La nozione di irrazionalismo nella filosofia tedesca del XIX secolo

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La nozione di irrazionalismo nella filosofia tedesca del XIX secolo
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La nozione di irrazionalismo
nella filosofia tedesca del XIX secolo
Le “ragioni” dell’irrazionalismo
L’Ottocento è il secolo della scienza, nella quale si rende manifesto il successo di una
particolare forma di sapere razionale e, sia pur con tutte le necessarie cautele, la sua superiorità sulle altre forme di conoscenza, in particolare quella teologica e metafisica,
considerati due stadi precedenti rispetto al sapere scientifico.
Nella prima metà del XIX secolo si diffonde il positivismo, che dà inizio a una nuova battaglia per il progresso in nome della superiorità del metodo scientifico e del suo
modello di razionalità rispetto ai modelli di conoscenza del passato. Il compito della conoscenza umana per i positivisti non è la ricerca delle essenze o dei principi metafisici,
ma la scoperta delle leggi di natura. Questo presupposto porta, in particolare nel positivismo inglese, a una posizione agnostica rispetto alle questioni che vanno al di là di
quello che può scoprire la scienza.
Di contro, la fiducia riposta dai positivisti nel progresso tecnico e scientifico porta a
un’assolutizzazione quasi dogmatica del metodo e dei risultati della scienza e a una
concezione della storia come un evolversi naturale verso il progresso senza battute
d’arresto o regressioni. Questa visione decisamente ottimistica della vita e della società
umana viene criticata dai filosofi irrazionalisti.
Si prenda, ad esempio, Schopenhauer, che contro la bellezza della vita scrive:
«Questo mondo, campo d’azione di creature tormentate e angosciate che esistono
solamente in quanto l’una divora l’altra, in cui quindi ogni animale feroce è la tomba
vivente di mille altri e il suo sostentamento è una catena di crudeli uccisioni, in cui poi
insieme con la conoscenza si accresce la capacità di provare dolore, che nell’uomo
raggiunge dunque il grado supremo, e uno tanto più elevato quanto più egli è intelligente, – a questo mondo si è voluto adattare il sistema dell’ottimismo, dimostrandovi
che esso è il migliore fra quelli possibili.
L’assurdità di questa affermazione è clamorosa. Frattanto un ottimista mi intima di
aprire gli occhi e di dare un’occhiata al mondo, per vedere quanto esso sia bello, alla
luce del Sole, con i suoi monti, valli, fiumi, piante, animali e via di seguito. Ma allora il
mondo è un diorama? Queste cose sono certo belle a vedersi; ma essere queste cose è
tutt’altra faccenda. […]
Chi vuole brevemente esaminare l’affermazione secondo cui nel mondo il godimento
predominerebbe sul dolore, o per lo meno che essi si equilibrano l’un l’altro, paragoni
la sensazione di un animale che ne divora un altro con la sensazione di quest’ultimo».
Ulrich Horstmann, un interprete di Schopenhauer, così commenta:
«Si imputa all’ottimismo una grave mancanza di acutezza percettiva, di empatia creaturale e di compassione, insomma un’ottusità senza pari nei confronti del dolore che
opprime il mondo; conformemente a ciò, Schopenhauer non ha mai cessato di mostrarci
gli abissi della vita che si spalancano dietro la bella apparenza del rigoglio vitale».
La “ottusità senza pari” di cui parla Horstmann è paradossalmente quella della ragione.
Per Schopenhauer è proprio la razionalità la via più illusoria, perché pretende di ingabbiare il mondo e la vita entro i confini di concetti astratti, smarrendo il senso delle cose
proprio mentre le domina.
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Nell’irrazionalismo il momento della soggettività dell’uomo viene fatto valere in modo
radicale e posto contro l’oggettività della logica vincente del progresso e della necessità
del corso del mondo.
L’uomo conosce e interpreta il mondo attraverso molte facoltà di conoscenza. La ragione opera selezionando le informazioni e interpretandole attraverso principi e concetti; opera tanto meglio quanto più il suo oggetto è emotivamente lontano dal soggetto
pensante, quanto più la conoscenza può essere isolata nella sua purezza concettuale e
depurata dalla sfera della sensibilità, dal piacere e dal dolore, dal tono emotivo che
l’esperienza assume. In questo modo, però, sfugge alla ragione ciò che più importa,
l’essenza della vita.
Le filosofie irrazionaliste non sono affatto tutte pessimistiche, come quella di Schopenhauer: in tutte è comune la tesi che la vita sia la forza dominante, l’elemento essenziale del mondo. Che la vita sia male, come sostiene Schopenhauer e sospetta Kierkegaard, o la fonte creativa di ogni valore, come pensano Nietzsche e Bergson, in essa
l’elemento della conoscenza e quello dell’emozione sono inscindibilmente fusi: pertanto
la ricerca filosofica deve essere fondata su una facoltà di conoscenza che colga insieme i
due elementi. L’irrazionalismo ha quindi combattuto la ragione in nome dell’intuizione.
