Capitolo 31
La politica macroeconomica in uno Stato
membro dell’Unione Monetaria
La Figura 31.3W mostra la situazione economica di
uno Stato membro. I tassi di interesse sono stabiliti
dalla BCE a Francoforte. Dal punto di vista di un singolo Paese, è come se la curva LM fosse orizzontale
in corrispondenza di un tasso di interesse r0. Si supponga che la posizione iniziale della curva IS determini l’equilibrio in corrispondenza del punto A. La
domanda aggregata è al livello del PIL potenziale.
A questo punto, uno shock fa contrarre la curva
IS fino a IS1. In un contesto di sovranità monetaria, il
Paese potrebbe ridurre il livello del tasso di interesse
per ristabilire il reddito di piena occupazione in corrispondenza di C. Lo stesso potrebbe ancora accadere
nell’Unione Europea se la situazione economica del
Paese fosse strettamente correlata a quella degli altri
Paesi membri: in tal caso, infatti, la BCE reagirebbe
a quello che sta accadendo in tutti i Paesi, riducendo
per tutti i tassi di interesse.
Tuttavia, nel caso in cui nessun altro Paese si trovi
a fronteggiare il medesimo shock della curva IS, e il
Paese in questione sia troppo piccolo per esercitare
una qualunque influenza sull’Unione tale da portare
a una reazione della BCE, allora i tassi di interesse
rimarranno al livello r0. A questo punto, il Paese ha
Tasso di interesse
IS 1
r0
B
C
Y1
LM
A
IS
Y0
Prodotto nazionale
Figura 31.3W Un Paese membro dell’Unione
Monetaria Europea.
Un piccolo Paese membro della UME fronteggia una
curva LM orizzontale in corrispondenza del tasso di
interesse stabilito dalla BCE. Se la curva IS si sposta fino
a IS1, il tasso di interesse sarà diminuito solo a
condizione che l’intera UME sia interessata dallo shock.
Altrimenti, la recessione del singolo Stato ridurrà
gradualmente i prezzi e i salari al suo interno, stimolando
la competitività e spostando la curva IS1 verso destra.
Una politica fiscale espansiva potrebbe velocizzare
questo spostamento.
d
L’integrazione europea
1
due alternative. A patto di non contravvenire alle condizioni imposte dal Patto di Stabilità, può utilizzare
la politica fiscale per portare IS1 verso destra oppure
può aspettare che sia il mercato del lavoro a farlo.
In che modo? In B, il Paese è in fase recessiva.
Questo gradualmente fa diminuire i salari e i prezzi.
Al livello del tasso di cambio nominale fissato nei
confronti dei suoi partner, questo renderà il Paese più
competitivo. Maggiori esportazioni e minori importazioni sposteranno la curva IS1 verso destra. Se la flessibilità dei prezzi e dei salari è abbastanza elevata, potrebbe addirittura non essere necessario alcun intervento di politica fiscale. Tuttavia, poiché molti mercati europei del lavoro sono piuttosto rigidi, è assai
probabile che l’impiego di strumenti di politica fiscale
possa accelerare il processo.
Un’ultima considerazione. Se non vengono modificati l’aliquota fiscale e i livelli di spesa pubblica, un
allentamento della politica fiscale durante un periodo
di recessione viene ottenuto solo con gli stabilizzatori
automatici. Tuttavia, poiché questi strumenti non possono prevedere il futuro, essi sono messi in atto solo
dopo che il reddito è diminuito, non prima. Nel 2001,
l’Europa è stata colpita da due shock della domanda:
la recessione degli Stati Uniti in seguito all’esplosione
della bolla speculativa delle dot.com e il crollo della
fiducia degli investitori dopo gli attentati terroristici
dell’11 settembre.
Dato che l’economia reale stava attraversando un
periodo di stagnazione, occorreva del tempo affinché
questi shock causassero una diminuzione del reddito,
dell’occupazione e dell’inflazione. Ma dal 12 settembre tutti sapevano che sarebbe successo. Idealmente,
si sarebbero dovute utilizzare le politiche della domanda per controbilanciare questi shock della domanda.
Se la politica fiscale resta perlopiù confinata soltanto
all’utilizzo degli stabilizzatori automatici, che tengono
conto solo del passato, l’unica via per una politica economica orientata al futuro potrebbe essere quella che
utilizza i tagli dei tassi di interesse. Infatti, questi si
sono fortemente ridotti, almeno fino a tutto il 2005.
