in essere il fenomeno
sottostante) non contemplati dalla norma definitoria.
1. La relatività della nozione d’impresa.
Conviene sin da subito precisare che la nozione di impresa oggetto di studio in
questa sede non rappresenta l’unica nozione di impresa contemplata
dall’ordinamento. Essa è soltanto una delle nozioni, in particolare la nozione che serve
a determinare in termini generali e astratti quali sono i fenomeni che devono essere
assoggettati al corpo di norme che nel loro insieme costituiscono lo statuto delle
attività produttive qualificabili come imprese. Pertanto, si tratta di una nozione
relativa, cioè funzionale alla individuazione del fenomeno destinatario dello statuto
testé menzionato, che costituisce la parte più importante dell’esperienza normativa che
per tradizione storicamente consolidata si suole contrassegnare con l’espressione
diritto commerciale9.
FERRO-LUZZI, L’impresa, 19 ss.; ID., Lezioni, I, 45 ss.; CORSI, Diritto, 12 ss. e 25 ss.
In termini generali, sulla relatività della nozione di impresa, OPPO, Scritti, I, 60 ss.; SPADA, L’incognita
«impresa» dal codice allo statuto, nel libro di Pier Giusto Jaeger, in Giur. comm., 1985, I, 753 ss.;
CAMPOBASSO, I, 25; TERRANOVA, L’impresa, 6 ss.; PRESTI-RESCIGNO, I, 16 s.; e sulla sua derivazione
8
9
Antonio Cetra
7
Una nozione diversa o, quanto meno parzialmente diversa, la si può riscontrare al
vertice di altre esperienze normative.
A titolo di esempio, possiamo ricordare la nozione elaborata dalla giurisprudenza
comunitaria (specialmente, dalla Corte di Giustizia), diretta ad individuare i fenomeni
produttivi congrui rispetto all’applicazione della disciplina dell’impresa contenuta nei
testi normativi comunitari e, in particolare, nel Trattato di funzionamento dell’Unione
europea (artt. 101 ss.), con riguardo ai quali i requisiti qualificativi richiesti dalla
nozione che sarà oggetto di attenzione in questa sede o non sono necessari (la
professionalità o l’organizzazione) o assumono un significato diverso
(l’economicità)10. O ancora la nozione contenuta nell’art. 55 t.u.i.r. (= d.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917), finalizzata ad individuare i fenomeni produttivi idonei a
produrre redditi da assoggettare al regime di imposizione dei redditi di impresa (artt. 56
ss. t.u.i.r.), con riguardo ai quali non sono necessari alcuni dei requisiti qualificativi
richiesti dalla nozione oggetto di attenzione in questa sede (l’organizzazione)11.
Ci sono poi delle nozioni che rappresentano delle specificazioni della nozione che
viene in considerazione ai nostri fini: in tali nozioni vengono messi in rilievo, con un
significativo grado di dettaglio, alcuni aspetti necessariamente trascurati dalla nozione
che qui interessa. In particolare, il riferimento è alle nozioni di impresa bancaria (artt.
10 e 11 t.u.b.) e di impresa di investimento (art. 1, comma 1°, lett. f-h, t.u.f.), poste al
vertice della disciplina bancaria e finanziaria12.
In definitiva, possiamo senz’altro affermare che la nozione di impresa è una
nozione a geometria variabile, che cambia in funzione della disciplina che deve trovare
applicazione e, quindi, delle esigenze e della tipologia di interessi sottostanti alla
specifica disciplina.
2. L’impresa quale attività produttiva triplicemente qualificata.
Passando all’esame della nozione di impresa che qui interessa, conviene muovere
dal rilievo che l’art. 2082 descrive l’impresa in termini di attività e la qualifica, poi,
come produttiva.
L’attività può essere immaginata come un modello comportamentale costituito da
tanti singoli comportamenti, che rilevano sul piano normativo, non in quanto tali (pur
dalla nozione economica (pur sottolineandone le differenze), ASQUINI, Profili, 124 ss.; FRANCESCELLI,
Imprese, 25 ss.; GENOVESE, La nozione, 3 ss.; GLIOZZI, 51 ss.
10
Sul punto, v., sin d’ora, FRANCESCHELLI, Imprese, 341 ss.; AFFERNI, La nozione comnitaria di impresa,
in Tr. Galgano, II, 1978, 134 ss.; VERRUCOLI, La nozione di impresa nell’ordinamento comunitario e nel
diritto italiano: evoluzione e prospettive, in La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario, a cura di
Verrucoli, Milano, 1977, 398 ss.; GRISOLI, voce Impresa comunitaria, in Enc. giur., XVIII, 3 ss.; e, in
particolare, infra, § 2, n. ?
11
Sul punto, in termini generali, FANTOZZI, Il diritto tributario3, Torino, 2004, 841 ss.; ZIZZO, in
FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte italiane7, Padova, 2010,
212 ss.; DE MITA, Principi di diritto tributario6, Milano, 2011, 191 s.; più nello specifico, POLANO, Attività
commerciale e impresa nel diritto tributario, Padova, 1984, ?.
12
Sulla nozione di impresa bancaria e finanziaria, Aa. Vv., Diritto della banca e del mercato finanziario, I,
I soggetti, Bologna, 2000, 30 ss. e 110 ss.; COSTI, L’ordinamento bancario4, Bologna, 193 ss.; ID., Il
mercato mobiliare10, Torino, 2012, ?
8
L’impresa
potendo presentare ognuno di essi attitudine ad essere regolato sul piano giuridico),
bensì nel loro insieme (cioè, come accadimento considerato unitariamente)13. E ciò in
ragione del fatto che essi rappresentano una sequenza coordinata strutturalmente e
funzionalmente, ossia teleologicamente orientata rispetto al raggiungimento di un
determinato scopo (o risultato programmato).
L’attività si presta ad essere qualificata a seconda della natura del suo scopo (o
risultato che mira a raggiungere). Sicché, atteso che qui interessa l’attività produttiva,
la relativa sequenza comportamentale dev’essere orientata al perseguimento di un
risultato socialmente riconoscibile come produttivo. Ciò significa che tale sequenza
dev’essere rivolta a produrre un’utilità che prima non c’era, quindi ad incrementare il
livello di ricchezza complessiva rispetto allo status quo ante. E ciò attraverso lo
scambio di beni o la produzione di beni e servizi. Pertanto, nel primo caso,
consentendo con lo scambio una diversa composizione dei panieri individuali; nel
secondo, rendendo disponibile un bene o un servizio attraverso un procedimento di
trasformazione fisico-tecnica di materie prime o trasferendo un bene in un luogo
diverso da quello originario (o di produzione) o conservando un bene (magari
custodendo il bene nel luogo di produzione) fino al momento in cui lo stesso non
formerà oggetto di richiesta sul mercato.
Se allora soltanto i fenomeni che si presentano nella forma dell’attività produttiva
interessano in questa sede, si può sin da subito individuare un primo gruppo di
fenomeni estranei dai nostri interessi: i fenomeni che si presentano nella forma
dell’attività non produttiva, ossia l’attività di godimento. Essa può essere immaginata
come una sequenza di comportamenti finalizzati ad un risultato non produttivo, vale a
dire a trarre le utilità d’uso o di scambio di qualcosa che già si ha, pertanto senza dar
luogo ad alcun incremento di ricchezza preesistente. In altre parole, si tratta del modo
attraverso il quale si concretizza essenzialmente l’esercizio del diritto soggettivo su un
certo bene14.
Tuttavia, giova subito precisare che la distinzione tra l’attività produttiva e l’attività di
godimento è agevole solo in teoria, cogliendosi essenzialmente sul piano dell’orientamento
teleologico dei segmenti comportamentali da cui sono costituite: a seconda, cioè, che il
risultato perseguito possa essere apprezzato come creazione di nuova utilità o meno. Non è
però sempre agevole distinguere in concreto quando abbiamo a che fare con il primo o il
secondo tipo di fenomeno. È indubitabile che si tratta di attività di godimento allorché il
proprietario di un immobile lo abiti o lo dia in affitto a terzi (utilità d’uso) oppure lo ceda
sul mercato (utilità di scambio). Ed è parimenti indubitabile che si tratta di attività
produttiva allorché il medesimo proprietario utilizzi l’immobile per farci un albergo o un
residence (produzione di servizi). Ma la qualificazione del fenomeno diventa meno certa
allorché sempre lo stesso proprietario affitta le singole camere dell’immobile, ciò in quanto
non è chiaro se in un tale comportamento prevale il fine dello sfruttamento delle utilità d’uso
13
In luogo di molti, AULETTA, voce Attività, in Enc. dir., III, 985 ss.; ASCARELLI, Corso, 147 ss.; OPPO,
Scritti, I, 266 ss.; SPADA, I, 48 ss.
14
In termini generali, TANZI, Godimento, 109 ss.; OPPO, Scritti, I, 274 ss.; BONFANTE-COTTINO,
L’imprenditore, 417.
Antonio Cetra
9
proprie dell’immobile ovvero il fine della creazione di un servizio connesso con l’affitto
delle camere15.
Peraltro, il discorso diventa ancora più complesso quando il comportamento si appunta
su un bene c.d. produttivo (in senso stretto), vale a dire su un bene che per sua naturale
inclinazione consenta di trarre le sue utilità d’uso in forma produttiva (come ad esempio, la
terra, le cave, le miniere, le torbiere). In questi casi, infatti, è di tutta evidenza che l’attività
di godimento è inequivocabilmente diversa da un’attività produttiva quando il godimento è
indiretto, cioè si realizza per il tramite della concessione in locazione del bene ad un terzo.
Invece, il godimento si sostanzia in una vera e propria attività produttiva, quando il
godimento è diretto, cioè quando il titolare ne mantiene la relativa conduzione e percepisce
direttamente le conseguenti utilità d’uso. Basti pensare al proprietario di un terreno che lo
coltiva, al fine di trarne i relativi frutti: ebbene, fa attività di godimento o attività
produttiva?16
Oppure, si prenda ancora il caso del comportamento rapportato al bene denaro. Esso è
senz’altro attività di godimento quando si sostanzia nell’uso di questo denaro, spendendolo
nell’acquisito di beni. Ma la conclusione non è altrettanto sicura allorché si risparmia quel
denaro e, in particolare, quando il risparmio assume le fattezze di forme elaborate di
investimento: non solo nell’ipotesi in cui esso venga impiegato nel trading su strumenti
finanziari secondo i criteri di ripartizione del rischio (servizi di investimento, spesso posti in
essere da apposite società) oppure quando viene utilizzato per concedere dei prestiti ad altri
soggetti (servizi di finanziamento, spesso posti in essere da apposite società); ma anche
quando viene utilizzato per effettuare un investimento in un’impresa, che attribuisce il
controllo sulla stessa e, quindi, il potere di esercitare la relativa direzione e coordinamento17.
Tuttavia, benché non sia sempre facile e immediato discernere quando si tratti di
attività produttiva o di attività di godimento, risulta utile insistere su tale distinzione
solo quando l’eventuale attività produttiva può annoverarsi tra i fenomeni che qui
interessano, cioè può configurarsi alla stregua di un’impresa. Infatti, giova precisare
che non tutte le attività produttive sono delle imprese: tra le prime e le seconde
intercorrendo un rapporto di genus a species. È un’impresa solo l’attività produttiva
che presenta i tre attributi prescritti dall’art. 2082, di professionalità, organizzazione e
economicità, sui quali qui di seguito ci si deve soffermare.
3. Segue: la professionalità.
Con riferimento ad una tale vicenda, propendendo per la qualificazione dell’attività come produttiva,
Cass., 12 giungo 1984, n. 3493, in Foro it., 1984, I, 2773.
16
Il quesito è stato lasciato non a caso aperto essendo la sua risposta affatto controversa (BONFANTECOTTINO, L’imprenditore, 418; BUONOCORE, L’impresa, 66 s.; CAMPOBASSO, I, 25 s.; FERRARA-CORSI,
28 s.). Tuttavia, la risposta che merita di essere ricordata si lega al nome di TANZI, Godimento, 106 ss., 250
ss. e 393 ss., ad avviso del quale l’attività è di godimento se può essere considerata espressione
dell’esercizio del diritto di proprietà sul bene: cosa che accade quando ci si limitano a sfruttare la capacità
produttiva del bene medesimo, cioè a trarre e a percepire le utilità che derivano dalla sua normale
utilizzazione; invece, l’attività è produttiva se non è specificazione dell’esercizio del diritto reale: cosa che
accade quando ci si adopera per accrescere artificialmente la capacità produttiva del bene, al fine di ottenere
utilità ulteriori rispetto a quelle che derivano dalla sua normale utilizzazione, tipicamente nella prospettiva
di assecondare un’esigenza di mercato.
17
Con riferimento ad una tale vicenda, propendendo per la qualificazione dell’attività come produttiva,
Cass., 13 marzo 2003, n. 3724, in Giust. civ., 2003, I, 1198.
15
10
L’impresa
Anzitutto, un’attività produttiva, per poter essere qualificata come impresa,
dev’essere svolta professionalmente, cioè deve soddisfare il primo requisito stabilito
dall’art. 2082, vale a dire il requisito della professionalità. Si tratta del requisito che
connota l’attività sul piano della frequenza relativa al suo svolgimento, richiedendo che
essa abbia luogo in maniera abituale, stabile e reiterata, in definitiva non occasionale o
sporadica18.
Peraltro, se è agevole e immediato definire a livello teorico quando l’attività può
considerarsi esercitata professionalmente, lo stesso non può dirsi dal punto di vista
pratico e concreto.
Al riguardo, può essere utile opportuno ricordare alcune conclusioni che possono
ritenersi ormai acquisite.
In primo luogo, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di esclusività, sicché
il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui un’attività produttiva non
costituisca l’unica attività svolta da parte di chi la pone in essere. A titolo d’esempio,
s’immagini un soggetto che di giorno gestisce un punto di ristoro e poi di sera va ad
insegnare aerobica in una palestra. Oppure, un soggetto che di giorno gestisce una
tavola calda e di sera gestisce un pub. In termini più generali, è senz’altro possibile che
un soggetto svolga un’attività produttiva qualificabile come impresa e un’attività
produttiva di tipo differente; così come che un soggetto svolga due (o più) attività
produttive entrambe qualificabili come imprese19.
In secondo luogo, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di continuità,
sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui l’attività produttiva sia
svolta in modo non continuativo, cioè sia caratterizzata da interruzioni, in un lasso di
tempo considerato. Tuttavia, si precisa che le interruzioni debbano essere legate, non
già all’arbitrio di chi svolge l’iniziativa, bensì alle esigenze naturali del ciclo produttivo
sottostante, sicché l’attività interrotta ricomincia dopo un certo periodo, per poi
interrompersi nuovamente, secondo un intervallo pressoché costante. A titolo di
esempio, si pensi alle attività stagionali, come la gestione di un impianto sciistico o di
uno stabilimento balneare20.
Infine, si ritiene che professionalità non sia sinonimo di pluralità di risultati
prodotti, sicché il requisito in esame è integrato anche nel caso in cui l’attività
produttiva sia finalizzata alla realizzazione di un unico affare. Infatti, non è detto che
l’«occasionalità» dell’affare debba sottendere sempre l’occasionalità dell’attività. In
particolare, ciò non accade quando l’affare si presenta complesso e si presta ad essere
realizzato attraverso un’iniziativa che non può essere improvvisata, cioè non può essere
posta in essere da chiunque, poiché richiede un minimo di retroterra organizzativo,
acquisito in ragione dell’esperienza maturata nel settore in cui l’affare si colloca. A
titolo d’esempio, si pensi al caso in cui il risultato della produzione sia un’opera
18
In questo senso, in modo pressoché unanime, in luogo di molti, BIGIAVI, La professionalità, 9 ss.;
FRANCESCHELLI, Imprese, 96 ss.; BUONOCORE, L’impresa, 139 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore,
423 s. Da ultimo, v. anche le considerazioni di TERRANOVA, L’impresa, cit., 9 s.
19
In questo senso, tra gli altri, SPADA, voce Impresa, 49; CAMPOBASSO, I, 33; Trib. Torino, 4 luglio 1980,
in Fallimento, 1981, 762; con specifico riferimento all’esercizio contestuale di due imprese, COSTI, La
titolarità di più imprese, in Arch. giur., 1964, 96 ss.
20
In questo senso, tra gli altri, PRESTI-RESCIGNO, I, 19; GALGANO, I, 18; FERRARA-CORSI, 35 s.
Antonio Cetra
11
complessa, quale può essere considerata una grande struttura (un ponte, una strada
ecc.), che si realizza attraverso un’attività produttiva che non può essere improvvisata,
nel senso che non può attuarsi senza un minimo di apparato organizzativo, che è
proprio di colui che ha una certa esperienza nel settore di quelle produzioni. Invece,
l’«occasionalità» dell’affare sottende l’occasionalità dell’attività, quando si tratta di un
affare semplice, che si presta ad essere attuato attraverso un’iniziativa che può essere
anche improvvisata e, di conseguenza, posta in essere da chiunque. A titolo di esempio,
si pensi ad un soggetto che compra una partita di merce all’ingrosso, con l’intenzione
di rivenderla al dettaglio e guadagnare la differenza (auspicabilmente positiva) tra il
prezzo di acquisto e il prezzo di vendita21.
Ne consegue che un’attività produttiva che difetti del requisito di professionalità è estranea
ai nostri interessi, trattandosi di un’iniziativa occasionale, ossia posta in essere in modo
episodico e sporadico.
4. Segue: l’organizzazione.
Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, dev’essere poi
organizzata, cioè deve soddisfare il secondo requisito stabilito dall’art. 2082, vale a
dire il requisito dell’organizzazione. Si tratta del requisito che connota l’attività sul
piano dei mezzi impiegati nel suo svolgimento, richiedendo che essa sia esercitata, non
solo (o non tanto) con la capacità lavorativa di chi la pone in essere, ma anche (quanto
piuttosto) con l’ausilio di (altri) fattori produttivi22.
I fattori produttivi impiegabili nel processo produttivo possono essere i più vari.
Essi sono sostanzialmente riconducibili alle due categorie fondamentali, individuate
dalla scienza economica: il lavoro e il capitale. Con il primo si allude alla forza lavoro
acquisita sul mercato del lavoro, a prescindere dal titolo al quale l’acquisizione è
avvenuta (rapporto di lavoro subordinato; coordinato e continuativo; occasionale;
volontario; ecc.)23. Con il secondo si allude a qualunque entità materiale o immateriale,
a prescindere dal titolo che ne consente di avere la disponibilità (proprietà; usufrutto;
uso; locazione; leasing; ecc.)24.
Peraltro, non è necessario che le due tipologie di fattori produttivi ricorrano
congiuntamente. Se è normale che le due categorie di fattori si combinino tra di loro,
21
In questo senso, JAEGER-DENOZZA-TOFFOLETTO, 18; LIBONATI, 11. Nella prospettiva di valutare il
requisito della professionalità alla luce dell’apparato organizzativo destinato all’iniziativa, FRANCESCHELLI,
Imprese, 96 ss.; AFFERNI, Gli atti, 279 ss.
22
In questo senso, FRANCESCHELLI, Imprese, 99 ss.; CASANOVA, Impresa, 23; OPPO, Scritti, I, 243 ss. e
281 ss. BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 424 s.; NIGRO, Impresa, 648 ss. Nel senso invece della non
essenzialità dei fattori produttivi (diversi dal lavoro proprio), BIGIAVI, Sulla nozione di piccolo
imprenditore, in Dir. fall., 1942, II, 177 ss.; ID., La «piccola impresa», 92 ss.; cui adde, tra gli altri,
GALGANO, I, 27 ss. e 31; ed anche BIONE, L’impresa, 102 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 162.
23
Il punto è sottolineato in particolare da BUONOCORE, L’impresa, 120 ss. Nel senso dell’idoneità del
volontariato ad acquisire lavoro nell’organizzazione imprenditoriale, da ultimo, OCCHINO, Volontariato,
diritto e modelli organizzativi, Milano, 2012, 57 ss.
24
Il punto è sottolineato in particolare da CORSI, Diritto, 14 ?
12
L’impresa
non è da escludere che determinati processi produttivi possano richiedere
esclusivamente il fattore lavoro (processi produttivi cc.dd. labour intensive) o il fattore
capitale (processi produttivi cc.dd. capital intensive)25.
Alla luce di quanto precede, dovrebbe essere allora evidente qual è il ruolo del
titolare di un’attività produttiva organizzata (qualificabile come impresa). Il suo ruolo è
quello, non tanto di partecipare attivamente nel processo produttivo, quanto piuttosto di
svolgere un’opera di organizzazione: un’opera, cioè, che consiste nello stabilire un
ordine funzionale e strutturale dei fattori produttivi ai quali fa ricorso, approntandoli
all’impiego nel processo produttivo26.
Una tale opera è comunque legata alla natura dei fattori utilizzati in concreto nel
processo produttivo27: essa, con riferimento al lavoro, consiste nello stabilire un ordine
funzionale finalizzato a definire chi decide cosa e chi esegue ciò che altri hanno deciso;
con riferimento al capitale, consiste nella preparazione degli elementi all’utilizzo nel
processo produttivo.
Peraltro, va detto che l’opera di organizzazione non deve necessariamente
manifestarsi nella realizzazione di un apparato organizzativo tangibile. Infatti, può non
esserci o non essere materialmente percepibile alcun apparato organizzativo. A titolo di
esempio, basti pensare alle attività di investimento nella loro configurazione più
elementare, che si sostanziano nella raccolta di una certa quantità di denaro e nel
successivo impiego in strumenti finanziari secondo opportuni criteri di ripartizione del
rischio; oppure alle attività che si svolgono esclusivamente attraverso la rete internet,
come le tante iniziative di mediazione virtuale, che ormai mettono in contatto venditori
e compratori di qualunque tipo di bene, ivi compreso il denaro (raccolta di denaro da
chi ne ha in eccesso e vuole risparmiarlo in modo remunerativo e offerta di denaro a
chi ne ha bisogno e chiede credito) e articolati servizi finanziari (my-flower; 4-you) e
assicurativi (direct line)28.
D’altra parte, giova precisare che il ruolo del titolare nell’ambito della sua iniziativa
dev’essere comunque almeno minimamente riconducibile ad un’attività di
organizzazione. Se manca questo profilo (e, quindi, l’eterorganizzazione), se, cioè, il
ruolo del titolare si esaurisce in un’attività meramente esecutiva (e, quindi,
nell’autorganizzazione), rappresentando il suo lavoro personale il fattore produttivo
non solo necessario ma anche sufficiente, in quanto l’unico fattore impiegato nel
processo produttivo, allora l’iniziativa non è qualificabile come impresa bensì come
lavoro autonomo.
In questo senso, confutando l’idea che l’organizzazione d’impresa presupponga sempre lavoro altrui,
BIGIAVI, La «piccola impresa», 49 ss. Più di recente, CAMPOBASSO, I, 28; JAEGER-DENOZZATOFFOLETTO, 19 s.; PRESTI-RESCIGNO, 19; FERRARA-CORSI, 31 ss.
26
In questo senso, SPADA, I, 57 s. e 60.
27
Pur con diverse argomentazioni, sottolineano che l’opera organizzativa è legata al tipo di fattori
produttivi utilizzati, RAVÀ, La nozione, 35 ss.; ASCARELLI, Corso, 178; SPADA, voce Impresa, 47 s.;
CAMPOBASSO, I, 28 s.
28
Il punto è sottolineato in particolare da SPADA, Domain names e dominio dei nomi, in Riv. dir. civ., 2000,
I, 721 s.; ID., I, 59 s., il quale mette in rilievo come la telematica affranca dal bisogno di un ordine
strutturale e funzionale di cose e persone nella produzione di beni e servizi.
25
Antonio Cetra
13
Il lavoro autonomo è un’attività produttiva che si caratterizza per essere svolta
esclusivamente con l’intervento esecutivo di chi la pone in essere. Cioè, un’attività nella
quale il lavoro personale può considerarsi, non solo necessario, ma anche sufficiente per il
compimento dell’intero processo produttivo.
Il lavoro autonomo è un fenomeno produttivo che di per sé rileva sul piano normativo.
Esso è definito dall’art. 2222, il quale recita: «quanto una persona si obbliga a compiere
verso un corrispettivo un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza
vincoli di subordinazione nei confronti del committente si applicano le norme di questo
capo». Da tale norma si desume che il lavoro autonomo può dirsi integrato allorché la
produzione è posta in essere: verso un corrispettivo, ossia a titolo oneroso; da un soggetto
che opera senza vincoli di subordinazione, cioè in proprio; con il lavoro prevalentemente
proprio. E gli esempi di iniziative riconducibili alla definizione appena richiamata sono i più
vari: basti pensare all’imbianchino, all’idraulico, all’elettricista, ecc.
Giova osservare che il fatto che il dato normativo richieda che la prestazione debba
essere realizzata con il lavoro prevalentemente proprio potrebbe risultare una contraddizione
rispetto quanto si è detto più sopra, cioè che il lavoro autonomo si caratterizza per la
circostanza che il lavoratore debba utilizzare soltanto il suo lavoro personale. Con riguardo
al termine «prevalentemente» può tuttavia considerarsi pressoché acquisito che esso sia da
intendersi nel senso che il soggetto possa utilizzare o fattori necessari per esternare la propria
capacità lavorativa (si pensi al pennello utilizzato dall’imbianchino o alla pinza, alla tenaglia
o al cacciavite utilizzati dall’elettricista o dall’idraulico); oppure fattori neutri, ossia
inespressivi, ai fini della qualificazione del fenomeno: fattori, cioè, che possono essere
impiegati in ogni attività, anche non produttiva (si pensi al telefono o anche al computer,
che, in virtù della loro diffusione, possono senz’altro essere considerati fattori privi di
capacità qualificativa)29.
5. Segue: l’economicità.
Un’attività produttiva, per essere qualificata come impresa, dev’essere, infine,
economica, cioè deve soddisfare il terzo ed ultimo requisito stabilito dall’art. 2082,
vale a dire il requisito dell’economicità. Si tratta del requisito che connota l’attività sul
piano del metodo che dev’essere seguito nel suo svolgimento. Tale requisito, a
differenza degli altri due precedentemente esaminati, è stato a lungo controverso, nel
senso che è stata a lungo incerta (e, ad onor del vero, ancora non del tutto pacifica)
l’identificazione del metodo cui allude30.
Secondo un primo orientamento, che soprattutto in passato riscuoteva grande
seguito, specialmente da parte di chi era dell’idea che l’economicità fosse un requisito
«inautonomo» dalla (e, quindi, un rafforzativo della) professionalità, il metodo da
impiegare nello svolgimento dell’attività è il metodo lucrativo (se non proprio del
29
In questi termini, sottolineando che si tratta di lavoro autonomo fin quando non può ritenersi superata la
soglia di semplice autorganizzazione del proprio lavoro, CAMPOBASSO, I, 31. Peraltro, resta incerto quale
sia il livello di eterorganizzazione necessario ad integrare un fenomeno imprenditoriale: sul punto, anche
per una sintesi del dibattito, BUONOCORE, L’impresa, 114 ss.
30
Per una sintesi del dibattito, LOFFREDO, Economicità, 3 ss. e 207 ss. Per una recente rivisitazione del
problema, TERRANOVA, L’impresa, 54 ss.
14
L’impresa
tornaconto), cioè un metodo che tende a far conseguire un margine di profitto31 (o il
maggior profitto possibile32). Pertanto, secondo quest’orientamento, un fenomeno
produttivo per potersi qualificare come impresa dev’essere un’attività lucrativa (oltre
che professionale e organizzata): un’attività nella quale i prezzi di cessione dell’oggetto
della produzione (cc.dd. prezzi-ricavo) devono essere fissati ex ante (oltre che in
funzione di quella che può essere la ragionevole capacità di assorbimento da parte del
mercato della produzione offerta) in modo non solo da consentire di recuperare i costi
sostenuti nel corso del processo produttivo (cc.dd. prezzi-costo), ma anche di
conseguire un margine di profitto (se non addirittura il maggior profitto possibile), a
prescindere, poi, dalla destinazione impressa al profitto così ottenuto: se è una
destinazione interessata al titolare dell’iniziativa o, nel caso di impresa collettiva, ai
suoi partecipanti (come i soci in una società) ovvero una destinazione disinteressata a
soggetti differenti (come avviene normalmente in un’associazione o fondazione o in
una società caratterizzata dalla presenza di una clausola non lucrativa).
Secondo un diverso orientamento, che attualmente può considerarsi prevalente,
anche in seguito alla consapevolezza che l’economicità sia un requisito autonomo (e,
quindi, ulteriore) rispetto alla professionalità, il metodo da impiegare nello svolgimento
dell’attività è il metodo economico in senso stretto, cioè un metodo che tende ad
assicurare il pareggio tra ricavi e costi, essendo del tutto eventuale e, comunque,
irrilevante il profitto33. Pertanto, secondo quest’orientamento, un fenomeno produttivo
si qualifica come impresa se è un’attività meramente economica e non necessariamente
lucrativa: un’attività nella quale i prezzi di vendita devono essere fissati ex ante (oltre
che in funzione di quella che può essere la ragionevole capacità di assorbimento da
parte del mercato della produzione offerta) in modo da consentire di coprire i costi
relativi all’acquisito dei diversi fattori variamente impiegati nel processo produttivo
sottostante, ossia di recuperare attraverso i ricavi della vendita dei beni e dei servizi i
costi di produzione sostenuti, restando invece superflua un’eventuale differenziazione
in senso positivo tra ricavi e costi. In altre parole, affinché un fenomeno produttivo
possa qualificarsi come impresa, è sufficiente che il titolare sia in grado di riprendere
dal mercato – e sempre che il mercato risponda assorbendo la produzione offerta –
l’investimento di capitali risultato necessario per lo svolgimento del processo
produttivo e che, di conseguenza, sia nelle condizioni di disporre, anche attraverso il
ricorso al credito, quanto occorre per rinnovare gli investimenti che sono richiesti,
nell’ottica di una prosecuzione regolare dell’iniziativa, senza ulteriori interventi da
31
In questo senso, tra gli altri, ASCARELLI, Corso, 189 ss.; DE MARTINI, Corso, 103 ss.; BUTTARO, Diritto
commerciale. Lezioni introduttive, Bari, 1995, 9; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 435 ss.;
BUONOCORE, L’impresa, 71 ss.; FERRI, ?; FERRARA-CORSI, 36 ss. In giurisprudenza, Cass., 9 dicembre
1976, n. 4577, in Giur. comm., 1977, II, 626; Cass., 3 dicembre 1981, n. 6395, in Giur. it., 1982, I, 1, 1276;
Trib. Gorizia, 18 novembre 2011, in Fallimento, 2012, 722.
32
In questo senso, GENOVESE, La nozione, 27 ss.; GLIOZZI, L’imprenditore, 129 ss.
33
In questo senso, tra gli altri, FRANCESCHELLI, Imprese, 103 s.; OPPO, Scritti, I, 243 e 275 s.; SPADA, voce
Impresa, 50 ss.; LOFFREDO, Economicità, 80 ss.; CAMPOBASSO, I, 31 s. e 34 ss.; GALGANO, I, 23 s. In
giurisprudenza, Cass., 2 marzo 1982, n. 1282, in Foro it., 1982, I, 1596; Cass., 2 marzo 2003, n. 16435, in
Arch. civ., 2004, 1100; Intermedia è la posizione di chi, pur ritenendo superfluo il metodo lucrativo, ritiene
comunque necessario il perseguimento di un fine lato sensu egoistico: BIGIAVI, La professionalità, 43 ss.;
MINERVINI, L’imprenditore, 28 ss.
Antonio Cetra
15
parte di terze economie (cioè di economie ulteriori rispetto all’intervento iniziale o
interventi normalmente imposti da esigenze di crescita dell’iniziativa). Deve trattarsi di
un’iniziativa che sia in grado di mantenersi in equilibrio economico e, quindi, in
equilibrio finanziario, preservando, così, quanto meno nel lungo periodo, l’autonomia
da altre economie34.
Questa seconda interpretazione del requisito dell’economicità è senz’altro
preferibile per un concorso di ragioni.
Al riguardo, giova muovere dal rilievo che, accedendo all’interpretazione che
intende l’economicità come sinonimo di lucratività, il fenomeno normativamente
rilevante (cioè, l’impresa) sarebbe più circoscritto rispetto a quello che risulterebbe
accedendo all’interpretazione più letterale del criterio. Infatti, è di tutta evidenza che,
nel primo caso, un’attività produttiva potrà configurarsi come impresa soltanto quando
si prefigge di conseguire un margine di profitto (eventualmente nel suo livello
massimo) e non si limiti a recuperare invece attraverso i ricavi i costi di produzione.
Una simile restrizione non sembra tuttavia trovare giustificazione. Ciò in quanto
essa avrebbe come conseguenza quella di rendere estranei dalla fattispecie – e, quindi,
dall’assoggettamento alla disciplina che a quella fattispecie si riferisce (ossia, la
disciplina dell’impresa: vale a dire, il diritto commerciale) – una serie di fenomeni che
sollecitano interessi, se non pienamente coincidenti quanto meno non molto diversi
rispetto a quelli sollecitati dai fenomeni che si realizzano secondo il metodo lucrativo
(o addirittura del tornaconto).
Ed invero, occorre considerare che un qualsiasi fenomeno produttivo, a prescindere
dal metodo che ne informa lo svolgimento, necessita ex ante degli investimenti per
acquisire i fattori produttivi da impiegare nel corso del suo processo produttivo,
investimenti che possono essere sostenuti nella misura in cui si disponga di sufficienti
risorse finanziarie, suscettibili di essere acquisite o a titolo di capitale proprio (cioè,
senza vincolo di restituzione) o a titolo di capitale di credito (cioè, con vincolo di
restituzione).
Ora, il fatto che il fenomeno produttivo si svolga secondo un metodo economico, a
prescindere dalla sua esatta identificazione (se lucrativo o meramente economico)
significa essenzialmente che tale fenomeno si prefigge di appagare le istanze di coloro
che soddisfano le sue esigenze finanziarie, per il tramite della collocazione della
propria produzione sul mercato: attraverso la vendita dei beni o servizi prodotti o la
rivendita dei beni acquistati, riuscendo così a recuperare le risorse finanziarie
necessarie per assecondare le pretese dei finanziatori.
È perciò evidente che nel fenomeno produttivo divisato le pretese di tutti coloro che
lo finanziano o lo hanno finanziato – a prescindere dal titolo con cui il finanziamento è
avvenuto – sono esposte al rischio che l’iniziativa non riesca ad ottenere dal mercato le
suddette risorse. Sono esposte cioè al rischio che l’offerta della produzione non trovi
riscontro nella domanda dei destinatari di quella produzione: con il che realizzandosi
ricavi inferiori ai costi, che portano ad uno squilibrio economico (perdita), il quale, a
lungo andare, si riflette, squilibrandola, sulla situazione finanziaria e patrimoniale e, in
definitiva, provocando uno stato di dissesto. In altre parole, tutti coloro che finanziano
34
LIBONATI, 15.; SPADA, I, 61 s.
16
L’impresa
un’iniziativa produttiva autonoma da terze economie, che pretende di sopravvivere
attraverso il collocamento della propria produzione sul mercato e di ottenere le risorse
necessarie a remunerare i fattori produttivi impiegati (in ciò si sostanzia normalmente
un’impresa) sono esposti al rischio di mercato (che è la configurazione tipica del
rischio di impresa): al rischio di non riuscire a soddisfare le proprie legittime
aspettative originate dall’operazione finanziaria posta in essere, se il mercato non
assorbe (quanto meno una parte del)la produzione offerta35.
Non può comunque essere trascurata la differenza fra coloro che finanziano a titolo
di capitale proprio e coloro che finanziano a titolo di capitale di credito. I primi non
hanno alcun diritto alla restituzione del capitale apportato o alla sua remunerazione,
atteso che la restituzione e la remunerazione sono subordinate, rispettivamente, alla
circostanza che residui un avanzo patrimoniale al termine dell’iniziativa o che si siano
prodotti utili (non a caso, è invalso qualificare tali finanziatori con l’espressione
anglosassone di residual claimans). I secondi hanno un vero e proprio diritto alla
restituzione del capitale e alla remunerazione normalmente convenuta (non a caso è
invalso qualificare tali finanziatori con l’espressione anglosassone di fixed claimans).