Irrazionalismo e dimensione estetica
I filosofi irrazionalisti hanno diversamente indicato la dimensione estetica della vita interiore dell’uomo come superiore via di conoscenza, sviluppando tematiche presenti anche nella cultura romantica.
L’arte, infatti, ha un rapporto privilegiato con le nascoste profondità della vita, che
pulsa in noi come volontà cosciente, ma anche come forza inconscia. Nell’arte vi è un
elemento di mistero, che introduce, in quanto tale, al mistero del mondo. Si pensi al
rapporto tra arte e religione: quale espressione della ricerca del divino è più diretta
dell’arte che si esprime nelle architetture delle chiese o nei canti religiosi? Non è forse
l’arte che ci aiuta a comprendere il senso della ricerca di Dio attraverso il clima spirituale che essa è capace di creare?
Nell’arte il senso profondo dell’opera è qualcosa di intimo, di vitale per l’artista, che
viene espresso con immediatezza attraverso l’opera stessa. L’arte può comunicare superando le barriere dello spazio e del tempo, ponendo in comunicazione uomini di differenti culture, vissuti in età diverse. Nell’ascolto di una poesia posso rivivere in me le
emozioni di un altro, posso a mia volta comunicare direttamente il mio mondo interiore
come gli strumenti della ragione (nella loro astratta universalità) non mi permettono.
L’arte ci parla di una altrimenti inesprimibile verità sul mondo.
Alcuni irrazionalisti hanno lucidamente concepito l’idea che la profonda esperienza
dell’uomo che scava nelle profondità del suo essere porti a un senso di vertigine e di
vuoto, perché pone l’uomo dinnanzi all’esperienza del nulla, e anzitutto del proprio
nulla. Da questo punto di vista è essenziale l’esperienza del dolore e del male.
Il razionalismo compie un enorme sforzo teorico per interpretare queste realtà negative come momento della razionalità complessiva del mondo. L’irrazionalismo, invece,
medita sull’impossibile riscatto del dolore della persona attraverso i superiori destini del
mondo. È il tema hegeliano del rapporto tra particolare e universale, ma l’irrazionalismo
non vede alcun universale, che è un’astrazione della mente, in cui l’esperienza del particolare possa risolversi.
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Critica filosofica
Presentiamo alcuni brani che sintetizzano due differenti interpretazioni della storia
dell’irrazionalismo ottocentesco.
Irrazionalismo come filosofia reazionaria borghese
La prima interpretazione dell’irrazionalismo è di György Lukács (1885-1971), filosofo
marxista ungherese che ha operato nella prima metà del Novecento. Il brano è tratto dalle prime pagine della Prefazione al saggio La distruzione della ragione (1954).
Nel presentare il suo studio, Lukács ne definisce sinteticamente gli obiettivi e la tesi
di fondo, secondo la quale l’irrazionalismo ottocentesco è stata una risposta reazionaria
della borghesia all’emergere delle forze progressiste.
In una prima fase, nell’età di Schelling, di Schopenhauer e di Kierkegaard,
l’irrazionalismo ha combattuto l’idea di progresso che dall’Illuminismo era giunta a
Hegel: l’idea di ragione, che guida lo sviluppo della cultura e della società, viene negata, e questa negazione va “oggettivamente” a vantaggio delle forze che combattono il
razionale progresso della società, cioè a vantaggio delle forze sociali della conservazione e della reazione, contrarie alle idee illuministe, alla Rivoluzione francese, e ai loro
esiti nella storia del primo Ottocento. Lukács non intende sostenere che gli autori siano
pienamente consapevoli di questo ruolo storico-culturale; intende però studiarne le idee
nella loro storicità e nei loro effetti oggettivi.
In una seconda fase, nell’età di Nietzsche, l’irrazionalismo si è contrapposto alla visione marxiana del mondo, ormai divenuta patrimonio della classe operaia. Il progresso
della società, che si muove verso la rivoluzione proletaria secondo i principi del socialismo “scientifico”(che ha interpretato materialisticamente la ragione dialettica di Hegel),
trova un ostacolo nella cultura borghese e ne viene oggettivamente rallentato.
Nell’interpretazione di Lukács, il fenomeno dell’irrazionalismo viene quindi considerato come una “distruzione della ragione”, che conduce “oggettivamente” al fascismo
come fenomeno storico tedesco ed europeo. È dunque da interpretare essenzialmente
all’interno del quadro della moderna lotta di classe, anche se lo specifico filosofico dei
singoli pensatori può riservare molte sorprese (segnalate da Lukács nel suo dettagliato
studio).