Quindi, l’ordinamento fiscale dell’UME fa aumentare l’importanza della politica monetaria come
mezzo di reazione agli shock, soprattutto prima che
questi abbiano pienamente esercitato i loro effetti sul
prodotto e sul livello dei prezzi.
31.5
d
L’Europa centrale e orientale
Per 40 anni, dopo il 1945, l’Europa centrale e orientale
ha vissuto sotto il rigido controllo politico ed economico di Mosca, cioè di una potenza a economia completamente pianificata, dove le forze di mercato giocavano un ruolo realmente marginale. Le inefficienze
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2
Parte 5
d
L’economia mondiale
Tabella 31.4W La Comunità Europea negli anni
1988-1989
Dollari pro capite di...
PIL
Debito estero
Germania orientale
9300
1300
Cecoslovacchia
7600
400
Ungheria
6500
1900
Bulgaria
5600
1000
Polonia
5600
1100
Romania
4100
0
Fonti: American Express, Amex Bank Review, novembre 1989; HM
Treasury, Economic Progress Report, 1990.
della pianificazione non hanno tardato a manifestarsi:
lo stock di capitale era logoro, scarsi gli incentivi, bassa la produttività.
La Tabella 31.4W convalida due considerazioni
sull’Europa centrale e orientale alla vigilia della riforma. Essa mostra come fosse basso lo standard di
vita medio in confronto con quello della maggior parte
dei Paesi occidentali. Nel ricco Nord-Europa, il reddito pro capite nel periodo 1988-1989 era in media di
20 000 dollari l’anno. Dalla Tabella 32.4 è inoltre possibile dedurre il fallimento dei tentativi di risollevare
le economie pianificate, durante gli anni Settanta, attraverso i prestiti provenienti dall’Ovest. Nazioni come l’Ungheria e la Polonia sono rimaste con i loro
debiti, senza averne tratto alcun beneficio.
Le inefficienze della pianificazione hanno spesso
lasciato incompleti interi progetti di investimento, con
conseguente spreco di risorse. Alcuni Stati creditori
occidentali hanno parzialmente cancellato i debiti di
alcuni Paesi orientali. A Londra è stata creata la Banca
Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS)
per finanziare investimenti di Paesi occidentali nelle
economie riformiste dei Paesi ex comunisti.
La riforma dell’offerta
Le economie in transizione sono quelle che stanno passando da una pianificazione centralizzata a un’economia
di mercato.
In passato, le decisioni sulla produzione, sugli investimenti e sull’occupazione venivano perlopiù assunte
dai burocrati. Una maggiore attività portava con sé
maggior prestigio, anche se le risorse utilizzate erano
maggiori del reddito che con esse veniva prodotto. Attuare una riforma dell’offerta significava in primo luogo lasciare al meccanismo dei prezzi il compito di allocare le risorse nel sistema. Questo ha comportato
diverse conseguenze.
Innanzitutto, i prezzi dovevano riflettere la reale
scarsità delle risorse. In un regime centralizzato, i prezzi venivano mantenuti a un livello artificialmente basso. In tal modo, il tasso di inflazione risultava, a sua
volta, piuttosto basso, ma i dati dai quali veniva derivato non potevano considerarsi realmente attendibili.
A quei prezzi, da un lato i consumatori non riuscivano
a trovare sul mercato molte categorie di beni, dall’altro, alle aziende risultavano introvabili alcune tipologie di fattori produttivi. La situazione era, pertanto, caratterizzata da un cronico eccesso di domanda.
Liberalizzare i prezzi significava inevitabilmente
lasciare che essi fossero liberi di aumentare. Nel gennaio del 1990, primo mese della riforma polacca, venne registrata un’inflazione del 70%, per un tasso annuale di quasi il 1000%. Ma questo fu un fenomeno
eccezionale. Anzi, fu proprio grazie al meccanismo di
mercato che aveva portato con sé l’aumento dei prezzi
che i produttori si resero conto che era arrivato il momento di aumentare la produzione.
In ogni caso, il successo di un’economia non può
dipendere esclusivamente dalla liberalizzazione dei
prezzi di mercato. Occorre che vi sia anche una risposta efficace anche dal lato dell’offerta. Con ogni
probabilità i burocrati, che sino a quel momento avevano gestito le imprese statali, non erano le persone
più indicate per raccogliere la nuova sfida del mercato
e per cominciare a gestire imprese private. Molte imprese furono privatizzate. Lo scopo della privatizzazione non era tanto quello di aumentare le entrate del
Governo – tenendo anche conto del fatto che i consumatori non avevano una grande disponibilità economica – quanto quello di indurre i dirigenti delle
nuove imprese a ragionare in una logica di profitto.