Sicché, è ragionevole ritenere che i primi debbano essere esposti al rischio di impresa
con più intensità dei secondi.
È allora evidente che in un fenomeno produttivo economico, a prescindere dal
metodo che ne informa lo svolgimento, ricorre il presupposto che rende congruo
l’assoggettamento al diritto dell’impresa: il fatto che tali fenomeni si interfaccino con il
mercato, cioè cerchino di acquisire dal mercato le risorse necessarie per soddisfare le
istanze di coloro che li finanziano (o li hanno finanziati) e, quindi, sono esposti al
rischio che il mercato non consenta la relativa acquisizione o, quanto meno,
un’acquisizione sufficiente. Di conseguenza, devono essere governati dal diritto
dell’impresa – devono, cioè, svilupparsi nell’osservanza delle regole comportamentali
imposte dall’ordinamento proprio con l’obiettivo di realizzare la ricordata graduazione
rispetto all’esposizione al rischio di impresa, ossia una posizione poziore dei primi
finanziatori (e, conseguentemente, deteriore dei secondi) rispetto a tale rischio – non
solo i fenomeni che si svolgono con metodo lucrativo, ma anche quelli che si svolgono
con metodo meramente economico36.
Del resto, una simile conclusione ha trovato talvolta avallo nello stesso dato
normativo, il quale, soprattutto in passato, qualificava, non a caso, come «impresa»
iniziative che non devono essere necessariamente svolte con un metodo lucrativo (e
35
In questo senso, le chiare pagine di FRANCESCHELLI, Imprese, 33 ss. Nello stesso senso, sottolineando
che quale che sia il metodo di gestione (lucrativo o meramente economico), c’è sempre il rischio che il
risultato non si verifichi, CAVAZZUTI, voce Rischio d’impresa, in Enc. dir., III aggiornam., Milano, 1999,
1094 ss.
36
In questo senso, sottolineando come non solo nelle iniziative lucrative ma anche il quelle non lucrative ci
sono interessi meritevoli di una tutela della stessa intensità, CETRA, L’impresa, 48. Ma già, nell’ottica di
vedere l’economicità un «imperativo» della disciplina dell’impresa, seppur ad altro proposito, SPADA,
L’incognità, cit., 757 s; ANGELICI, I, 33 s. Più in generale, sull’idea che la disciplina dell’impresa risenta
della naturale destinazione al mercato della produzione, FANELLI, Introduzione, 52 ss.; GHIDINI,
Lineamenti, 89 ss. e 132 ss.
Antonio Cetra
17
men che meno del tornaconto), tra le quali basti ricordare le iniziative mutualistiche e
le iniziative economiche degli enti pubblici37.
Alla luce di quanto precede, si può dedurre che il fenomeno produttivo che difetti
dell’economicità si configura come attività di erogazione: attività, quest’ultima, che si
caratterizza per cedere i beni o servizi prodotti (o i beni acquistati) a prezzi che non riescono
a recuperare nemmeno i costi sostenuti per il loro ottenimento (o acquisito) o, addirittura,
gratuitamente: un’attività, cioè, che, in definitiva, dà luogo ad un vero e proprio
trasferimento di ricchezza da chi produce a vantaggio dei destinatari della produzione.
Pertanto, questi fenomeni, non riuscendo a recuperare attraverso i ricavi (peraltro
eventuali) i costi sostenuti per la produzione, presentano l’attitudine ad esaurire le risorse
messe a disposizione inizialmente a copertura degli investimenti necessari per realizzare il
processo produttivo (che, non a caso, sono risorse acquisite a titolo diverso dal credito,
peraltro non solo senza pretese restitutorie, ma neanche di remunerazione), sicché l’iniziativa
posta in essere sarà costretta ad arrestarsi, a meno che non ci siano nuove iniezioni di risorse
da parte di terze economie. Si tratta, cioè, di una tipologia di iniziative che tende ad esaurirsi
al termine di qualche ciclo produttivo o altrimenti riesce a proseguire in quanto sostenute da
terze economie.
Ed invero, tali fenomeni si riscontrano essenzialmente nel mondo non profit, dove infatti
una parte (forse la maggior parte e, comunque, la parte più importante) delle iniziative,
presenti perlopiù nei settori a spiccata rilevanza sociale (assistenza sociale, assistenza
sanitaria, assistenza socio-sanitaria, prevenzione della dispersione scolastica, ecc.), opera
secondo un metodo erogativo, cioè cedendo i beni o i servizi prodotti sotto costo o
gratuitamente. Queste iniziative sono riconducibili essenzialmente alle associazioni di
volontariato (l. 11 agosto 1991, n. 266), le quali infatti producono servizi che cedono
prevalentemente in forma gratuita. Non a caso, le associazioni operano grazie all’apporto
rappresentato dal lavoro dei volontari, che non solo è spontaneo ma anche privo di
remunerazione. Ad esso si aggiunge qualche forma di apporto di risorse di altra natura,
principalmente finanziarie, a titolo di donazione disinteressata.
Questi fenomeni, pur essendo fenomeni produttivi, sono tuttavia senz’altro estranei ai
fenomeni che qui interessano.
D’altra parte, resta incerto se possa considerarsi economica o erogativa
quell’attività che viene svolta, stabilendo inizialmente un livello dei prezzi-ricavo
senz’altro insufficiente a coprire i costi di produzione, di conseguenza sapendo di
pervenire ad una perdita, ove tuttavia il differenziale negativo tra ricavi e costi non è
casuale, ma è fissato in funzione dell’impegno assunto ex ante da qualcuno di coprire
tale differenziale. In altre parole, resta incerto se possa considerarsi economica o
erogativa quell’attività che viene svolta secondo una logica di perdita programmata38.
Nel senso che siffatta logica possa ritenersi compatibile con un criterio di
economicità depone la circostanza che l’impegno a coprire il differenziale negativo per
ogni unità di prodotto o servizio venduto è un elemento di cui si tiene conto nella
fissazione del prezzo, trattandosi di un impegno vincolante da parte di chi ha assunto
quest’ultimo. Un simile impegno si sostanzia nell’assunzione dell’obbligo di
Sul punto, in luogo di molti, BUONOCORE, L’impresa, 64 s. e 71 ss.; CAMPOBASSO, I, 35 s.; GALGANO, I,
24 s.
38
Per i termini generali della questione, CETRA, L’impresa, 46 s., nt. 22.
37
18
L’impresa
corrispondere una parte del (o anche tutto il) prezzo: la parte che non viene corrisposta
del destinatario del bene o del servizio.
Siffatte situazioni ricorrono nel mondo non profit, nel quale non sono rare le
iniziative che producono servizi (generalmente servizi alla persona), che vengono
ceduti ad un utente, senza che lo stesso corrisponda l’intero prezzo. Tuttavia,
l’iniziativa che riesce a cedere il servizio, in conseguenza del fatto che un utente la
abbia scelta, ha la possibilità di accreditarsi per incassare la differenza tra il prezzo del
servizio e il prezzo (eventualmente) pagato dall’utente nei confronti di qualcuno che si
è impegnato ex ante in questo senso (generalmente un ente pubblico), talvolta a seguito
della presentazione di un apposito voucher (incorporante l’impegno in questione), che
l’utente ha rilasciato nel momento in cui ha usufruito del servizio39. Situazioni non
diverse si riscontrano anche nelle iniziative mutualistico-consortili, specialmente in
quelle che assumono la forma giuridica del consorzio, le quali producono servizi a
favore degli imprenditori facenti parte del sodalizio, che inizialmente cedono
sottocosto o gratuitamente, per poi recuperare quanto necessario per coprire i costi di
produzione attraverso i cc.dd. contributi consortili40.
6. La completezza della nozione di impresa.
L’esegesi appena conclusa dell’art. 2082 ha permesso di individuare quali siano i
fenomeni produttivi che il dato normativo qualifica come impresa, ossia i fenomeni
normativamente rilevanti, vale a dire destinatari di una certa disciplina.
Come si è visto, il dato normativo appena esaminato individua tali fenomeni,
descrivendo un modello comportamentale, generale e astratto, contenente gli elementi
minimi che devono ricorrere in un fenomeno produttivo, affinché lo stesso possa
qualificarsi alla stregua di un’impresa. Tale modello costituisce la pietra di paragone o
il parametro di confronto di un fenomeno che si verifica in concreto nella realtà, nel
senso che ai fini di una qualificazione di quest’ultimo in termini di impresa occorre
verificare se c’è conformità tra il fenomeno medesimo e la descrizione normativa. E ai
fini della riconducibilità di un fenomeno produttivo alla fattispecie il riscontro deve
arrestarsi lì: nel senso che non deve spingersi nel verificare se ricorrono elementi che il
dato normativo non richiede esplicitamente, a prescindere se essi abbiano carattere
oggettivo o soggettivo, ovvero siano legati alle intenzioni di chi pone in essere il
fenomeno oggetto di qualificazione.
Altrimenti detto, il modello comportamentale descritto dal dato normativo non può
essere arricchito di elementi qualificanti il fenomeno produttivo non richiesti dalla
Sul punto, MARASÀ, Contratti, 5 e 168. E v., anche, PERRINO, Esercizio indiretto dell’impresa
«scolastica», associazione e fallimento, in Giur. comm., 1992, II, 77 ss. Sul ricorso ai vouchers quali forme
di finanziamento dei soggetti del terzo settore cui è affidata la gestione dei servizi sociali ex legge 11
novembre 2000, n. 328 e delle imprese sociali, BELTRAMETTI, Vouchers. Presupposti, usi e abusi, Bologna,
2004, 7 ss.; FREGO LUPPI, Art. 17, in Il sistema integrato dei servizi sociali2, a cura di BalboniBaroniMattioni-Pastori, Milano, 2007, 392 ss.
40
SPADA, Funzione e organizzazione consortile tra legge e prassi contrattuale, in Riv. dir. impr., 252;
1990, VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Tr. Galgano,
IV, 1981, 339.
39
Antonio Cetra
19
norma stessa, né può essere inquinato da elementi intenzionali di chi pone in essere
materialmente il fenomeno. Il modello comportamentale descritto dalla norma è perciò
esaustivo: contiene gli elementi non solo necessari ma anche sufficienti che devono
caratterizzare un certo «fatto» affinché esso possa considerarsi giuridicamente come
«impresa».
In quest’ottica, ci si può sbarazzare agevolmente di due (pseudo) questioni che
affiorano tradizionalmente nel dibattito sulla fattispecie: se un fenomeno produttivo
possa qualificarsi come impresa nel caso in cui la produzione non sia destinata ad
essere collocata sul mercato (c.d. impresa per conto proprio) o nel caso in cui tale
fenomeno si sia svolto senza osservare le condizioni richieste dalla legge per la sua
iniziazione (c.d. impresa illegale) o persegua direttamente o indirettamente una finalità
illecita (c.d. impresa immorale o mafiosa). Ed è agevole a questo punto affermare che
tanto nel primo quanto nel secondo caso la conclusione non può che dipendere dal
riscontro che il fenomeno posto in essere sia riconducibile a quello astrattamente
descritto dall’art. 2082, ossia sia un fenomeno produttivo che presenta le tre
caratteristiche oggettive di professionalità, organizzazione ed economicità: nel caso
affermativo, si tratta di un’impresa; altrimenti, nel caso contrario. In ogni caso, a poco
rileva la destinazione impressa alla produzione ottenuta o l’osservanza di regole
ulteriori o le finalità perseguite attraverso l’iniziativa.
Con riferimento alla prima questione il punto è se un fenomeno produttivo possa
qualificarsi come impresa anche quando il risultato della produzione non venga destinato al
mercato (e rimanga invece nella disposizione di chi ha dato luogo alla stessa).
È evidente che si tratta di ipotesi con rilevanza pratica marginale. Possono essere
rappresentate, ad esempio, dall’agricoltore che coltiva il terreno ottenendo una produzione
che, anziché destinare al mercato, utilizza per l’auto-consumo o per le esigenze della propria
famiglia o il costruttore edile che costruisce un’abitazione che, anziché collocare sul
mercato, adibisce a sua abitazione personale.
Ora, decidere se in questi casi c’è o meno un’impresa è un riscontro che occorre fare solo
avendo riguardo, da un lato, al modello comportamentale astratto previsto dal dato
normativo e, dall’altro, al fenomeno che in concreto è stato posto in essere: ossia, verificare
se quest’ultimo è idealmente riconducibile al primo. In altri termini, è un riscontro che
occorre fare sul piano oggettivo, verificando che il fenomeno produttivo realizzato soddisfi i
tre requisiti di professionalità, organizzazione ed economicità richiesti dal dato normativo. E
con riferimento ad entrambi gli esempi appena fatti, non sembra remota la possibilità che
possano esserci i requisiti della professionalità e dell’organizzazione; soltanto
sull’economicità si è a volte dubitato. Invero, si è sostenuto che il requisito di economicità
non poteva accertarsi in assenza di un’operazione di scambio, atteso che in tal caso non si
può verificare se i ricavi coprono (e, eventualmente, superano) i costi, non essendovi alcun
ricavo41. Tuttavia, si è replicato che il requisito poteva essere accertato, eventualmente
sostituendo il ricavo con il risparmio di spesa o considerando il ricavo come equivalente al
risparmio di spesa, nell’ottica di ritenere che quest’ultimo sia una particolare configurazione
del primo42.
In questa prospettiva, ricorrendo i tre requisiti che qualificano l’attività produttiva, non si
possono avere esitazioni a ricondurre il fenomeno a quello normativamente rilevante. Ed
41
42
In questo senso, BONFANTE-COTTINO, 420 s.; AULETTA-SALANITRO, 6; GALGANO, I, 26 s.
In questo senso, soprattutto, OPPO, Scritti, I, 61 s.; SPADA, voce Impresa, 53.
20
L’impresa
invero, è ipotesi normale che un’impresa si svolga sul mercato, cioè che la produzione sia
destinata al mercato. Infatti, come sarà messo in luce a suo tempo (v., infra, ), tutta la
disciplina dell’impresa postula che l’iniziativa si svolga sul mercato, cercando di assicurare
ai diversi interessi in gioco la più congrua intensità di esposizione rispetto al rischio di
impresa. Non può tuttavia in alcun modo rilevare il fatto che in alcuni casi la produzione non
abbia la sua naturale destinazione di mercato, atteso che la produzione, anche a prescindere
dalla destinazione al mercato, richiede investimenti, ai quali si associa un’esigenza
finanziaria, che in parte può essere soddisfatta a titolo di credito (cioè, con capitali acquisiti
con vincolo di destinazione). Sicché, gli interessi sollecitati durante la fase di produzione
non possono avere una tutela differente a seconda della destinazione impressa o che
s’intenda imprimere ai beni ottenuti: se al mercato o al consumo personale. Ritenere il
contrario equivarrebbe a introdurre nella fattispecie un elemento ulteriore che il dato
normativo non richiede o far dipendere l’integrazione della fattispecie da un elemento
soggettivo quale la scelta su come destinare l’oggetto della produzione.
Con riferimento alla seconda questione il punto è se un fenomeno produttivo possa
qualificarsi come impresa anche se è illecito: altrimenti detto, se anche un’attività illecita
possa considerarsi impresa (che allora sarebbe impresa illecita).
Al riguardo, giova anzitutto precisare che con il sintagma «impresa illecita» si
identificano due tipologie di fenomeni produttivi.
Una prima tipologia è quella dell’impresa illegale. Essa ricorre tutte le volte in cui
un’attività produttiva inizia senza chiedere o ottenere le autorizzazioni per essa previste,
generalmente rilasciate da un’autorità amministrativa. Ad esempio, si pensi all’attività
bancaria o, più in generale, all’attività di investimento finanziario: un’attività bancaria o
un’attività finanziaria possono cominciare solo dopo che hanno ottenuto l’autorizzazione
dall’autorità amministrativa competente (Banca d’Italia: art. 14 tub; Consob: art. 19 tuf),
sicché, se avviate in difetto di tale autorizzazione, si configurano come imprese illegali
(banca illegale; attività di investimento illegale; ecc.).
Una seconda tipologia è quella dell’impresa immorale. Essa ricorre tutte le volte in cui
un’attività produttiva è finalizzata a realizzare un bene o a prestare un servizio contrario a
valori basilari dell’ordinamento: basti pensare ad un’attività di produzione di sostanze
stupefacenti o ad una attività di servizi di accompagnamento per signori altolocati con
signorine di bella presenza e di generose concessioni (cc.dd. servizio di escort). Per vero,
questa seconda tipologia si distingue a sua volta da una sotto categoria, che è qualificata in
letteratura come impresa mafiosa. Essa si identifica con un’attività produttiva, di per sé
regolare e lecita, che appoggia e sostiene un più ampio disegno criminoso. Un esempio
potrebbe essere la creazione e la gestione di un ristorante, col fine precipuo di riciclare del
denaro proveniente da attività illecite43.
Ebbene, anche in questi casi la qualificazione del fenomeno posto in essere è legata
soltanto alla riconducibilità dello stesso al modello comportamentale generale e astratto
descritto dal dato normativo.
Il che deve senz’altro ritenersi con riferimento ai fenomeni che rientrano nella c.d.
impresa illegale, atteso che subordinare l’integrazione della fattispecie al soddisfacimento di
un ulteriore adempimento di ordine formale (la richiesta dell’autorizzazione) vorrebbe dire
arricchire le condizioni minime alla cui ricorrenza il dato normativo subordina la disciplina
dell’impresa. Con la conseguenza che sarebbe lasciato alla volontà di chi pone in essere il
fenomeno decidere se integrare o meno quelle condizioni (attraverso, appunto, la richiesta
43
Sulle tipologie di impresa illecita, per tutti, SACCÀ, Impresa individuale e societaria illecita, Milano,
1988, 11 ss.; ID., Contributo allo studio del contenuto e dei limiti della nozione di neutralità dell’attività
d’impresa, Milano, 2005, 23 ss.
Antonio Cetra
21
dell’autorizzazione) e, quindi, precostituire il presupposto di applicazione della disciplina
dell’impresa: il che è a dir poco inaccettabile, finendo per condizionare alla sua volontà
l’applicazione di una disciplina che non tutela soltanto il suo interesse. Del resto, una tale
conclusione può dirsi ormai ampiamente acquisita a proposito della banca illegale (o banca
di fatto). In particolare, si ritiene che, se si svolge un’attività bancaria, cioè la raccolta di
risparmio tra il pubblico e la concessione del credito, senza chiedere (o ottenere) la
necessaria autorizzazione alla (dalla) Banca d’Italia, la conseguenza non possa essere la
sottrazione del fenomeno alla disciplina sua propria (e in particolare alla disciplina relativa
alla soluzione di un’eventuale insolvenza), bensì soltanto la punizione della condotta illecita
(cioè, il fatto di aver svolto un’attività senza chiedere le necessarie autorizzazioni), con
l’applicazione delle relative sanzioni amministrative e penali (art. 131 tub)44.
Ma a conclusioni non diverse deve giungersi anche con riferimento ai fenomeni che
rientrano nell’impresa immorale (e, a fortiori, mafiosa), atteso che subordinare l’integrazione
della fattispecie ad un giudizio di valore dell’oggetto della produzione o alle finalità remote
perseguite dall’iniziativa significherebbe rendere troppo incerto il presupposto di
applicazione di una disciplina alla quale è affidato il congruo contemperamento di diversi
interessi in gioco. Ed invero, anche attività finalizzate alla produzione di sostanze
stupefacenti o attività finalizzate allo sfruttamento della prostituzione possono essere
caratterizzate da un processo produttivo che sollecita interessi tipici di un qualsiasi
fenomeno produttivo e, in particolare, il credito alla produzione: interessi che pertanto
meritano tutela a prescindere dalle valutazioni in ordine all’oggetto della produzione o alle
finalità perseguite attraverso lo svolgimento di quell’iniziativa45.
In altri termini, anche le attività che perseguono un fine immorale o appoggiano un più
ampio disegno criminoso possono senz’altro qualificarsi come imprese sul piano normativo:
sono fenomeni che se coincidenti con la nozione di impresa sono assoggettati senz’altro alla
disciplina propria dei fenomeni produttivi. Tuttavia, con l’eccezione di quella parte di
disciplina che è predisposta a tutelare gli interessi di chi svolge l’iniziativa medesima (da
identificarsi, più che altro, nella parte «industriale» del diritto commerciale: v., infra, ??). È
evidente che chi svolge un’attività apprezzabile come immorale o a sostegno di un progetto
criminoso non può beneficiare dell’applicazione degli istituti che sono disposti per tutelare
specificamente il suo interesse e, in particolare, la sua posizione sul mercato (ad esempio, gli
istituti dei segni distintivi e della concorrenza): il che alla luce di un principio immanente
nell’ordinamento per cui nessun soggetto può trarre una qualsiasi forma di vantaggio dalla
commissione di un illecito46.
In questo senso, in dottrina, MARTORANO, L’impresa bancaria non autorizzata, in Impresa e società.
Scritti in memoria di Graziani, III, Napoli, 1967, 1072 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 27 s.; OPPO, Scritti,
I, 251 s.; SACCÀ, Impresa, 20 ss.; in giurisprudenza, Cass., 1 luglio 1969, n. 2410, in Foro it., 1969, I, 2886.
Nello stesso senso, con riferimento all’attività finanziaria non autorizzata, SALAMONE, Gestione e
separazione patrimoniale, Padova, 2001, 61 ss.
45
In questo senso, sottolineando che il comportamento imprenditoriale è un fatto che l’ordinamento regola
a prescindere dall’illecito di chi si comporta e di chi ha contatti con questo, SPADA, I, 63 ss. Per l’analoga
conclusione, pur con differenti argomentazioni, BRACCO, L’impresa, 192; PANUCCIO, Note in tema di
impresa illecita (per una teoria delle anomanlie dell’impresa), in Impresa e società. Scritti in memoria di
Graziani, III, Napoli, 1967, 1216 ss. (poi riaffermata in ID., Teoria, cit., 109 ss.); BONFANTE-COTTINO,
L’imprenditore, 444 s.; LIBONATI, 22. Con specifico riferimento all’impresa mafiosa, ALAGNA, Impresa
illecita e impresa mafiosa, in Contratto e impresa, 1991, 159 ss.; SACCÀ, Contributo, 53 ss.
46
In questo senso, tra gli altri, OPPO, Scritti, I, 252 s. e 270 s.; CAMPOBASSO, I, 41.
44
22
L’impresa
§ 2. Le categorie di impresa.
LETTERATURA: AA. VV., La legge-quadro per l’artigianato, in Giur. comm., 1987, I, 690;
ALESSI e PISCIOTTA, L’impresa agricola. Artt. 2135-21402, in Comm. SchlesingerBusnelli, 2010; ANGELICI, Diritto commerciale, I, Roma-Bari, 2002; ASCARELLI, Corso
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L’imprenditore agricolo, in Tr. Galgano, II, 1978, 449; ID., voce Piccolo imprenditore,
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COLUSSI, voce Impresa collettiva, in Enc. giur., XVI, 1989; CORSI, Diritto
dell’impresa2, Milano, 2003; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte
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piccolo imprenditore, in Giur. comm., 1980, I, 37; ID., L’impresa, in L’impresa, a cura
di Libonati-Ferro-Luzzi, Milano, 1985, 8; ID., Lezioni di diritto bancario2, I, Parte
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Milano, 1950; FRANCESCHELLI, Imprese e imprenditori3, Milano, 1972; GATTI, voce
Piccola impresa, in Enc. dir., XXXIII, 1983, 758; GALGANO, L’imprenditore, in Tr.
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GHIDINI, Lineamenti del diritto dell’impresa2, Milano, 1978; GLIOZZI, L’imprenditore
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nozione d’impresa dal codice allo statuto, Milano, 1985; MARASÀ, Contratti associativi
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I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Milano, 1942; NIGRO, Imprese
commerciali e imprese soggette a registrazione, in Tr. Rescigno2, XV, 1**, 2001, 595;
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organizzazione dell’attività di impresa, in Giur. comm., 1980, I, 70; RAVÀ, La nozione
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studi di Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 1987, I, 203; ROMAGNOLI, L’impresa agricola,
in Tr. Rescigno2, XV, 1**, 2001, 233; ROVERSI-MONACO, L’attività economica
pubblica, in Tr. Galgano, I, 1977, 385; SPADA, voce Impresa, in Digesto delle materie
privatistiche. Sezione commerciale4, Torino, 1992, 32; ID., Diritto commerciale, I, Parte
generale. Storia, lessico, istituti2, Padova, 2009.
Acquisita la nozione di impresa, occorre passare adesso all’esame della rilevanza
normativa dell’impresa, ossia vedere qual è la disciplina che trova applicazione nei
confronti dell’impresa.
Antonio Cetra
23
Come sarà agevola constatare, la disciplina dell’impresa, intesa quale disciplina
organica, in forma di statuto (c.d. statuto dell’impresa) trova applicazione non tanto
nei confronti dell’impresa non ulteriormente qualificata (cioè, all’impresa in quanto
tale): sono semmai singoli istituti o singole norme o gruppi di norme che costituiscono
quella disciplina che trovano applicazione nei confronti dell’impresa non ulteriormente
qualificata (cioè, dell’impresa tout court). Invece, una tale disciplina sembra risentire
della circostanza che l’impresa abbia una certa natura, assuma una certa dimensione,
e, eventualmente, rivesta una certa forma giuridica. In quest’ottica, risulta necessario
enucleare le diverse categorie d’impresa rilevanti sul piano normativo (individuate,
appunto, in funzione della natura della produzione, della dimensione e della forma
giuridica rivestita): le categorie che classificano l’impresa sulla base di elementi (la
natura della produzione, la dimensione e la forma giuridica) che possono condizionare
la disciplina applicabile.
1. L’impresa come fenomeno produttivo di portata generale e la sua rilevanza
normativa.
La nozione di impresa che si è appena esaminata ricomprende un qualsiasi
fenomeno produttivo che presenti i tre requisiti di professionalità, organizzazione e
economicità.
Tale nozione introduce nel sistema una marcata discontinuità rispetto al sistema
previgente del codice di commercio del 1882: non solo perché descrive un fenomeno
produttivo in termini di attività (art. 2082 c.c.) e non invece di atto di commercio (art.
3 c. comm. 1882), con il che escludendo dalla fattispecie fenomeni che si sostanziano
in singoli atti (cfr. art. 3, nn. 4, 5, 15, 18) o in un insieme di atti non unitariamente
orientati sul piano teleologico (cfr. art. 3, nn. 1, 3, 11, 12, 22, 23); quanto piuttosto
perché colloca al vertice del diritto commerciale un fenomeno omnicomprensivo (art.
2082 c.c.), laddove invece al vertice del diritto commerciale contenuto nel codice di
commercio erano espressamente esclusi i fenomeni di natura agricola e artigiana (art. 5
c. comm.).
La ragione di questo ampliamento del fenomeno normativamente rilevante si coglie
nel tentativo perseguito da legislatore storico del 1942 di assoggettare ogni iniziativa
produttiva (a prescindere, cioè, dalla natura e purché caratterizzate da un minimo di
organizzazione imprenditoriale) ad un nucleo di regole comuni, vale a dire alle regole
contenute negli artt. 2084-2093: a regole perlopiù programmatiche che si limitano ad
enunciare un principio e a rinviarne la relativa attuazione ad altra legge ordinaria e,
soprattutto, alle norme corporative.
Più precisamente, l’intento era essenzialmente quello di far sì che tutte le iniziative
imprenditoriali informassero, non solo l’indirizzo della produzione (cfr. 2085), ma
anche il concreto svolgimento delle stesse (art. 2088), ai principi dell’ordinamento
24
L’impresa
corporativo e, di conseguenza, restassero esposte, nel caso di inosservanza dei relativi
obblighi, a severe sanzioni (artt. 2089 ss.)47.
La ragione, quanto meno principale, che aveva indotto il legislatore storico a
uniformare gran parte delle attività produttive (cioè, quelle triplicemente qualificate
dagli attributi esaminati) nella nozione d’impresa è venuta meno con la soppressione
dell’ordinamento corporativo (d.l.lgt. 14 settembre 1944, n. 287), circostanza,
quest’ultima, che ha fatto perdere agli artt. 2084-2093 gran parte della loro importanza
e consistenza.
Ed invero, in seguito alla caducazione delle norme corporative, l’impresa, quale
fenomeno omnicomprensivo, sembra aver smarrito il suo pendant sul piano del diritto
positivo48.
In particolare, l’impresa in quanto tale non pare assoggettata (più) ad un corpo
organico di regole che costituiscono uno statuto.
In realtà, nel corso del tempo non sono mancati tentativi di colmare il vuoto derivante
dall’abrogazione dell’ordinamento corporativo attraverso uno statuto dell’impresa che
ispirasse le relative iniziative ai principi economici fondamentali dell’ordinamento racchiusi
nella Costituzione (parte I, Titolo III) e, al tempo stesso, desse attuazione alle corrispondenti
norme programmatiche (cfr., ad esempio, artt. 35, 41 e 46 Cost.).
Il tentativo senz’altro più importante è da ascriversi ad una commissione ministeriale
appositamente costituita e presieduta da Giuseppe Ferri, la quale aveva elaborato uno
statuto dell’impresa, tuttavia mai tradotto in legge.
Solo di recente, su impulso di una comunicazione della Commissione europea [Com. 25
giugno 2008, n. 394 dal titolo «Una corsia preferenziale per la piccola impresa – Alla ricerca
di un nuovo quadro fondamentale per la piccola impresa (Un small business act per
l’Europa)»], è stato emanato uno statuto delle imprese (l. 11 novembre 2011, n. 180), con il
proposito di dare attuazione agli artt. 35 e 41 Cost. e, in particolare:
- favorire e facilitare la nascita delle imprese e consentire il relativo sviluppo nelle
dinamiche competitive del mercato interno e internazionale (art. 16), anche attraverso gli
strumenti dell’associazionismo e della cooperazione (artt. 3 e 4);
- semplificare il quadro normativo generale (art. 6) e dei rapporti con la pubblica
amministrazione (artt. 7, 8, 9 e 11), con specifico riferimento alla partecipazione agli appalti
pubblici (art. 12 e 13);
- promuovere l’inclusione delle problematiche sociali e delle tematiche ambientali nello
svolgimento dell’attività di impresa (art 14);
- ecc.
Tuttavia, così come il progetto Ferri non si riferiva all’impresa ex art. 2082 ma (quanto
meno precipuamente) ad una categoria (l’impresa medio-grande), anche lo statuto emanato
dalla l. 180/2011 non si indirizza a tutte le imprese ma (essenzialmente) ad alcune categorie:
alle micro, piccole e medie imprese, come definite dalla Racc. 6 maggio 2003, n. 361 e (tra
queste) alle imprese partecipate in prevalenza da donne o da giovani di età non superiore a
35 anni.
Sul punto, pur con diverse sfumature di pensiero, le ricostruzioni di GALGANO, L’imprenditore, 24 ss.;
GLIOZZI, L’imprenditore, 45 ss.; COTTINO, L’imprenditore. Diritto commeriale4, I, 1, Padova, 2000, 54 ss.;
BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 382 ss.
48
Non a caso, FERRO-LUZZI, L’impresa, 26 e 30; ID., Lezioni, 30 considera la nozione generale di impresa
una trappola «sistematica» o «metodologica», nella quale è incappata gran parte della dottrina, la quale è
stata indotta a concentrare i propri sforzi ricostruttivi nella ricerca del risvolto normativo di tale nozione
ormai non più esistente.
47
Antonio Cetra
25
In realtà, secondo l’opinione tradizionalmente consolidata l’impresa in quanto tale
risulterebbe (ancora) destinataria di uno statuto, il c.d. statuto generale dell’impresa,
costituito da tutti quegli istituti che hanno (rectius: sembrano avere) come ambito di
applicazione l’impresa non altrimenti qualificata. In particolare, si tratta degli istituti
della concorrenza e dei consorzi (artt. 2595-2620 e l. 10 ottobre 1990, n. 287), dei
segni distintivi (artt. 2563-2574 e c.p.i.) e dell’azienda (artt. 2555-2562)49.
Tuttavia, con riferimento alla concorrenza e ai segni distintivi, occorre prendere atto
del processo di ampliamento del fenomeno normativamente rilevante, che dall’impresa
tende ad estendersi ad attività produttive diversamente qualificate, o per scelta del
legislatore (le professioni intellettuali: v., infra, ?) o per difetto di uno dei requisiti
richiesti dall’art. 2082 (le attività occasionali, il lavoro autonomo: v., supra, ?). Infatti,
sarà agevole notare che la parte più significativa della disciplina della concorrenza
(l’antitrust) e dei segni distintivi (il marchio: artt. 2569 ss. e 7 ss. c.p.i.) non può
considerarsi disciplina esclusiva dell’impresa, atteso che il suo ambito di applicazione
ricomprende anche altri fenomeni produttivi.
Inoltre, con riferimento all’azienda, occorre sottolineare che almeno parte della
relativa disciplina non trova applicazione all’impresa in quanto tale, atteso che qualche
disposizione è riservata espressamente ad alcune categorie di impresa (art. 2557)
mentre altre disposizioni presuppongono l’osservanza di istituti riservati sempre solo
ad alcune categorie di impresa (artt. 2556, 2558, comma 1, 2559, comma 1, 2560,
comma 2).
Invece, occorre segnalare che all’impresa in quanto tale è stato generalizzato
l’ambito di applicazione di un istituto – la pubblicità commerciale – fino a ieri riservato
ad una categoria di impresa.
Infine, all’impresa in quanto tale si applicano anche delle disposizioni sparse, che si
trovano qua e là nella sistematica del codice civile, tra le quali giova ricordare, ad
esempio, l’art. 230-bis relativo alla c.d. impresa familiare, l’art. 1368, comma 2,
relativo ai criteri di interpretazione del contratto; ecc.
Ne consegue che l’impresa, quale fenomeno omnicomprensivo, è destinataria di una
disciplina poco organica e molto frammentaria, che senz’altro non esaurisce l’attuale
portata del diritto commerciale, quale complesso organico di norme qualificabili a
stregua di statuto.
Ed invero, il legislatore storico, se, da un lato, tratteggiava per le ragioni appena
chiarite una nozione unitaria di impresa, dall’altro, enucleava da tale nozione due
sottofattispecie alle quali circoscrivere la disciplina applicabile alle norme appena
passate in rassegna50. E ciò sul presupposto che non tutti i fenomeni produttivi
49
Per tutti, CAMPOBASSO, I, 22 s.
Non manca chi parla di sottofattispecie a rilevanza negativa sul piano normativo, per mettere l’accento
sul fatto che si tratta di fenomeni imprenditoriali sottratte da un corpo organico di regole qualificabili in
termini di statuto: tra gli altri, SPADA, voce Impresa, 63 ss.; ID., I, 71 ss.; ANGELICI, I, 25 ss.; ma,
sostanzialmente, già, CIAN, Diritto civile e diritto commerciale oltre il sistema dei codici, in Riv. dir. civ.,
1974, I, 534 ss. Altri invece hanno escluso che queste sottofattispecie fossero imprese in senso tecnico,
proprio per rimarcare la parziarietà e frammentarietà di disciplina cui sono assoggettate: con specifico
riferimento all’impresa agricola, FERRI, L’impresa agraria è impresa in senso tecnico?, in Atti del terzo
50
26
L’impresa
rientranti nella nozione generale di impresa dovessero essere assoggettati alla stessa
disciplina e, segnatamente, che ve ne fossero alcuni rispetto ai quali l’applicazione di
tutto il corpo organico di norme che costituisce il diritto commerciale fosse eccessivo
e, comunque, inutile rispetto alle finalità precipuamente perseguite51.
In particolare, i fenomeni imprenditoriali cui si attribuisce questa più ristretta
rilevanza normativa sono due e sono individuati:
- il primo, guardando alla natura della produzione e, in quest’ottica, enucleando
dalla nozione generale di impresa l’impresa agricola;
- il secondo, guardando alla dimensione dell’organizzazione e, in quest’ottica,
enucleando dalla nozione generale di impresa la piccola impresa.
Pertanto, è agevole notare che queste due categorie di impresa corrispondono
grosso modo con le due tipologie di fenomeni che erano estranei al fenomeno
normativamente rilevante collocato al vertice del codice di commercio e che
continuano ad essere estranee dall’ambito di applicazione di una disciplina che grosso
modo ricalca quella contenuta nel codice di commercio52.