«L’irrazionalismo, di cui viene qui presentato l’affermarsi e l’estendersi a indirizzo
dominante della filosofia borghese, è solo una delle tendenze importanti nella filosofia
reazionaria borghese. Benché non vi sia praticamente filosofia reazionaria che non celi
un determinato elemento irrazionalistico, il campo della filosofia reazionaria borghese
è molto più ampio di quanto non sia quello della filosofia irrazionalistica, nel senso
proprio e rigoroso del termine. [...]
La storia della filosofia, alla stessa maniera della storia dell’arte e della storia della
letteratura, non è mai, come pensano i suoi storici borghesi, semplice storia di idee filosofiche o magari di personalità. I problemi e i modi di risolverli vengono stabiliti per la
filosofia dallo sviluppo delle forze produttive, dall’evoluzione sociale, dallo svolgersi
delle lotte di classe. Le linee fondamentali e decisive di una qualsiasi filosofia non possono essere scoperte se non in base alla conoscenza di queste primarie forze motrici.
[...] Il nostro argomento è pertanto la via della Germania a Hitler nel campo della filosofia. Occorre mostrare cioè in che modo questo processo reale si rispecchia nella filosofia, in che modo proposizioni filosofiche, in quanto riflessi nel pensiero dello svolgimento reale che condusse la Germania a Hitler, contribuirono ad accelerare questo
processo. [...] Una delle tesi fondamentali di questo libro e che non c’è nessuna Weltanschauung (interpretazione del mondo) “innocente”. [...]
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L’assumere posizione a favore della ragione oppure contro di essa decide al tempo
stesso dell’essenza di una filosofia come filosofia della sua funzione nello sviluppo sociale. Questo gia per il fatto che la ragione stessa non può essere qualcosa di neutrale
che se ne stia, senza prender partito, al di sopra dell’evoluzione sociale, ma rispecchia
sempre, e conduce al concetto, la razionalità concreta (o l’irrazionalità) di una situazione sociale, di una direzione di sviluppo; e con ciò la favorisce o la ostacola. [...]
L’opposizione delle diverse ideologie borghesi ai risultati del materialismo dialettico
e storico è il naturale fondamento della nostra esposizione, della nostra critica. Ma anche la dimostrazione obbiettiva e filosofica dell’incoerenza e contraddittorietà interna
delle singole filosofie è indispensabile se si vuol mettere davvero in concreta evidenza il
loro carattere reazionario.
Questa generale verità è particolarmente valida per la storia dell’irrazionalismo
moderno. Esso invero, come il nostro libro pretende di dimostrare, è sorto e ha operato
in continua lotta col materialismo e col metodo dialettico. Anche in questa polemica filosofica si rispecchia la lotta di classe. Infatti non è certo un caso che l’ultima e più evoluta forma di dialettica idealistica si sia sviluppata in relazione con la Rivoluzione
francese e specialmente con le conseguenze sociali di essa. Il carattere storico di questa
dialettica, i cui grandi precursori furono Vico ed Herder, trova un’espressione metodologicamente cosciente e logicamente elaborata soltanto dopo la Rivoluzione francese,
anzitutto nella dialettica hegeliana. Si tratta qui della necessità di difendere storicamente e di meglio definire il concetto di progresso pervenendo a una concezione di
gran lunga superiore a quella dell’Illuminismo. [...]
Il primo periodo importante dell’irrazionalismo moderno sorge perciò in opposizione al concetto idealistico e storico-dialettico di progresso; la via che va da Schelling a
Kierkegaard è al tempo stesso la via che conduce da una reazione feudale contro la Rivoluzione francese alla ostilità borghese verso il progresso.
Con la battaglia combattuta dal proletariato parigino nel giugno del 1848 e specialmente con la Comune di Parigi la situazione cambia in modo radicale: d’ora innanzi la Weltanschauung del proletariato, il materialismo dialettico e storico, sarà
l’avversario la cui natura essenziale determinerà l’ulteriore svolgimento
dell’irrazionalismo. Questo nuovo periodo ha in Nietzsche il suo primo e più importante
rappresentante.» [G. Lukács]1
Pensiero negativo e civiltà borghese
Di segno molto diverso è la seconda interpretazione, che presentiamo attraverso le parole di due studiosi italiani contemporanei, Gianni Vattimo e Giangiorgio Pasqualotto,
entrambi docenti universitari (il primo a Torino, il secondo a Padova) e attenti studiosi
della filosofia dell’Ottocento e del Novecento.