Furono sperimentate diverse strategie di privatizzazione. L’Ungheria cercò acquirenti esteri disposti a
contribuire con denaro contante e competenza manageriale. La Repubblica Ceca diede ai suoi cittadini dei
voucher che offrivano loro il diritto di acquistare azioni nelle aziende che venivano privatizzate. La verità
era che, nonostante l’apparenza di una rapida privatizzazione in atto, molte di queste vennero acquistate
da banche di proprietà dello Stato. In Russia, alla privatizzazione si accompagnarono forti sospetti circa il
coinvolgimento del crimine organizzato.
Commercio e investimenti esteri
Le economie dell’Europa orientale avrebbero chiaramente avuto bisogno di mercati di sbocco per i propri
prodotti, nell’ipotesi in cui la produzione fosse cresciuta rapidamente. Di sicuro, la pressione della concorrenza estera era uno stimolo potente per un rapido
miglioramento della produttività, anche se ciò poteva
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Capitolo 31
comportare fenomeni di disoccupazione nel breve periodo, mentre venivano realizzati i necessari adeguamenti, in parte inevitabilmente dolorosi.
Il mercato naturale per i prodotti delle economie
orientali era ovviamente rappresentato dai Paesi
dell’Unione Monetaria. Molti Paesi dell’Europa
orientale hanno firmato gli Accordi Europei per divenire membri dell’Unione Europea. Si trattava di accordi che consentivano rapide manovre per liberalizzare gli scambi commerciali di molti beni, anche se
perlopiù non riguardavano le categorie di beni più importanti. In questo modo, si cercava di evitare che le
industrie occidentali in declino potessero subire la
concorrenza delle importazioni di prodotti a basso costo dai Paesi dell’Europa centrale e orientale. In particolare, erano escluse le industrie dell’acciaio, l’industria tessile e il settore agricolo, che meglio si sarebbero prestati a fornire i prodotti all’Occidente.
La politica dell’Unione è stata probabilmente troppo protezionistica a questo riguardo. Consentire le importazioni dai Paesi dell’Europa orientale genera, in
realtà, tre grandi vantaggi per la stessa Unione. Innanzitutto, i consumatori dei vecchi Stati membri dell’Unione Europea non possono che trarre benefici dalla possibilità di acquistare prodotti a basso costo. Inoltre, la conseguente crescita economica dei Paesi dell’Europa orientale porterebbe a un ulteriore mercato
di sbocco proprio per le esportazioni dei produttori.
Bisogna anche ricordare che un insuccesso economico
nei Paesi dell’Europa orientale potrebbe condurre a
massicce migrazioni verso i Paesi occidentali, o addirittura a minacce di natura politica e militare. Di conseguenza, accordi di libero commercio rappresentano
il più opportuno e concreto investimento che l’Unione
possa effettuare per il successo dell’Europa orientale.
I Paesi dell’Europa orientale sono dotati di una
forza lavoro preparata. Oltre all’accesso ai mercati,
ciò di cui maggiormente hanno bisogno sono investimenti in capitale fisico e capacità manageriali per gestire aziende sempre più orientate al mercato. Anche
in questo caso, l’Occidente può rendersi utile e, in talune circostanze, lo ha già fatto con successo. Per
esempio, gli investimenti delle aziende del settore automobilistico per la costruzione di fabbriche nei Paesi
dell’Europa orientale sono stati massicci. Sotto il controllo di Volkswagen, Skoda ha decisamente migliorato la qualità della propria produzione.
Le condizioni macroeconomiche
del successo
Le economie in transizione necessitano di riforme dal
lato dell’offerta per far aumentare il prodotto potenziale, ma anche del supporto di un’adeguata politica
d
L’integrazione europea
3
macroeconomica. Occorrono prudenti politiche fiscali
e monetarie per tenere sotto controllo l’inflazione. Infatti, nella fase iniziale di un periodo di transizione,
l’inflazione è alta per due ragioni. In primo luogo,
dato che i prezzi vengono liberalizzati, essi aumentano fino a raggiungere il loro livello di equilibrio.