Si tratta di una disciplina costituita da istituti precipuamente finalizzati alla tutela
degli interessi di coloro che finanziano l’iniziativa imprenditoriale e, in particolare, ad
assicurare un’adeguata composizione di tali finanziatori rispetto al rischio di impresa,
nel senso che coloro che la finanziano a titolo di capitale proprio siano più esposti al
rischio di impresa rispetto a coloro che la finanziano a titolo di capitale di credito. In
altre parole, si tratta di istituti precipuamente finalizzati a tutelare il credito alla
produzione, riservati ai fenomeni imprenditoriali in cui questa forma di finanziamento
ricorre in maniera più intensa.
Passiamo allora a individuare i tratti identificativi delle due categorie di impresa
destinatarie solo in modo parziale e frammentario del diritto commerciale, per poi
passare a individuare i tratti identificativi della categoria di impresa destinataria di tutto
il diritto commerciale, quale complesso organico di norme costituenti lo statuto delle
attività produttive organizzate in forma imprenditoriale (= diritto dell’impresa) .
2. L’impresa agricola.
La nozione di impresa agricola si desume dall’art. 2135, il quale la descrive come
attività di coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività
connesse: tradizionalmente, si suole qualificare le prime come attività agricole
essenziali mentre le seconde come attività agricole per connessione.
congresso nazionale di diritto agrario. Palermo 19-23 ottobre 1952, a cura di Orlando Cascio, Milano,
1954, 394 ss.; ID., ?; con riferimento anche alla piccola impresa, BRACCO, L’impresa, 138 ss.
51
Per tutti, GHIDINI, Lineamenti, 77 ss.; OPPO, Scritti, I, 63 ss. e 195 ss.
52
Infatti, non manca chi sottolinea che l’accennato cambiamento del presupposto di vertice, cui si è parlato
all’inizio del paragrafo, risulta più pletorico che reale (così, DE MARTINI, Corso, 36 s.) o per molti versi
artificiosa (così, FERRARA-CORSI, ?), essendo dettato da ragioni tramontate all’indomani dell’entrata in
vigore del codice civile e non più ripristinate con l’avvento dell’ordinamento repubblicano.
Antonio Cetra
27
Anzitutto, occorre soffermarsi sulla ragione della scelta di attribuire all’impresa
agricola rilevanza normativa più ristretta, cioè escludere dal novero dei fenomeni
imprenditoriali destinatari della disciplina dell’impresa nella sua interezza e,
soprattutto, della parte posta a tutela del credito alla produzione.
La ragione può cogliersi probabilmente considerando il fenomeno in questione nel
momento in cui detta scelta è avvenuta.
Tale fenomeno si caratterizzava per avere un processo produttivo incentrato
essenzialmente sul fondo: un fenomeno in cui il fattore produttivo principale era
rappresentato dal fondo, il cui esercizio compenetrava con l’esercizio del diritto di
proprietà sul fondo, atteso che il titolare del fenomeno era normalmente il proprietario
del fondo su cui lo stesso si svolgeva53. In particolare, l’impresa agricola si sostanziava
nello sfruttamento del fondo attraverso la sua messa a coltura e/o la sua utilizzazione
come luogo di allevamento del bestiame, attività alla quale poteva aggiungersi
un’ulteriore attività di trasformazione e/o commercializzazione di prodotti provenienti
dalla coltivazione o dall’allevamento del bestiame, sempre che quest’ultima attività
rientrasse nel normale esercizio dell’agricoltura (cioè, un’attività che costituiva il tipico
prolungamento dello sfruttamento del fondo in un determinato momento storico e in
una determinata area geografica) e/o risultasse economicamente subordinata alla prima
(cioè, un’attività secondaria rispetto allo sfruttamento del fondo)54.
È allora ragionevole ritenere che il legislatore del 1942 (in perfetta continuità
rispetto al legislatore precedente) si sia orientato nel senso di assoggettare l’impresa
agricola ad una disciplina di portata più circoscritta, sul presupposto che l’impresa
agricola non presentava particolari esigenze di investimento in fattori produttivi
necessari per lo svolgimento del processo produttivo sottostante, poiché quei fattori
produttivi coincidevano in larga parte con il fondo, ossia con un bene che già si
possedeva, in quanto bene di proprietà. Né investimenti significati potevano essere
richiesti dall’attività di trasformazione o di commercializzazione di prodotti, dato il suo
carattere tipicamente accessorio e secondario rispetto all’attività principale di
coltivazione e/o di allevamento55.
53
IRTI, Proprietà e impresa agricola, Napoli, 1965, 1 ss. e 89 ss.; G.B. FERRI, Proprietà produttiva e
impresa agricola, Torino, 1992, ?.
54
Sul fenomeno produttivo sottostante alla versione originaria della nozione di impresa agricola, v., con
riguardo alle attività essenziali, sottolineando, in particolare, la centralità del fondo nel relativo processo
produttivo, FERRI, L’impresa agraria, cit., 397 s.; ID., ?; MINERVINI, L’imprenditore, 53 s.;
FRANCESCHELLI, Imprese, 220 ss.; DE MARTINI, Corso, 158 ss.; GENOVESE, La nozione, 82 ss.; COTTINO,
L’imprenditore, cit., 101 ss.; nello stesso senso, ma rimarcando l’autonomia dall’esercizio del diritto di
proprietà sul fondo sul quale potrebbe anche non esserci tale diritto, CASANOVA, Impresa, 105 ss.; con
riguardo alle attività per connessione, sottolineando, in particolare, la concorrenza del criterio di normalità e
di subordinazione economica, RAVÀ, La nozione, 88 ss.; nel senso, invece, di ritenere i due criteri
alternativi e, segnatamente, il primo (la normalità) riservato alle attività connesse «tipiche» (cioè, quelle
menzionate nell’art. 2135, comma 2, c.c., testo originario) mentre il secondo (la subordinazione economica)
alle attività connesse «atipiche» (cioè, diverse da quelle menzionate nell’art. 2135, comma 2, c.c., testo
originario), MASI, in Manuale di diritto agrario italiano, a cura di Irti, Torino, 1978, 97 ss. e 104 ss.;
NIGRO, Imprese, 619 s.; o nel senso di far entrare in gioco la normalità laddove non può essere rispettata la
subordinazione economica, BIONE, L’impresa, 114 ss. e 125 ss.; ID., L’imprenditore, 502 ss.
55
Sulle ragioni alla base del trattamento normativo dell’impresa agricola, ampiamente, JANNARELLI(VECCHIONE), L’impresa, 92 ss. spec. 114 ss.; e v., anche, GERMANÒ, Sul perché dello speciale «statuto»
dell’impresa agricola: una ricerca sulla dottrina italiana, in Impresa agricola e impresa commerciale: le
28
L’impresa
Pertanto, le esigenze finanziarie sollecitate dal processo produttivo sottostante
l’impresa agricola apparivano tendenzialmente minime e, quindi, minimo poteva
immaginarsi il ricorso al credito alla produzione, tanto da non giustificare
l’assoggettamento dell’iniziativa ad una disciplina che impone regole comportamentali
finalizzate a comporre adeguatamente i diversi interessi in gioco rispetto al rischio di
impresa. D’altra parte, non può essere trascurato che l’eventuale credito alla
produzione veniva acquisito attraverso operazioni che consentivano al creditore di
attivare forme di autotutela, cioè forme di tutela contemplate dal diritto privato
classico per la salvaguardia del credito, rappresentate perlopiù dall’ottenimento di
garanzie (reali): da ipoteche sul fondo (tipicamente, nel credito fondiario) o da
privilegio su bestiame, merci, scorte, materie prime, macchine, attrezzi e altri beni,
comunque acquistati con il finanziamento concesso (tipicamente, nel credito agrario)56.
Sta di fatto che, nell’ambito di una più ampia riforma di modernizzazione del
settore agricolo (d. lgs. 18 maggio 2001, n. 228), la versione originaria dell’art. 2135 è
stata integrata di due commi (il 2° e il 3°), che descrivono, rispettivamente, che cosa
siano le attività agricole essenziali (2° comma) e le attività agricole per connessione (3°
comma).
Ai sensi dell’art. 2135, comma 2 per attività essenziali si intendono le attività dirette
alla cura dello e allo sviluppo di un ciclo biologico (o di una sua fase necessaria) di
carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le
acque (dolci salmastre o marine). Ai sensi dell’art. 2135, comma 3 per attività connesse
si intendono comunque le attività di conservazione, manipolazione, trasformazione e
commercializzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalle
attività agricole essenziali, nonché le attività dirette alla produzione e alla fornitura di
beni o servizi ottenuti mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse
dell’azienda agricola57.
È allora di tutta evidenza che ne è fuoriuscita una nozione di impresa agricola
decisamente più ampia di quella immaginata dal legislatore storico del ’42 e
considerata tale dalla dottrina commercialistica e dalla giurisprudenza prevalente58.
Giova precisare che la nozione codicistica di impresa agricola è da considerarsi del tutto
autonoma e, quindi, non integrata dalla nozione di imprenditore agricolo professionale (=
iap) stabilita dall’art. 1 d. lgs. 29 marzo 2004, n. 99, la quale mira ad individuare tra i titolari
ragioni di una distinzione, a cura di Mazzamuto, Napoli, 1992, 205 ss. E v., anche, la rassegna di MASI,
L’impresa agricola: tra diritto agrario e impresa commerciale, in Riv. dir. civ., 1983, II, 479 ss. e 485 ss.
56
Al riguardo, le chiare considerazioni di OPPO, Credito agrario ad imprese commerciali?, in Scritti
giuridici, V, Banca e titoli di credito, Padova, 1992, 72 ss. E v., anche, GHIDINI, Lineamenti, 77 ss.
57
In termini generali, sulle attività essenziali ed attività connesse, (JANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa,
233 ss. e 306 ss.; (ALESSI-)PISCIOTTA, L’impresa, 113 ss. e 147 ss.
58
Infatti, la riforma del 2001 ricordata nel testo accoglie la nozione di impresa agricola dominante tra gli
studiosi di diritto agrario (tra i quali, LAZZARA, Impresa agricolaa Art. 2134-2140, in Comm. ScialojaBranca, 1981, 42 ss. e 55 ss.; CARROZZA, Lezioni di diritto agrario, Milano, 1998, 10 ss.; ROMAGNOLI,
L’impresa agricola, in Tr. Rescigno2, XV, 2, 2001, 454 ss.) e capace di ricomprendere tutta una serie di
ipotesi di coltivazioni fuori fondo contemplate dalla legislazione speciale (sulle quali, prospettando
l’attitudine ad incidere, ampliandola, sulla nozione originaria di impresa agricola, RIVOLTA, Sull’impresa
agricola: vitalità ed espansione di una fattispecie codicistica, in Riv. dir. civ., 1989, I, 559 ss.): sul punto,
GALLONE, Impresa agricola. Art. 2135-2140, in Comm. Scialoja-Branca, 2003, 25 ss.
Antonio Cetra
29
di imprese agricole quelli che si occupano dell’iniziativa come professione principale,
dedicando all’impresa almeno il 50% del loro tempo lavorativo e riuscendo a trarre
dall’impresa almeno il 50% del proprio reddito globale di lavoro (ai fini della qualificazione
iap gli stessi requisiti sono richiesti anche ai soci di una società di persone o cooperativa o
agli amministratori di una società di capitali, requisiti che peraltro consentono alla stessa
società di assumere la qualifica di iap, nel caso in cui il proprio atto costitutivo prevede quale
oggetto sociale esclusivo una o più attività rientranti nella nozione di impresa agricola
descritta dall’art. 2135).
Infatti, dovrebbe essere chiaro come le due nozioni siano strumentali rispetto a finalità
profondamente diverse: la prima per selezionare i fenomeni produttivi da sottrarre
all’applicazione del diritto dell’impresa; la seconda per selezionare i titolari di un’impresa
agricola che possono beneficiare delle misure agevolative previdenziali e finanziarie di
incentivazione all’agricoltura, previste dalla legislazione nazionale e, prima ancora, dalla
legislazione comunitaria.
Ed invero, se nella costanza della versione originaria della norma in esame poteva
ritenersi che rientrassero nell’impresa agricola soltanto le attività di coltivazione e di
allevamento di bestiame che avevano luogo sul fondo (non invece tutte quelle colture o
allevamenti fuori fondo, come le coltivazioni artificiali o in laboratorio – ad es.,
l’ortoflorivivaismo; la funghicoltura – gli allevamenti in batteria o di animali da cortile
– ad es., il pollame –)59, oggi questa conclusione non è più sostenibile, perché il dato
normativo stabilisce espressamente che un’attività di coltivazione o di allevamento
utilizza o può utilizzare il fondo. Con la conseguenza che il fondo è passato dall’essere
fattore produttivo essenziale a fattore produttivo eventuale e, quindi, non più elemento
costitutivo o caratterizzante della fattispecie60.
Nella nuova nozione di impresa agricola l’elemento costitutivo o caratterizzante è
rappresentato dalla cura e dallo sviluppo di un ciclo (o di una parte di un ciclo)
biologico (animale o vegetale), sicché può essere qualificata come impresa agricola
qualunque attività che si sostanzia in tale cura o tale sviluppo61.
Ne consegue che iniziative, che in passato non potevano qualificarsi come impresa
agricola (in quanto, appunto, avvenivano fuori fondo), oggi devono qualificarsi
senz’altro come imprese agricole (anche se avvengono fuori dal fondo).
Gli esempi possono essere più vari. Basti ricordare che sono ormai senz’altro imprese
agricole le attività ortoflorivivaiste che si realizzano in strutture specializzate (le serre) o le
attività di funghicoltura che pure si realizzano in strutture specializzate (le serre, i laboratori)
Per un quadro di sintesi, BIONE, L’imprenditore, 473 ss. Infatti, proprio alla luce della centralità del fondo
nel processo produttivo veniva interpretato il lemma «bestiame», ricomprendendovi soltanto le specie
bovine, suine, equine e caprine (ossia, animali da macello, da lavoro, da latte e da lana) ed escludendovi
invece le altre specie e, in particolare, gli animali da cortile (ossia, gallinacei e conigli) (sul punto,
CASANOVA, Impresa, 106; DE MARTINI, Corso, I, 159 s.). Peraltro, era controverso se potessero
ricomprendersi allevamenti diversi come quello dei cavalli da corsa e dei cani da razza (per un quadro di
sintesi, ALESSI-PISCIOTTA, L’impresa, 136 ss.).
60
In questo senso, tra gli altri, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 468 ss.; CAMPOBASSO, I, 50 s.;
GAMBINO, I, 100; BUONOCORE/BUONOCORE, ?; GALGANO, I, 48; PRESTI-RESCIGNO, I, 31.
61
Ex multis, anche per altri riferimenti, BUONOCORE, Il «nuovo» imprenditore agricolo, l’imprenditore
ittico e l’eterogenesi dei fini, in Giur. comm., 2002, I, 5 ss.; NLCC??; GALLONE, op. cit., 52 ss.;
(IANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, 246 ss.; ALESSI(-PISCIOTTA), L’impresa, 26 ss.
59
30
L’impresa
o gli allevamenti di pollame in batteria62. Così come lo sono le attività di acquicoltura, cioè
l’attività che si prefigge di curare o sviluppare un ciclo biologico di animali che vivono
nell’acqua (pesci, crostacei, molluschi, ecc.)63.
Invece, di per sé non è un’impresa agricola la c.d. impresa ittica, come definita dall’art.
2, comma 1, d. lgs. 18 maggio 2001, n. 226, cioè l’attività di pesca professionale, diretta alla
cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri o dolci: quindi,
all’evidenza, non alla cura o allo sviluppo di un ciclo biologico. Nondimeno, è dubbio se
un’equiparazione tra le due fattispecie non sia disposta dal dato normativo, laddove all’art. 2,
comma 5, d. lgs. 226/2001 stabilisce che «fatte salve le più favorevoli disposizioni di legge,
l’imprenditore ittico è equiparato all’imprenditore agricolo». In particolare, è dubbio se una
siffatta equiparazione sia disposta anche ai fini di individuare un fenomeno produttivo da
sottrarre al diritto dell’impresa (della quale, francamente, non se ne capirebbe la ragione)
oppure soltanto ai fini dell’applicazione della normativa speciale di agevolazione (come,
peraltro, sembrerebbe preferibile)64.
L’ampliamento della nozione si coglie soprattutto sul versante delle attività
connesse.
Ed invero, le attività connesse non si identificano soltanto con le attività tipicamente
poste in essere da un agricoltore o da un allevatore in un determinato momento storico
o in una certa area geografica e/o subordinate sul piano economico alle attività
essenziali. Il dato normativo stabilisce che sono comunque connesse anche le attività
che utilizzano come materia prima prevalente (e non esclusiva, una parte della quale
potendo essere allora acquisita sul mercato) i prodotti derivanti dalla coltivazione e
dall’allevamento di animali, pertanto a prescindere dal fatto che tali attività restino
subordinate rispetto all’attività essenziale o costituiscono qualcosa di normale
nell’agricoltura (latamente intesa)65.
Pertanto, oggi sono attività agricole per connessione tutte le attività di manipolazione,
trasformazione e commercializzazione di prodotti che provengono prevalentemente
dall’attività agricola essenziale, anche nel caso in cui per il tramite di queste attività si
realizzi la parte principale se non proprio l’intero risultato economico dell’iniziativa.
Ad esempio, esercita senz’altro attività agricola per connessione il produttore di uva che
anziché vendere (tutta) la stessa sul mercato ortofrutticolo la utilizza (in parte o in tutto,
eventualmente aggiungendovene un’altra minor parte acquistata sul mercato) per
trasformarla in vino e vendere il vino così ottenuto. Parimenti, il produttore di olive che
anziché vendere (tutte) le stesse nel mercato ortofrutticolo le utilizza (in parte o in tutto,
In questo senso, rimarcando che l’art. 2135, comma 2, c.c. non si limita ad esplicitare bensì ad innovare la
nozione originaria di impresa agricola, Cass., 5 dicembre 2002, n. 17251, in Foro it., 2003, I, 452 (con
riferimento ad un’attività ortoflorivivaista); Trib. Santa Maria Capua Vetere, 9 aprile 2002, in Giur. merito,
2002, ? (con riferimento ad un’attività di funghicoltura e floricolutura al chiuso effettuata mediate serre
coperte e riscaldate); Cass., 2 dicembre 2002, n. 17042, in Foro it., 2002, I, 3530 (con riferimento ad
un’attività di allevamento di polli in batteria).
63
PRESTI-RESCIGNO, I, 31.
64
Un’analoga equiparazione è prevista dall’art. 8 d. lgs. 18 maggio 2001, n. 227 con riguardo alle
cooperative ed i loro consorzi che forniscono in via principale, anche nell’interesse dei terzi, servizi nel
settore selviculturale, ivi comprese le sistemazioni idraulico-forestali: su tali equiparazioni, tra gli altri,
BUONOCORE, Il «nuovo», cit., 20 ss.; ID., L’impresa, 564 s.; ALESSI-PISCIOTTA, L’impresa, 89 s. e 225 ss.
65
Sulle attività connesse aventi ad oggetto i prodotti agricoli e sul criterio di prevalenza ai fini della loro
identificazione, per tutti (IANNARELLI-)VECCHIONE, L’impresa, 306 ss.
62
Antonio Cetra
31
eventualmente aggiungendovene un’altra minor parte acquistata sul mercato) per
trasformarla in olio e vendere l’olio così ottenuto.
Ma è considerata attività agricola anche quell’attività in cui manchi la connessione
soggettiva, cioè in cui non sia lo stesso titolare di un’attività agricola essenziale a svolgere
un’attività di manipolazione, trasformazione e commercializzazione di prodotti che
provengono prevalentemente dall’attività agricola essenziale. Il che accade nelle cooperative
tra imprenditori agricoli e nei loro consorzi, se svolgono un’attività di cui all’art. 2135
utilizzando prevalentemente prodotti dei soci o se forniscono beni e servizi diretti alla cura e
allo sviluppo di un ciclo biologico prevalentemente ai soci. Basti pensare ad una cooperativa
che produce e commercializza olio utilizzando prevalentemente le olive prodotte dai soci
nonché servizi di disinfestazione periodica antiparassitaria specifici per gli alberi di ulivo
che rivolge prevalentemente ai soci.
Inoltre, sono comunque connesse le attività di produzione e di fornitura di beni e
servizi ottenuti impiegando principalmente le attrezzature o le risorse che costituiscono
l’azienda agricola, a prescindere, ancora una volta, dalla circostanza che tale attività
resti subordinata all’attività essenziale o costituisca qualcosa di normale
nell’agricoltura (latamente intesa)66.
Il riferimento è principalmente alle attività di agriturismo, le quali sono qualificate
come imprese agricole se le strutture di recezione degli ospiti per offrire loro servizi di
ristorazione o finanche alberghieri sono le strutture che compongono l’azienda agricola.
Occorre tuttavia segnalare che la legge recante la disciplina dell’agriturismo (l. 20 febbraio
2006, n. 96) demanda alla legislazione regionale la fissazione dei limiti entro i quali deve
mantenersi l’attività agrituristica al fine di conservarsi come attività connessa, in particolare
assicurando che la somministrazione di alimenti e bevande debba realizzarsi con una quota
significativa di prodotto della propria azienda o delle aziende della zona (art. 4). La stessa
legge individua le tipologie di iniziative attraverso le quali l’attività agrituristica può
manifestarsi in concreto (art. 2, comma 3).
Peraltro, ove si ritenga che l’impresa ittica sia equiparata all’impresa agricola, anche ai
fini che qui interessano (v., supra, in questo par.), rientrano nelle attività agricole per
connessione tutte le attività alla prima connesse alla prima, come elencate dall’art. 3, comma
1, lett. a-c, d. lgs. 226/2001, il quale tuttavia precisa che queste ultime attività devono restare
secondarie rispetto all’attività di pesca e che devono realizzarsi mediante l’utilizzazione
prevalente di prodotti derivanti dall’attività di pesca ovvero di attrezzature o risorse
dell’azienda normalmente impiegata nell’attività ittica.
Ora, dovrebbe essere evidente che in seguito ad un siffatto ampliamento della
nozione di impresa agricola, si apre la fattispecie ad una serie di fenomeni, in relazione
ai quali non può riscontrarsi l’accennato presupposto che ne giustifica la rilevanza
negativa sul piano normativo, ossia la sottrazione dall’ambito di applicazione del
diritto dell’impresa.
Infatti, giova considerare che, se l’impresa agricola non è più connotata sul piano
della fattispecie da un processo produttivo che si incentra sul fondo e dall’eventuale
presenza di attività ontologicamente diverse da un’attività agricola solo se
economicamente subordinate (quanto meno tipicamente), non è raro che le iniziative
66
Sulle attività connesse aventi ad oggetto la fornitura di servizi, ancora (IANNARELLI-)VECCHIONE,
L’impresa, 318 ss.
32
L’impresa
corrispondenti, potendo realizzarsi in strutture molto sofisticate e costose nonché
sostanziarsi in attività produttive e commerciali che richiedono non trascurabili
investimenti, presentino significative esigenze finanziarie, le quali vengono coperte
attraverso un sempre più consistente ricorso al capitale di credito.
Sicché, desta non poche perplessità il risultato che ne deriva: consentire a qualche
iniziativa imprenditoriale, che soddisfa le proprie esigenze finanziarie ricorrendo al
credito alla produzione in maniera non marginale ma nella stessa misura di altre, di
beneficiare di un trattamento normativo differente e deteriore: con buona pace del
contemperamento degli interessi in gioco! Né si può provare a giustificare questo
risultato adducendo che esso costituisca un favor necessario verso il titolare delle
iniziative imprenditoriali agricole, le quali, impuntandosi sulla cura e sullo sviluppo di
un ciclo biologico, sono esposte ad un rischio ulteriore rispetto ad un’iniziativa
imprenditoriale di diversa natura: non solo al rischio di impresa ma anche al rischio
naturale insito al ciclo biologico67. Al riguardo, è ragionevole ritenere che se il risultato
produttivo e, di conseguenza, economico di un’iniziativa appare molto più incerto
rispetto ai corrispondenti risultati di iniziative di diversa natura, occorrerebbe
approntare meccanismi di tutela più efficaci e penetranti, non invece eliminarne
addirittura la presenza68.
Ed invero, occorre ricordare che all’ampliamento dell’impresa agricola sul piano
della fattispecie non si è accompagnato con un contestuale adeguato ampliamento della
disciplina. Il fatto che nell’impresa agricola siano stati ricompresi fenomeni produttivi
cc.dd. «industrializzati» avrebbe dovuto indurre a considerare ormai superata la sua
originaria rilevanza normativa e applicando a quest’ultima il diritto dell’impresa nella
sua interezza. Invece, gli interventi sul piano della disciplina sono stati parziali e
senz’altro insufficienti, attenendo soltanto a profili di pubblicità di impresa e, in
particolare, assoggettando le informazioni relative all’organizzazione dell’impresa per
le quali è prescritto l’obbligo di pubblicità ad efficacia dichiarativa (v., infra, ).
3. La piccola impresa.
La nozione di piccola impresa si desume dall’art. 2083, il quale la descrive come
un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro del titolare e dei
Infatti, la rilevanza normativa riservata all’impresa agricola è stata considerata come una forma di
privilegio accordato al titolare in ragione della contestuale esposizione ad un doppio rischio (c.d. teoria del
doppio rischio): al rischio d’impresa, come qualsiasi iniziativa economica e al rischio ambientale, in ragione
del fatto che l’iniziativa doveva svolgersi sul fondo (così, GALGANO, voce Imprenditore commerciale, in
Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4, VII, 27; NIGRO, Imprese, 622 s. e 767 s.);
rischio quest’ultimo poi tramutato in rischio insito al ciclo biologico con la nuova nozione di impresa
agricola: tra gli altri, GAMBINO, I, 101 s.; ma già GENOVESE, La nozione, 80 s.; CARROZZA, Lezioni, 19 ss.
68
E v., infatti, le chiare considerazioni di IANNARELLI(-VECCHIONE), L’impresa, 120 ss. e di GLIOZZI,
L’imprenditore, 178 ss. Nel senso del testo, anche, NIGRO(-VATTERMOLI), 58. Non a caso, sottolineano
l’inutilità di manterere un’autonoma nozione di impresa agricola ai fini normativi di cui si è detto nel testo,
ALESSI(-PISCIOTTA), L’impresa, 80 ss.
67
Antonio Cetra
33
componenti della famiglia di quest’ultimo e la specifica poi nelle figure soggettive del
coltivatore diretto del fondo, dell’artigiano e del piccolo commerciante.
La scelta di attribuire alla piccola impresa rilevanza normativa più ristretta può
cogliersi agevolmente nelle caratteristiche che connotano il relativo processo
produttivo e, in particolare, nella circostanza che tale processo debba essere
organizzato prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della sua
famiglia, ossia debba incentrarsi essenzialmente sul fattore produttivo rappresentato dal
proprio lavoro e dal lavoro dei propri familiari: quindi, su un fattore produttivo che
– non diversamente da quel che si verificava nell’impresa agricola con il fondo di
proprietà – già si dispone, senza bisogno di dover acquisire lo stesso.
In quest’ottica, appare evidente che la piccola impresa – esattamente come
l’impresa agricola prefigurata dal legislatore storico del ’42 – risulta come un
fenomeno produttivo nel quale le esigenze di investimento attengono essenzialmente a
fattori produttivi secondari, cioè ai fattori produttivi diversi dal lavoro del titolare e dei
componenti della sua famiglia: perciò si dovrebbero manifestare esigenze finanziarie
non significative e, quindi, non significativo dovrebbe essere l’eventuale ricorso al
credito alla produzione. Di conseguenza, nella piccola impresa – esattamente come
nell’impresa agricola prefigurata dal legislatore storico del ’42 – non è sembrato
necessario l’assoggettamento delle corrispondenti iniziative al diritto dell’impresa nella
sua interezza e, in particolare, alla parte corrispondente alle regole finalizzate a
comporre adeguatamente i diversi interessi in gioco rispetto al rischio di impresa69.
Ed invero, il fatto che la piccola impresa debba essere organizzata prevalentemente
con il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia mette in posizione di
preminenza siffatto lavoro rispetto agli altri fattori produttivi.
Giova subito precisare che la piccola impresa è pur sempre un’impresa e, come
qualunque impresa, deve risultare un’attività organizzata, ossia deve avere un minimo di
eterorganizzazione, sebbene rispetto all’organizzazione debba prevalere il lavoro del titolare
e dei componenti della famiglia. Il che significa che nel sottostante processo produttivo
devono essere comunque impiegati anche altri fattori produttivi, rappresentati dal capitale o
dal lavoro altrui, e non soltanto dal lavoro del titolare70.
In quest’ottica, è perciò evidente la differenza tra piccola impresa e lavoro autonomo e,
in particolare, tra i due concetti di prevalenza richiamati in termini pressoché identici dalle
due norme definitorie (artt. 2083 e 2222).
La piccola impresa è un fenomeno produttivo nel quale il lavoro del titolare e dei
componenti della famiglia figura come fattore produttivo necessario ma non sufficiente, nel
senso che non è l’unico fattore produttivo impiegato nel relativo processo, ma deve essere
affiancato da altri fattori produttivi (lavoro altrui o capitale). Invece, il lavoro autonomo è un
fenomeno produttivo nel quale il lavoro del titolare (e solo del titolare) figura come fattore
produttivo necessario e sufficiente, nel senso che è l’unico fattore produttivo impiegato nel
Al riguardo, le chiare considerazioni di AULETTA, L’impresa dal codice di commercio del 1882 al codice
civile del 1942, in 1882-1982. Cento anni dal codice di commercio, Milano, 1984, 75 ss.
70
Il punto può considerarsi pressoché pacifico (in luogo di molti, BIGIAVI, La «piccola impresa», 1 ss.;
CASANOVA, Impresa, 142 ss.; DE MARTINI, Corso, I, 120 s.; GENOVESE, La nozione, 172 s.; CAPO, La
piccola impresa, 9), sebbene non manchi chi si dimostri di avviso contrario, ritenendo superfluo il requisito
dell’organizzazione nell’impresa (GALGANO, I, 31; GLIOZZI, L’imprenditore, 162).
69
34
L’impresa
relativo processo, pur con l’ausilio di altri elementi (pennello, pinza, tenaglia, cacciavite,
telefono, ecc.) che però non sono dei veri e propri fattori produttivi (v., supra ).
Si ritiene che la prevalenza vada accertata non tanto in senso quantitativo, cioè
verificando che il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia valga di più in
termini economici rispetto agli altri fattori (lavoro altrui e/o capitale) impiegati nel
processo produttivo71; quanto piuttosto in senso qualitativo, cioè verificando che il
lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia costituisca un fattore essenziale
e imprescindibile nel processo produttivo sottostante72. Ciò vuol dire che tale lavoro
non può essere sostituito in tutto e per tutto dall’organizzazione e, quindi, rappresenta
un fattore infungibile rispetto all’organizzazione e agli altri fattori produttivi impiegati.
In altri termini, vuol dire che senza l’intervento di siffatto lavoro il processo produttivo
o non potrebbe completarsi (se non proprio iniziare) o pervenire ad un certo specifico
risultato produttivo (un certo bene o servizio)73.
Dovrebbe essere allora evidente la distinzione tra piccola impresa e impresa (non piccola
o medio-grande).
Si ha la prima tutte le volte che il titolare (e gli eventuali componenti della famiglia) è
(sono) chiamato (i) a svolgere un ruolo esecutivo che caratterizza e connota il sottostante
processo produttivo. Si ha la seconda tutte le volte che il titolare può non avere alcun ruolo
esecutivo nell’iniziativa, in quanto pienamente surrogabile dall’organizzazione, e limitarsi a
svolgere un ruolo, questo sì imprescindibile e indefettibile, di carattere organizzativo,
approntando i diversi fattori produttivi secondo l’ordine funzionale e strutturale richiesto da
un efficiente impiego nel processo produttivo.
Alcuni esempi possono chiarire tale distinzione.
Si prenda il caso del trasportatore. Il trasportatore è titolare di una piccola impresa se
cura personalmente la produzione del servizio di trasporto. Il suo lavoro non è l’unico fattore
produttivo, dovendosi affiancare quanto meno all’automezzo strumentale alla realizzazione
del servizio. È però il fattore produttivo prevalente, nel senso che senza il suo intervento il
servizio non si produce. Invece, il trasportatore non è più titolare di una piccola impresa nel
momento in cui decida di assumere stabilmente un’altra persona con mansioni di autista. In
questo caso, il suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso che può essere senz’altro
sostituito dal lavoro del dipendente.
Si prenda ancora il caso del sarto. Il sarto è titolare di una piccola impresa se cura
personalmente la confezione di tutti gli abiti dei clienti. Il suo lavoro non è l’unico fattore
produttivo, dovendosi affiancare quanto meno ai macchinari minimi necessari nelle diverse
fasi della lavorazione. È però il fattore produttivo prevalente, nel senso che senza il suo
intervento la confezione non si produce. Invece, il sarto non è più titolare di una piccola
impresa nel momento in cui decida di assumere stabilmente uno o più dipendenti che siano
in grado di svolgere l’intero processo produttivo di confezione dei vestiti. In questo caso, il
suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso che può essere surrogato dall’organizzazione
(lavoro altrui), ormai capace di sviluppare dall’inizio alla fine il processo produttivo.
71
In questo senso, invece, la dottrina più risalente: BIGIAVI, La «piccola impresa», 41 ss.; MINERVINI,
L’imprenditore, 66 s.; ma ancora, GLIOZZI, L’imprenditore, 163 ss.; Trib. Torino, 15 giugno 1991, in
Fallimento, 1991, 203; Trib. Milano, 7 novembre 1996, in Fallimento, 1997, 431.
72
In questo senso, tra gli altri, GATTI, voce Piccola impresa, 762; GENOVESE, La nozione, 182 ss.;
BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 490; CAPO, La piccola impresa, 63 ss. e 72 ss.; CAMPOBASSO, I, 61;
PRESTI-RESCIGNO, I, 34.; Cass., 28 marzo 2000, n. 3690, in Fallimento, 2001, 622.
73
In questi termini, FERRO-LUZZI, Alla ricerca, 43 ss.
Antonio Cetra
35
Si prenda infine il caso del pasticciere. Il pasticciere è titolare di una piccola impresa se
cura personalmente la preparazione di tutti i prodotti della pasticceria. Il suo lavoro non è
l’unico fattore produttivo, dovendosi affiancare quanto meno alle materie prime che
costituiscono gli ingredienti dei singoli prodotti. È però fattore produttivo prevalente, nel
senso che senza il suo intervento i dolci non si ottengono. Invece, il pasticciere non è più
titolare di una piccola impresa nel momento in cui decide di acquistare macchinari che siano
in grado di svolgere l’intero processo produttivo e di assumere un dipendente che si occupi
della relativa manutenzione. In questo caso, il suo lavoro cessa di essere essenziale, atteso
che può essere surrogato dall’organizzazione (capitale e lavoro altrui).
Accedendo a quest’ultima accezione del concetto di prevalenza, resta dubbio se si
tratti di un criterio impiegabile soltanto quando l’impresa fa capo ad una persona fisica
o anche quando fa capo ad un soggetto di diversa natura, cioè un ente collettivo e, in
particolare, una società74.
Giova osservare che, sebbene il criterio appaia attagliato senz’altro alla persona
fisica, non sembra potersi escludere per ciò stesso che tale criterio non possa trovare
applicazione nelle imprese di altri soggetti e, in particolare, delle società. In questi
ultimi contesti, il problema sarà semmai quello di applicare concretamente detto
criterio e, anzitutto, di individuare qual è il lavoro che deve prevalere sugli altri fattori
produttivi (lavoro altrui e capitale).
Quanto meno nelle società a ristretta compagine sociale si potrebbe ritenere che il
lavoro che debba prevalere è il lavoro dei soci, con la conseguenza che si potrà parlare
di piccola impresa (societaria) se il lavoro dei soci prevale sul lavoro altrui e sul
capitale75. Più incerto è invece se nelle società ad ampia base sociale possa ancora farsi
riferimento al lavoro dei soci, atteso che alla qualifica formale di piccola impresa che
ne potrebbe derivare potrebbe non corrispondere una piccolezza oggettiva dell’attività
esercitata, tale da giustificare la non applicazione del diritto dell’impresa per mancanza
di significative esigenze di tutela degli interessi coinvolti76.