L’irrazionalismo, inteso come “pensiero negativo”, combatte la pretesa della ragione
di dominare la realtà, la natura e la storia, inquadrando tutto all’interno delle categorie
del pensiero. Da questo punto di vista, gli irrazionalisti hanno sottolineato il ruolo della
negazione, del dolore, della irrazionalità del mondo, mettendo in luce l’elemento “sostanzialmente totalitario” della razionalità. Il tema è quello, messo in luce dai romantici,
della lacerazione tra soggetto e oggetto, tra io e natura, tra ragione e sensibilità. Il pensiero negativo combatte come ideologico il tentativo razionalista di determinare una sintesi tra gli elementi contraddittori del reale attraverso la loro conciliazione nel pensiero
e lascia vivere all’uomo l’esperienza della contraddizione nella propria vita cercando altrove, al di fuori degli schemi razionali, una via di soluzione.
«Con Schopenhauer comincia nell’Ottocento il filone che si può a ragione chiamare
del “pensiero negativo”: liquidato l’atteggiamento ottimistico che culmina in Hegel, e
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che è ancora una estrema propaggine della fede illuministica nel progresso, questo
pensiero concepisce la razionalità realizzata (quella di cui Hegel parla nella famosa
pagina della Filosofia del diritto: tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale) come un meccanismo di tipo sostanzialmente totalitario a cui bisogna
sottrarsi. Alle forme dello Spirito Assoluto hegeliano (arte, religione, filosofia) viene
assegnato solo più questo compito negativo, ascetico.» [G. Vattimo] 2
«Pensiero negativo può significare un pensiero che non accetta, legittima, giustifica le condizioni di vita sociale e culturale dominanti. Questa prima definizione è tanto generica e ampia
che potrebbe applicarsi all’intera storia della filosofia, se non addirittura a tutta la storia del
pensiero. Per circoscriverla si può usare la determinazione civiltà borghese assunta come argomento del pensiero negativo. Ma questa determinazione può anche costituire un incremento
di genericità, soprattutto perché il termine borghese rimanda a una realtà storica, sociale e culturale talmente complessa da essere difficilmente definibile in modo univoco e unitario. Allora,
Balzac, Schopenhauer e Nietzsche possono servire come indicatori utili a restringere sia la genericità del termine pensiero negativo sia quella del termine borghese: se, infatti, rimane problematico stabilire la misura in cui il loro rapporto con la cultura e la società contemporanea è
stato più critico che apologetico, meno difficile risulta individuare i caratteri della cultura e
della società borghese che essi criticano. Uno di questi caratteri è senz’altro l’ideologicità; per
cui – a una seconda approssimazione –, si può dire che pensiero negativo vale come critica delle ideologie. [...]
Qui intendiamo per ideologia ogni proposizione e ogni giudizio che usi, rispettivamente,
termini e criteri posti o assunti come eterni, universali e assoluti, ossia concetti e principi fissati
o accettati come validi per ogni tempo, per ogni individuo e in sé. [...]
La storia dell’ irrazionalismo partecipa della storia del razionalismo smascherando e tentando di superare l’intrinseca incapacità della Ragione di rendersi adeguata alla totalità del
reale. [...] Gli avversari potenti che questa speculazione incontra nel suo tragitto sono Kant ed
Hegel [...]. L’attacco sferrato dall’irrazionalismo schopenhaueriano [...] è dichiarazione del
fallimento kantiano, proclamazione cioè dell’impossibilità di fare scienza delle cose, di dare
forma al mondo, di realizzare la sintesi tra rappresentazione soggettiva ed essenza oggettiva;
ed è nel contempo, protesta clamorosa contro la presunzione hegeliana di schedare il mondo, di
setacciarlo senza residui, di comporlo in un’unita che fa finta di non vedere la malattia mortale
che lo mina, la miseria che lo affligge, la contraddizione permanente che ne costituisce l’anima.
In entrambi i casi, la denuncia di Schopenhauer è smascheramento di un’illusione, della perenne illusione, che il pensiero borghese si porta con sé, di poter trovare una forma o uno schema,
una struttura o un piano, che sappiano razionalizzare la realtà, che siano in grado di rendere
effettiva la sintesi tra essere e Idea, che possano, insomma, attuare la pace e inaugurare i millenni della conciliazione.» [G. Pasqualotto]3
1
G. Lukács, La distruzione della ragione, trad. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1959, pp. 3-7.
2
Il brano presentato è tratto da G. Vattimo, Introduzione, in Estetica moderna, a cura di G. Vattimo, Il Mulino, Bologna 1977, p. 31.
3
I brani sono tratti da G. Pasqualotto, Pensiero negativo e civiltà borghese, Guida, Napoli 1981, pp. XI e 59-60.
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