In secondo luogo, poiché i Governi hanno bisogno
di risorse da investire per portare a compimento il processo di transizione, ma hanno un basso prodotto potenziale e dunque una bassa base imponibile colpita
dalla tassazione, essi sono propensi a gonfiare, con
l’inflazione, le entrate reali. Altrimenti, dovrebbero rinunciare agli investimenti oppure imporre tasse così
alte che gli effetti distorsivi sarebbero troppo forti.
Man mano che la transizione procede con successo, il prodotto potenziale e il reddito aumentano e, così, anche a parità di aliquota fiscale, aumentano le entrate fiscali complessive. Gli investimenti cominciano
ad avere rendimenti decrescenti. Per entrambe le ragioni, il tasso di inflazione deve diminuire. Tuttavia,
i politici subiscono ancora molte pressioni che li inducono ad aumentare la spesa pubblica e non la tassazione. Delle buone e solide istituzioni possono aiutare i Governi a prendere le decisioni più sagge.
Quindi, l’indipendenza della banca centrale è importante nelle economie in transizione tanto quanto
nelle economie avanzate, poiché contribuisce ad assicurare l’attuazione di una responsabile politica monetaria. All’inizio del capitolo si è osservato come l’indipendenza della BCE non fu sufficiente a convincere
subito la Germania ad abbandonare l’ERM per l’Unione Monetaria. Ma i criteri di convergenza di Maastricht
e il Patto di Stabilità e Crescita inducono i Governi a
ridurre i deficit fiscali, e quindi la banca centrale, anche
nel caso in cui sia indipendente, non subisce pressioni
che la indurrebbero a stampare moneta.
Se ciò è stato vero per la matura Europa occidentale, è ancora più probabile che lo sia anche per i Paesi
in transizione dell’Europa centrale e orientale. Una responsabile politica monetaria deve essere incoraggiata
dalla pressione a evitare ampi deficit fiscali. All’inizio,
questa pressione fu esercitata dal Fondo Monetario Internazionale. Infatti, se un Paese vuole ottenere un prestito dall’FMI, deve accettare e mettere in atto il perseguimento di obiettivi riguardanti il deficit fiscale.
Se la pianificazione centralizzata era così
inefficiente, perché le cose sono peggiorate
con il passaggio al libero mercato?
L’Approfondimento 31.1 mostra che le economie nelle quali si sono attuate profonde riforme hanno avuto
diminuzioni di almeno il 25% del PIL nel periodo
1990-1992, prima della ripresa nel 1993 o 1994. Co-
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4
Parte 5
d
L’economia mondiale
Approfondimento 31.1
Il processo di transizione verso l’Unione Europea
La tabella sottostante mostra il livello di inflazione e
la crescita del reddito reale nei primi dieci anni del
processo di transizione. Dopo un periodo di forte crisi
iniziale, molti Paesi sembrano lanciati verso la crescita, anche se la Romania, la Bulgaria e l’Albania hanno
conosciuto brusche frenate.
Inflazione annua
19911993
19941996
Repubblica Ceca
29
10
Ungheria
27
23
Polonia
47
27
27
121
19971998
Variazione del reddito reale annua (%)
19992003
19911993
19941997
19982003
9
4
– 4,1
3,0
3,0
16
8
–5,3
2,8
3,0
14
4
–3,4
7,8
3,8
10
7
6
–8,1
8,0
3,9
12
8
8,5
–3,0
4,3
3,7
Europa
centrale
Slovacchia
Slovenia
Europa sud-orientale
Albania
115
15
27
5
–14,4
7,7
5,3
Bulgaria
160
120
294
7
–6,8
–3,5
4,7
Croazia
777
11
5
4
–13,4
6,4
5,0
Macedonia
760
22
2
4
–8,0
2,2
2,5
Romania
240
50
107
20
–4,0
2,2
–4,5
Estonia
334
32
10
3,8
–12,0
4,5
5,0
Lettonia
420
23
6
2,5
–15,0
2,9
6,2
Lituania
561
32
7
1
–14,5
1,5
7,3
Baltico
Fonte: BERS, Transition Report.
me si può spiegare il peggioramento della situazione
economica dopo l’abbandono di sistemi di pianificazione completamente centralizzati?