74
Nel primo senso, GENOVESE, La nozione, 185 ss. Nel secondo, invece, pur nella difformità delle
conclusioni in ordine alla concreta configurabilità della piccola impresa societaria, BIGIAVI, La «piccola
impresa», 152 ss.; MINERVINI, L’imprenditore, 74 s.; FERRO-LUZZI, Alla ricerca, 48 ss.; GATTI, voce
Piccola impresa, 763.; MASI, «Piccole società» e statuto dell’imprenditore, in Studi in onore di Cottino, I,
Padova, 1997, 303 ss. e 310 ss.; COTTINO-BONFANTE, L’imprenditore, 504 s.; CAPO, La piccola impresa,
138 s.
75
In questo senso, sul presupposto di poter misurare la prevalenza in base al criterio stabilito dal combinato
disposto artt. 2, comma 1 e 3, comma 2, l. 8 agosto 1995, n. 443 (legge-quadro sull’artigianato) ai fini della
qualificazione come artigiana di una società, GATTI, voce Piccola impresa, 763. E ciò probabilmente nel
tentativo di generalizzare una risalente (e per molti versi non più attuale) posizione della Corte
Costituzionale secondo cui una società artigiana può essere piccola impresa (cfr., con riferimento ad un
contesto normativo non più attuale, Corte Cost., 23 luglio 1991, n. 368 e già in obiter dictum Corte Cost., 6
febbraio 1991, n. 54, entrambe in Giur. comm., 1993, II, 5). D’altra parte, nel senso che se si ritiene che una
società sia una piccola impresa non può ulteriormente indugiarsi a generalizzarsi questa conclusione a
qualunque società, quale che sia, cioè, l’oggetto sociale (purché non agricolo), BONFANTE-COTTINO,
L’imprenditore, 505 s. Nello stesso senso, Cass., 28 settembre-2 ottobre 2004, n. 20640, in Giur. comm.,
2005, II, 237.
76
In questo senso, seppur con considerazioni riferite ad un contesto non societario, CETRA, L’impresa, 67
s., nt. 65.
36
L’impresa
4. Segue: la piccola impresa nella legge fallimentare
Se il concetto di prevalenza deve intendersi nell’accezione che si è illustrata nel
paragrafo precedente, è evidente che la valutazione del se la prevalenza ricorra in
concreto, cioè se il lavoro del titolare sia preminente rispetto agli altri fattori produttivi,
non è sempre agevole e, quindi, non è sempre agevole tracciare una linea di confine tra
le piccole imprese e le imprese (non piccole o medio-grandi).
Per questa ragione, al criterio di prevalenza ora esaminato si affianca un criterio
quantitativo, quindi di più immediata e oggettiva applicazione, ove occorra
individuare i fenomeni produttivi passibili di applicazione di un istituto affatto
particolare che compone lo statuto predisposto all’indirizzo dell’impresa, vale a dire le
procedure concorsuali. Ciò in quanto allorché si tratti di decidere sull’apertura di una
procedura concorsuale, non solo occorre ridurre il più possibile le incertezze in merito
alla sussistenza del presupposto, anche in conseguenza degli effetti che dall’apertura
della procedura possono derivare, ma occorre essere pure abbastanza tempestivi, per
evitare che la gestione concorsuale cominci troppo tardi e non sia in grado di
perseguire efficacemente l’intento compositorio degli interessi in gioco77.
In particolare, l’art. 1, comma 2, l. fall. esclude l’apertura delle procedure
concorsuali di fallimento e di concordato preventivo nei confronti (dei titolari) delle
imprese78 che si attestino al di sotto di tre parametri: due di carattere patrimoniale
(l’esposizione debitoria e l’attivo patrimoniale) e uno di carattere reddituale (i ricavi
lordi).
Più in dettaglio i tre parametri sono i seguenti:
1.
l’esposizione debitoria complessiva sussistente al momento di apertura della
procedura concorsuale non superiore a 500 mila euro;
2.
l’attivo patrimoniale nei tre esercizi precedenti non superiore per ogni
esercizio a 300 mila euro;
3.
i ricavi lordi nei tre esercizi precedenti non superiore per ogni esercizio a 200
mila euro.
Soprattutto la seconda e la terza soglia dimensionale sollevano non pochi problemi con
riguardo alla loro esatta identificazione.
Ad esempio, con riferimento all’attivo patrimoniale è dubbio se tale grandezza debba
essere calcolata a valori contabili (che talvolta non rispecchiano più il valore delle entità
valutate) o a valori effettivi (che peraltro coincidono con i valori contabili se l’impresa
redige il bilancio d’esercizio secondo i principi contabili internazionali); oppure se debba
ricomprendere anche beni attualmente di terzi ma nella piena disponibilità dell’impresa e che
verosimilmente nel prossimo futuro diventeranno beni dell’impresa (i beni condotti in
Sull’efficacia del criterio quantitativo, v., però, i rilievi di TERRANOVA, Che cosa resta del piccolo
imprenditore?, in Riv. dir. comm., 2010, I, 733 s. e 758 ss.
78
La norma si riferisce senz’altro alle imprese a prescindere se individuali o collettive, con il che facendo
perdere gran parte dell’importanza agli interrogativi che ruotano attorno al se una società possa essere
qualificata come piccola impresa: per tutti, ALLECA, La piccola impresa societaria e la riforma del
fallimento, in Riv. dir. comm., 2006, I, 461 ss.; (AMBROSINI-)CAVALLI(-JORIO), Il fallimento, in Tr.
Cottino, XI, 2, 2010, 49.
77
Antonio Cetra
37
leasing)79. Con riferimento ai ricavi lordi è dubbio se tale grandezza debba computare
soltanto i ricavi della gestione caratteristica (o al più della gestione finanziaria) o qualunque
componente positivo di reddito (quindi anche straordinario)80.
Ebbene, la norma fallimentare sembra stabilire una presunzione di piccolezza, nel
senso che presume sia piccola impresa quell’impresa che si attesta al di sotto di tutti e
tre i parametri ricordati. E se così è, ne consegue che la norma stabilisce
implicitamente pure una presunzione di grandezza, nel senso che presume non sia
piccola impresa quell’impresa che supera anche uno solo dei tre parametri ricordati.
Resta invece da chiarire se le due presunzioni testé menzionate siano assolute o
relative: incertezza, quest’ultima, riconducibile alla più generale incertezza che ruota
attorno al rapporto che deve intercorrere tra i criteri di determinazione della dimensione
dell’impresa contenuti nell’art. 1, comma 2, l. fall. e nell’art. 2083: si tratta di
verificare se il rapporto si configura come alternativo oppure complementare.
Al riguardo, l’opinione pressoché unanime riconosce alla presunzione di piccolezza
il carattere di presunzione assoluta, ritenendo che se l’impresa si attesta al di sotto dei
tre parametri dimensionali ricordati essa è senz’altro un’impresa non fallibile (quindi,
senz’altro piccola)81.
Invece, non altrettanto pacifica è la conclusione che attiene alla presunzione di
grandezza. L’opinione senz’altro prevalente è orientata a riconoscere anche alla
presunzione di grandezza il carattere di presunzione assoluta, muovendo dal
presupposto che la norma fallimentare abbia approntato dei criteri di determinazione
della dimensione dell’impresa del tutto autonomi e autosufficienti e, quindi, alternativi
rispetto al criterio di prevalenza di cui all’art. 208382. Tuttavia, non mancano opinioni
contrarie: vi è chi ritiene che la norma fallimentare stabilisca un criterio di
determinazione della dimensione dell’impresa complementare al criterio individuato
dall’art. 2083 e che il trait d’union tra le due norme (e i relativi criteri) sia
rappresentato dall’art. 2221: il quale esclude espressamente i piccoli imprenditori (da
individuarsi ai sensi dell’art. 2083) dalle procedure concorsuali di fallimento e di
Per l’affermativa, TEDESCHI, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 15; POTITO(SANDULLI)/Nigro-Sandulli-Santoro, sub Art. 1, 27; Trib. Milano, 30 luglio 2007, ?. Per la negativa, quanto
meno per le imprese che adottano i principi contabili nazionali, M. CAMPOBASSO, Il piccolo
imprenditore…da una riforma all’altra, in Temi del nuovo diritto fallimentare, a cura di Palmieri, Torino,
2009, 11.
80
Nel primo senso, M. CAMPOBASSO, op. cit., 13 s. Nel secondo senso, FORTUNATO/Iorio, sub Art. 1, 67;
COLOMBO, L’esenzione dalle procedure concorsuali per ragioni dimensionali, in Fallimento, 2008, 630.; e,
sostanzialmente, ritenendo che sia possibile escludere soltanto i ricavi del tutto straordinari, quali le
plusvalenze da realizzo e, eventualmente da valutazione e le sopravvenienze attive, POTITO(SANDULLI)/Nigro-Sandulli-Santoro, op. cit., 28.
81
In questo senso, tra gli altri, NOTARI/Dir. fall. – Man. breve, 107; CAMPOBASSO, I, 64; ID., III, 307;
MARASÀ, Il presupposto soggettivo del fallimento, in Riv. dir. comm., 2008, I, ?; IBBA, Il presupposto
soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Profili della nuova legge fallimentare, a cura di Ibba,
Torino, 2009, 7 s.; GUGLIELMUCCI, 30 s.; NIGRO(-VATTERMOLI), 61; (AMBROSINI-)CAVALLI(-JORIO), 47
s.
82
V. gli Autori citati nella nota precedente e, sostanzialmente, TERRANOVA, Che cosa resta, cit., 743 s.
79
38
L’impresa
concordato preventivo83. In quest’ottica, se anche una (o più) soglia (e) dimensionale
(i) venisse(ro) superata (e) la conseguente presunzione di grandezza potrebbe venire
rovesciata dimostrando attraverso il criterio della prevalenza che l’impresa in questione
è una piccola impresa84.
Rinviando alla parte dedicata alle procedure concorsuali ogni approfondimento sul
punto, giova sin d’ora segnalare che quest’ultima opinione risulta tutt’altro che peregrina.
Ciò solo che si consideri che il legislatore che attribuiva la delega per la riforma delle
procedure concorsuali fissava tra gli altri principi quello di «semplificare la disciplina [del
fallimento] attraverso l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto» (art.
1, comma 6, lett. a, n. 1, l. 14 maggio 2005, n. 80): obiettivo, quest’ultimo, che sembra
essersi un po’ perso per strada lungo il travagliato percorso che ha portato alla «nuova»
legge fallimentare e, soprattutto, quando le soglie dimensionali dell’impresa son passate
dall’essere alternative (cfr. art. 1, comma 2, l. fall. nella versione riscritta dall’art. 1 d. lgs. 9
gennaio 2006, n. 5) a complementari, dovendo i requisiti sussistere congiuntamente85.
È perciò evidente che deporrebbe senz’altro nel senso del perseguimento del suddetto
obiettivo consentire al titolare di un’iniziativa imprenditoriale di sottrarsi all’apertura delle
procedure concorsuali, se in seguito al superamento di una (o più) soglia (e) dimensionale (i)
potesse dimostrare la piccolezza della sua iniziativa attraverso il criterio di prevalenza di cui
all’art. 208386.
5. Segue: il problema dell’impresa artigiana.
La piccola impresa è specificata poi nelle tre figure soggettive del coltivatore diretto
del fondo, del piccolo commerciante e dell’artigiano, cioè in tre figure che nella
tipologia della realtà del tempo del legislatore storico del ’42 potevano considerarsi
83
In questo senso, in particolare, FERRI jr., In tema di piccola impresa fra codice civile e legge
fallimentare, in Riv. dir. comm., 2008, I, 749 ss.; (BONFATTI-)CENSONI, 33 ss.; in senso dubitativo, SPADA,
I, 75.
84
V., ancora, FERRI jr., op. cit., ?; (BONFATTI-)CENSONI, 37 s.
85
Infatti, la riformulazione dell’art. 1, comma 2, l. fall., sostituendo le due soglie alternative (rappresentate
la prima dalla media dell’ammontare degli investimenti aziendali nell’ultimo triennio la seconda dalla
media dell’ammontare dei ricavi lordi nell’ultimo triennio) con le tre soglie complementari (peraltro
computate su valori puntuali relativi ad ogni singolo anno del triennio considerato) di cui nel testo, è stato
fatto, tra l’altro, per contenere il crollo dei fallimenti che era conseguito con il primo criterio di
determinazione della dimensione dell’impresa, tanto da indurre a dubitare che un siffatto ampliamento
dell’area di non fallibilità corrispondesse alle reali intensioni del legislatore delegante (sul punto, tra gli
altri, M. CAMPOBASSO, op. cit., 7; IBBA, op. cit., 5 s.; NIGRO(-VATTERMOLI), 60 s.).
86
In quest’ottica, il rapporto tra la norma codicistica e la norma fallimentare si ricomporrebbe negli stessi
termini nei quali era stato identificato con riferimento al criterio di determinazione della grandezza
dell’impresa contenuta nella versione originaria della norma fallimentare: FRANCESCHELLI, Imprese, 182
ss. Non esclude questa conclusione, SPADA, I, 75 Nel senso invece che il criterio di prevalenza di cui alla
norma codicistica manterrebbe rilevanza centrale e quindi le soglie dimensionali di cui all’art. 1, comma 2,
l. fall. entrerebbero in gioco una volta accertato che in applicazione del primo criterio non si tratti di piccola
impresa, Trib. Salerno, 7 aprile 2008, in Fallimento, 2008, 939.
Antonio Cetra
39
espressione di fenomeni produttivi caratterizzati dalla prevalenza del lavoro del titolare
sugli altri fattori produttivi87.
Se con riferimento alla prima e alla seconda figura non è necessario indugiare oltre,
con riferimento alla terza, invece, qualche parola occorre spenderla ancora, atteso che
la figura dell’impresa artigiana è, non solo menzionata, ma anche definita
dall’ordinamento e, precisamente, dalla l. 8 agosto 1985, n. 443 (c.d. legge-quadro per
l’artigianato).
In particolare, nella legge appena richiamata la nozione di impresa artigiana si può
cogliere leggendo il combinato disposto degli artt. 3 e 2.
Ai sensi di queste due norme, l’impresa artigiana è, anzitutto, un’attività di
produzione di beni, anche semilavorati, o prestazione di servizi, con l’eccezione delle
produzioni agricole, dei servizi commerciali e di intermediazione e della
somministrazione al pubblico di alimenti e bevande (art. 3, comma 1); è, poi,
un’attività produttiva nella quale il titolare o, nel caso in cui l’impresa assuma la forma
giuridica di una società commerciale (con l’eccezione delle sole società azionarie), la
maggioranza dei soci – o, se la compagine sociale è composta da soli due soci, da uno
solo di questi – svolge in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel
processo produttivo (artt. 2, comma 1 e 3, comma 2).
Come è agevole notare, la nozione di impresa artigiana fa riferimento ad un
fenomeno di produzione di beni e servizi (con l’esclusione di alcuni beni e di alcuni
servizi) nel quale il lavoro del titolare o della maggioranza dei soci deve risultare
prevalente. Sicché, sembra naturale chiedersi in che senso tale lavoro debba risultare
prevalente. Invero, dal fatto che il concetto di prevalenza cui allude la legge-quadro è
non diverso dal concetto di prevalenza già esaminato a proposito dell’art. 2083, si può
dedurre che l’impresa artigiana costituisca ancora oggi una specificazione della piccola
impresa. Viceversa, se se si assume che i due concetti di prevalenza sono diversi,
bisogna accertare qual è la relazione che intercorre tra impresa artigiana e piccola
impresa.
In quest’ottica, sembra necessario andare oltre nell’esame della legge-quadro e, in
particolare, soffermarsi sull’art. 4. Tale norma stabilisce i limiti dimensionali che può
assumere l’impresa artigiana, ossia i limiti entro i quali il sottostante processo
produttivo può servirsi di lavoro altrui: limiti che sono fissati a seconda della tipologia
di iniziativa.
In particolare, ai sensi dell’art. 4, l’impresa artigiana può servirsi delle prestazioni
d’opera di personale dipendente, diretto personalmente dal titolare o dai soci, sempre che
non superino le seguenti unità:
a) nelle imprese che non lavorano in serie fino ad un massimo di 18 dipendenti, compresi
gli apprendisti in numero non superiore a 9 (massimo che può essere elevato a 22, a
condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti);
87
Infatti, è stato ampiamente dimostrato che il criterio di prevalenza rappresenta criterio generale e comune
e che le tre figure menzionate dall’art. 2083 rappresentano casi particolari di piccole imprese: CAVAZZUTI,
Le piccole imprese, 569 s.; ma già, BIGIAVI, La «piccola impresa», 41 ss. E ciò può considerarsi pressoché
pacifico: tra gli altri, DE MARTINI, Corso, 122 ss.; GENOVESE, La nozione, 174 ss.; CAPO, La piccola
impresa, 48 ss.; CAMPOBASSO, I, 60; GALGANO, I, 55 S.
40
L’impresa
b) nelle imprese che lavorano in serie fino ad un massimo di 9 dipendenti, compresi gli
apprendisti in numero non superiore a 5 (massimo che può essere elevato a 12, a condizione
che le unità aggiuntive siano apprendisti);
c) nelle imprese operanti nei settori delle lavorazioni artistiche tradizionali e
nell’abbigliamento su misura, fino ad un massimo di 32 dipendenti, compresi gli apprendisti
in numero non superiore a 16 (massimo che può essere elevato a 40, a condizione che le
unità aggiuntive siano apprendisti);
d) nelle imprese di trasporto, fino ad un massimo di 8 dipendenti;
e) nelle imprese di costruzioni edili, fino ad un massimo di 10 dipendenti, compresi gli
apprendisti in numero non superiore a 5 (massimo che può essere elevato a 14, a condizione
che le unità aggiuntive siano apprendisti).
Ora, dopo un rapido esame di questi limiti, si può dubitare senz’altro che il concetto
di prevalenza sia utilizzato dalla legge-quadro nella medesima accezione dell’art.
208388.
Si prendano alcuni degli esempi già fatti supra al par. ?
Il trasportatore che decide di assumere stabilmente un’altra persona con mansioni di
autista, magari al fine di affidargli la guida del mezzo tutte le volte che non può o non vuole
farlo lui personalmente, è senz’altro un artigiano anche se – si è visto – non è titolare di una
piccola impresa.
Il sarto che decide di assumere stabilmente uno o più dipendenti, che abbiano l’abilità
professionale per curare interamente la confezione dei vestiti dei clienti (o quanto meno di
qualcuno di questi), è senz’altro un artigiano anche se – si è visto – non è titolare di una
piccola impresa.
E una conferma di questa conclusione può cogliersi nell’ultimo inciso dell’art. 3,
comma 2.
Questa disposizione stabilisce che un’impresa, per potersi qualificare come
artigiana, dev’essere caratterizzata da un processo produttivo nel quale il lavoro abbia
funzione preminente sul capitale. Tuttavia, tale disposizione non distingue il lavoro a
seconda della fonte di provenienza, cioè se si tratti di lavoro del titolare, dei soci o dei
terzi, ma dispone solo che il lavoro, quale che sia allora la fonte di provenienza, deve
prevalere sul capitale. In altre parole, essa richiede che il sottostante processo
produttivo si connoti per essere labour intensive89.
Ne consegue che la prescrizione secondo cui il lavoro del titolare dell’impresa
artigiana o della maggioranza dei soci della società artigiana debba essere prevalente è
da intendersi probabilmente nel senso che siffatto lavoro debba rappresentare
l’occupazione principale del titolare o della maggioranza dei soci, cioè debba essere
l’impiego che assorbe la parte più importante della loro vita lavorativa.
Alla luce di quanto precede, se ne può dedurre che l’impresa artigiana nell’attuale
tipologia della realtà è fenomeno più ampio rispetto al fenomeno che si configurava ai
88
Nello stesso senso, tra gli altri, ALLEGRI, Impresa artigiana e legislazione speciale, Milano, 1990, 56 s.
spec. 137 ss.; GENOVESE, La nozione, 198 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 496 ss.; CAPO, La
piccola impresa, 104.; BIONE, voce Piccolo imprenditore, 4. Diversamente, invece, PAVONE LA ROSA,
Artigiani, società artigiane e «statuto» dell’imprenditore commerciale, in Giur. comm., 1997, I, 648 s.
89
Sul punto, molto chiaramente, CAMPOBASSO, I, 68.
Antonio Cetra
41
tempi in cui il codice civile è stato scritto: un’impresa artigiana può essere una piccola
impresa ma può essere anche eccedente la piccola impresa90.
D’altra parte, una simile conclusione può considerarsi ormai ampiamente acquisita anche
dalla giurisprudenza, la quale costantemente afferma che l’artigiano diventa un normale
imprenditore quando imprima alla sua attività i caratteri propri dell’ordinaria impresa
industriale, a struttura capitalistica, costituendo una base di intermediazione speculatoria e
facendo assumere al suo guadagno, normalmente modesto, i caratteri del profitto:
preposizione, quest’ultima, che vale a sottolineare il mutamento quantitativo e qualitativo
che si verifica nell’organizzazione dell’impresa, la quale cessa di essere il supporto per la
esplicazione della attività dell’artigiano, cioè per una produzione che rechi l’impronta della
sua personale abilità, e realizza, invece, una vera e propria organizzazione industriale, avente
autonoma capacità produttiva e in cui l’opera del titolare non è più essenziale né principale
con la conseguenza che non si è in presenza di un piccolo imprenditore91.
Del resto, la legge-quadro non ha definito l’impresa artigiana con l’obiettivo di
rimodulare il perimetro dei fenomeni produttivi cui attribuire rilevanza normativa più
ristretta. La legge-quadro ha definito l’impresa artigiana solo al fine di selezionare i
fenomeni che possono beneficiare degli incentivi previsti a favore dell’artigianato e, in
particolare, delle agevolazioni previdenziali e creditizie92. In quest’ottica, la leggequadro è un provvedimento che dà attuazione al principio costituzionale, secondo cui la
Repubblica provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato (art. 45, comma 2,
Cost.)93.
6. L’impresa commerciale.
La nozione generale di impresa depurata dell’impresa agricola e della piccola
impresa dovrebbe residuare nella specie di impresa destinataria del diritto commerciale
nella sua interezza e organicità.
Questa categoria di impresa è l’impresa commerciale (non piccola o medio
grande).
A differenza delle due categorie appena studiate, con riferimento all’impresa
commerciale non si rinviene una norma che contenga la relativa nozione. Infatti, la
norma dalla quale si ritiene possa desumersi siffatta nozione, l’art. 2195, non è una
norma definitoria, bensì una norma di disciplina, una norma, cioè, che contiene un
In questo senso, MASI, La legge quadro sull’artigianato e diritto privato, in Dir. lav., 1987, I, 247;
SPADA, Imprenditore e impresa artigiana fra codice e legislazione speciale, in Giur. comm., 1987, I, 711
ss.; ID., I, 73 s.; BIONE, voce Piccolo imprenditore, 4.
91
È questa la posizione consolidata della Cassazione già sotto l’ègida della precedente l. 25 luglio 1956, n.
860: Cass., 14 marzo 1962, n. 519, in Giur. it., 1962, I, 1, 809; Cass., 15 ottobre 1981, n. 5403, in Giur.
comm., 1982, II, 11; più di recente: Cass., 5 marzo 1987, n. 2310, in Fallimento, 1987, 938; Cass., 20
settembre 1995, n. 9976, in Fallimento, 1996, 244.
92
Sulle quali, in luogo di molti, ALLEGRI, op. cit., 101 ss. Nello stesso senso, v., anche, PRESTI-RESCIGNO,
I, 34 s.
93
In questi termini, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, 496.
90
42
L’impresa
primo precetto comportamentale (l’obbligo di pubblicità) all’indirizzo di chi pone in
essere un comportamento che si sostanzia in una delle seguenti attività:
1. un’attività industriale diretta alla produzione di beni e servizi;
2. un’attività intermediaria nella circolazione di beni;
3. un’attività di trasporto per terra, per acqua e per aria;
4. un’attività bancaria o assicurativa;
5. un’attività ausiliaria alle precedenti.
Sono allora queste le attività produttive che esemplificano l’impresa commerciale,
dalle quali occorre enucleare una nozione più generale.
Al riguardo, giova premettere che può ritenersi ormai ampiamente acquisito che
siano le attività di cui ai punti sub 1 e 2 che racchiudono la nozione di impresa
commerciale, atteso che le altre attività enunciate nei successivi punti sub 3, 4 e 5
costituiscono delle specificazioni delle prime94.
Ed invero, è di tutta evidenza che l’attività di trasporto sia un’attività di produzione di un
servizio; così come l’attività assicurativa (infatti, l’assicuratore presta il servizio di accollarsi
un rischio specifico cui è esposto l’assicurato: ciò acquisendo anzitutto del risparmio
dall’assicurato in forma di premio e impegnandosi poi a restituirlo all’assicurato o a un terzo
o a titolo di risarcimento di un danno prodotto da un sinistro o pagando un capitale o una
rendita al verificarsi di un evento che attiene alla vita umana: cfr. art. 1882); e lo stesso
dicasi per le attività ausiliarie, ossia per le attività di supporto a quelle precedentemente
elencate (ad esempio, l’attività di pubblicità, di commissione, di concessione, di mediazione,
ecc.). Invece, l’attività bancaria può essere considerata, non solo come un’attività di
produzione di un servizio (tipicamente, il servizio di trasformare il risparmio raccolto in
moneta bancaria o il servizio di concessione di credito), ma anche come un’attività di
circolazione di un bene, seppure un bene affatto particolare qual è il denaro, raccogliendo
quest’ultimo dal pubblico dei risparmiatori ed erogando lo stesso in forma di credito (cfr. art.
10, comma 1, tub)95.
Pertanto, l’impresa commerciale è un’attività di produzione di beni e di servizi che
si qualifica come industriale e/o un’attività di circolazione di beni che si qualifica
come intermediaria. Cioè, un’attività di produzione di beni e servizi e/o di
circolazione di beni che si distingue dalle produzioni di beni e servizi e/o circolazioni
di beni ricomprese nella nozione generale di impresa per il fatto di essere, la prima
(produzione di beni e servizi) industriale, la seconda (circolazione di beni)
intermediaria.
Se ne deduce che i tratti identificativi dell’impresa commerciale sono racchiusi nei
requisiti di industrialità e di intermediarietà, sui quali allora occorre soffermarsi.
L’interpretazione di questi due requisiti è stata a lungo controversa e, in particolare,
al riguardo, sono state avanzate due differenti opzioni interpretative.
In questi termini, tra gli altri, BUONOCORE, L’impresa, 478 e 480, CAMPOBASSO, I, 54 s.; PRESTIRESCIGNO, I, 34; GALGANO, I, 36 ss.
95
Sul punto, le pronunce rese in occasione della vicenda nota come «caso Giuffrè»: Trib. Bologna, 10
marzo 1961, in Riv. dir. comm., 1961, II, 221; App. Bologna, 12 giugno 1962, in Riv. dir. comm., 1963, II,
56; Cass., 8 aprile 1965, n. 611, in Foro it., 1965, I, 1034.
94
Antonio Cetra
43
Secondo una prima interpretazione, i requisiti di industrialità e intermediarietà sono
da intendersi in un’accezione strettamente letterale o, se si vuole, storica: l’industrialità
alluderebbe al processo produttivo inaugurato con la rivoluzione industriale a cavallo
tra il diciottesimo e diciannovesimo secolo; l’intermediarietà alluderebbe alle attività
classicamente commerciali di acquisto (all’ingrosso) per la rivendita (al dettaglio).
Sicché, l’attività sarebbe industriale solo se si tratti di attività automatizzata o che si
sostanzia nella trasformazione fisico-tecnica della materia; l’attività sarebbe
intermediaria solo se si tratti di attività originata da un acquisito di qualcosa per la
rivendita di quel qualcosa96.
Dunque, accedendo a questa interpretazione si perviene ad una nozione di impresa
commerciale in positivo, non diversa da quelle già esaminate (artt. 2082, 2135, 2083).
In particolare, essa si riferisce a tutti i fenomeni produttivi caratterizzati dal processo
produttivo anzidetto (cioè, automatizzato o che dà luogo alla trasformazione fisicotecnica della materia) o diretti alla circolazione dei beni attraverso un prioritario
acquisto e una successiva rivendita (cioè, di intermediazione commerciale).
Ne consegue che chi propone l’interpretazione appena illustrata circoscrive
l’impresa commerciale ai fenomeni anzidetti, tuttavia senza escludere che vi possano
essere ulteriori fenomeni produttivi che, pur non avendo natura agricola, non hanno
nemmeno natura commerciale. In quest’ottica, la nozione generale di impresa si
articolerebbe, in base alla sua natura, non solo nell’impresa agricola, da un lato, e
nell’impresa commerciale, dall’altro, ma a questa bina di categorie se ne
aggiungerebbe una terza che è invalso qualificare come impresa civile97.
Sulla base di queste premesse i seguenti fenomeni imprenditoriali sono stati considerati
imprese civili:
a) le imprese artigiane, sul presupposto che il sottostante processo produttivo non possa
qualificarsi industriale, in quanto mai interamente automatizzato, neanche per le eventuali
lavorazioni in serie (cfr. art. 4, comma 1, n. 2, l. 443/1985);
b) le imprese primarie o le imprese di pubblici spettacoli, sempre sul presupposto che il
sottostante processo produttivo non possa qualificarsi come industriale, in quanto non dà
luogo ad una trasformazione fisico-tecnica della materia, ma si limita a sfruttare risorse che
si trovano in natura (come le pietre estratte dalle cave; il gas estratto dai giacimenti; il calore
solare sfruttato a fini energetici; il vento sfruttato a fini energetici; ecc.) o risorse che
rientrano nelle abilità umane (la capacità di recitare);
c) le imprese finanziarie, sul presupposto che facciano circolare il denaro non in modo
intermediario, limitandosi a raccogliere risparmio da collocare in opportune soluzioni di
investimento o a concedere credito utilizzando denaro appartenente al patrimonio personale
del titolare;
96
Per questo senso, pur nella diversità delle argomentazioni e delle sfumature di pensiero, OPPO, Scritti, I,
178 ss. e 194 ss.; DE MARTINI, Corso, 144 ss. e 147 ss.; RIVOLTA, La teoria, 227; e più ampiamente,
sottolineando, in particolare, che l’industrialità alluda ad un processo produttivo fondato sulla
trasformazione fisico-tecnica della materia, ID., Sull’impresa agricola, cit., 554 ss.
97
Pervengono a questa conclusione, OPPO, Scritti, I, 196 ss.; condiviso da RIVOLTA, La teoria, 229; ID.,
Sull’impresa agricola, cit., 551 ss.; DE MARTINI, Corso, 165 ss; e dottrina più risalente: tra gli altri, SALIS,
L’imprenditore civile, in Dir. giur., 1948, I, 1 ss. e 97 ss.; LA LUMIA, Corso di diritto commerciale, Milano,
1950, 122; CASANOVA, Impresa, 119 ss.
44
L’impresa
d) le agenzie matrimoniali, le agenzie di collocamento o il mediatore di prodotti agricoli,
sul presupposto che si tratti di attività ausiliarie ad iniziative che non rientrano nell’elenco di
cui all’art. 2195, comma 1, nn. 1-4, peraltro non necessariamente imprenditoriali (il
matrimonio; il lavoro).
L’interpretazione appena riferita è stata oggetto di numerose critiche, mosse anche
da parte di chi ne ha sottolineato l’inappuntabilità sul piano dell’argomentazione che la
sorregge. E la principale ragione di simili critiche è senz’altro da ricondurre alle
incertezze che caratterizzano l’impresa civile con riferimento alla rilevanza normativa
di quest’ultima nozione: il problema concerne l’individuazione della disciplina ad essa
applicabile98.
Al riguardo, prevale l’idea che l’impresa civile abbia una rilevanza normativa non
diversa dalla rilevanza riconosciuta all’impresa agricola e alla piccola impresa,
sull’assunto che quanto meno una parte degli istituti che compongono la disciplina
dell’impresa si riferisca espressamente alla sola impresa commerciale. In quest’ottica, i
fenomeni produttivi ricompresi nell’impresa civile sarebbero assoggettati al diritto
commerciale in modo parziale e frammentario, pur mancando valide ragioni – come
quelle alla base della scelta di attribuire analoga rilevanza normativa all’impresa
agricola e alla piccola impresa – che giustifichino una simile rilevanza normativa99.
Ed invero, è agevole constatare che in molti, se non in tutti, gli esempi di impresa civile
più sopra individuati si riscontrano fenomeni produttivi nei quali gli investimenti richiesti
dal processo produttivo sono assecondati, quanto meno tipicamente, non solo attraverso il
capitale proprio ma anche attraverso il capitale di credito. Cioè, sono fenomeni che
sollecitano il credito alla produzione in misura non inferiore, anzi talvolta ben superiore (si
pensi ad alcune attività primarie), rispetto ad un fenomeno produttivo senz’altro
riconducibile all’impresa commerciale (si pensi ad un supermercato).
Sicché, appare poco congruo assoggettare i fenomeni che rientrano nell’impresa
civile ad un trattamento normativo deteriore rispetto a quello riservato alle imprese
commerciali, atteso che gli interessi in gioco nei primi e nelle seconde non giustificano
una simile diversità. E ciò soprattutto laddove un tale risultato non sia
inequivocabilmente stabilito dal dato normativo ma sia frutto di una scelta
interpretativa sui requisiti di industrialità e di intermediarietà di cui all’art. 2195,
comma 1, nn. 1 e 2100.
Pertanto, proprio nella prospettiva di evitare il suddetto risultato, l’opinione
prevalente è ormai orientata nel senso di interpretare in altro modo i due requisiti
appena menzionati, in particolare attribuendo al primo (all’industrialità) il significato di
non agricolo e al secondo (all’intermediarietà) il significato di scambio101.
98
In questi termini, SPADA, voce Impresa, 64 s.; ID., I, 76 s.
Per quest’ordine di idee, ancora, SPADA, voce Impresa, 64 s.; ID., I, 76 s.
100
In questi termini, sottolineando che alcune delle pretese imprese civili erano sicuramente commerciali
sotto l’abrogato codice di commercio e nulla induce a pensare che con il passaggio al codice civile si sia
voluta restringere l’area della commercialità, NIGRO, Imprese, 606 ss.
101
Pervengono a questa conclusione, tra gli altri, ASCARELLI, Corso, 262 ss.; MINERVINI, L’imprenditore,
45 s.; FRANCESCHELLI, Imprese, 81 ss. e 200; GENOVESE, La nozione, 68 ss.; BONFANTE-COTTINO,
99
Antonio Cetra
45
In quest’ottica, si perviene ad una nozione di impresa commerciale residuale,
diversa, perciò, rispetto alle altre già esaminate (artt. 2082, 2135 e 2083), atteso che si
configura nozione in grado di assorbire tutti i fenomeni imprenditoriali che, in ragione
della loro natura, non possono qualificarsi come agricoli (benché, tra questi, si debba
riconoscere rilevanza normativa positiva solo a quelli che non siano piccole imprese).
Ed invero, se si accede a questa seconda interpretazione è agevole notare che non
possono esservi fenomeni imprenditoriali che riguardati sotto il profilo della loro
natura non possono non essere riconducibili o all’impresa agricola o all’impresa
commerciale. In altri termini, in base alla natura, un fenomeno imprenditoriale è o
un’impresa agricola o un’impresa commerciale, non residuando invece alcuno spazio
per l’ulteriore categoria dell’impresa civile102.
Infatti, nell’accezione interpretativa dei due requisiti di industrialità e intermediarietà che
si è appena illustrata, è agevole constatare che gli esempi più sopra ricordati esprimerebbero
fenomeni produttivi che sono senz’altro qualificabili come imprese commerciali,
sostanziandosi nella produzione di un bene o servizio attraverso un processo produttivo che
non ruota attorno alla cura di un ciclo biologico animale o vegetale (imprese artigiane,
imprese primarie, imprese di pubblici spettacoli, agenzie matrimoniali, agenzie di
collocamento, mediatore di prodotti agricoli) ovvero nello scambio di un bene (imprese
finanziarie).
7. Le implicazioni della natura dell’organizzazione dell’impresa sulla
disciplina applicabile.
Acquisito che la categoria d’impresa destinataria del diritto commerciale nella sua
interezza sia rappresentata dall’impresa commerciale (non piccola), resta adesso da
vedere se tale categoria di impresa debba essere articolata in ulteriori categorie, nel
senso che la disciplina che ad essa si riferisce possa risentire di altri elementi e, in
particolare, della forma giuridica rivestita dall’impresa.
In questa prospettiva, l’impresa commerciale può essere classificata nelle categorie
dell’impresa pubblica e dell’impresa privata.
7.1. Segue: l’impresa pubblica.
Cominciando dalla prima, conviene muovere dalla premessa che l’espressione
impresa pubblica fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale di natura
L’imprenditore, 513 ss.; CAMPOBASSO, I, 57 s.; GALGANO, I, 36 ss. In giurisprudenza, già, Trib. Bologna,
10 marzo 1961, cit.; più di recente, Trib. Milano, 21 aprile 1997, in Giur. comm., 1998, II, 625.
102
In questi termini, sottolineando che l’impresa delineata dall’art. 2082 possa distinguersi, in base alla
natura, in agricola o commerciale e tertium non datur, ASQUINI, Profili, ?, nt. 16; evocando i lavori
preparatori del V libro del codice civile, GENOVESE, L’artigiano e le attività commerciali, in Riv. dir.
comm., 1968, I, 183 ss.
46
L’impresa
commerciale esercitato da o riconducibile ad un soggetto di diritto pubblico (= ente
pubblico)103.
In particolare, un’attività commerciale può costituire oggetto esclusivo o principale
di un ente pubblico, che allora si è soliti qualificare come ente pubblico economico;
ma può essere anche un’iniziativa secondaria di un ente pubblico, che allora si è soliti
qualificare come ente pubblico non economico.
L’ente pubblico economico è un ente che si prefigge di perseguire il suo fine
istituzionale (principalmente) attraverso un’attività commerciale (fine istituzionale che
potrebbe coincidere con lo stesso esercizio dell’iniziativa).
Si tratta di una conformazione dell’impresa pubblica che in passato assumeva
grande importanza, riscontrandosi nei principali settori dell’economia italiana
(bancario, assicurativo, trasporti, energetici, telecomunicazioni, ecc.), ma che ormai
assume una dimensione senz’altro più circoscritta, residuando perlopiù nei mercati in
regime di monopolio legale (tabacchi, giochi e scommesse) e in qualche mercato a
rilevanza locale104.
La ragione di questo mutamento sta nel fatto che gran parte degli enti pubblici
economici, specie quelli a rilevanza nazionale, sono stati interessati da un processo di
privatizzazione, che ne ha comportato la «trasformazione» in società (di capitali).
Pertanto, all’esito di tale processo, la forma giuridica dell’impresa, ossia il suo soggetto
giuridico, non è più un soggetto di diritto pubblico, essendo diventato un soggetto
privato, rappresentato, appunto, dalla società risultante dalla «trasformazione». Solo il
soggetto economico rimane di diritto pubblico, atteso che le società risultanti dalla
«trasformazione» figurano come società in mano pubblica, in quanto le relative
partecipazioni sociali sono attribuite ad un ente pubblico (rappresentato dallo Stato o
da altro ente pubblico territoriale). Ragion per cui si suole qualificare il descritto
processo con l’espressione di privatizzazione in senso formale105.
Sebbene diverse società risultanti dalla «trasformazione» degli enti pubblici economici
siano ancora in mano pubblica (nel senso che il relativo processo di privatizzazione si è
arrestato al livello formale, atteso che, se non l’intera, quanto meno la partecipazione di
controllo appartiene ad un ente pubblico: Stato o altro ente pubblico territoriale), per molte
di queste società vi è stata anche una successiva fase di privatizzazione sostanziale, atteso
che, se non l’intera, quanto meno la partecipazione di controllo è stata trasferita ai privati.
Un tale ulteriore sviluppo del processo di privatizzazione è stato agevolato dal d. l. 31
maggio 1994, n. 332, c. l. 30 luglio 1994, n. 474 (recante norme per l’accelerazione delle
103
In luogo di molti, GIANNINI, Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. soc., 1958, 234 ss.; OTTAVIANO,
voce Impresa pubblica, in Enc. dir., XX, 670 ss.; ROVERSI MONACO, L’attività economica pubblica, in Tr.
Galgano, I, 1977, 386 ss.; CIRENEI, Le imprese, 111 ss. e 122 ss.
104
Per un quadro di sintesi, v. i saggi raccolti in MARCHETTI (a cura di), Le privatizzazioni in Italia. Saggi,
leggi e documenti, Milano, 1995, 1 ss. e in MARASÀ (a cura di), Profili giuridici delle privatizzazioni,
Torino, 1998, 1 ss. Più di recente, FRENI, Le trasformazioni degli enti pubblici, Torino, 2004, 15 ss.; IBBA,
Il tramonto delle partecipazioni pubbliche?, in Studi in ricordo di Jaeger, Milano, 2011, 353 ss.
105
IBBA, La tipologia delle privatizzazioni, in Giur. comm., 2001, I, 464 ss.; PAVONE LA ROSA, La
costituzione delle società per azioni nelle procedure di privatizzazione, in Giur. comm., 2003, I, 5 ss.
Antonio Cetra
47
procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e di altri enti pubblici in società per
azioni)106.
Questo provvedimento normativo prevede anzitutto le modalità attraverso le quali il
pacchetto azionario di controllo possa esser ceduto sul mercato.
In linea di principio, queste modalità devono essere ispirate al principio di trasparenza e
di non discriminazione, finalizzate anche alla diffusione dell’azionariato tra il pubblico dei
risparmiatori e degli investitori istituzionali (art. 1, comma 2).
In questa prospettiva, le modalità devono essere in grado di creare vere e proprie public
companies e, in particolare, si sostanziano nell’effettuare la vendita in una o più tranches del
pacchetto azionario di controllo attraverso la tecnica dell’offerta pubblica di vendita (=
o.p.v.): si tratta di offrire ad un pubblico indistinto di soggetti (genericamente, al mercato) le
azioni oggetto di vendita, a condizioni prefissate, non suscettibili di modificazione per tutto
il corso dell’offerta e non discriminatorie, dando tutte le informazioni necessarie per
consentire all’oblato di decidere se effettuare o meno l’investimento proposto (cfr. art. 1,
comma 1, lett. t, tuf e infra ?)107. D’altra parte, per cercare di mantenere un adeguato livello
di diffusione dell’azionariato anche in seguito alla vendita del pacchetto di controllo, è
possibile introdurre negli statuti delle società privatizzande operanti in alcuni settori
strategici particolarmente importanti nel palinsesto economico complessivo (difesa e
sicurezza nazionale; energia; trasporti; comunicazioni; altri servizi pubblici; banche;
assicurazioni) clausole che stabiliscano limiti massimi al possesso azionario per ogni socio
(salvo che tali limiti non vengano superati in conseguenza di un’offerta pubblica di
acquisito: = o.p.a.: cfr. art. 1, comma 1, lett. v, tuf e infra ?) (art. 3, comma 1), senza che tali
clausole possano essere modificate per un periodo di tre anni dalla loro introduzione (art. 3,
comma 3)108. Una simile modalità di vendita del pacchetto di controllo è stata utilizzata, ad
esempio, nelle privatizzazioni di Telecom, Eni, Enel, Banca Nazionale del Lavoro, ecc.
In alternativa all’o.p.v. è possibile effettuare la vendita del pacchetto di controllo
attraverso una trattativa privata (art. 1, comma 3), con l’obiettivo di cercare uno o più
acquirenti che presentino determinate caratteristiche e attitudini imprenditoriali, in grado di
dare sicurezza in merito alla continuità ed alla correttezza della gestione, anche con
l’impegno di non cedere la partecipazione acquistata per un determinato periodo di tempo
(creando così un nucleo stabile di azionisti)109. Una tale modalità di vendita del pacchetto di
controllo è stata utilizzata nella privatizzazione di Alitalia.
Tuttavia, alcune società operanti nel settore della difesa e della sicurezza nazionale così
come alcune società che detengono attivi strategici (reti, impianti, beni e rapporti di
rilevanza strategica) nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni anche se
privatizzate non recidono completamente i rapporti con lo Stato. Infatti, nei confronti di tali
società quale che sia la composizione della loro compagine sociale lo Stato può esercitare i
poteri speciali attribuiti dagli artt. 2 e 3 d.l. 15 marzo 2012, n. 21 c. l. 11 maggio 2012, n.
56110: in particolare, nei confronti delle società operanti nel settore della difesa e della
106
Ex multis, BONELLI, Le privatizzazioni delle imprese pubbliche, Milano, 1996, 7 ss.; ID., Il codice delle
privatizzazioni nazionali e locali, Milano, 2001, 53 ss.
107
Sul punto, BONELLI, Le privatizzazioni, cit., 14 ss.
108
Sulle clausole di cui nel testo, JAEGER, Privatizzazioni; «Public Companies»; problemi societari, in
Giur. comm., 1995, I, 10; LIBONATI, La faticosa «accelerazione» delle privatizzazioni, in Giur. comm.,
1995, I, 35 s.; CALVOSA, La partecipazione eccedente e i limiti al diritto di voto, Milano, 1999, 75 ss.
109
Sul punto, BONELLI, Le privatizzazioni, cit., 49 ss.
110
Tali poteri sostituiscono i poteri speciali che dovevano essere introdotti con apposita clausola statutaria
prima della privatizzazione delle società operanti in analoghi settori strategici ai sensi dell’art. 2, comma 1,
d.l. 332/1994 (c.d. golden share) (sui quali, COSTI, Privatizzazioni e diritto delle società per azioni, in Giur.
comm., 1995, I, 80 ss.; VANONI, Le società miste quotate in mercati regolamentati (dalla “golden share” ai
fondi sovrani), in Le società “pubbliche”, a cura di Ibba-Malaguti-Mazzoni, Torino, 2011, 197 ss. e 203 s.),
48
L’impresa
sicurezza nazionale (da individuarsi con d.P.C.M.) i poteri di cui all’art. 1, comma 1 (veto
sull’assunzione di alcune decisioni amministrative e assembleari; veto sull’ingresso di alcuni
soggetti in società; imposizione di specifiche condizioni agli acquirenti di partecipazioni
rilevanti) da esercitarsi con il procedimento di cui all’art. 1, commi 4 e 5; nei confronti delle
società detentrici di attivi strategici nei settori dell’energia, dei trasporti e delle
telecomunicazioni (da individuarsi con d.P.R.) i poteri di cui all’art. 2, commi 3 e 6 (veto
sull’assunzione di alcune decisioni amministrative e assembleari; imposizioni di specifiche
condizioni agli acquirenti non europei di partecipazioni rilevanti) da esercitarsi con il
procedimento di cui all’art. 2, commi 2, 4 e 5.
Detti poteri – che non sono previsti esclusivamente dall’ordinamento italiano ma che si
trovano in pressoché tutti gli ordinamenti nei quali sono intervenuti analoghi provvedimenti
di agevolazione delle privatizzazioni – dovrebbero consentire di salvaguardare la correttezza
gestoria anche in seguito alla privatizzazione, in particolare evitando che i nuovi titolari (di
diritto o di fatto) del potere gestorio antepongano i propri personali interessi agli interessi di
natura pubblica o generale che dovrebbero continuare a connotare l’interesse delle società
divisate.
L’ente pubblico non economico è invece un ente che realizza i molteplici fini
istituzionali attraverso un’azione dalla conformazione assai variegata, che si articola in
numerose iniziative (anche produttive), le quali tipicamente non presentano i caratteri
dell’impresa (soprattutto per difetto del requisito di economicità) ma che talvolta
possono essere vere e proprie imprese (svolgendosi in regime di economicità).
L’esempio più importante è rappresentato senz’altro dagli enti pubblici locali (comuni
e regioni), nei quali non è raro riscontrare, a fianco alle tipiche attività amministrative,
anche una o più attività commerciali.
Anzitutto, possono assumere le fattezze dell’attività commerciale i servizi pubblici
locali: senz’altro i servizi cc.dd. a rilevanza economica, cioè i servizi che possono
essere erogati a condizioni che consentono di conseguire un margine di profitto e per i
quali è perciò possibile immaginare un mercato concorrenziale di riferimento
(tipicamente, i servizi pubblici nei settori energetici come il gas, la luce, l’acqua); ma
anche i servizi cc.dd. privi di rilevanza economica, cioè i servizi che non si prestano
ad essere erogati a condizioni che consentono di conseguire un margine di profitto e
per i quali non è perciò immaginabile un mercato concorrenziale di riferimento
(tipicamente, i servizi sociali): infatti, questi ultimi servizi possono essere erogati a
condizioni meramente economiche, cioè a prezzi che consentono di recuperare i costi
di produzione, e non soltanto a condizioni di erogazione, cioè sottocosto o a prezzi
politici.
In secondo luogo, possono assumere le fattezze dell’attività commerciale anche
iniziative non qualificabili come servizi pubblici (si pensi alle numerose società
finanziarie regionali o a società che gestiscono case da gioco comunali).
Ora, la gestione dei servizi a rilevanza economica non può essere effettuata
direttamente dall’ente pubblico locale ma dev’essere affidata necessariamente ad una
poteri che avevano sollevato non pochi problemi di compatibilità con il diritto comunitario e, in particolare,
con il principio di libera circolazione dei capitali nell’Unione europea ex art. 63 Tr. FUE (al riguardo, ex
multis, BALLARINO-BELLODI, La Golden Share nel diritto comunitario. A proposito delle recenti sentenze
della Corte comunitaria, in Riv. soc., 2004, 2 ss.; MUCCIARELLI, La sentenza Volkswagen e il pericolo di
una «convergenza» forzata tra gli ordinamenti societari, in Giur. comm., 2009, II, 273 ss.).
Antonio Cetra
49
società di capitali a partecipazione interamente pubblica con la quale intercorre una
relazione talmente intensa da poter essere qualificata interorganica più che
intersoggettiva: società che è invalso qualificare con l’espressione «società in house
providing»111. Invece, la gestione dei servizi privi di rilevanza economica è lasciata
alla discrezionalità dell’ente pubblico e può essere da quest’ultimo affidata o ad una
società in house o ad un’autonomia funzionale con soggettività giuridica (l’azienda
speciale) o priva di soggettività giuridica (l’istituzione) ovvero può essere esercitata in
economia. Infine, la gestione delle altre iniziative imprenditoriali rimane sempre nella
discrezionalità dell’ente pubblico, che può orientarsi a favore o della società in mano
pubblica o dell’autonomia funzionale con o priva di soggettività giuridica: nel primo
caso, dando vita ad un vero e proprio ente pubblico economico; nel secondo, ad una
c.d. impresa-organo112.
Pertanto, alla luce di quanto precede, l’impresa pubblica può presentarsi nella forma
della società pubblica (impresa-società), dell’ente pubblico economico (impresaente) o all’interno del contesto organizzativo di un ente pubblico non economico
(impresa-organo)113.
Ciò acquisito, passiamo allora a vedere quali siano le implicazioni sul piano della
disciplina applicabile.
Nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di diritto privato, cioè la
società, l’applicazione della disciplina dell’impresa dovrebbe avvenire in maniera non
diversa da una qualsiasi altra società (v., infra, ?). Infatti, non sembra che l’eventuale
rilevanza generale degli interessi serviti dall’iniziativa ovvero la natura pubblica del
soggetto economico siano motivi sufficienti per giustificare un’applicazione differente
e, in particolare, deteriore, cioè priva di uno o più istituti in cui si articola quella
disciplina (come invece talvolta ritiene la giurisprudenza, soprattutto quando si tratti di
decidere dell’apertura di una procedura concorsuale)114.
Nel caso in cui l’impresa assuma la forma giuridica di diritto pubblico, cioè l’ente
pubblico, occorre muovere dall’art. 2093, il quale dispone, nei riguardi degli enti
inquadrati nelle associazioni professionali – gli attuali enti pubblici economici –
l’applicazione delle disposizioni contenute nel libro V e, nei riguardi degli enti non
inquadrati – gli attuali enti pubblici non economici – l’applicazione delle disposizioni
del libro V limitatamente alle imprese da essi esercitate.
Sul c.d. «controllo analogo» e sulle società in hause, CASALINI, L’organismo di diritto pubblico e
l’organizzazione in hause, Napoli, 2003, 247 ss.; OCCHIOLUPO, Le società in hause, in Giur. comm., 2008,
II, 525 ss.; COSSU, Le S.r.l. in hause providing per la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza
economica nel diritto comunitario e nazionale, in Le società “pubbliche”, a cura di Ibba-MalagutiMazzoni, Torino, 2011, 244 ss. e 266 ss.
112
Sulle forme di gestione dei servizi privi di rilevanza economica, PIPERATA, Tipicità e autonomia nei
servizi pubblici locali, Milano, 2005, 292 ss. e 297 ss.; CETRA, La trasformazione dell’ente pubblico, in Le
società “pubbliche”, a cura di Ibba-Malaguti-Mazzoni, Torino, 2011, 173 ss.
113
La tripartizione è di GIANNINI, op. cit., ?
114
V., da ultimo, Trib. Foggia, 8 settembre 2011, che ha negato l’assoggettamento alle procedure
concorsuali di una società a partecipata interamente da un ente pubblico locale, adducendo la natura
pubblica della partecipazione e l’essenzialità del servizio reso. Tale pronuncia è stata poi correttamente
riformata da App. Bari, 25 ottobre 2011, che ha disposto l’ammissione all’amministrazione straordinaria
delle grandi imprese insolventi. In dottrina, nel senso del testo, per tutti, CAMPOBASSO, I, 77.
111
50
L’impresa
Pertanto, ai sensi della norma appena menzionata, non sembra che la forma
pubblica dell’impresa possa incidere significativamente sull’esperienza normativa
oggetto di attenzione.
Sennonché, questa conclusione dev’essere valutata alla luce degli artt. 2201 e 2221,
i quali, riferendosi specificamente agli enti pubblici che esercitano un’impresa,
stabiliscono, il primo, che gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale
un’attività commerciale sono soggetti all’obbligo di iscrizione nel registro delle
imprese; il secondo, che gli enti pubblici sono esclusi dalle procedure del fallimento e
del concordato preventivo. Se ne deduce che solo gli enti pubblici economici e, quindi,
non gli enti pubblici non economici, devono adempiere all’obbligo di pubblicità
commerciale; mentre qualunque ente pubblico, economico e non, è sottratto al
fallimento ed al concordato preventivo115.
La ratio delle disposizioni appena ricordate può cogliersi senz’altro nell’esigenza di
adeguare le modalità di applicazione del diritto dell’impresa alla forma giuridica
pubblica rivestita dalla stessa.
In particolare, la prima norma (art. 2201) esenta l’impresa-organo dalla pubblicità
commerciale, muovendo dal duplice presupposto, da un lato, che tale iniziativa sia
assoggettata ad altra forma di pubblicità, ritenuta – a torto o a ragione – dal legislatore
storico del ’42 del tutto equivalente rispetto alla pubblicità che si realizza tramite
l’iscrizione nel registro delle imprese; dall’altro, che sia eccessivo assoggettare l’ente
pubblico non economico al sistema di controlli che tipicamente precedono l’iscrizione
nel registro delle imprese (art. 2189, comma 2: v., infra, ?)116.
La seconda norma (art. 2221) esenta tutti gli enti pubblici dal fallimento e dal
concordato preventivo, non già perché un soggetto di diritto pubblico non possa essere
insolvente, bensì perché per gli enti pubblici esistono rimedi specificamente approntati
per risolvere e superare l’eventuale insolvenza: per gli enti pubblici economici la
liquidazione coatta amministrativa; per gli enti pubblici non economici appositi sistemi
di diritto pubblico interno e internazionale117.
Ne consegue che le due norme in questione contengono disposizioni la cui ratio non
eccede il particolare contesto al quale si riferiscono. Pertanto, esse sono da intendersi
come eccezionali, dunque suscettibili di applicazione nei limiti tracciati dal loro tenore
letterale118. Dal che discende l’importante corollario che nei confronti dell’impresa
pubblica trova applicazione tutta la parte della disciplina dell’impresa per la quale non
è stabilito diversamente (v., infra, ?)119.
115
Nel senso del testo, in luogo di molti, FRANCESCHELLI, Imprese, 119 s.; CIRENEI, Le imprese, 160 ss.;
GENOVESE, La nozione, 221 ss.
116
In questo senso, già, PAVONE LA ROSA, Il registro delle imprese. Contributo alla teoria della pubblicità,
Milano, 1954, 224, nt. 2; OTTAVIANO, op. cit., 675; più di recente, CIRENEI, Le imprese, 167. Nel senso,
invece, che la pubblicità debba trovare comunque applicazione nei confronti dell’impresa-organo, COSTI,
Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1968, I, 34 ss.; più di recente, NIGRO, Imprese, 666 s.
117
In questo senso, tra gli altri, GHIDINI, Lineamenti, 71; AULETTA, L’impresa, cit., 86 s.
118
MINERVINI, L’imprenditore, 210 ss.; GENOVESE, La nozione, 214 ss.; NIGRO, Imprese, 642 ss.;
CAMPOBASSO, I, 78.
119
Diversamente, invece, ritenendo che dall’esenzione dalla pubblicità commerciale per gli enti pubblici
non economici possa desumersi una più generale esenzione dalla disciplina specifica per le imprese
commerciali, BIGIAVI, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, 40; adde, BONFANTE-COTTINO,
Antonio Cetra
51
7.2. Segue: l’impresa privata.
Passando all’impresa privata, conviene anzitutto precisare che con questa
espressione si fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale di natura
commerciale, che assume la forma giuridica di diritto privato: vale a dire, la persona
fisica (impresa individuale), la società (impresa societaria) o un altro ente privato non
societario (impresa collettiva non societaria).
Se l’impresa assume la forma individuale, sembra che non si verifichino particolari
ripercussioni con riguardo alla disciplina applicabile, ulteriori, cioè, rispetto a quelle
già viste studiando le due categorie di impresa a rilevanza negativa (impresa agricola e
piccola impresa).
Se l’impresa assume la forma societaria, sembra potersi replicare la medesima
conclusione. Con la precisazione tuttavia che se si tratta di società commerciale
(società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società a responsabilità
limitata e società azionarie: v., infra, ?) la disciplina della forma giuridica – che è la
disciplina di una forma commerciale, vale a dire di una forma approntata sul
presupposto di essere utilizzata quale veste giuridica delle attività commerciali –
implementa alcune regole mutuate dalla disciplina dell’impresa: in particolare,
l’obbligo di tenuta delle scritture contabili (artt. 2302, 2315, 2478, comma 1, 2421 e
2454) e l’obbligo di pubblicità commerciale (artt. 2296, comma 1, 2315, 2463, comma
3, 2330, comma 1 e 2454). Con la conseguenza che se una società commerciale viene
impiegata per dare forma giuridica ad un’attività non commerciale (o, ove se ne
ammetta la configurabilità, ad una piccola impresa: v., supra, ?) troveranno comunque
applicazione le suddette regole della disciplina dell’impresa (non invece – ça va sans
dire – la parte restante di quella disciplina), in quanto regole della forma giuridica120.
Se l’impresa assume la forma di un altro ente privato non societario (gruppo
europeo di interesse economico, consorzio tra imprenditori con attività esterna, rete
d’impresa, associazione o fondazione del libro I), la conclusione è meno immediata.
Ciò in quanto nella sistematica del codice civile manca qualsiasi riferimento in merito
all’applicazione della disciplina dell’impresa nei confronti degli enti non societari, che
invece si limita a considerare le sole varianti dell’impresa pubblica, impresa
individuale e impresa societaria.
Peraltro, la circostanza che il legislatore abbia riservato il più assoluto silenzio in
proposito ha indotto per lungo tempo a dubitare della stessa ammissibilità dell’impresa
collettiva non societaria121.
Tuttavia, può ritenersi ormai pressoché acquisito che un ente non societario possa
esercitare un’attività commerciale e che l’impresa possa essere il suo oggetto esclusivo,
principale o secondario. In altri termini, può ritenersi acquisito che un ente non
L’imprenditore, 520; GALGANO, I, 52 s. Perviene ad analoga conclusione, sul presupposto che l’impresa
degli enti pubblici non economici rappresenti un caso di impresa senza imprenditore, FERRI, ?.
120
Il riferimento è a OPPO, Scritti, I, 128 ss. e 146 ss.
121
Per un quadro di sintesi, TIDU, Associazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1986, II, 501 ss. e 507 ss.
52
L’impresa
societario – non diversamente da una società – possa esercitare un’impresa per il
perseguimento del suo fine istituzionale122.
In quest’ottica, è lasciato all’interprete (teorico e pratico) il compito di risolvere la
questione relativa all’applicazione dell’impresa nei contesti adesso in esame.
Al riguardo, giova ricordare che il profilo di tale questione maggiormente
controverso attiene all’applicazione della disciplina dell’impresa alle associazioni e
fondazioni del libro I.
È fenomeno sempre più frequente che un’associazione o una fondazione si trovi ad
esercitare un’attività commerciale, che può costituire il suo oggetto esclusivo, principale o
secondario.
Normalmente, tali enti esercitano un’impresa in quanto modalità diretta e immediata per
realizzare il proprio scopo istituzionale. A titolo di esempio, si possono ricordare le
fondazioni che gestiscono teatri; o le fondazioni che gestiscono collegi universitari, ospedali,
case di cura; o, ancora, le associazioni che producono servizi di assistenza alle persone
anziane o disabili; oppure le associazioni sportivo-dilettantistiche che gestiscono scuole
sportive o organizzano pubblici spettacoli. Inoltre, si possono ricordare le associazioni
culturali che gestiscono un punto vendita di oggetti correlati con il fine istituzionale
perseguito (ad esempio, un’associazione che promuove la lettura e lo studio della letteratura
italiana del ‘900 gestisce una libreria specializzata sugli autori del ‘900; un’associazione che
promuove la passione per la musica classica gestisce una negozio di musica di quel genere;
ecc.); e così via. Ma non è raro che siffatti enti esercitino un’impresa anche se in rapporto
mediato e indiretto rispetto al proprio scopo istituzionale. A titolo di esempio, basti pensare
all’associazione sportiva, culturale o ricreativa che gestisce un punto di ristoro o ad una
fondazione filantropica che esercita un’attività commerciale per procacciarsi i mezzi
finanziari da destinare a sostegno delle proprie finalità statutarie.
Una prima corrente di pensiero, muovendo dalla constatazione che i fenomeni
imprenditoriali adesso riguardati siano assimilabili alla impresa pubblica e, in
particolare, condividano con quest’ultima il carattere non speculativo e l’essere a
servizio di interessi generali e collettivi, prospetta l’applicazione del diritto
dell’impresa in maniera non diversa da come è stabilita per l’ente pubblico e, quindi, a
seconda che l’associazione o la fondazione eserciti l’impresa in via esclusiva o
principale oppure solo in via secondaria123.
Tuttavia, una simile conclusione non si presta ad essere condivisa, alla luce di
quanto affermato supra nel par. precedente, soprattutto laddove si è detto che le
particolari modalità di applicazione del diritto dell’impresa nei confronti dell’impresa
pubblica rappresentano nient’altro che un adattamento alla forma giuridica pubblica
rivestita dall’impresa, sicché non si giustificherebbero in un contesto differente.
In particolare, non si giustificherebbe l’esonero dall’obbligo di pubblicità
commerciale nei confronti delle associazioni e fondazioni che esercitano un’attività
commerciale secondaria, atteso che non esiste un sistema di pubblicità reputato
equivalente al registro delle imprese; così come non si giustificherebbe la sottrazione
Sul punto, PIRAS, Nuove forme, 76 ss.; per altri riferimenti, CETRA, L’impresa, 42 ss.
In questo senso, BIGIAVI, La professionalità, 86 ss.; adde, tra gli altri, GALGANO, Delle associazioni non
riconosciute e dei comitati. Art. 36-422, in Comm. Scialoja-Branca, 1978, 88 ss. e 99 ss. In giurisprudenza,
seppur in obiter dictum, Cass., 18 settembre 1993, n. 9589, in Fallimento, 1994, 156.
122
123
Antonio Cetra
53
alle procedure concorsuali di fallimento e di concordato preventivo, nei confronti di
tutte le associazioni e fondazioni, atteso che l’eventuale insolvenza resterebbe affidata
a meccanismi inadeguati quali quelli del diritto comune124.
Non a caso, può considerarsi ormai prevalente l’idea che la disciplina dell’impresa
debba trovare applicazione nella sua interezza nelle associazioni e nelle fondazioni che
esercitano un’attività commerciale, quale che sia la posizione o il ruolo assunto da
quest’ultima (cioè, se attività esclusiva o principale oppure solo secondaria)125.
E una conferma di questa conclusione sembra adesso emergere dalla recente
disciplina dell’impresa sociale.
7.3. Segue: l’impresa sociale.
Il d. lgs 24 marzo 2006, n. 155 utilizza l’espressione «impresa sociale» per qualificare
due tipologie di fenomeni imprenditoriali (ex art. 2082).
Un primo tipo di fenomeni sono quelli caratterizzati dalla circostanza che i beni e i
servizi prodotti siano beni e servizi di utilità sociale, tali essendo i beni e i servizi prodotti e
scambiati nei seguenti settori:
assistenza sociale;
assistenza sanitaria;
assistenza socio-sanitaria;
educazione, istruzione e formazione;
tutela dell’ambiente e dell’ecosistema;
valorizzazione del patrimonio culturale;
turismo sociale;
formazione universitaria e post-universitaria;
ricerca ed erogazione dei beni culturali;
formazione extrascolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica ed al
successo scolastico formativo;
servizi strumentali alle imprese sociali (art. 2, comma 1).
Un secondo tipo di fenomeni sono quelli che utilizzano nel proprio processo produttivo
fattore lavoro proveniente in misura non inferiore al 30% del lavoro complessivo da
lavoratori svantaggiati ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. f, punti i, ix e x Reg. 5 dicembre
2002, n. 2204 (giovani disoccupati, persone affette da dipendenze e ex detenuti) e/o
lavoratori disabili ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. g, del medesimo regolamento 2204/2002
(persone disabili) (art. 2, comma 2)126.
In questo senso, CETRA, L’impresa, 62 ss. e 68 ss.
Per questa conclusione, in luogo di molti, MINERVINI, L’imprenditore, 220; COSTI, Fondazione, cit., 24
ss.; GATTI, L’impresa collettiva non societaria e la sua disciplina fallimentare, in Riv. dir. comm., 1980, I,
108 ss.; FARENGA, Esercizio di impresa commerciale da parte di enti privati diversi dalle società e
fallimento, in Dir. fall., 1981, I, 222 ss.; COLUSSI, voce Impresa collettiva, in Enc. giur, XVI, 5;
CAMPOBASSO, Associazioni e attività di impresa, in Riv. dir. civ., 1994, II, 589 ss.; MARASÀ, Contratti
associativi e impresa. Attualità e prospettive, Padova, 1995, 146 s. e 173 s.; ZOPPINI, Le fondazioni. Dalla
tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, 176 ss.; in giurisprudenza, da ultimo, Trib. Gorizia, 18 novembre 2011,
in Fallimento, 2012, 722; Trib. Milano, 28 ottobre 2011, in Fallimento, 2012, 78; Trib. Alba, 25 marzo
2009, in Fallimento, 2009, 1427.
126
Sul punto, BUCELLI, Art. 2, in La nuova disciplina dell’impresa sociale. Commentario al d. lgs. 24
marzo 2006, n. 155, a cura di De Giorgi, Padova, 2007, 79 ss.
124
125
54
L’impresa
Si tratta di iniziative che per lungo tempo sono state appannaggio esclusivo
dell’intervento pubblico: solo lo Stato o altri enti pubblici locali operavano nei settori a
rilevanza sociale più sopra menzionati o si preoccupavano dell’inserimento nel mondo del
lavoro dei soggetti svantaggiati o disabili. Tuttavia, per diverse ragioni (tra le quali,
anzitutto, i problemi di finanza pubblica), l’intervento pubblico è in corso di progressiva
sostituzione con l’intervento privato: sempre maggiori sono gli spazi occupati dai privati nei
settori ricordati nonché le iniziative private che perseguono fini di particolare benemerenza,
come l’inserimento nel mondo del lavoro di soggetti svantaggiati o disabili. Peraltro,
l’intervento privato è improntato non più soltanto a logiche erogative (cioè, caratterizzato
dalla cessione gratuita o sottocosto dei beni e servizi prodotti), bensì anche a logiche
economiche (cioè, caratterizzato dalla cessione dei beni e servizi a condizioni che
consentono di recuperare quanto meno i costi dei fattori produttivi impiegati nel sottostante
processo produttivo), sostanziandosi allora in una vera e propria iniziativa imprenditoriale127.
Simili iniziative possono assumere in linea di principio tutte le forme giuridiche private
(art. 1, comma 1). Siffatte forme devono peraltro essere causalmente compatibili con la
possibilità di inserire nel loro statuto una clausola non lucrativa confezionata ai sensi
dell’art. 3 d. lgs. 155/2006: una clausola che impone all’ente privato di svolgere l’iniziativa
senza dar luogo ad alcuna produzione di utili ovvero di eterodestinare gli eventuali utili
prodotti in conformità con gli scopi statutari oppure di mantenerli ad incremento del
patrimonio128.
In questa prospettiva, è di tutta evidenza che le imprese sociali possono essere gestite
anzitutto da associazioni e fondazioni del libro I (che, come è noto, sono enti senza scopo di
lucro), nelle quali devono figurare come oggetto esclusivo o principale (art. 1, comma 1).
Inoltre, possono essere gestite anche da enti ecclesiastici (che pure sono enti senza scopo di
lucro), nei quali devono figurare necessariamente come attività secondarie (art. 1, comma 3)
(atteso che l’attività principale degli enti ecclesiastici dev’essere attività religiosa o di
culto)129.
Il d. lgs. 155/2006 stabilisce alcuni profili di disciplina dell’impresa sociale, i quali
possono essere suddivisi idealmente in due gruppi: da un lato, ci sono regole dettate sul
presupposto che l’iniziativa svolta abbia carattere sociale e si svolga nell’ambito di settori
socialmente rilevanti (l’obbligo di inserire la clausola non lucrativa: art. 3; l’obbligo di
improntare il rapporto sociale a principi di non discriminazione: art. 9; l’obbligo di
coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività: art. 12; l’obbligo di redigere e
pubblicare il bilancio sociale: art. 10; il divieto disposto all’indirizzo di imprese private con
finalità lucrative di acquisire posizioni di controllo: art. 4; la prescrizione di particolari
requisiti per gli esponenti aziendali: art. 8); dall’altro, ci sono regole dettate sul presupposto
che l’iniziativa posta in essere è un’impresa, tipicamente non agricola e, quindi, di natura
commerciale (l’obbligo di pubblicità commerciale: art. 5; l’obbligo di tenuta delle scritture
contabili: art. 10; l’assoggettamento alle procedure concorsuali in caso di insolvenza: art.
15).
In questa sede, l’attenzione verrà concentrata esclusivamente sulle regole del secondo
tipo e, segnatamente, sull’applicazione delle stesse nei confronti degli enti che svolgono
l’impresa sociale.
Sul punto, anche per i riferimenti, CETRA, L’impresa, 4 ss. e 13 ss.
Al riguardo, CETRA, Impresa, 148 s., nt. 2. Sulla clausola non lucrativa di cui nel testo, CAPECCHI, Art.
3, in La nuova disciplina dell’impresa sociale. Commentario al d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di De
Giorgi, Padova, 2007, 116 ss.; FICI, Art. 3, in Commentario al decreto sull’impresa sociale (d. lgs. 24
marzo 2006, 155), a cura di Fici-Galletti, Torino, 2007, 41 ss.
129
Sul punto, anche per gli altri riferimenti, FUSARO-COEN-FUCCILLO, Art. 1, in La nuova disciplina
dell’impresa sociale. Commentario al d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di De Giorgi, Padova, 2007, 19
ss., 37 ss. e 49 ss.
127
128
Antonio Cetra
55
Al riguardo, è agevole constatare che tanto l’obbligo di pubblicità tanto l’obbligo di
tenuta delle scritture contabili trovino applicazione, senza distinzione, nei confronti di tutti
gli enti che esercitano un’impresa sociale (artt. 5, commi 2 e 4 e 10, commi 1 e 3): non solo,
cioè, nei confronti degli enti che esercitano l’impresa in via esclusiva o principale (le
associazioni e le fondazioni), ma anche nei confronti degli enti che esercitano l’impresa in
via secondaria (ossia, gli enti ecclesiastici)130.