È necessario, in primo luogo, osservare che le statistiche potrebbero non essere attendibili. Prima che
i prezzi fossero liberalizzati, come veniva misurato il
PIL reale? Se i prezzi non riflettevano la scarsità, perché valutare il valore del PIL sulla base di prezzi così
poco significativi? Una possibile soluzione a questo
problema è quella di utilizzare i prezzi mondiali: si
misurano le quantità e poi si adottano i prezzi espressi
in dollari o marchi tedeschi. Gli economisti che hanno
impiegato questo sistema hanno riscontrato che alcune industrie producevano con un valore aggiunto negativo: usavano un ammontare di fattori produttivi
maggiore del valore dell’output che riuscivano a produrre. Se dunque il dato di partenza non è corretto,
non avrebbe senso confrontarlo con un dato di arrivo
basato su una misura completamente diversa. Correttamente misurato, il prodotto probabilmente diminuì
allora meno di quanto non apparisse a prima vista.
In secondo luogo, come accennato, era necessario
un periodo di restrizioni macroeconomiche per fermare l’aumento dei prezzi, per evitare che questo trascinasse aspettative di inflazione permanente. Per
esempio, dopo la liberalizzazione dei prezzi, nel gennaio del 1991 in Cecoslovacchia i prezzi aumentarono
del 25%. Ma già nel mese di luglio di quello stesso
anno l’inflazione era scesa a zero.
In terzo luogo, quando la ex Unione Sovietica cadde nella sua profonda crisi economica, la maggior parte dei Paesi dell’Europa orientale perse il principale
mercato per le esportazioni. Cercare di manovrare le
esportazioni verso Occidente era comunque un obiettivo di non rapida attuazione. Anche nell’Europa occidentale, la Finlandia visse una profonda recessione
quando i mercati della Russia subirono il collasso.
In quarto luogo, bisogna comprendere il peculiare
ruolo svolto dalle banche. La liberalizzazione dei
prezzi non introduce un’economia di mercato senza
inasprire i vincoli di spesa di tutti i soggetti economici, incluse le imprese. In Occidente, quando un’im-
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Capitolo 31
presa non è più in grado di funzionare, chiude o fallisce e le risorse vengono riallocate in usi più profittevoli. Nell’Europa orientale, le banche erano state
passive nella loro attività di credito, concedendo credito alle aziende di proprietà dello Stato per consentire
loro di fare fronte agli obiettivi di prodotto e di investimento stabiliti dai pianificatori.
Quando i prezzi furono liberalizzati, molte aziende statali registrarono perdite (come era prevedibile).
Ma nessuno le chiuse! Anzi, le banche di Stato concessero loro nuovi prestiti per fronteggiare i debiti già
contratti e le perdite finanziarie che si stavano ancora
verificando. Talvolta, una grande azienda di proprietà
dello Stato era anche l’unica a fornire lavoro in una
vasta area urbana e allora si diceva che essa era “troppo grande per fallire”. Le banche si comportavano in
questo modo, in parte perché erano anche loro di proprietà dello Stato e ancora avvertivano una responsabilità per l’occupazione del Paese e, in parte, perché
a loro volta i crediti – risultanti dai prestiti che avevano concesso a queste aziende – erano ormai irrecuperabili. Attirare l’attenzione sui debiti delle aziende
pubbliche avrebbe portato alla ribalta anche la reale
estensione dei problemi delle stesse banche.
I Governi, saggiamente, cominciarono a cercare di
ridurre i debiti inesigibili delle banche e poi avviarono
un processo di privatizzazione delle stesse banche. A
quel punto, erano le banche che dovevano provocare
i fallimenti delle imprese meno efficienti (che in Occidente sono provocati dai creditori). Solo in quel modo i prezzi potevano diventare lo strumento per allocare le risorse in maniera più efficiente. Invece, le vecchie imprese inefficienti continuarono a svolgere la
loro attività, mentre le nuove imprese trovavano difficile accedere ai prestiti.
Infine, si verificò il fallimento del controllo societario. Anche in Occidente non è sempre facile procurare incentivi efficaci per i manager (si veda il Capitolo 6). Nelle economie in transizione, il problema fu
particolarmente acuto. Dal canto suo, lo Stato cercava
di prendere le distanze dalle vecchie modalità di gestione centralizzata lasciando libere di agire le aziende
che un tempo gli erano appartenute. Chiaramente però, finché le imprese pubbliche non furono privatizzate, e quindi controllate dagli azionisti, ci fu un periodo di vuoto di controllo in cui i dirigenti delle
aziende poterono gestirle come meglio credevano. Potevano semplicemente rendersi la vita facile (per
esempio, concedere ingiustificati aumenti salariali a
tutti coloro che avanzavano pretese) o fare invece addirittura di peggio. In molti Paesi si assistette a fenomeni di “privatizzazioni spontanee”. In Occidente, si
sarebbe parlato di furti veri e propri.