Per contro, la conclusione non è altrettanto immediata per l’assoggettamento alle
procedure concorsuali in caso di insolvenza, atteso che, in prima battuta, si dispone la
liquidazione coatta amministrativa all’indirizzo di tutte le organizzazioni che esercitano
l’impresa sociale, salvo, poi, aggiungere che tale disposizione non si applica agli enti
ecclesiastici (art. 15, comma 1).
Infatti, è evidente la ragione per cui la procedura concorsuale prescelta sia la
liquidazione coatta amministrativa, ragione non diversa da quella che è tipicamente alla base
di tale scelta tutte le volte che viene operata, vale a dire per via della presenza di un sistema
di eterocontrollo pubblicistico. Ed invero, attraverso la liquidazione coatta, l’autorità
amministrativa deputata al controllo sugli enti che esercitano un’impresa sociale (il
Ministero del lavoro e delle politiche sociali) mantiene il suo potere (che, di conseguenza,
non passa all’autorità giudiziaria) anche nel corso della gestione della crisi dell’impresa. E
ciò con il preciso obiettivo di propiziare la soluzione della crisi, senza trascurare gli interessi
generali, a spiccata colorazione pubblicistica, a vario titolo sollecitati da un’iniziativa a
rilevanza sociale (i finanziatori esterni a titolo di liberalità; i beneficiari dei beni e servizi
resi; i lavoratori svantaggiati e/o disabili eventualmente impiegati nell’impresa; ecc.): più
precisamente, in modo da contemperare questi ultimi interessi con gli altri tipicamente
coinvolti da un’iniziativa di natura imprenditoriale (i finanziatori esterni con vincolo di
restituzione; i fornitori di materie prime; gli altri lavoratori; ecc.), senza correre il rischio che
ai primi venga riservata una posizione deteriore rispetto ai secondi e, in particolare, a
vantaggio dei creditori.
Invece, potrebbe non essere altrettanto evidente la ragione dell’esenzione disposta
all’indirizzo degli enti ecclesiastici, con il rischio di generare equivoci. Essa è da intendersi
come esenzione dalla procedura di liquidazione coatta amministrativa, data l’incompatibilità
tra quest’ultima procedura concorsuale (che è una procedura con finalità estintiva) e l’ente
ecclesiastico (sulle cui vicende estintive l’ordinamento italiano non può in alcun modo
disporre). Viceversa, essa non può intendersi come esenzione più generale dalle procedure
concorsuali, solo che si ricordi che un ente ecclesiastico è assoggettato all’ordinamento
statuale per tutte le attività diverse da quelle di religione e di culto poste in essere. Sicché,
l’ente ecclesiastico sarà assoggettato alla disciplina dell’impresa per le iniziative
imprenditoriali svolte e, tra queste, per le imprese sociali: ad una disciplina, cioè, che
prevede l’assoggettamento alle procedure concorsuali in caso di insolvenza, benché, nel caso
di specie, esclusivamente alle procedure prive di finalità estintiva (quindi, tipicamente, al
fallimento)131.
130
Sul punto, anche per altri riferimenti, FUSARO, Art. 5 e BAGNOLI, Art. 10, in in La nuova disciplina
dell’impresa sociale. Commentario al d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155, a cura di De Giorgi, Padova, 2007, 169
ss. e 241 ss.
131
Per questa conclusione, CETRA, Impresa, 197 ss. Diversamente, GALLETTI, Art. 15, in Commentario al
decreto sull’impresa sociale (d. lgs. 24 marzo 2006, 155), a cura di Fici-Galletti, Torino, 2007, 216 ss.
56
L’impresa
§ 3. L’impresa e le professioni intellettuali.
LETTERATURA: AFFERNI, voce Professioni III) Professioni intellettuali – Diritto
commerciale, in Enc. giuridica, XVIII, Roma, 1989; FARINA, Esercizio di professione
intellettuale ed organizzazione ad impresa, in Impresa e società. Scritti in memoria di
Graziani, V, Napoli, 1967, 2089; GUIZZI, Il concetto di impresa tra diritto comunitario,
legge antitrust e codice civile, in Riv. dir. comm., 1993, I, 279; IBBA, Professione
intellettuale e impresa, in Riv. dir. civ., 1982, II, 353 e 558; 1983, II, 331; 1985, II, 53;
ID., La categoria «professione intellettuale», in Ibba-Latella-Piras-De Angelis-Macri,
Le professioni intellettuali, Torino, 1987, 3; ID., Professioni intellettuali e diritto
commerciale, in Ibba-Latella-Piras-De Angelis-Macri, Le professioni intellettuali,
Torino, 1987, 269; MUSOLINO, Contratto d’opera professionale. Artt. 2229-2238, in Il
codice civile. Commentario, fondato da Schlesinger e diretto da Busnelli, Milano,
2009.; SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società nell’esercizio delle professioni intellettuali,
Milano, 1974.
Occorre spostare adesso l’attenzione sul rapporto che intercorre tra il fenomeno
imprenditoriale e, in particolare, l’impresa commerciale (non piccola o medio-grande)
e un altro fenomeno produttivo, con riguardo al quale è da sempre incerto se possa a
sua volta qualificarsi come imprenditoriale e, quindi, sia riconducibile o resti ai
margini del perimetro della fattispecie imprenditoriale disciplinata: le professioni
intellettuali.
Occorre muovere dalla premessa che anche le professioni intellettuali, come
l’impresa, sono fenomeni produttivi che si presentano nella forma dell’attività
produttiva, vale a dire sono immaginabili come una successione di comportamenti,
coordinati strutturalmente e funzionalmente, ossia teleologicamente orientati rispetto al
raggiungimento di un determinato risultato socialmente apprezzabile in termini di
prestazione professionale.
In quest’ottica, ai fini che qui interessano, bisogna verificare se tra i due fenomeni
produttivi, le professioni intellettuali e l’impresa, c’è o meno coincidenza sul piano
ontologico. Infatti, se non c’è coincidenza, il discorso finisce qui. Invece, se c’è
coincidenza, bisogna verificare qual è il trattamento normativo delle professioni
intellettuali e, in particolare, se sono assoggettate o meno alla disciplina dell’impresa.
Al riguardo, sembra ragionevole ritenere che il legislatore del ’42 abbia
considerato i due fenomeni così come si presentavano nella tipologia della realtà del
tempo: in particolare, abbia rilevato una sostanziale diversità tra essi e, di conseguenza,
si sia orientato per un trattamento normativo profondamente diverso. Peraltro, è
agevole constatare come i due fenomeni ad oggi non appaiano sempre diversi, nel
senso che nell’attuale tipologia della realtà, le professioni, in molti casi, continuano a
restare fenomeni differenti dall’impresa ma, in altri casi, sono fenomeni in tutto e per
tutto coincidenti con l’impresa. Nondimeno, il trattamento normativo delle professioni
Antonio Cetra
57
sembra restare insensibile alla circostanza che il relativo fenomeno possa manifestarsi
in molteplici configurazioni. Pertanto, quest’ultimo, quand’anche assuma i connotati
dell’impresa, sembra figurare comunque come un «fatto» estraneo al diritto
commerciale, dovendosi allora comprendere, da un lato, le ragioni di questo diverso
trattamento rispetto all’impresa, dall’altro, i presupposti in presenza dei quali si può
beneficiare di detto trattamento.
Questo eventuale diverso trattamento normativo appare tuttavia per certi versi già
attenuato su iniziativa del diritto comunitario e della relativa elaborazione
giurisprudenziale, atteso che, come sarà dimostrato, le professioni intellettuali rientrano
nella nozione d’impresa comunitaria, che costituisce il presupposto di vertice della
disciplina (non solo comunitaria ma anche interna) antitrust. Sicché, le professioni, in
quanto imprese nell’accezione comunitaria, sono assoggettate quanto meno alla
disciplina antitrust.
1. Il rapporto tra impresa e professioni intellettuali.
Le professioni intellettuali sono fenomeni produttivi che si sostanziano nella
produzione di servizi professionali: l’assistenza, la rappresentanza e la difesa in
giudizio (servizio professionale prodotto dall’avvocato); la progettazione di un
immobile (servizio professionale prodotto dall’ingegnere); il design degli interni di
un’abitazione (servizio professionale prodotto dall’architetto); la diagnosi di una
malattia e la prescrizione della relativa cura (servizio professionale prodotto dal
medico); ecc.
Esse si distinguono in professioni protette e in professioni non protette: le prime,
a differenza delle seconde, sono regolate da una propria specifica disciplina, la quale si
aggiunge ad una disciplina più generale contenuta nel capo II del titolo III del libro V
del codice civile (artt. 2229 ss.); le seconde, oltre a non avere una propria specifica
disciplina, possono anche derogare alla disciplina generale contenuta nel capo II del
titolo III del libro V del codice civile (artt. 2229 ss.)132.
Ai nostri fini, interessa, non tanto soffermarsi sulla disciplina (specifica o generale)
testé menzionata, quanto piuttosto comprendere se a questa disciplina possa
aggiungersi la disciplina dell’impresa. E, in questa prospettiva, appare senz’altro utile
accertare il rapporto che intercorre tra le professioni intellettuali e l’impresa sul piano
ontologico, cioè verificare se le prime siano un fenomeno produttivo differente o
coincidente con la seconda. Infatti, è evidente che una simile questione non si porrebbe
nemmeno nella prima ipotesi; si porrebbe invece solo nella seconda133.
Per un quadro d’insieme sulla disciplina delle professioni intellettuali, LEGA, Le libere professioni
intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, Milano, 1974, 119 ss. e 477 ss.; più di recente, MUSOLINO,
Contratto d’opera, 3 ss. e 47 ss.
133
L’impostazione è adottata in particolare da FARINA, Esercizio, 2096 ss. Successivamente, anche da
GLIOZZI, L’imprenditore commerciale. Saggio sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998, 174 ss.;
BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, Sez. I – Tomo 2.1, 2002, 129 ss. e 551.
132
58
L’impresa
Giova muovere dalla constatazione che le professioni intellettuali sono un
fenomeno produttivo che può dirsi integrato già quando viene reso un singolo servizio
professionale134. Sicché, se un soggetto si limita a svolgere la professione intellettuale
di tanto in tanto, producendo singoli servizi professionali (si pensi al professore
universitario in materie giuridiche che una o un paio di volte l’anno patrocina in
giudizio una controversia), si realizza un fenomeno che costituisce specificazione
dell’attività produttiva occasionale, quindi dell’attività che non è esercitata
«professionalmente» ex art. 2082.
Nondimeno, l’ipotesi più frequente è quella di un soggetto che svolge la professione
intellettuale a tempo pieno, non, cioè, sporadicamente o occasionalmente, producendo
servizi professionali in maniera sistematica e continuativa (si pensi a chi fa l’avvocato
quale occupazione principale). In tal caso, è evidente che si realizza un fenomeno che è
un’attività esercitata «professionalmente» ex art. 2082 e, quindi, sotto il profilo
riguardato, assimilabile all’impresa.
Occorre ancora constatare che le professioni intellettuali possono essere un’attività
produttiva che si sviluppa attraverso il solo lavoro del professionista. Anzi, può essere
non casuale il fatto che le professioni intellettuali siano state collocate nel capo II del
titolo III del libro V del codice, ossia come caso particolare di lavoro autonomo.
Evidentemente, il legislatore del ’42 aveva presente un fenomeno di questo tipo, cioè
un fenomeno che condivideva con il lavoro autonomo in senso stretto la circostanza di
svilupparsi attraverso il solo lavoro del titolare: sebbene, nel primo caso, lavoro
speculativo-intellettivo; nel secondo, lavoro manuale. In altre parole, la collocazione
delle professioni intellettuali nella sistematica del codice induce a pensare che il
legislatore del ’42 facesse riferimento ad un’attività produttiva in cui il lavoro
(speculativo intellettuale) del professionista fosse, non solo necessario, ma anche
sufficiente, pertanto, ad un’attività produttiva non qualificabile come «organizzata» ex
art. 2082135.
Le professioni quali prefigurate dal legislatore del ’42 non esauriscono peraltro le
fattezze che le stesse possono assumere nell’attuale tipologia della realtà. Anzi, al
giorno d’oggi è senz’altro più verosimile che il professionista si avvalga di veri e
propri fattori produttivi: si pensi ad un avvocato che ha una segretaria o dei
collaboratori; o ad un ingegnere o ad un architetto che utilizzano un programma di
progettazione particolarmente sofisticato e costoso che consente loro di elaborare
diversi progetti in tempi rapidi; o ad un medico che utilizza macchinari molto
sofisticati e costosi che gli consentono di pervenire a diagnosi in termini più oggettivi.
Pertanto, se dall’attuale tipologia della realtà emerge che la professione (non deve
ma) può essere un’attività «organizzata» nell’accezione di cui all’art. 2082, ne
consegue che per vedere se questo fenomeno è almeno idealmente riconducibile a
quello qui riguardato occorre accertare se il lavoro del professionista è o meno
prevalente rispetto agli altri fattori, ossia qual è la dimensione dell’organizzazione
In questo senso, MASI, Articolazioni dell’iniziativa economica e unità dell’imputazione giuridica,
Napoli, 1985, 42 s. e 115 ss. E v., anche, BUSSOLETTI, Le società di revisione, Milano, 1985, 118 ss. IBBA,
La categoria, 12 s.
135
In questo senso, GRAZIANI, L’impresa e l’imprenditore2, Napoli, 1959, 26. Altri riferimenti alla dottrina
parimenti orientata in IBBA, Professione intellettuale, 373 s.
134
Antonio Cetra
59
impiegata nell’attività professionale: in altri termini, se l’organizzazione resta o meno
al di sotto del livello di piccolezza segnato dall’art. 2083136.
In quest’ottica, è agevole rendersi conto che le professioni intellettuali possono
assumere fattezze sia del primo sia del secondo tipo. Ed invero, se ci sono alcuni casi
in cui il lavoro del professionista può dirsi comunque preminente rispetto agli altri
fattori (che di conseguenza restano ancillari); ci sono altri casi in cui il lavoro del
professionista può essere senz’altro sostituito dall’organizzazione, fino a rendere, cioè,
l’intervento esecutivo del professionista pressoché o del tutto irrilevante. Si pensi al
grande studio legale caratterizzato dalla presenza di decine e decine di avvocati, tutti in
grado di assistere il cliente in tutto e per tutto; o allo studio di un medico ematologo
dotato di macchinari in grado di effettuare l’intera analisi del prelievo sanguigno e di
pervenire alla diagnosi: in altri termini, ai casi in cui l’attività professionale può
senz’altro realizzarsi, anche a prescindere dalla presenza o dalla concreta
partecipazione del professionista. Ebbene, in queste ultime ipotesi, la dimensione
dell’organizzazione impiegata nell’attività professionale è al di sopra del livello di
piccolezza tracciato dall’art. 2083: l’attività professionale, in ragione della sua natura
non agricola, è pertanto potenzialmente riconducibile all’impresa commerciale (non
piccola o medio-grande)137.
Infine, occorre constatare che le professioni intellettuali sono senz’altro un’«attività
economica» ex art. 2082. Anzi, non bisogna avere troppa immaginazione per rendersi
conto che si tratta normalmente di un’attività lucrativa, in cui, cioè, il servizio è ceduto
ad un prezzo (ben) superiore rispetto al costo sostenuto (benché poi non sia per nulla
agevole quantificare qual è il costo dell’attività intellettuale)138.
Pertanto, alla luce di quanto precede, la professione intellettuale è un attività
produttiva che ormai può presentare tutti e tre i requisiti che ne consentono la
qualificazione in termini di impresa ai sensi dell’art. 2082 e, in particolare, può trattarsi
di impresa non piccola e, in ragione della sua natura, di impresa commerciale. Sicché,
136
Nel senso che le professioni intellettuali possono essere assimilate al più alle piccole imprese, seppur con
diverse argomentazioni, RAVA, La nozione giuridica di impresa, Milano, 1949, 72 ss.; FERRARA jr., La
teoria giuridica dell’azienda2, Ristampa, Milano, 1982, 72 ss.; ZANELLI, La nozione di oggetto sociale,
Milano, 1962, 158; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 23 ss.; CASANOVA,
Impresa e azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974, 24; AFFERNI, voce Professioni, 3. Altri riferimenti sempre in
IBBA, Professione intellettuale, 374 ss.
137
In questo senso, CAMPOBASSO, I, 44; GALGANO, voce Imprenditore, in Digesto delle discipline
privatistiche. Sezione commeciale4, VII, 5 s.; ID., I, 14 s. Diversamente, invece, SCOTTI CAMUZZI, Impresa
e società, 23 ss., secondo il quale anche qualora la prestazione del servizio si avvalga di un’organizzazione
imprenditoriale sussisterebbe comunque una diversità ontologica rispetto all’impresa da ricercarsi
nell’unicità del servizio reso.
138
In questo senso, per tutti, CAMPOBASSO, I, 44. Tuttavia, la sussistenza del requisito di economicità è
stato a lungo controversa e, essenzialmente, negata sulla base di diverse motivazioni (PORZIO, Il farmacista
imprenditore, in Dir. giur., 1967, 379; BIONE, L’impresa ausiliaria, Padova, 1972, 108 ss., testo e nt. 62 e
65, secondo i quali il carattere economico e, specialmente, lucrativo del servizio passa in secondo piano in
considerazione del fatto che il servizio professionale è anzitutto un servizio alla collettività; SCOTTI
CAMUZZI, Impresa e società, 35 ss., secondo il quale il carattere economico e, specialmente, lucrativo del
servizio è finalizzato ad assicurare un’etica adeguata del servizio). E nel senso che l’economicità sarebbe
diversa nell’impresa e nelle libere professioni, sul presupposto che solo nella prima ma non nelle seconde vi
sarebbe un vincolo normativo dell’agire economico, LOFFREDO, Economicità e impresa, Torino, 1999, 122
ss.
60
L’impresa
se può esservi coincidenza tra i due fenomeni – da un lato le professioni intellettuali
dall’altro l’impresa commerciale (non piccola) – al ricorrere di una siffatta coincidenza
bisogna allora vedere quali sono le implicazioni che conseguono sul piano della
disciplina applicabile.
2. L’art. 2232 c.c. Conclusioni.
Sebbene non manchi chi sia dell’avviso che ove le professioni intellettuali siano
organizzate in forma d’impresa debbano essere assoggettate alla relativa disciplina139,
l’opinione senz’altro prevalente milita in senso contrario, sul presupposto che una
diversa conclusione sarebbe preclusa dalla disposizione contenuta nell’art. 2238,
comma 1140.
Infatti, l’art. 2238, comma 1 subordina l’applicazione delle disposizioni contenute
nel titolo II (comprendenti lo statuto dell’impresa commerciale) alla condizione che
l’esercizio della professione costituisca elemento di un’attività organizzata in forma
d’impresa: condizione, quest’ultima, che viene intesa come allusiva all’ipotesi in cui la
professione rappresenti un fattore produttivo di una più ampia attività organizzata in
forma d’impresa, in cui, cioè, il servizio professionale sia realizzato a favore di o
confluisca in un’attività imprenditoriale. A titolo di esempio, s’immagini un ingegnere
o un architetto che fanno progetti in seno alla propria impresa edile (che è un’attività
che non si limita a produrre un servizio professionale ma qualcosa di più complesso); o
il medico che presta assistenza all’interno della propria clinica (che è sempre
un’attività che non si limita a produrre un servizio professionale ma qualcosa di più
complesso)141.
Pertanto, alla luce di una siffatta interpretazione dell’art. 2238, comma 1, se ne deve
dedurre che non troverà applicazione il titolo II nei casi in cui l’attività produttiva si
esaurisca nella realizzazione di un servizio professionale, cioè nei casi in cui si tratti di
una prestazione intellettuale tout court. In quest’ottica, la norma in esame traccerebbe
un confine dell’ambito di applicazione della disciplina dell’impresa, in particolare
tenendo fuori da quest’ambito le professioni intellettuali comunque esse si configurino,
a prescindere, cioè, dalle modalità di realizzazione della prestazione: il che poteva
avere un senso al tempo in cui la norma è stata scritta ma appare oggi averne molto
139
Per questa conclusione, soprattutto, FARINA, Esercizio, 2110 ss.; GLIOZZI, op. cit., 176 s.; BUONOCORE,
op. cit., 129 ss.; sostanzialmente, AFFERNI, voce Professioni, 4 s.; GENOVESE, La nozione giuridica
dell’imprenditore, Padova, 1990, 52 ss.
140
ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 170; DE
MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale, Milano, 1983, 146; SPADA, voce Impresa, in
Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4, VII, 54 s.; ID., I, 52 ss.; BONFANTE-COTTINO,
L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001, 448 ss.; CAMPOBASSO, I, 44 s.; LIBONATI, 17; PRESTI-RESCIGNO, I,
22.
141
Per questa interpretazione dell’art. 2238 gli A. citati nella nota precedente. Per un quadro di sintesi del
dibattito sorto attorno ad una norma, definita tra le più oscure dell’intero codice (SCOTTI CAMUZZI, Impresa
e società, 9 ss.), IBBA, Professioni intellettuali, ?.
Antonio Cetra
61
meno, se si considera che le attuali professioni intellettuali possono essere fenomeni in
tutto e per tutto coincidenti con l’impresa142.
Ne consegue che l’art. 2238, comma 1, se interpretato nel modo che si è appena
ricordato, è da intendersi come una norma che costituisce una sorta di privilegio a
favore di una figura soggettiva o di una categoria di soggetti, privilegio del quale può
beneficiare solo chi integra tale figura soggettiva o appartiene alla relativa categoria:
vale a dire, i professionisti intellettuali143. Ed invero, si tratta di soggetti comunque
sottratti alla disciplina dell’impresa in quanto tali e perché tali, anche, cioè, qualora essi
pongano in essere un fenomeno che in sé considerato non avrebbe ragione di andare
esente da detta disciplina144.
Il corollario che se ne trae è che bisogna far ricorso ad un criterio oggettivo per
individuare la figura soggettiva o la categoria dei professionisti intellettuali, criterio
che viene ravvisato nella circostanza che nello svolgimento dell’attività e nella
cessione del servizio che ne deriva venga utilizzata una particolare tipologia di
contratti, ossia il contratto d’opera intellettuale. Un contratto, quest’ultimo, che sul
piano della fattispecie è connotato dai requisiti di cui agli artt. 2230 e 2232: vale a dire,
da un minimo di intellettualità nello sforzo professionale profuso nella produzione del
servizio e da un minimo di personalità nella prestazione145.
Pertanto, un soggetto non sarà qualificabile come professionista intellettuale nel caso in
cui non utilizzi il contratto d’opera intellettuale quale mezzo negoziale di cessione
dell’oggetto della sua produzione, cioè un contratto nel quale non ricorrano entrambi i due
elementi caratterizzanti il contratto d’opera intellettuale: la intellettualità e la personalità 146.
In quest’ottica, ad esempio, è orami pacifico che il farmacista non sia un professionista
intellettuale, in quanto il mezzo negoziale utilizzato nei rapporti con il mercato è un contratto
non più qualificabile come contratto d’opera intellettuale, difettando, essenzialmente, del
requisito dell’intellettualità147. Con la conseguenza che il farmacista pone in essere
un’attività che è senz’altro un’impresa commerciale, la quale sarà assoggettata alla relativa
Sottolinea la non più attuale giustificazione dell’esonero delle libere professioni dal diritto dell’impresa,
tra gli altri, SPADA, voce Impresa, cit., 54 s.; ID., I, 53 ss.; BONFANTE-COTTINO, op. cit., 450; GALGANO, I,
15; PRESTI-RESCIGNO, 21 s.; in senso dubitativo, CAMPOBASSO, I, 43.
143
SPADA, voce Impresa, 54; ID., I, 54 s.; CAMPOBASSO, I, 44; GALGANO, I, 15.
144
In questi termini, ancora, SPADA, I, 54 s.
145
Così, SPADA, I, 52 s.; e, sostanzialmente, sull’assunto che gli artt. 2229 ss. sono, non tanto la normativa
di un contratto, quanto piuttosto di un’attività, che costituisce lo statuto della del professionista intellettuale,
SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 30 ss.; riferendosi invece al carattere eminentemente intellettuale dei
servizi prestati, CAMPOBASSO, I, 45.
146
In altre parole, allorché un soggetto utilizza uno schema contrattuale di tipo diverso dal contratto d’opera
intellettuale (come ad esempio un appalto di servizi) esce dalla classe dei professionisti intellettuali per
accedere a quella degli imprenditori: così, con specifico riferimento ai soggetti che esercitano una
professione non protetta, SCOTTI CAMUZZI, Impresa e società, 30 ss.; GALGANO, I , 17 s. In quest’ottica,
non manca chi comincia a qualificare come imprenditoriale le attività creative ed artistiche (BERTANI,
Impresa culturale e diritti esclusivi, Milano, 2000, 61 ss.), tradizionalmente annoverate tra le professioni
intellettuali (in luogo di molti, ASCARELLI, op. cit., 168 s.; ZANELLI, op. cit., 241 ss.; SPADA, voce Impresa,
cit., 53 s.; CAMPOBASSO, I, 44), adducendo che l’autore o l’artista utilizza schemi contrattuali che non
possono essere qualificati o ricondotti al contratto d’opera intellettuale. In generale, sul contratto d’opera
intellettuale, da ultimo, MUSOLINO, Contratto d’opera, 77 ss.
147
In dottrina, per tutti, PORZIO, op. cit., 373 ss. In giurisprudenza, da ultimo, Cass., 3 agosto 2007, n.
17116, in Vita not, 2007, II, 794.
142
62
L’impresa
disciplina nel caso in cui essa non sia una piccola impresa. Non è per contro agevole
comprendere quale sia il livello al di sotto del quale può considerarsi mancante il requisito
della personalità, al riguardo ritenendosi sufficiente anche la mera assunzione di paternità del
servizio (cioè, ad esempio, sottoscrivendo un documento da altri concretamente
realizzato)148.
3. Le tendenze a favore dell’assimilazione dei due fenomeni sul piano della
fattispecie. La nozione comunitaria di impresa.
La conclusione riferita poc’anzi in merito all’assoggettamento delle professioni
intellettuali alla disciplina dell’impresa e il conseguente privilegio che si configura in
capo ai professionisti intellettuali sembrano presentare tuttavia qualche segno di
cedimento. Infatti, l’esenzione delle professioni intellettuali dalla disciplina
dell’impresa non può affermarsi più con riferimento ad ogni istituto che costituisce
quella disciplina e, in particolare, alla parte relativa all’antitrust (l. 10 ottobre 1990, n.
287).
Come si vedrà a suo tempo (v., infra, ), la disciplina antitrust individua precetti
comportamentali destinati agli operatori economici, diretti ad evitare che questi ultimi,
attraverso accordi reciproci o abusando della posizione di potere acquisita, modifichino
la struttura di mercato, determinando il passaggio da un modello concorrenziale ad un
modello oligopolistico o monopolistico, ovvero traggano eccessivo vantaggio da un
mercato che ha assunto la forma oligopolistica o monopolistica.
Tale disciplina si riferisce ad operatori economici qualificati come «imprese» (cfr.
artt. 2, 3, 5, 7 e 8 l. 287/1990). Peraltro, va detto che ai sensi dell’art. 1, comma 4, l.
287/1990 l’interpretazione delle norme che costituiscono la disciplina in questione
dev’essere effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle comunità europee in
materia di concorrenza. E un siffatto criterio interpretativo dev’essere utilizzato
anzitutto per l’identificazione dei referenti soggettivi destinatari dei precetti
comportamentali: vale a dire, le imprese: che allora devono individuarsi nei fenomeni
qualificabili come imprese secondo l’ordinamento comunitario, cioè i fenomeni che
rientrano nella nozione comunitaria di impresa149.
Giova osservare che l’ordinamento comunitario non contiene una norma che stabilisce la
nozione di impresa. Si tratta di una nozione di matrice giurisprudenziale, cioè frutto
dell’elaborazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee. E si
tratta di una nozione che fa riferimento a fenomeni senz’altro diversi da quelli che
sottendono alla nozione d’impresa che abbiamo esaminato nelle pagine che precedono, per
MUSOLINO, Contratto d’opera, 209 ss. E v., anche, VISCUSI, La società tra avvocati: il regime della
responsabilità patrimoniale, professionale e disciplinare, in Le società tra avvocati, a cura di De Angelis,
Milano, 2003, 209 s.
149
In luogo di molti, anche per gli altri riferimenti, ALESSI(-OLIVIERI), La disciplina della concorrenza e
del mercato, Torino, 1991, 12 ss.; GIANNELLI, Impresa pubblica e privata nella legge antitrust, Milano,
2000, 82 ss.
148
Antonio Cetra
63
certi versi più ampia (cioè, ricomprendendo più fenomeni) per certi versi più stretta (cioè,
ricomprendendone meno).
Più in particolare, si tratta di una nozione che (come tutte le nozioni di impresa: v.,
supra, ) è inferita dall’interprete (al pari di quelle stabilite direttamente dal dato normativo)
nell’ottica di fissare il presupposto per l’applicazione di una certa disciplina. È perciò una
nozione funzionale all’applicazione di una certa disciplina, vale a dire la disciplina (europea)
della concorrenza (cfr. Titolo VII Capo 1 del Trattato FUE e Regolamento 30 aprile 2004, n.
139)150.
In questa prospettiva, va da sé che la nozione comunitaria di impresa debba alludere ad
un fenomeno produttivo che abbia un certo impatto sul mercato, ossia che possa avere un
mercato di riferimento, nel quale sia possibile tenere condotte che possono restringere o
falsare il gioco della concorrenza151.
In quest’ottica, è evidente che un fenomeno produttivo che abbia la suddetta
caratteristica può anche essere un fenomeno produttivo privo dei requisiti che ne consentono
la qualificazione come impresa ex art. 2082152.
Si consideri un’attività produttiva priva del requisito della professionalità, cioè
un’attività occasionale. Anche l’attività occasionale può avere un mercato di riferimento, nel
quale il titolare della stessa potrebbe assumere condotte in grado di incidere in senso
restrittivo sul gioco della concorrenza. Un esempio che emerge dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia è rappresentato dal licenziatario di marchi (= soggetto che consente ad
altri di utilizzare uno o più dei suoi marchi regolarmente registrati attraverso una licenza: v.,
infra, ), cioè un soggetto che svolge un’attività tendenzialmente occasionale, ossia non
reiterabile, che tende ad esaurirsi una volta accordata la licenza. La Corte ravvisa in una
simile figura un fenomeno qualificabile come impresa e, di conseguenza, non esita a
condannare la stessa per abuso di posizione dominante, allorché essa subordini il rilascio
della licenza a condizioni economiche non eque e discriminanti tra i diversi contraenti153.
Si consideri ancora un’attività produttiva priva del requisito dell’organizzazione, cioè
un’attività fondata esclusivamente sul lavoro del titolare. Anche una tale attività può avere
un mercato di riferimento, nel quale il titolare potrebbe tenere condotte in grado di incidere
in senso restrittivo sul gioco della concorrenza. Un esempio che emerge dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia è rappresentato dal produttore di marchi (= soggetto che produce un
segno distintivo essenzialmente con il suo lavoro personale) o dal titolare di brevetti (=
soggetto che realizza invenzioni essenzialmente con il suo lavoro personale). La Corte
ravvisa in tali figure un fenomeno qualificabile come impresa e, di conseguenza, non esita a
150
In questi termini, VENEZIA, in CASSOTTANA-NUZZO Lezioni di diritto commerciale comunitario 2,
Torino, 2006, 268; LIBERTINI(-MAZZAMUTO), L’impresa e le società, in Manuale di diritto privato
europeo, a cura di Castronovo-Mazzamuto, III, Milano, 2007, 22 ss.; GIANNELLI, voce Impresa
comunitaria, in Enc. giur., XVIII, 2 s.; MAZZONI, La nozione di impresa nel diritto antitrust, in 20 anni di
antitrust. L’evoluzione della autorità garante delle concorrenza e del mercato, I, a cura di Rabitti BodogniBarucci, Torino, 2010, 496 ss.
151
Il punto è sottolineato dalla Corte di Giustizia a partire dal caso Hofner (Corte di Giustizia, 23 aprile
1990, C-41/90). Per l’evoluzione della giurisprudenza della Corte sulla nozione di impresa, VENEZIA, op.
cit., 271 ss.; e, soprattutto, DE DOMINICIS, Concorrenza e nozione di impresa nella giurisprudenza
comunitaria, Napoli, 2005, 70 ss. e 161 ss.
152
Il punto è molto ben dimostrato da GUIZZI, Il concetto di impresa, 285 ss. e 298 ss.
153
Corte di Giustizia, 30 gennaio 1985, C-35/83, in Foro it., 1986, IV, 65; Corte di Giustizia, 22 giugno
1994, C-9/93, in Giust. civ., 1994, I, 2383.
64
L’impresa
condannare le stesse per abuso di posizione dominante, allorché consentono lo sfruttamento
economico del marchio o del brevetto a condizioni non eque e discriminanti154.
Parzialmente diverso è invece il discorso che riguarda un’attività produttiva priva del
requisito di economicità, cioè un’attività di erogazione. È evidente che una tale attività non
ha alcun impatto sul mercato perché per essa non può essere immaginato un mercato di
riferimento, con la conseguenza che non rientra nella nozione ora in esame. Tuttavia, occorre
precisare che neanche l’attività meramente economica, cioè che si svolge con un metodo che
consente di pervenire al pareggio tra ricavi e costi, sembra potersi considerare come
fenomeno rientrante nella nozione ora in esame. La ragione di siffatta conclusione non si
rinviene nel fatto che non sia immaginabile un mercato di riferimento (si pensi, ad esempio,
al mercato dei beni e dei servizi di utilità sociale). Il motivo è che pare difficile pensare che
nel relativo mercato possano realizzarsi i tipici comportamenti rilevanti per la disciplina
antitrust (le intese; l’abuso di posizione dominante): comportamenti, questi ultimi,
tipicamente prefigurabili solo nei confronti di chi cerchi di accrescere il proprio profitto, a
scapito degli operatori concorrenti e, in ultima istanza, degli utenti finali dei beni e servizi 155.
Sicché, sembra ragionevole ritenere che le attività economiche che rientrano nella nozione
comunitaria di impresa siano, in realtà, delle vere e proprie attività lucrative156, cioè attività
che si svolgono con metodo lucrativo, a prescindere, poi, dalla destinazione che all’utile
conseguito si voglia o si debba imprimere: se egoistica o se altruistica157.
Occorre ancora precisare che non dev’esserci necessariamente corrispondenza biunivoca
tra i fenomeni produttivi che rientrano nella nozione comunitaria di impresa e una figura
soggettiva. In altri termini, i primi non devono essere necessariamente riferiti ad un soggetto.
Un fenomeno è qualificabile come impresa solo se ha impatto sul mercato ed anche se non è
riconducibile ad un centro autonomo di imputazione. In quest’ottica, la Corte di Giustizia
attribuisce la qualifica di impresa all’attività di gruppo nel suo insieme, quindi all’attività
che le singole componenti del gruppo svolgono all’esterno del gruppo, senza considerare
l’attività che viene svolta solo all’interno del gruppo medesimo158.
Ebbene, nella nozione comunitaria di impresa rientrano senz’altro fenomeni che si è
visto essere esclusi dalla nozione interna di impresa e, quindi, ai sensi dell’art. 1
comma 4, l. 287/1990 si considerano fenomeni che ricadono nell’ambito di
applicazione della legge antitrust.
In particolare, nella nozione comunitaria di impresa rientrano tutti i fenomeni
compresi nel titolo III del libro V del codice civile, vale a dire sia il lavoro autonomo
sia le professioni intellettuali.
154
Corte di Giustizia, 8 giugno 1982, C-258/78, in Foro it., 1983, IV, 38; Corte di Giustizia, 25 febbraio
1986, C-193/83, in Giur. dir. ind., 1987, 901; Corte di Giustizia, 27 settembre 1989, C-65/86, in Foro it.,
1989, IV, 461.
155
In realtà, tali comportamenti possono essere realizzati anche da associazioni di imprese prive di finalità
speculative ma essi vengono posti in essere per avvantaggiare quanto meno indirettamente le imprese che vi
aderiscono: Corte di Giustizia, 31 ottobre 1974, C-71/74.
156
Dello stesso avviso, GIANNELLI, Impresa pubblica, cit., 142 ss. e 179 ss.
157
Nel senso che lo scopo di un ente sia irrilevante ai fini dell’applicazione della disciplina antitrust,
MARCHETTI, Spunti su enti non profit e disciplina del mercato, in Studi in onore di Cottino, I, Padova,
1997, 102 ss.
158
Per i riferimenti, VENEZIA, op. cit., 269; GIANNELLI, voce Impresa comunitaria, cit. 6, che, tra l’altro,
sottolineano come la Corte di Giustizia neghi la qualifica di impresa alla condizione che le componenti di
un gruppo non godano di autonomia decisionale e, quindi, non possano entrare in concorrenza tra di loro
(non esitando a riconoscerla, invece, laddove le componenti del gruppo mantengano la loro autonomia
decisionale e gestionale).
Antonio Cetra
65
Peraltro, con riguardo al lavoro autonomo una tale conclusione è ormai finanche
codificata dal dato normativo, in particolare nell’art. 3, comma 2, d. lgs. 2 febbraio
2006, n. 30, il quale dispone espressamente l’equiparazione tra il lavoro autonomo e
l’impresa, ai fini della disciplina sulla concorrenza.
Invece, con riguardo alle professioni intellettuali la conclusione è acquisita solo a
livello interpretativo159 e, in particolare, a seguito dell’elaborazione giurisprudenziale,
la quale non esita ad assoggettare le professioni intellettuali al diritto antitrust160: in tal
modo reputando gli ordini professionali come associazioni tra imprese; gli esami di
abilitazione all’esercizio delle professioni come barriere all’entrata sul mercato; le
tariffe professionali obbligatorie come intese161: tariffe che invero sono state
recentemente eliminate (artt. 9, comma 1, d. l. 24 gennaio 2012, n. 1 e 10, comma 12, l.
12 novembre 2011, n. 183) dopo esser state private dell’efficacia vincolante sul piano
contrattuale (art. 2, comma 1, lett. a, l. 4 agosto 2006, n. 248).
159
GALGANO, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa, in Contratto e impresa.
Europa, 1997, 2 ss.
160
V., però, l’art. 3, comma 5, d. l. 13 agosto 2011, n. 138, che dispone all’indirizzo degli ordini
professionali di garantire l’accesso alle professioni regolamentate e l’esercizio delle stesse secondo principi
di libera concorrenza, assicurando la presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale e la
pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia
informazione relativa ai servizi offerti. E, in attuazione di questi principi, sollecita l’emanazione di uno o
più regolamenti di riforma delle libere professioni entro 12 mesi (agosto 2012).
161
Per le conclusioni ricordate nel testo, con riferimento a vari ordini professionali, App. Torino, 11 luglio
1998, in Giur. comm., 1999, II, 302 (ordine degli avvocati); App. Milano, 29 settembre 1999, in Dir. ind.,
1999, 338 (consulenti del lavoro); Tar Lazio, 28 gennaio 2000, in Giur. comm., 2000, II, 640 (dottori
commercialisti e ragionieri).
66
L’impresa
§ 4. L’inizio e la fine dell’impresa.
LETTERATURA: AFFERNI, Gli atti di organizzazione e la figura giuridica dell’imprenditore,
Milano, 1973; BUONOCORE, Fallimento e impresa, Napoli, s.d. (ma 1969); IBBA, Il
fallimento dell’impresa cessata, in Riv. soc., 2008, 936; JAEGER, Note critiche
sull’inizio dell’impresa commerciale, in Riv. soc., 1966, 756; JORIO, Osservazioni in
tema di società, inizio dell’impresa commerciale e fallimento, in Riv. dir. civ., 1968, I,
50; ID., Gli articoli 10 e 11 della legge fallimentare e le società commerciali, Riv. soc.,
1969, 288; NIGRO, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Tr. ColomboPortale, IX, 2, Torino, 1993, 207; RAGUSA MAGGIORE, La cessazione dell’impresa
commerciale e il fallimento (art. 10 l. fall.), in Riv. dir. civ., 1977, I, 172; SANTAGATA,
Fallimento di società cancellata dal registro delle imprese, in Riv. soc., 1968, 328.
Esauriti i problemi concernenti l’inquadramento della fattispecie, bisogna spostare
adesso l’attenzione sul problema relativo all’individuazione del c.d. inizio e della c.d.
fine dell’impresa: sulla questione relativa al momento a decorrere dal quale comincia
a trovare applicazione la disciplina dell’impresa e, specularmente, al momento che
segna il termine dell’applicazione della medesima disciplina: in altre parole, l’ambito
temporale, iniziale e finale, della disciplina che sarà studiata più avanti (v., infra).
In ragione di quanto dovrebbe essersi appreso sin qui, dovrebbe risultare agevole a
questo punto individuare il primo momento nel momento in cui nel reale giuridico si
verifica il fatto «impresa», cioè un fatto conforme al modello comportamentale
descritto in termini generali dal dato normativo esaminato più sopra e, specularmente,
il secondo momento nel momento in cui nel reale giuridico viene meno un siffatto
fenomeno. Infatti, se, come si è chiarito, l’impresa costituisce il destinatario o il
referente oggettivo della disciplina approntata per l’impresa medesima, è di tutta
evidenza che è al ricorrere dell’impresa che quella disciplina deve cominciare a trovare
applicazione così come, specularmente, con la cessazione dell’impresa tale disciplina
deve smettere di applicarsi.
In altri termini, l’inizio e la fine dell’impresa debbono valutarsi secondo un criterio
di effettività rispetto alla sussistenza o meno del fenomeno (l’impresa) cui la disciplina
si riferisce.
Nel solco di questa impostazione di fondo, che può considerarsi ormai pressoché
acquisita, residuano tuttavia ancora non poche incertezze nella giurisprudenza teorica e
pratica.
Con riferimento all’inizio dell’impresa, in primo luogo ci si chiede se il criterio di
effettività riguardi solo l’impresa esercitata da una persona fisica o anche l’impresa
esercitata da un ente collettivo e, specialmente, da un ente che abbia l’impresa come
oggetto esclusivo, tipicamente una società, atteso che, in questo secondo caso, non si
esclude che l’inizio dell’impresa si abbia sin dalla costituzione dell’ente, in quanto
destinato ad esercitare l’impresa in via esclusiva; in secondo luogo, ci si chiede se ai
Antonio Cetra
67
fini di valutare l’inizio dell’impresa debba ricomprendere anche la fase di
organizzazione o se un’impresa possa dirsi iniziata solo al termine di questa fase,
quando l’iniziativa è entrata nel vivo della gestione caratteristica.
Con riferimento alla fine dell’impresa, non solo si dubita sul se il criterio di
effettività debba riguardare solo l’impresa esercitata dalla persona fisica o anche
l’impresa esercitata da un ente e, segnatamente, da una società, pure in questo caso non
escludendosi che ciò si verifichi solo a completamento della fase di liquidazione e con
la conseguente estinzione dell’ente; ma si dubita altresì sul se il criterio di effettività
abbia una portata piena o parziale. Ciò in quanto, come sarà messo in luce a breve, la
fine dell’impresa non comporta la caducazione integrale della disciplina dell’impresa
sopravvivendo ancora la possibilità di dichiarare l’apertura delle procedure concorsuali
entro un anno dall’iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese (art. 10,
comma 1, l. fall).
Pertanto, le pagine che seguono saranno dedicate alle questioni appena passate in
rassegna, in particolare cercando di far emergere come l’inizio e la fine dell’impresa
debbano accertarsi sempre secondo un criterio di effettività e, soprattutto, a prescindere
dalla forma giuridica che assume l’impresa.
I. L’inizio dell’impresa
1. Il criterio di effettività. Le operazioni di organizzazione.
Con l’espressione inizio dell’impresa si suole far riferimento – come si è anticipato
– al momento dal quale comincia a trovare applicazione la disciplina dell’impresa.
Tale momento dev’essere accertato necessariamente secondo un criterio di
effettività, vale a dire dev’essere identificato nel momento in cui nella realtà concreta
si verifica un fenomeno produttivo qualificabile come impresa (commerciale non
piccola)162. Esso prescinde invece da qualunque tipo di adempimento formale si associ
allo svolgimento dell’impresa, come, ad esempio, l’iscrizione nel registro delle imprese
(v., infra) o l’autorizzazione o la licenza per lo svolgimento di specifiche attività (v.,
supra). Infatti, simili formalità finirebbero per «inquinare» con elementi soggettivi il
presupposto di applicazione di una disciplina che deve riposare sempre su parametri
oggettivi163: in altre parole, finirebbero per far dipendere dalla volontà del soggetto che
Per questa conclusione, pressoché pacifica con riferimento all’impresa esercitata da una persona fisica o
che non costituisca oggetto esclusivo o principale di un ente collettivo, CAMPOBASSO, I, 99 s.; GALGANO, I,
92; BUONOCORE/Buonocore, ?; PRESTI-RESCIGNO, I, 26.
163
Per tutti, SPADA, voce Impresa, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale 4, VII, 60.
E per altri riferimenti, anche giurisprudenziali, IANNELLI, L’impresa, in Giurisprudenza sistematica di
diritto civile e commerciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1987, 67 ss.
162
68
L’impresa
è tenuto ad assolvere a tali adempimenti l’applicazione di una disciplina che tutela
anche altri soggetti.
D’altra parte, non sembra che il discorso possa differenziarsi a seconda che
l’impresa sia esercitata da una persona fisica oppure da una società (o da altro ente
che esercita l’impresa in via esclusiva). In particolare, non sembra che possa essere
condivisa l’idea secondo cui l’inizio dell’impresa societaria (o di altro ente) debba
considerarsi anticipato al momento della costituzione della società (o dell’altro ente), a
prescindere, cioè, dalla circostanza che si sia cominciato a svolgere in concreto
l’oggetto sociale (quindi, l’impresa)164. Basti considerare che, in quanto tale, la
costituzione della società è in realtà una mera dichiarazione di intenti rispetto all’inizio
dell’impresa o, più precisamente, l’approntamento della veste giuridica dell’impresa,
che, di per sé, non giustifica l’applicazione della disciplina dell’impresa in assenza del
fenomeno che dovrebbe rivestire165.
Meno certo è invece se l’inizio dell’impresa debba aversi sin dalla fase di
organizzazione, cioè sin dall’approntamento dei fattori produttivi alla successiva
attività produttiva, ovvero debba posticiparsi alla fine di questa fase.
Ed invero, non manca chi distingue tra l’attività di organizzazione e l’attività
dell’organizzazione e associa l’inizio dell’impresa solo a fronte dell’esercizio di
quest’ultima166. Si tratta peraltro di una demarcazione agevole da tracciare solo in
teoria e difficile da accertare in pratica. Ciò in quanto non è semplice fissare uno
spartiacque tra la fase di preparazione del complesso produttivo e l’attività produttiva
in senso stretto. Senza considerare che, nel corso della prima, vengono in
considerazione i tipici interessi coinvolti nella seconda e, soprattutto, i finanziatori a
titolo di credito. E forse vengono in considerazione in misura finanche più consistente,
atteso che in questo momento si realizza la parte più significativa degli investimenti:
basti pensare agli investimenti in capitale fisso (impianti, macchinari, ecc.)167. Sicché,
potrebbe sembrare non congruo escludere il credito che è stato concesso in questa fase
164
In questo senso, invece, seppur con percorso argomentativo non coincidente, CASANOVA, Impresa e
azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974, 169; DE MARTINI, Corso di diritto commerciale, I, Parte generale,
Milano, 1983, 281 s.; NIGRO, Le società per azioni, 230 ss. Nello stesso senso, la giurisprudenza pressoché
unanime: da ultimo, Cass., 28 aprile 2005, n. 8849, in Fallimento, 2005, 1373; per i riferimenti più risalenti,
IANNELLI, op. cit., 69 ss.
165
In questi termini, tra gli altri, JAEGER, Note, 765 ss.; JORIO, Osservazioni, 78 s.; FRANCESCHELLI,
Imprese e imprenditori3, Milano, 1972, 160 ss.; CAMPOBASSO, I, 100 s.; GALGANO, I, 92. Condivide la
conclusione anche SPADA, op. cit., 60 s., il quale, tuttavia, precisa che la questione relativa all’inizio
dell’impresa (societaria) non può esser affrontata in modo normativamente unitario bensì nell’ottica di una
scomposizione della disciplina dell’impresa accertando per quali istituti abbia senso un’applicazione sin dal
momento della costituzione della società e quali invece presuppongano l’avvio dell’iniziativa.
166
In questo senso, ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano,
1962, 267; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 33 s.; e, soprattutto,
FRANCESCHELLI, op. cit., 99 ss. e 129 ss., cui si deve la distinzione tra atti di organizzazione e atti
dell’organizzazione. In quest’ottica, si ritiene che completata la fase organizzativa del complesso produttivo
anche un solo atto sarà sufficiente ad segnare l’inizio dell’impresa, mentre in mancanza della fase di
organizzazione sola la ripetizione nel tempo di atti omogenei e funzionalmente coordinati permetterà di
qualificare l’attività non occasionale bensì come professionalmente esercitata. Più di recente, OPPO, Scritti
giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992, 312 s.
167
Così, CAMPOBASSO, I, 102 s.
Antonio Cetra
69
dai sistemi di tutela predisposti dal diritto dell’impresa a favore del credito alla
produzione (quali, ad esempio, le procedure concorsuali)168.
Tutt’al più, si potrà escludere che l’inizio dell’impresa possa aversi a seguito del
completamento di singoli atti di organizzazione e, di conseguenza, ritenere necessaria
l’esecuzione di una serie di atti, coordinati tra loro e volti ad organizzare un’attività
produttiva, che abbia assunto fisionomia unitaria e finalità non equivoche169.
II. La fine dell’impresa
1. Il criterio di effettività. Le operazioni di liquidazione.
Con l’espressione fine dell’impresa si suole fare riferimento – come anticipato – al
momento al cui verificarsi cessa di trovare applicazione la disciplina dell’impresa.
Esattamente come l’inizio anche la fine dell’impresa dev’essere accertata secondo
un criterio di effettività, ossia dev’essere identificata nel momento in cui nella realtà
concreta viene meno il fenomeno produttivo qualificabile come impresa, senza che
possano aver rilievo, quanto meno generalmente, gli eventuali adempimenti formali
obbligatori170.
Se con riferimento all’inizio può dubitarsi sul se l’impresa (rectius: la sua
disciplina) possa sussistere (trovare applicazione) sin dalla fase di organizzazione, con
riferimento alla fine non può esitarsi ad escludere che l’impresa (rectius: la sua
disciplina) possa venir meno nella fase di disgregazione del complesso produttivo, cioè
durante la liquidazione: fase nella quale si monetizzano tutti i beni costituenti il
complesso aziendale e si risolvono tutti i rapporti pendenti (sia creditori che
debitori)171.
Per queste ragioni, ritengono che l’inizio dell’impresa debba aversi sin dalla fase dell’organizzazione,
AFFERNI, Gli atti, 111 ss. e 260 ss.; GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990, 50
s.; BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, Sez. I – Tomo 2.1, 2002, 104 ss. Sostanzialmente in questo
senso anche SPADA, op. cit., 62, il quale, tuttavia, rimarca sempre l’esigenza di verificare con riferimento ai
singoli istituti che costituiscono la disciplina dell’impresa la congruità di una loro applicazione sin dalla
fase organizzativa (il punto è sottolineato successivamente pure da ANGELICI, I, 51): esigenza quest’ultima
che sembra essere colta dalla giurisprudenza, la quale non esita ad applicare alcuni profili della disciplina
sin dalla fase di organizzazione mentre si dimostra molto più incerta per altri (per un quadro di sintesi,
IANNELLI, op. cit., 72 s.).
169
Così, PISCITELLO/Dir. fall. – Man. breve, 119.
170
Per questa conclusione, con specifico riferimento all’impresa esercitata da una persona fisica,
CAMPOBASSO, I, 104; GALGANO, I, 94; BUONOCORE/Buonocore, ?; PRESTI-RESCIGNO, 27.
171
Nel senso che di fine dell’impresa non possa parlarsi fin tanto che anche in fase di liquidazione vengono
compiute operazioni intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere durante l’esercizio
dell’impresa, BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001, 555; BUONOCORE, L’impresa,
cit., 170 ss. e la giurisprudenza pressoché unanime: Cass., 9 agosto 2002, n. 12113, in Giust. civ., 2002, I,
168
70
L’impresa
Del resto, non può trascurarsi che la liquidazione è una fase non essenziale
nell’impresa, nel senso che l’impresa potrebbe cessare anche a prescindere da una
formale liquidazione. La liquidazione è più che altro una fase che attiene
all’eliminazione dell’ente attraverso il quale si esercita l’impresa, cioè all’eliminazione
del centro autonomo di imputazione al quale l’impresa si riferisce. In particolare, la
liquidazione è una fase obbligatoria della società (e di ogni altro ente collettivo)172.
È allora evidente che i problemi sulla fine dell’impresa e sulla fine dell’ente che
esercita l’impresa riposano su piani diversi. Sicché, non può escludersi che l’impresa di
una società (o di altro ente) possa cessare anche prima della fine della società (o
dell’altro ente), che invece sopravvive fintanto che non è liquidata (o) e,
successivamente, estinta (o) attraverso la sua cancellazione dal registro delle imprese
(o analoga formalità)173. E così come si è escluso che l’inizio dell’impresa societaria (o
di altro ente che esercita l’impresa in via esclusiva) possa essere anticipata al momento
della costituzione, parimenti si deve escludere che la fine dell’impresa societaria (o di
altro ente che esercita l’impresa in via esclusiva) possa essere posticipata al momento
dell’estinzione174.
2. La cancellazione dal registro delle imprese. La decorrenza degli effetti ex
art. 10 l. fall. (rinvio).
Tutto quanto precede presenta, tuttavia, una significativa eccezione con riferimento
ad uno degli istituti nei quali si scompone la disciplina dell’impresa: le procedure
concorsuali.
Infatti, la fine dell’impresa non comporta di per sé il venir meno della possibilità di
aprire una procedura concorsuale: possibilità che residua ancora per l’anno successivo
3077; Cass., 3 novembre 1989, n. 4599, in Giur. it., 1990, I, 1, 320; Trib. Napoli, 14 novembre 1997 e 16
dicembre 1998, in Foro nap., 1999, 45 e altri riferimenti in IANNELLI, op. cit., 76 s.
172
Sottolineano che la fine dell’impresa (individuale) e liquidazione non siano sinonimi e, in particolare,
che la prima possa prescindere dalla seconda, JORIO, Gli articoli, 311 ss.; BUONOCORE, Fallimento, 239 ss.
e 248 ss.; BONFANTE-COTTINO, op. cit., 555; CAMPOBASSO, I, 104. In giurisprudenza, rimarcando che la
liquidazione è una fase della società, Cass., 8 gennaio 1999, n. 89, in Giur. it., 1999, I, 1, 560; Trib. Roma,
17 febbraio 1992, in Fallimento, 1992, 75; App. Catania, 18 gennaio 1997, in Giur. it., 1997, I, 2, 345.
173
Per questa conclusione, muovendo dal presupposto che la fine dell’impresa debba essere accertata in
maniera non diversa nelle imprese individuali e societarie e, in particolare, che la fine dell’impresa e la
liquidazione vadano tenute distinte anche nelle imprese societarie, BUONOCORE, Fallimento, 265 ss.;
BONFANTE-COTTINO, op. cit., 556.
174
Diversamente orientata è invece la dottrina che è dell’avviso che l’inizio dell’impresa societaria debba
decorrere dal momento della costituzione che, simmetricamente, posticipa la fine dell’impresa all’estinzione
della società: SANTAGATA, Fallimento, 331 ss. e per gli altri riferimenti v., supra, nt. ?. Finanche più
radicale è la posizione della giurisprudenza, per la quale la fine dell’impresa societaria non si avrebbe
neanche con l’estinzione della società bensì con l’estinzione di tutti i rapporti: tra le altre, Cass., 9 marzo
1876, in Dir. fall., 1996, II, 191; Trib. Torino, 19 aprile 1994, in Fallimento, 1994, 1297. Si tratta tuttavia di
una soluzione (condivisa dalla stessa Corte Costituzionale: Corte Cost., 20 maggio 1998, n. 180, in Giur.
comm., 2000, II, 281) finalizzata essenzialmente a rendere sempre possibile l’apertura delle procedure
concorsuali nei confronti delle società (PRESTI-RESCIGNO, 27), cosa che, però, non è più possibile, come si
vedrà or ora nel testo, alla luce della recente riformulazione dell’art. 10 l. fall.
Antonio Cetra
71
alla cessazione, a condizione che lo stato di insolvenza sia antecedente alla cessazione
dell’iniziativa o si sia verificato nell’anno successivo.
È di tutta evidenza la ragione di questa prorogatio. In tal modo, si impedisce al
titolare dell’impresa (= l’imprenditore: v., infra ) di sfuggire alla soluzione concorsuale
dell’insolvenza attraverso una cessazione ex abrupto della sua iniziativa e, nel
contempo, si consente ai creditori o, eventualmente, al pubblico ministero di chiedere
l’apertura della procedura concorsuale anche in questa eventualità175.
Meno evidente è la ragione per cui il termine dell’anno debba decorrere dalla
cancellazione dal registro delle imprese e non invece dalla effettiva cessazione
dell’attività (art. 10, comma 1, l. fall.). Si può ritenere che uno dei motivi che hanno
indotto ad ancorare il dies a quo all’adempimento di tale formalità sia senz’altro quello
di semplificare l’accertamento dell’ambito temporale di assoggettabilità dell’impresa
alle procedure concorsuali. Infatti, una simile formalità può essere immaginata come
una presunzione dell’effettiva cessazione dell’attività176. In quest’ottica, tuttavia, non
è chiaro il motivo per cui la presunzione sia superabile nel solo caso di impresa
individuale e di cancellazione d’ufficio di un ente e solo su iniziativa dei creditori o del
pubblico ministero (art. 10, comma 2, l. fall.): i quali avranno interesse a dimostrare
che al dato formale della cancellazione non ha fatto seguito l’interruzione effettiva
dell’iniziativa. Probabilmente, il motivo può ravvisarsi nel tentativo di creare un
meccanismo capace di incentivare un corretto adempimento dell’obbligo di pubblicità
d’impresa (v., infra ) da parte del suo titolare.
Peraltro, resta incerto se decorre e, nell’affermativa, da quando decorre il termine
dell’anno per le imprese che abbiano omesso di adempiere all’obbligo di iscrizione nel
registro delle imprese (benché le imprese «non pubblicizzate» dovrebbero essere in
prospettiva sempre di meno: v., infra). Al riguardo, si ritiene, da un lato, che l’omessa
iscrizione possa essere sostituita dalla conoscenza effettiva da parte dei terzi della
cessazione dell’impresa o dalla sua conoscibilità (laddove della cessazione
dell’impresa si sia fatta comunque pubblicità con mezzi idonei)177; dall’altro, che
l’omessa iscrizione precluda il decorso del termine dell’anno (salvo un adempimento
tardivo e finalizzato alla cancellazione)178: conclusione, quest’ultima, che si lascerebbe
Per tutti, PISCITELLO/Dir. fall. – Man. breve, 120.
In questi termini, PISCITELLO/Dir. fall. – Man. Breve, 120.
177
In questo senso, in dottrina, PISCITELLO/Dir. fall. – Man. breve, 120 ss.; NIGRO(-VATTERMOLI), 70 s.; in
giurisprudenza, in particolare escludendo che le imprese «non pubblicizzate» possano restare esposte alle
procedure concorsuali senza limiti di tempo, sul presupposto che ciò contrasterebbe con l’esigenza
(rimarcata anche da Corte Cost., 21 luglio 2000, n. 319, in Giur. comm., 2001, II, 5 e 7 novembre 2001, n.
361, in Giur. comm., 2002, II, 563) di contemperare gli opposti interessi dei creditori e di certezza delle
situazioni giuridiche, Cass., 28 agosto 2006, n. 18618, in Dir. fall., 2008, II, 245; App. Lecce, 26 giugno
2009, in Fallimento, 2010, 1416; seppur in obiter dictum, App. Torino, 19 febbraio 2008, in Fallimento,
2008, 807; con specifico riferimento ad enti non societari, da ultimo, Cass., 13 luglio 2011, n. 15428, in
Fallimento, 2011, 1407; Trib. Gorizia, 18 novembre 2011, in Fallimento, 2012, 722.
178
In questo senso, in dottrina, IBBA, Il fallimento dell’impresa cessata, in Riv. soc., 2008, 943 ss.; ID., Il
presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Profili della nuova legge fallimentare, a
cura di Ibba, Torino, 2009, 12 s.; SPERANZIN, Il fallimento della società estinta, in Temi del nuovo diritto
fallimentare, a cura di Palmieri, Torino, 2009, 143; PERRINO/Nigro-Sandulli-Santoro, sub Artt. 10-11, 138
s.; CAMPOBASSO, I, 106; in giurisprudenza, in particolare sottolineando l’inoperatività del principio di
effettività per le società di fatto o irregolari e per gli imprenditori individuali (sia iscritti che non iscritti),
Trib. Napoli, 21 aprile 2010, in Fallimento, 2010, 1418; qualificando la cancellazione dal registro delle
175
176
72
L’impresa
condividere, ove si condividesse l’idea, poc’anzi prospettata, di vedere nella
disposizione dell’art. 10 l. fall. un meccanismo capace di incentivare l’adempimento
della pubblicità d’impresa: idea che invero sembra tutt’altro che peregrina dopo che la
pubblicità d’impresa è stata elevata ad obbligo prodromico rispetto alle altre formalità,
anche di carattere fiscale e previdenziale, che precedono l’avvio di un’impresa (art. 9,
d. l. 31 gennaio 2007, n. 7 c. l. 2 aprile 2007, n. 40) (v., infra).
imprese presunzione assoluta per il debitore, App. Reggio Calabria, 21 gennaio 2010, in Fallimento, 2010,
1415; con riferimento ad una società, Trib. Milano, 28 maggio 2004, in Banca e borsa, 2006, II, 380.
Antonio Cetra
73
§ 5. L’imputazione dell’impresa.
LETTERATURA: ASCARELLI, Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955; ID., Problemi
giuridici, II, Milano, 1959; AULETTA, voce Attività, in Enc. dir., III, Milano, 1959, 981;
ID., voce Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale, in Enc. dir., VI, Milano,
1960, 72; BIGIAVI, L’imprenditore occulto, Padova, 1954; ID., Fallimento dei soci
sovrani, pluralità di imprenditori occulti, confusione di patrimoni, in Giur. it., 1954, I,
2, 691; ID., L’imprenditore occulto nella società di capitali e il suo fallimento “in
esternsione”, in Giur. it., 1959, 149; ID., Responsabilità illimitata del socio tiranno, in
Foro it., 1960, I, 1180; ID., Difesa dell’«imprenditore occulto», Padova, 1962; ID.,
“Imprese” di finanziamento come surrogati del “socio tiranno” – imprenditore occulto
(studio giurisprudenziale), in Studi in memoria di Graziani, I, Napoli, 1967, 79;
BUONOCORE, Fallimento e impresa, Napoli, s.d. (ma 1969); COLUSSI, Capacità e
impresa, I, L’impresa individuale, Padova, 1974; FARINA, L’acquisito della qualità di
imprenditore, Padova, 1985; GALGANO, voce Imprenditore occulto e società occulta, in
Enc. giur., XVI, Roma, 1989; OPPO, Scritti giuridici, I, Diritto dell’impresa, Padova,
1992; PAVONE LA ROSA, La teoria dell’«imprenditore occulto» nell’opera di Walter
Bigiavi, in Riv. dir. civ., 1967, I, 623; SPADA, voce Impresa, in Digesto delle discipline
privatistiche. Sezione commerciale4, VII, Torino, 1992; ID., Diritto commerciale, I,
Storia, lessico e istituti2, Padova, 2009.
Rimane ancora da vedere a chi si imputa l’impresa, cioè chi è il referente
soggettivo dell’impresa, vale a dire il soggetto tenuto ad adempiere ai diversi obblighi
comportamentali in cui la disciplina dell’impresa si scompone (v., infra, ?), con
l’obiettivo di assicurare che l’iniziativa imprenditoriale si produca secondo il
paradigma comportamentale giudicato capace di assicurare il più adeguato
contemperamento tra i diversi interessi sollecitati.
Altrimenti detto, si tratta di comprendere chi è l’imprenditore in senso giuridico.
Comprendere chi sia l’imprenditore in senso giuridico postula, preliminarmente,
appurare quale sia il criterio di imputazione di un fenomeno descritto in termini di
attività, cioè il criterio che consenta di attribuire ad una sfera giuridica soggettiva
un’attività oggettivamente considerata e, quindi, quale sua specificazione, l’impresa.
Questione, quest’ultima, che si presenta affatto problematica, dato che
nell’ordinamento italiano manca, quanto meno in forma esplicita, un siffatto criterio di
imputazione, che allora dev’essere ricavato, o esplicitato, in via interpretativa.
Le pagine che seguono saranno allora dedicate alla soluzione della questione testé
accennata per poi trarre le debite conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa (e
all’identificazione della figura dell’imprenditore).
74
L’impresa
I. Il criterio di imputazione
1. La mancanza di un criterio esplicito di imputazione: la soluzione
interpretativa.
L’impresa e, specialmente, l’impresa commerciale non piccola, quale fenomeno
rilevante sul piano normativo, necessita di essere ricondotta ad una sfera giuridica
soggettiva. Ciò in quanto la relativa disciplina, ossia l’insieme degli obblighi
comportamentali ai quali deve informarsi il concreto svolgimento del fenomeno, deve
avere un referente soggettivo, cioè un soggetto sul quale gravi l’obbligo di osservare
siffatti obblighi.
Tale soggetto è colui al quale si imputa l’impresa, vale a dire l’imprenditore in
senso giuridico179.
L’individuazione del soggetto al quale si imputa l’impresa è tuttavia una questione
affatto problematica. Ed è problematica perché nell’ordinamento manca un criterio,
quanto meno in termini espliciti, di imputazione di un fenomeno che rileva sul piano
normativo come attività oggettivamente considerata e, quindi, in quanto specificazione,
dell’impresa: criterio che allora dev’essere ricavato, o esplicitato, ad opera
dell’interprete (teorico e pratico).
Al riguardo, giova ricordare che i principali orientamenti che si contendono il
campo sono due: da un lato, c’è chi ritiene che l’impresa si imputi secondo un criterio
formale o della spendita del nome nello svolgimento della stessa, concludendo che è
imprenditore colui che svolge l’impresa a suo nome; dall’altro, c’è chi ritiene che
l’impresa si imputi secondo un criterio sostanziale o dell’interesse perseguito nello
svolgimento della stessa, concludendo che è imprenditore colui che svolge l’impresa
nel suo interesse.
In quest’ottica, è evidente che la questione relativa all’imputazione dell’impresa
appare risolta senza particolare contrasto di opinioni allorché l’impresa venga svolta in
nome e per conto di uno stesso soggetto, cioè quando l’elemento formale della spendita
del nome e l’elemento sostanziale dell’interesse perseguito convergono sulla stessa
sfera soggettiva, concludendo che l’impresa si imputa a tale soggetto che è, quindi,
l’imprenditore180. Ad esempio, se una persona fisica svolge l’impresa a suo nome e nel
suo interesse non v’è dubbio che la persona fisica sia l’imprenditore; se una società
svolge l’impresa a suo nome e nel suo interesse non v’è dubbio che la società sia
l’imprenditore; se un ente pubblico svolge l’impresa a suo nome e nel suo interesse non
v’è dubbio che l’ente sia l’imprenditore; e così via.
Peraltro, una siffatta conclusione prescinde dalla circostanza che il soggetto con
riferimento al quale si riscontra la ricorrenza dell’elemento formale e dell’elemento
Il termine imprenditore è usato in questa accezione da SPADA, Note, 2270 s.; ID., L’incognita «impresa»
dal codice allo statuto, nel libro di Pier Giusto Jaeger, in Giur. comm., 1985, I, 751 s.; ID., voce Impresa,
73 s.
180
In questi termini, molto chiaramente, SPADA, I, 131 ss.
179
Antonio Cetra
75
sostanziale eserciti materialmente l’impresa. Infatti, un soggetto può acquisire la
qualifica di imprenditore anche se non esercita materialmente l’impresa181.
Ed invero, l’imprenditore può affidare l’esercizio dell’impresa ad uno o più altri
soggetti (i quali eseguono tale incarico in nome e per conto del primo). Ipotesi,
quest’ultima, non certo infrequente nei fenomeni qui indagati, cioè nelle imprese non
piccole, dove l’esercizio concreto dell’iniziativa è affidato all’organizzazione e, in
particolare, alla componente personale dell’apparato organizzativo dell’impresa: vale a
dire, ai collaboratori d’impresa (quali, ad esempio, l’institore o il procuratore: v.,
infra).
Talvolta, l’imprenditore è addirittura obbligato ad affidare l’esercizio dell’impresa
ad un altro o più altri soggetti (i quali eseguono sempre tale incarico in nome e per
conto del primo). Ipotesi, quest’ultima, che si concretizza allorché l’imprenditore non
abbia capacità di agire e, quindi, non possa compiere in prima persona i diversi atti di
disposizione del patrimonio tipicamente connaturati all’esercizio di un’impresa.
Pertanto, se un soggetto non ha la capacità di agire, vuoi perché non l’ha ancora
acquisita (il minore) vuoi perché non la può acquisire o l’ha persa in tutto (l’interdetto)
o in parte (l’inabilitato), deve necessariamente affidare l’esercizio dell’impresa al suo
sostituto legale: vale a dire al tutore o al curatore, per poi eventualmente riassumere
l’esercizio una volta che abbia (ri)conseguito tale capacità.
2. L’impresa dell’incapace.
L’impresa dell’incapace è assoggettata ad una particolare disciplina, che risente della
disciplina più generale riguardante la cura dei suoi interessi patrimoniali182.
In linea di massima, l’incapace non può da solo curare i propri interessi patrimoniali ma
deve farsi coadiuvare dal rappresentate legale.
L’incapace totale (minore o interdetto) non può né gestire il patrimonio né compiere atti
di disposizione. La gestione, che si sostanzia nel compimento di atti di ordinaria
amministrazione, è affidata interamente al tutore mentre il compimento degli atti di
disposizione, che si sostanziano nel compimento di atti di straordinaria amministrazione,
può essere posta in essere dal tutore, previa autorizzazione del giudice tutelare, il quale
deve accertare, per ogni singolo atto da autorizzare, la necessità o l’evidente utilità per il
sostituito (art. 320, comma 3).
L’incapace parziale (inabilitato) può invece limitarsi a gestire il patrimonio (cioè, fare
l’amministrazione ordinaria) (art. 394, comma 1) mentre deve richiedere al giudice tutelare
(art. 394, comma 3) o al tribunale (comb. disp. artt. 394, comma 3 e 375), che rilasciano
previo consenso del curatore, l’autorizzazione per gli atti di disposizione del patrimonio
(cioè gli atti di amministrazione straordinaria).
Sul punto, ancora, SPADA, I, 132 e 56 s. Più in generale, RIVOLTA, L’esercizio dell’impresa nel
fallimento, Milano, 1969, 44 ss.; BUONOCORE, L’impresa, in Tr. Buonocore, Sez. I – Tomo 2.1, 2002, 206
ss.
182
Al riguardo, in termini generali, AULETTA, voce Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale, 72
ss.; COLUSSI, Capacità e impresa, 31 ss.; CAPOZZI, Incapaci e impresa, Milano, 1992, 23 ss.; CORSI, Il
concetto di amministrazione nel diritto privato, Milano, 1974, 164 ss.
181
76
L’impresa
Appare perciò evidente che la gestione del patrimonio dell’incapace è una gestione
essenzialmente di stampo conservativo, che mira al mantenimento dell’integrità del
patrimonio e relega il compimento di atti di disposizione dello stesso a ipotesi marginali e
del tutto eventuali, previa valutazione dell’opportunità rispetto all’interesse dell’incapace al
compimento del singolo atto (c.d. sistema di autorizzazione atto per atto).
Pertanto, una gestione improntata a questi principi risulta sostanzialmente incompatibile
con la presenza di un’impresa commerciale, la quale, quanto meno tipicamente, non si presta
ad una gestione di tipo conservativo (non foss’altro per via del fisiologico susseguirsi di atti
di disposizione del patrimonio che essa richiede).