L’esperienza delle economie in transizione conferma che l’adozione di un sistema di mercato, benché
d
L’integrazione europea
5
necessaria, non è di per sé sufficiente a garantire standard di vita elevati. I sistemi di mercato ben funzionanti, come gli iceberg, poggiano su basi solide, invisibili, ma molto profonde. Essi si caratterizzano per
la presenza di contratti che vengono applicati in maniera rigorosa e le cui controversie sono regolate nei
tribunali, conferendo così un clima generale di sicurezza e di fiducia. Esistono normative destinate a controllare il potere del mercato, applicate da pubblici ufficiali non corrotti. Il sistema fiscale è organizzato ed
efficiente e l’evasione fiscale da parte dei cittadini è
contenuta entro limiti tollerabili. Operano reti sofisticate di assistenza e previdenza sociale progettate per
le classi meno abbienti di cittadini.
La lista potrebbe continuare, ma già questi pochi
esempi mostrano che un sistema di mercato ben funzionante richiede la presenza di costose e complesse
infrastrutture e del tempo necessario affinché si consolidino fiducia e reputazione. Ciò ha due implicazioni. In primo luogo, la transizione richiederà tempo per
compiersi, soprattutto laddove il tessuto sociale è meno compatto. In secondo luogo, la creazione di sistemi
di mercato non può prescindere da costosi investimenti per la realizzazione di infrastrutture essenziali.
Nonostante ciò, l’Approfondimento 32.1 mostra
che molte economie, specie quelle dell’Europa centrale più vicine ai mercati dell’UE, stanno adesso crescendo in maniera costante. Esistono le basi perché
queste economie, nei prossimi decenni, crescano più
rapidamente dell’Europa occidentale.
L’allargamento dell’Unione Europea
Molte economie dell’Europa centrale e orientale desiderano entrare a far parte dell’Unione Europea per avere
pieno accesso a un mercato di vastissime dimensioni.
Questo a sua volta agisce da magnete per la realizzazione di investimenti interni, nel tentativo di trarre vantaggio dalla presenza di bassi salari al loro interno e di sicuri
mercati di sbocco all’esterno. L’Unione Europea, che
continua ad allargarsi, si è impegnata ad accettare nei
prossimi anni altre economie europee in transizione.
Disponendo di un forte potere contrattuale, sarà
l’Unione Europea a definire i tempi in cui si realizzerà
l’allargamento. Inizialmente, i nuovi ammessi diverranno membri del Mercato Unico. Le tariffe e le barriere non tariffarie saranno abolite.
Quindi, a giudizio dell’Unione, i Paesi ammessi
all’ingresso saranno “pronti” quando potranno con
piena sicurezza essere ammessi nel Mercato Unico.
Ciò significa, principalmente, che l’Unione riporrà la
sua fiducia nelle autorità di regolamentazione dei Paesi ammessi, giudicherà che questi siano in grado di
affrontare la competizione del Mercato Unico e valu-
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6
Parte 5
d
L’economia mondiale
terà che abbiano raggiunto una ragionevole stabilità
macroeconomica.
Con l’entrata nell’Unione Europea, i Paesi ammessi dovranno aderire all’ERM2, un sistema monetario con parità fisse ma occasionalmente modificabili, tra ognuno dei Paesi ammessi e l’euro. Ci saranno,
come di consueto in questo tipo di sistemi, delle parità
centrali e delle bande di oscillazione. I Paesi ammessi
resteranno nell’ERM2 finché non saranno in grado di
rispettare i criteri di convergenza di Maastricht. Dopo
di che, sarà concesso loro di adottare l’euro.
Quindi, diversi Paesi potranno far parte dell’UE
in diverse date, ed è possibile che restino nell’ERM2
per periodi di tempo diversi finché non saranno pronti
a far parte dell’area euro. I criteri di Maastricht richiedono che venga raggiunto un basso tasso di inflazione, che i deficit fiscali non siano eccessivi e che
non si verifichino delle svalutazioni nei due anni precedenti all’adozione dell’euro. Perciò, 2 anni è il periodo minimo di permanenza nell’ERM2.