Si comprende allora la ragione per cui la disciplina della cura degli interessi patrimoniali
dell’incapace sia caratterizzata da un generale divieto ad iniziare un’attività di impresa e
contempli solo la possibilità di continuare un’impresa eventualmente sopravvenuta,
tipicamente in seguito all’acquisizione di un’azienda per successione o per donazione
(ovvero che l’impresa preesista ad uno stato di capacità sopravvenuta): nel qual caso, infatti,
rischierebbe di essere troppo lesivo degli interessi dell’incapace imporre che l’impresa,
postulando una gestione non conservativa, debba cessare o debba essere ceduta (attraverso la
cessione dell’azienda)183.
Tuttavia, in quest’eventualità, la continuazione dell’impresa dev’essere autorizzata dal
tribunale su parere del giudice tutelare (art. 320, comma 5), alla condizione che sia
evidentemente utile per l’interesse dell’incapace il mantenimento o la prosecuzione della
stessa (si pensi al caso di un’impresa che versa in condizioni floride sul piano economicopatrimoniale e al beneficio che in prospettiva ne potrebbe trarre un minore che ha conseguito
per successione o per donazione la relativa azienda)184.
Se la continuazione è autorizzata, nel caso di incapacità totale, l’impresa viene gestita dal
tutore, il quale può compiere tutti gli atti che rientrano nella relativa gestione, senza
distinzione fra atti di ordinaria e atti di straordinaria amministrazione (il tutore dovrà farsi
autorizzare solo per compiere qualcosa che esula dalla normale gestione dell’impresa, come,
ad esempio, l’alienazione dell’azienda o la cessazione o il cambiamento dell’oggetto
dell’attività)185; nel caso di incapacità parziale, l’impresa può essere affidata allo stesso
incapace, seppur con l’assistenza del curatore, eventualmente coadiuvato da un institore
nominato in sede di rilascio dell’autorizzazione (art. 425)186.
Sulla ratio del divieto di iniziare e dell’autorizzazione a continuare l’impresa, v., anche per altri
riferimenti, PORZIO, L’impresa commerciale del minore, in Riv. dir. civ., 1962, I, 373 ss.; CASANOVA,
Impresa e azienda, in Tr. Vassalli, X, 1, 1974, 246 ss.; COLUSSI, Capacità e impresa, 66 ss.; CORSI, op. cit.,
164 ss.; BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Tr. Cottino, I, 2001, 545 s.; CAMPOBASSO I, 107 s.;
GALGANO, I, 84 s.
184
Sulla valutazione del tribunale in punto di autorizzazione, gli AA. citati alla nt. precedente.
185
In questo senso, PORZIO, op. cit., 388; CORSI, op. cit., 168; BONFANTE-COTTINO, op. cit., 346;
CAMPOBASSO, 109; Cass., 5 giugno 2007, n. 13154, in Giust. it., 2008, 52. Nel senso invece che resterebbe
l’autorizzazione atto per atto per tutto quanto eccede l’amministrazione ordinaria, COLUSSI, Capacità e
impresa, 94 ss. E v., anche, RAGUSA MAGGIORE, Capacità all’esercizio dell’impresa commerciale e
fallimento, in Dir. fall., 1980, I, 98 ss.
186
Tuttavia, è controverso fino a che punto debba spingersi l’assistenza del curatore e, in particolare, se
debba compiere congiuntamente con l’incapace tutti gli atti di impresa (in questo senso, ad esempio,
CASANOVA, op. cit., 253 s.; CAPOZZI, op. cit., 199 ss.) o se debba limitarsi a dare il consenso per il soli atti
d’impresa che eccedono l’ordinaria amministrazione (in questo senso, ad esempio, COLUSSI, Capacità e
impresa, 197 ss.) o ai soli atti di straordinaria amministrazione che esulano dall’esercizio dell’impresa ai
fini dell’autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale (in questo senso, per esempio, BRACCO,
L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960, 306 ss.; GALGANO, I, 86). Peraltro, è
controverso il rapporto tra incapace e l’eventuale institore e, in particolare, se il rapporto tra le due figure
sia complementare (in questo senso, ad esempio, BELVISO, L’institore, I, Napoli, 1966, 40 ss.; COLUSSI,
183
Antonio Cetra
77
II. I casi problematici di imputazione
1. I casi di imputazione incerta.
La questione relativa all’imputazione dell’impresa si profila invece in tutta la sua
problematicità, allorché l’elemento formale della spendita del nome e l’elemento
sostanziale dell’interesse perseguito si riscontrano in capo a soggetti diversi,
tipicamente nell’ipotesi – non l’unica ma senz’altro la più ricorrente nella pratica – in
cui un soggetto (Tizio) esercita l’impresa a suo nome per perseguire l’interesse di un
altro soggetto (Caio).
In quest’eventualità, è controverso se ai fini dell’imputazione dell’impresa si debba
considerare l’elemento formale o, viceversa, l’elemento sostanziale e, quindi, nel caso
prospettato testé, se la qualifica di imprenditore venga acquisita dal primo (Tizio) o dal
secondo (Caio) soggetto.
2. Segue: il criterio della spendita del nome (o formalista).
L’orientamento quanto meno sino a ieri e forse ancora oggi prevalente è dell’avviso
che l’elemento decisivo ai fini dell’imputazione dell’impresa debba individuarsi nella
spendita del nome, ritenendo che l’impresa si imputa al soggetto il cui nome viene
speso nello svolgimento della stessa187.
Una tale conclusione riposa sull’assunto che, a fronte della mancanza
nell’ordinamento di un criterio di imputazione dell’attività (e, quindi, in quanto
specificazione, dell’impresa), si possa porre rimedio attraverso il ricorso al criterio
previsto dall’ordinamento per l’imputazione degli atti giuridici, posto che l’attività è in
fin dei conti un insieme di atti giuridici, seppur teleologicamente orientati al
raggiungimento di uno scopo (o risultato programmato). Pertanto, poiché quest’ultimo
criterio è il criterio della spendita del nome – risultando invece irrilevante l’interesse
Capacità e impresa, 199 ss.) o alternativo (in questo senso, ad esempio, CASANOVA, op. cit., 255 s.;
BONFANTE-COTTINO, op. cit., 549).
187
Per questa conclusione, in luogo di molti, ASCARELLI, Problemi giuridici, 433 ss., 461 ss., 476 ss. e 512
ss.; ID., Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa3, Milano, 1962, 232 ss.; BRACCO,
op. cit., 198 ss. e 207; MINERVINI, L’imprenditore. Fattispecie e statuti, Napoli, 1966, 49 s. e 164 ss.;
RIVOLTA, op. cit., 234 ss.; ID., Gli atti d’impresa, in Le ragioni del diritto. Studi in onore di Mengoni, II,
Diritto del lavoro – Diritto commerciale, Milano, 1995, 1646 ss.; FRANCESCHELLI, Imprese e
imprenditori3, Milano, 1972, 141 ss.; CASANOVA, op. cit., 46 ss. e 54 ss.; LIBONATI, 26 s.; OPPO, Scritti, I,
257 ss. e 289 ss.; CAMPOBASSO, I, 88 s.; PRESTI-RESCIGNO, 22 s.; FERRARA-CORSI, ?
78
L’impresa
perseguito – (cfr. art. 1705, comma 1), allora – se ne deduce – secondo tale criterio
dovranno imputarsi anche gli atti che costituiscono l’attività e, quindi, in definitiva,
dovrà imputarsi l’attività medesima (dunque, l’impresa, in quanto specificazione)188.
Una tale conclusione ha sicuramente il pregio della semplicità e della immediatezza
nell’individuazione dell’imprenditore.
Tuttavia, la conclusione che l’impresa si imputi secondo il criterio formale si espone ad
una serie di rilievi critici.
Anzitutto, non può non destare perplessità il postulato dal quale prende le mosse la
suddetta opinione, cioè l’assunto che l’attività è in realtà costituita da un insieme di atti
giuridici, che equivale un po’ a dire che la casa è formata da un insieme di mattoni. Infatti, si
è avuto già modo di precisare (v., supra) che nell’esperienza normativa riguardata (cioè, nel
diritto commerciale) non rilevano i singoli comportamenti da cui l’attività è costituita, pur
potendo essi rilevare nell’ambito di altre esperienze normative (ad esempio, nel diritto
privato; nel diritto del lavoro; ecc.), ma rileva l’attività come fenomeno unitario nel suo
insieme e, in particolare, rileva, per quello che qui interessa, il fenomeno imprenditoriale.
In secondo luogo, desta perplessità anche l’idea di fondo che è alla base della relativa
ricostruzione, cioè che la sistemazione degli interessi in gioco (in particolare, i creditori dei
due soggetti: chi spende il nome e chi realizza l’interesse) debba avvenire secondo il
principio dell’affidamento. Sicché, i creditori del soggetto che svolge l’impresa a suo nome
possono essere garantiti dal solo patrimonio sul quale hanno fatto affidamento e non da altri,
così come i creditori del soggetto nel cui interesse è svolta l’impresa non possono
condividere la garanzia patrimoniale del loro debitore con altri. Una simile sistemazione
degli interessi presuppone peraltro che l’ordinamento tuteli il credito alla produzione con la
stessa intensità del credito al consumo: il che però costituisce un assioma tutt’altro che
incontestabile.
Tuttavia, non può essere trascurato che la conclusione più sopra riferita rende
agevoli alcune forme di abuso.
Si supponga che il soggetto che svolge l’impresa a suo nome sia un nullatenente,
che non ha, cioè, niente o molto da perdere nel caso in cui l’iniziativa non vada a buon
fine, e si presti allora a fungere da prestanome nello svolgimento di un’impresa per
conto di un altro soggetto, il quale invece ha interesse a non esporre il suo patrimonio
al rischio di impresa.
In quest’eventualità (non certo infrequente nella pratica), è evidente che, se
l’iniziativa non va effettivamente a buon fine, il peso economico dell’insolvenza è
destinato a gravare pressoché integralmente su coloro che hanno finanziato l’iniziativa
a titolo di credito. Da un lato, il patrimonio del prestanome non contiene sostanze
patrimoniali sufficienti per il soddisfacimento delle ragioni creditorie, sicché l’azione
esecutiva promossa dai creditori (e, successivamente, in loro vece, dalla procedura
concorsuale di fallimento) è destinata a restare fine a se stessa. Dall’altro, il patrimonio
del dominus non può essere aggredito dai creditori del prestanome (e, successivamente,
in loro vece, dal fallimento del prestanome), a meno che tali creditori (che sono poi i
creditori d’impresa) vantino nei confronti del dominus una qualche forma di garanzia.
Deve tuttavia escludersi realisticamente che gran parte di essi (perlopiù coincidenti con
È questa l’argomentazione tipicamente addotta a sostegno della conclusione di cui nel testo dagli AA.
citati alla nt. precedente.
188
Antonio Cetra
79
i piccoli fornitori e i lavoratori) sia stata in grado di farsi rilasciare dal dominus una
garanzia a tutela del credito. La qual cosa può immaginarsi semmai solo con
riferimento ai creditori caratterizzati da una forza significativa sul piano della
contrattazione (perlopiù coincidenti i grandi fornitori e le banche). Peraltro, questi
creditori nel momento in cui vanno ad escutere la garanzia devono sperare comunque
di trovare il patrimonio del dominus ancora capiente. In caso contrario, essi devono
cercare di ricostruire lo stesso attraverso i blandi mezzi di conservazione della garanzia
patrimoniale previsti dal diritto comune (artt. 2900 ss.).
A questo stato di cose la giurisprudenza cerca di porre rimedio attraverso la figura
dell’impresa fiancheggiatrice.
Infatti, è orientamento diffuso quello secondo cui il dominus dell’iniziativa in
questione possa acquisire la qualifica di imprenditore e, quindi, essere assoggettato alla
disciplina dell’impresa se si accerta che tale soggetto ha posto in essere un
comportamento nei rapporti intercorsi con il prestanome che in sé considerato possa
qualificarsi come impresa: un’impresa che allora fiancheggia l’iniziativa svolta dal
prestanome (da qui, impresa fiancheggiatrice).
Giova osservare che nei casi come quello prefigurato poc’anzi il dominus da dietro
le quinte normalmente dirige e coordina e, per certi versi, finanzia il prestanome. In
particolare, gli impartisce istruzioni sul contegno da tenere nello svolgimento
dell’iniziativa, gli mette a disposizione capitali, sia in forma di mezzi finanziari da
utilizzare nell’iniziativa sia in forma di garanzie rilasciate a favore di qualche creditore
(per crediti di fornitura o per finanziamenti).
Ebbene, l’orientamento giurisprudenziale in esame ritiene che se il dominus ha
tenuto un tale comportamento, che assumere dunque le fattezze di un’impresa (cioè,
come un’attività produttiva triplicemente qualificata dai requisiti della professionalità,
organizzazione ed economicità), allora anche al dominus va riconosciuta la qualifica di
imprenditore, con il conseguente assoggettamento di quest’ultimo alla disciplina
dell’impresa, ivi compresa l’esposizione alle procedure concorsuali189.
Peraltro, è agevole constatare che una siffatta ricostruzione appronta un rimedio
solo parziale al problema più sopra rilevato.
Infatti, anche il fallimento del dominus, che svolge la sua attività di direzione e
coordinamento e di finanziamento in forma di impresa, acquisisca la qualifica di
imprenditore e, quindi, se insolvente, venga assoggettato alle procedure concorsuali,
consente soltanto ai (pochi) creditori in possesso di causa legittima di prelazione di
beneficiare di una tutela più marcata. Ciò in quanto essi possono contare su un
patrimonio ricostruito per il tramite dei meccanismi propri della procedura concorsuale
e, in particolare, delle azioni revocatorie fallimentari (artt. 64 ss. l. fall.), normalmente
più efficaci dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale previsti dal diritto
comune (artt. 2900 ss.). Invece, l’eventuale fallimento del dominus è del tutto
189
Per questa conclusione, sul presupposto di non potersi affrancare dal criterio formale di imputazione
dell’impresa, Cass., 13 marzo 2003, n. 3724, in Giust. civ., 2003, I, 1198; Cass., 9 agosto 2002, n. 12113, in
Società, 2003, 27; App. Bologna, 23 maggio 2007, in Società, 2008, 316; Trib. Napoli, 8 gennaio 2007 e
Trib. Vicenza, 23 novembre 2006, in Fallimento, 2007, 407.
80
L’impresa
irrilevante per gli altri (molti) creditori che non hanno alcun titolo per potersi
insinuare190.
Senza trascurare che non è sempre agevole dimostrare che il comportamento posto
in essere dal dominus possa essere qualificato alla stregua di un’impresa, tanto che
frequentemente si perviene a risultati affatto contrastanti.
In particolare, non è raro che per alcuni giudici un certo comportamento venga
qualificato alla stregua di un’impresa mentre per altri quel medesimo comportamento
non si presti ad essere apprezzato negli stessi termini191.
Sintomatico, a tale proposito, è il famoso caso Caltagirone.
Tre signori avevano dato vita ad un’impresa operante nel settore immobiliare che
avevano articolato su ben 158 società di capitali. I tre avevano tenuto una condotta che si
sostanziava nell’esercitare la direzione e coordinamento di tali società nonché nel
provvedere alle relative esigenze finanziarie: in particolare, i tre richiedevano i finanziamenti
al mondo bancario che facevano confluire in casse comuni e che poi intermediavano alle
diverse società, a seconda delle specifiche esigenze dell’una o dell’altra. Sennonché,
l’iniziativa è entrata in crisi ed ha provocato lo stato di insolvenza in tutte le società del
gruppo, le quali sono state tutte dichiarate fallite.
Ebbene, i giudici di prime cure, come anche i giudici di appello, hanno ritenuto che il
comportamento posto in essere dai tre fratelli fosse qualificabile alla stregua di un’impresa e,
dopo aver accertato il loro personale stato di insolvenza, hanno dichiarato il fallimento degli
stessi. Successivamente, la Corte di Cassazione si è dimostrata di avviso opposto, revocando
di conseguenza la procedura concorsuale dei tre fratelli192.
3. Segue: il criterio dell’interesse perseguito (o sostanzialista). La teoria
dell’imprenditore occulto.
Proprio in ragione delle accennate perplessità e del segnalato pericolo di inadeguata
sistemazione degli interessi in gioco, non manca chi si affranca dalla ricostruzione
esposta più sopra e propenda per l’idea che l’impresa debba imputarsi secondo un
criterio che si riferisca al fenomeno in quanto tale e non alle singole frazioni in cui lo
stesso si scompone193.
Nel solco di questa corrente di pensiero, sono state proposte diverse ricostruzioni,
tutte volte a dimostrare che l’impresa si imputi a prescindere dall’imputazione dei
singoli atti giuridici e, quindi, dal nome speso nello svolgimento della stessa. Tra
queste, quella senz’altro più importante è la teoria dell’imprenditore occulto,
190
Il punto è molto ben sottolineato da SPADA, I, 137 s.
E v., nell’ambito di una stessa vicenda (caso Caltagirone), Trib. Roma, 3 luglio 1982, in Dir. fall., II,
1610, che ha ritenuto che un certo comportamento fosse qualificabile come impresa e Cass., 26 febbraio
1990, n. 1439, in Giur. comm., 1990, II, 366, che ha invece escluso che la medesima condotta integrasse i
requisiti dell’art. 2082 c.c.
192
Per una più analitica descrizione della vicenda e per una sintesi del dibattito sorto attorno alla (teoria
della) impresa fiancheggiatrice, RONDINONE, Esercizio della direzione unitaria ed acquisito della qualità di
imprenditore commerciale, in Giur. comm., 1990, II, 397 ss. e 415 ss.
193
Per questa impostazione, molto chiaramente, FARINA, L’acquisito, 53 ss., 126 ss. e 162 ss.
191
Antonio Cetra
81
elaborata e strenuamente difesa a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del secolo appena
trascorso da Walter Bigiavi194.
La teoria dell’imprenditore occulto (peraltro, non diversamente dalle altre teorie che
si collocano nella medesima corrente di pensiero) muove da un presupposto di fondo:
dall’assunto, cioè, che nell’ordinamento vi sia una inscindibile relazione biunivoca tra
potere e rischio, tanto che chi ha la direzione di un’iniziativa economica e, nello
specifico, imprenditoriale, non può sottrarsi alle relative conseguenze sul piano
patrimoniale, ossia diventare responsabile delle obbligazioni che sorgono durante il suo
svolgimento195.
Più d’uno sarebbero i dati normativi dai quali emergerebbe la divisata relazione potererischio.
Un primo è rappresentato dall’art. 2208. Questo articolo sancisce la responsabilità
patrimoniale dell’imprenditore per tutti gli atti pertinenti all’esercizio della sua impresa, a
prescindere dalla circostanza che per il compimento degli stessi si sia speso il suo nome o il
nome del collaboratore preposto che li ha posti in essere in concreto: vale a dire, l’institore
(v., infra ).
Un’altra serie di dati normativi si trova nella disciplina delle società di persone (cfr., ad
esempio, artt. 2267, comma 1, 2291, 2320, 2318, 2317, comma 2). In particolare, si ritiene
che da essi emerga inequivocabilmente che i soci di una società di persone siano investiti
della carica di amministratore, in quanto personalmente e illimitatamente responsabili per le
obbligazioni sociali, e che invece i soci privi di poteri di amministrazione siano anche privi
della responsabilità personale e illimitata.
Pertanto, assumendo come dato di partenza detta relazione, si deduce che il
dominus di un’iniziativa imprenditoriale debba essere senz’altro responsabile per le
obbligazioni sorte nel corso dello svolgimento di un’impresa per suo conto da parte di
un prestanome (quanto meno in solido con quest’ultimo)196.
Sulla base di questa conclusione la teoria dell’imprenditore occulto cerca di
dimostrare che un dominus, non solo è responsabile per le obbligazioni della sua
impresa, ma possa acquisire anche la qualifica di imprenditore: di conseguenza, essere
BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 18 ss.; ID., Responsabilità illimitata, 1180 ss.; ID., L’imprenditore
occulto nella società di capitali, 149 ss.; ID., Difesa dell’«imprenditore occulto», 46 ss.; ID., “Imprese” di
finanziamento, 79 ss.
195
V., in particolare, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 30 s. e 50 ss.; ID., Ingerenza dell’accomandante,
accomandante occulto, accomandita occulta, in Riv. dir. civ., 1959, II, 146 ss. e 159 ss.; ID., Difesa
dell’«imprenditore occulto», 71 ss. e 119 ss. La relazione tra potere e rischio è sottolineata anche da chi ha
nel tempo ripreso e ulteriormente sviluppato la teoria dell’imprenditore occulto, tra i quali, anzitutto,
PAVONE LA ROSA, La teoria, 632 ss. e 652 ss.; BUONOCORE, Fallimento, 65 ss. e 112 ss.; ID., voce
Imprenditore (dir. priv.), in Enc. dir., XX, 525 s.; COTTINO, L’imprenditore. Diritto commerciale4, I, 1,
Padova, 1999, 200 ss.; pur senza accoglierla pienamente, GALGANO, L’imputazione dell’attività di impresa,
in Tr. Galgano, II, 1978, 110 ss.; ID., voce Imprenditore occulto e società occulta, in Enc. giur., XVIII, 3 s.;
ID., I, 80 ss. A prescindere dalla teoria dell’imprenditore occulto, l’inscindibilità tra potere e rischio è
sottolineata, tra gli altri, da FERRI, ?; FARINA, L’acquisto, 131 ss.; ma già, MOSSA, Trattato del nuovo
diritto commerciale, I, Il libro del lavoro. L’impresa corporativa, Roma-Milano-Napoli, 1942, 202 ss.
196
Per questa conclusione, pur con argomentazioni non coincidenti, già, MOSSA, op. cit., 190 s.; più di
recente, FERRI, ?; e, soprattutto, sottolineando che la responsabilità del dominus attiene al saldo della
gestione e non ai singoli atti in cui la gestione si articola, FARINA, L’acquisito, 86 ss. e 98 ss.
194
82
L’impresa
assoggettato alla disciplina dell’impresa e, soprattutto, in caso di insolvenza, alle
procedure concorsuali.
Questo ulteriore decisivo passaggio troverebbe riscontro normativo nell’art. 147 l.
fall., dal quale, appunto, sarebbe possibile cogliere il principio generale secondo cui
l’impresa si imputa a prescindere dal nome speso nello svolgimento della stessa ma in
funzione dell’interesse perseguito.
In particolare, l’art. 147 si riferisce al caso del fallimento di una società con soci
illimitatamente responsabili e stabilisce, in conseguenza del fallimento della società,
come la responsabilità personale e illimitata dei soci debba trovare attuazione
nell’ambito della procedura concorsuale: segnatamente, dispone che tale responsabilità
trovi attuazione attraverso il fallimento in estensione dei soci personalmente e
illimitatamente responsabili, cioè con il fallimento personale in proprio di questi ultimi
soggetti197.
Una simile regola viene poi specificata con riferimento all’ipotesi in cui la società
abbia nella sua compagine sociale un socio occulto, stabilendo che se, dopo il
fallimento della società, si accerta, attraverso opportuni indizi (ad esempio, sistematica
ingerenza della gestione della società; operazioni di finanziamento a favore della
società; ecc.), l’esistenza di un ulteriore socio (e, quindi, che il rapporto sociale si
estende al di là della cerchia dei soci palesi), allora il fallimento della società
dev’essere dichiarato anche nei confronti di quest’ultimo (art. 147, comma 4). In altre
parole, il fallimento della società (palese) viene esteso anche nei confronti di un
eventuale socio occulto, che così viene equiparato sul piano normativo ai soci palesi.
Ebbene, la teoria dell’imprenditore occulto prende spunto da questa disposizione
per dimostrare l’irrilevanza del criterio della spendita del nome, ai fini
dell’imputazione dell’impresa.
In particolare, si afferma che il trattamento normativo riservato dall’art. 147 alla
società palese con socio occulto non possa non essere replicato anche alla società
occulta, cioè di una società i cui soci tranne uno sono occulti e, di conseguenza, con
essi resta occulto anche lo stesso rapporto sociale. La conclusione riposa sull’assunto
che la società palese con socio occulto si distingua dalla società occulta solo in ragione
di un elemento quantitativo, vale a dire del numero dei soci che costituiscono le
rispettive compagini sociali: nel senso che, nel primo caso (società palese), la società è
costituita da tre soci, di cui due palesi (e con essi è palese anche la società) ed uno
occulto; nel secondo caso (società occulta), la società è invece costituita da due soci, di
cui uno palese (che allora esercita l’impresa a suo nome e appare come un imprenditore
individuale) e un altro occulto (e con esso resta occulta anche la società). Di
conseguenza, sarebbe inammissibile un diverso trattamento normativo delle due realtà
societarie esclusivamente per ragioni di questo tipo: in ragione del numero dei soci che
costituisce la compagine sociale198.
Pertanto, se da quanto precede discende che la società occulta assume la qualifica di
imprenditore con conseguente assoggettamento alla disciplina dell’impresa (ivi
197
Sul fallimento in estensione, quale meccanismo cui tradizionalmente nel diritto italiano è affidata
l’attivazione della responsabilità personale e illimitata dei soci di una società fallita, NIGRO, Il fallimento
del socio illimitatamente responsabile, Milano, 1974, 517 ss. e 529 ss.
198
In questi termini, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 12 ss.; ID., Difesa dell’«imprenditore occulto», 42 ss.
Antonio Cetra
83
comprese le procedure concorsuali), è evidente che risulta normativamente confermato
l’assunto iniziale: ossia, che l’imputazione dell’impresa prescinde dalla spendita del
nome ed è piuttosto legata all’interesse perseguito199.
4. Le conclusioni in ordine all’imputazione dell’impresa.
La conclusione cui perviene la teoria dell’imprenditore occulto appare sorretta da
un percorso argomentativo che non resta immune da critiche e, non a caso, essa ha
avuto nel corso del tempo un’accoglienza tutt’altro che lusinghiera nella
giurisprudenza teorica e pratica200. Nondimeno, non può essere ormai ulteriormente
trascurato che tale conclusione è stata parzialmente sugellata dal dato normativo e, in
particolare, dagli artt. 24, comma 1, d. lgs. 8 luglio 1999, n. 270 e, soprattutto, 147,
comma 5, l. fall. 201.
In particolare, entrambe queste disposizioni si riferiscono all’ipotesi di un’impresa
individuale per la quale sia stato accertato giudizialmente lo stato di insolvenza: nel
primo caso, quale accertamento prodromico alla verifica della sussistenza dei
presupposti per l’apertura dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
stato di insolvenza (artt. 27 ss. d. lgs. 270/1999); nel secondo caso, quale condicio sine
qua non per la dichiarazione di fallimento (art. 5, comma 1, l. fall.).
In entrambe le norme si dispone che se dopo la dichiarazione di insolvenza (e,
quindi, di fallimento) emerge, attraverso opportuni indizi, che l’imprenditore dichiarato
insolvente (e, eventualmente, fallito) sia in realtà legato ad un altro soggetto da un
rapporto di società, in cui tanto il primo quanto il secondo sono soci illimitatamente
responsabili, allora gli effetti della dichiarazione di insolvenza (e, quindi,
In questi termini, ancora, BIGIAVI, L’imprenditore occulto, 18 ss.; ID., Difesa dell’«imprenditore
occulto», 48 ss.
200
In particolare, la dottrina, oltre a contestare il postulato da cui muove la teoria dell’imprenditore occulto
(cioè, la relazione tra potere e rischio), ravvisa, quale principale punto debole dell’argomentazione che la
sorregge, l’assunto secondo cui tra società palese con soci occulti e società occulta vi sia soltanto una
differenza quantitativa nel numero di soci che costituiscono la compagine sociale (esemplarmente, tre soci
nella prima e solo due nella seconda), con il che trascurando la profonda differenza qualitativa (e gli
inevitabili corollari che ne discendono in punto di imputazione dell’impresa) che deriva dal fatto che nella
prima resta occulta solo la partecipazione sociale mentre nella seconda resta occulto tutto il rapporto sociale
(ASCARELLI, Problemi giuridici, 435 s., 458 ss., 479 ss.; ID., Corso, cit., 234 s.; MINERVINI, op. cit., 161 s.;
RIVOLTA, Gli atti d’impresa, cit., 1654 s.; CASANOVA, op. cit., 48 s.; LIBONATI, 26 s.; CAMPOBASSO, I, 94
ss.). Invece, la giurisprudenza si è spinta non di rado fino al punto di riconoscere alla società occulta la
qualifica di imprenditore (tra le altre, Cass., 26 marzo 1997, n. 2700, in Fallimento, 1997, 1009; Cass., 30
gennaio 1995, n. 1006, in Fallimento, 1995, 919; Cass., 15 marzo 1995, n. 2981, in Giur. it., 1996, I, 1, 78)
mentre è stata univoca nel rifiutare il passaggio successivo verso il riconoscimento della medesima qualifica
al dominus persona fisica (tra le altre, Cass., 19 febbraio 1999, n. 1396, in Fallimento, 1999, 1342 e, per
altri riferimenti, IANNELLI, L’impresa, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale,
fondata da Bigiavi, Torino, 1987, 105 ss.): posizione, quella giurisprudenziale, che sembra trovare riscontro
anche in dottrina, GALGANO, L’imputazione, cit., 115; ID., voce Imprenditore occulto e società occulta, cit.,
4.
201
Il punto è sottolineato da BONFANTE-COTTINO, op. cit., 575 s.
199
84
L’impresa
eventualmente, il fallimento) devono estendersi anche nei confronti del soggetto
successivamente scoperto.
In altre parole, le disposizioni richiamate contemplano l’ipotesi in cui un’impresa
all’apparenza individuale venga esercitata per conto di una società occulta ed
equiparano la società occulta alla società palese con soci occulti: proprio come
prospettava alcuni decenni fa la dottrina di cui si è riferito il pensiero.
Pertanto, se, alla luce dei due dati normativi ricordati, non sembra più revocabile in
dubbio che un’impresa esercitata per conto di una società occulta debba imputarsi
proprio alla società occulta, non sembra più neanche azzardato verificare se, in base
agli stessi dati normativi, sia possibile generalizzare la conclusione anche con
riferimento a casi in cui un’impresa sia esercitata per conto di un soggetto diverso da
una società parimenti rimasto occulto202. Il che è quanto dire che bisogna accertare se
tali dati normativi possano considerarsi come norme eccezionali (e, quindi, applicabili
solo alla fattispecie contemplata) o come norme che esprimono un principio più
generale (e, quindi, estensibili in via interpretativa ad altri analoghi contesti)203.
La questione è tutt’altro che agevole e non può essere compiutamente affrontata e
risolta in questa sede.
Sembra tuttavia opportuno a chi scrive condividere con il lettore la preferenza per la
seconda alternativa, cioè per l’idea secondo cui si possa ravvisare nelle norme divisate
un criterio di imputazione dell’impresa di portata più generale.
Ed invero, sostenere il contrario, sostenere, cioè, che l’imputazione dell’impresa
prescinda dal nome speso e si leghi all’interesse perseguito solo quando tale interesse è
di una società, equivarrebbe a sostenere che la sistemazione degli interessi sollecitati
dall’impresa debba essere diversa a seconda che il soggetto che ha speso il nome abbia
perseguito anche un interesse altrui (quello del socio occulto) o solo un interesse
altrui (quello del dominus); in altre parole, a seconda del tipo di rapporto che lega il
primo al secondo soggetto: se un contratto di società o se un contratto di
interposizione; in termini ancora diversi, a seconda di quanto hanno convenuto tra di
loro il primo e il secondo soggetto. Conclusione che sembra francamente inaccettabile
nell’ambito di un’esperienza normativa nella quale il presupposto per la relativa
applicazione è fondato – per le ragioni già illustrate (v., supra ) – rigorosamente su dati
oggettivi necessariamente sottratti alla discrezionalità delle parti in causa.
Senza trascurare che la preferenza per la seconda alternativa è avallata anche
dall’esigenza di arginare le ricordate modalità improprie di esercitare l’impresa in
regime di responsabilità limitata, con l’inevitabile trasferimento ultra modum del
rischio di impresa nei confronti dei creditori. Essa costringe un soggetto che intende
esercitare un’impresa senza esporre il suo patrimonio al rischio di impresa di servirsi,
Ed invero, come si è già ricordato (v., supra, nt. ?), una delle critiche alla teoria dell’imprenditore
occulto insisteva proprio sul tentativo di equiparare la società palese con soci occulti alla società occulta,
sicché una volta che quest’ultima è stata consacrata sul piano normativo diventa senz’altro più agevole
passare da questa ad altre fattispecie di dominus rimasti occulti (JAEGER-DENOZZA-TOFFOLETTO, 29 s.; v.
però le perplessità sulla possibilità di qualificare la società occulta come società in senso tecnico avanzate a
suo tempo da ASCARELLI, Corso, cit., 240 s.).
203
Nel primo senso, CAMPOBASSO, I, 96 s.
202
Antonio Cetra
85
non già di un prestanome, magari nullatenente, ma delle strutture ad hoc messe a
disposizione dall’ordinamento: le società204.
Come sarà visto a suo tempo (v., infra, ), il diritto societario mette a disposizione
dei privati due strutture attraverso le quali è possibile esercitare, anche
individualmente, un’attività di impresa in regime di limitazione di rischio: la società a
responsabilità limitata e la società per azioni. Tuttavia, tali strutture impongono di
esercitare l’impresa secondo determinate regole comportamentali, che sono
essenzialmente, regole di organizzazione patrimoniale e regole di pubblicità: regole,
cioè, che possono essere considerate le condizioni minime in presenza delle quali
l’ordinamento consente lo svolgimento di un’iniziativa imprenditoriale in regime di
limitazione di rischio: regole che, perciò, non possono essere eluse o pretermesse
attraverso l’utilizzo di forme giuridiche non approntate per l’esercizio di un’impresa a
responsabilità limitata205.
D’altra parte, ad una tale conclusione perveniva anche la dottrina che ha sviluppato la
teoria dell’imprenditore occulto, la quale era dell’avviso che se un soggetto vuole esercitare
un’impresa a responsabilità limitata deve farlo diventando socio sovrano di una società,
quindi per il tramite di una società. Tale dottrina si affrettava a precisare che il socio sovrano
deve esercitare l’iniziativa osservando le regole comportamentali prescritte nel tipo
societario prescelto. Se invece il socio sovrano non osserva queste regole, cioè usa la società
come «cosa propria», «togliendo e mettendo, facendo e disfacendo e infischiandosene più o
meno allegramente delle norme di diritto societario», allora il socio sovrano si trasforma in
socio tiranno. Ed il socio tiranno non usa ma abusa della società ed è assimilabile al
dominus che si serve di un prestanome nullatenente. Il socio tiranno acquisisce perciò la
qualifica di imprenditore: è, in altri termini, un imprenditore occulto206.
204
Per considerazioni sostanzialmente analoghe BONFANTE-COTTINO, op. cit., 576 ss.; JAEGER-DENOZZATOFFOLETTO, 30 s.; SPADA, I, 136 ss. E v. anche le considerazioni in chiave storica di MONTALENTI,
Persona giuridica, gruppi di società, corporate governance. Studi in tema di società per azioni, Padova,
1999, 53 ss.
205
Così, SPADA, I, 138 s.
206
Così, BIGIAVI, Fallimento di soci sovrani, 697; ID., L’imprenditore occulto nelle società di capitali, 153;
ID., Responsabilità, 1181; più in generale, ID., «Imprese» di finanziamento, 80 ss.
Nella prospettiva di Bigiavi, resterebbe comunque da comprendere quando in concreto le condotte di cui
si parla nel testo possano essere qualificate come fenomeno di tirannia, esponendo, quindi, chi le pone in
essere a responsabilità per le obbligazioni di impresa (sul punto, ricostruendo la questione in termini di
abuso della persona giuridica, GALGANO, Delle persone giuridiche. Art. 11-352, in Comm. Scialoja-Branca,
2006, 42 ss.; più in generale, sull’abuso della persona giuridica, ZORZI, Abuso della personalità giuridica:
tecniche sanzionatorie a confronto, Padova, 2002, 1 ss.) e quando, invece, rappresentino un illecito gestorio
sanzionabile con la responsabilità per danni (eventualmente, nella variante della responsabilità da direzione
e coordinamento non conforme ai principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale: sulla quale, da
ultimo, VALZER, La responsabilità da direzione e coordinamento di società, Torino, 2011, 35 ss.).