L’allargamento dell’area euro avrà effetti
positivi?
La maggior parte delle economie in transizione europee ha un obiettivo principale: la piena appartenenza
all’Unione Europea e l’adozione dell’euro. Una volta
che il processo di transizione abbia permesso loro di
essere ammesse come possibili membri dell’Unione
Europea, non sarebbe meglio che fosse loro concesso
di adottare subito l’euro, potendo così evitare periodi
di incertezza e possibili attacchi speculativi durante il
periodo di adesione all’ERM2?
Approfondimento 31.2
Molti economisti ritengono che sarebbe economicamente più opportuno seguire una politica che permettesse loro, dopo l’ammissione all’Unione, di adottare subito l’euro. Tuttavia, l’Unione Europea ha esplicitamente eliminato questa possibilità per due ragioni.
In primo luogo, l’Unione Europea ha sempre adottato
ilprincipiochetuttiiPaesidevonoseguirelestesseregole.
Ciò limita le richieste per ottenere un trattamento speciale. Dato che i membri dell’Unione Monetaria hanno dovuto aderire all’ERM e rispettare i criteri di convergenza
di Maastricht, l’Unione vuole che tutti i nuovi membri
facciano lo stesso. Altrimenti, violerebbe il principio che
tutti i membri debbano seguire le stesse regole.
In secondo luogo, anche se un singolo Paese ammesso all’ingresso è piccolo relativamente all’intera
Unione, ammettere un gruppo, per esempio di 10 Paesi, significherebbe estendere in modo significativo il
territorio dell’eurozona. Se questi Paesi non fossero in
grado di soddisfare pienamente i criteri di convergenza
di Maastricht relativi al mantenimento di una bassa inflazione e di una disciplina fiscale, potrebbero distruggere la politica economica dei membri dell’eurozona.
Per esempio, se la BCE prestasse attenzione solo
all’inflazione media all’interno dell’eurozona, tollerare un’alta inflazione in molti Paesi porterebbe all’aumento dell’inflazione media e spingerebbe la politica monetaria ad aumentare i tassi di interesse.
L’Europa occidentale sarebbe colpita da un periodo
di recessione, mentre la BCE sarebbe impegnata a
combattere l’inflazione nei Paesi dell’Europa orientale. L’Europa occidentale preferisce mantenere fuori
dall’euro i Paesi ammessi all’ingresso nell’Unione
Europea finché non rispettino pienamente i tassi di inflazione e la disciplina fiscale dei Paesi membri.
L’ingresso nell’Unione Europea: oneri e onori
“Per più di dieci anni le imprese dell’Europa occidentale hanno sfruttato la vicinanza geografica dei Paesi
candidati all’Unione europea andando a impiantare
stabilimenti produttivi in questi Paesi, caratterizzati
da un vantaggioso saggio salariale. L’allargamento
porterà ai paesi ammessi alcuni benefici, ma anche
qualche onere.” (The Economist, 30 aprile 2004)
Il giorno successivo alla pubblicazione dell’articolo di
The Economist sopra riportato, dieci Paesi – la maggior
parte dei quali proveniente dall’Europa centrale e orientale – sono entrati a far parte dell’Unione Europea. I
nuovi Paesi membri hanno beneficiato di circa 110 milioni di dollari di investimenti diretti esteri (IDE) dal
1989. Ciò ha riguardato soprattutto la realizzazione di
stabilimenti di assemblaggio per beni che sarebbero poi
stati venduti nella vecchia Europa. È soprattutto la filiera
automobilistica, con marchi come Fiat, Peugeot o Volkswagen, a essere stata attratta dai bassi saggi salariali
di Polonia, Romania e Slovenia, pari al 10-15% della
media europea. Molte imprese hanno riconosciuto l’alto
livello di formazione e professionalizzazione del personale di quei Paesi: modelli altamente tecnologici, di produttori quali Audi, provengono oggi dall’Europa dell’Est.
Tuttavia, per poter entrare nell’Unione Europea, i
nuovi Stati membri hanno dovuto progressivamente
adeguare il proprio ordinamento interno a una legislazione europea comune (il cosiddetto acquis comunitario), adeguamento che si rivela sempre particolarmente
articolato e oneroso, soprattutto in materia di sicurezza, salute, orario di lavoro: tutte misure che determineranno un deciso aumento del costo del lavoro.
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