Essere giovani nella seconda modernità

Essere giovani nella seconda modernità
Mario Pollo
Parte I. Le trasformazioni socioculturali
I giovani abitano il mondo che la cultura sociale, costruita dalle generazioni precedenti, ha tessuto.
Questo significa che la cultura sociale in cui sono nati ha segnato profondamente il loro progetto umano impastandosi in un tutto inestricabile con la loro natura personale.
Per comprenderli è, quindi, necessario descrivere questo mondo perché se non lo si fa si rischia di
scambiare i fatti culturali per comportamenti e atteggiamenti del mondo giovanile.
Questo è tanto più vero in questa fase storica in cui stiamo vivendo una trasformazione epocale che
secondo molti studiosi ci sta facendo uscire dalla modernità e conducendo in un epoca che non ha ancora un nome, se non quelli provvisori di seconda modernità, surmodernità, modernità liquida o modernità in polvere, e che si pensa sarà distante dalla modernità quanto lo è stata questa dalle epoche che
l’hanno preceduta.
Per comprendere a fondo questa trasformazione è necessario ricordarne alcune che la modernità ha
a suo tempo promosso e sulle quali questa odierna poggia.
Le trasformazioni culturali promosse dalla modernità
La modernità ha introdotto delle profonde trasformazioni culturali che hanno direttamente inciso
sulla dimensione religiosa e sull’orientamento temporale della vita umana.
L’obiettivo di queste trasformazioni era il mettere al centro della cultura sociale la razionalità strumentale e/o dell’economia e di eliminare, quindi, dalla cultura sociale tutto ciò che ostacolava un razionale calcolo dei risultati liberando lo spirito di iniziativa imprenditoriale dalle pastoie dei doveri familiari, dal tessuto degli obblighi etici, ecc.
Non è un caso perciò che l’ordine economico abbia imposto il suo dominio alla totalità della vita
umana, rendendo irrilevanti tutti gli altri accadimenti che in essa potevano manifestarsi.
Per raggiungere questo obiettivo la modernità doveva liberarsi dissolvendolo di tutto ciò che persiste
nel tempo, che è insensibile al suo passare e immune al suo fluire.
Questa liberazione doveva necessariamente passare sia attraverso la dissoluzione del sacro, che rappresenta, indubbiamente, il primo oggetto da dissolvere essendo esso, per antonomasia, ciò che manifesta l’atemporale e l’eterno nella vita della società, sia attraverso il ripudio e la detronizzazione del passato per mezzo della dissoluzione della tradizione che, come è noto, è il sedimento del passato nel presente 1 .
Il dominio della razionalità strumentale ha prodotto poi nella cultura sociale un atteggiamento iconoclasta che ha ridotto le immagini al rango subordinato delle illustrazioni, divenendo solo l’ombra, un
po’ maledetta, prodotta dalla luce della verità razionale.
Questa iconoclastia è stata generata dalla frattura tra la verità della fede, che utilizza sempre intermediari metaforici e immagini, e la verità della scienza fondata sul pensiero diretto.
Questo ha condotto non solo all’affievolirsi o, addirittura, all’eclissi totale della verità religiosa di
fronte a quella della scienza ma anche all’assorbimento della religione e della sua verità all’interno della
storia umana.
In questa iconoclastia, poi, sono evaporati i poteri ermeneutici (di riconduzione) delle immagini, dei
mediatori e degli intercessori e, quindi, anche i poteri del simbolo.
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Baumann Z., Modernità liquida, Laterza, Bari 2002.
La dissociazione dello spazio dal tempo
La modernità nasce quando lo spazio ed il tempo vengono disgiunti nell’esperienza della vita quotidiana. Il tempo si autonomizza dallo spazio quando la velocità di movimento non è più legata alla velocità di organismi o elementi naturali ma diventa una questione di ingegno.
In altre parole la velocità non dipendeva più dalla capacità di locomozione degli esseri umani o degli
animali, come ad esempio il cavallo, ma dall’invenzione di mezzi di locomozione come il treno,
l’automobile, l’aereo o di comunicazione come il telegrafo, la radio e il telefono.
La velocità è emersa come elemento importante nella definizione dello spazio perché ha fatto si che
le distanze perdessero la loro consistenza oggettiva per assumere quella soggettiva, fortemente dipendente dalla stessa velocità. Lo spazio-tempo sin da questa prima fase della modernità si è avviato sulla
strada che lo ha condotto a divenire uno spazio-velocità.
Il compimento della trasformazione dello spazio-tempo in spazio-velocità è pienamente in atto in
questa seconda fase della modernità per effetto dell’evoluzione degli strumenti di comunicazione, sia di
quelli del trasporto delle merci e delle persone che di quelli della trasmissione delle informazioni e dei
comandi dell’azione. Per questi ultimi la velocità di trasmissione è quasi prossima al limite (la velocità
della luce).
A questo proposito Virilio afferma:«Viviamo in un mondo fondato non più sull’estensione geografica, ma
su una distanza temporale che viene costantemente ridotta dalle nostre capacità di trasporto, trasmissione e azione telematica … il nuovo spazio-velocità non è più uno spazio-tempo» 2 .
Per questo studioso «la velocità non è più un mezzo , ma un milieu; si potrebbe dire che la velocità è una
sorta di sostanza eterea che satura il mondo e nel quale viene trasferita sempre più azione, acquisendo in questo
processo nuove qualità che solo tale sostanza rende possibili- e ineluttabili» 3 .
I fenomeni sociali, economici e tecnologici che sono alla base della formazione dello spazio-velocità
hanno avuto dei profondi effetti anche sul vissuto del tempo, in particolare, come si vedrà più avanti,
ha trasformato il tempo noetico in tempo spazializzato.
Oltre a questa è necessario descrivere brevemente un’altra trasformazione promossa dalla modernità:
la complessificazione della società.
La complessificazione della società
L'espressione complessità sociale viene utilizzata normalmente per indicare la cultura caratteristica
delle società economicamente sviluppate e che, quindi, hanno vissuto al loro interno i processi di secolarizzazione e di modernizzazione e nelle quali la stragrande maggioranza degli abitanti vive condizioni
di libertà dai bisogni fondamentali e gode in misura sufficiente dei diritti sanciti dal moderno concetto
di democrazia.
La complessificazione è prodotta dal fatto che nella cultura sociale non ha più un unico centro simbolico ma ne possiede una pluralità.
Ora è necessario ricordare che il centro sociale non ha nulla a che fare con la geometria e pochissimo a che fare con la geografia. Perché questo è un centro che concerne il dominio dei valori e delle
credenze, ovvero è un centro simbolico. Si può dire che ogni società è governata da un centro che è di
tipo simbolico perché fa riferimento a valori e credenze 4 .
Il centro è tale perché rappresenta ciò che c’è di supremo, di importante, di irrinunciabile in una società. In una società complessa, più che ad un centro unico, si fa riferimento ad una zona centrale che
può essere formata da più centri. Infatti, il centro della società complessa ha una composizione eterogenea ed è differenziato dalle funzioni, dai desideri e dalle credenze che le sue parti esprimono. E non
di rado queste parti sono in conflitto tra loro per il predominio. In altre parole, in una società complessa il centro è costituito da una pluralità di centri che possono essere alleati, ma anche in conflitto e in
competizione. Nessuno di questi centri è in grado di esprimere un’egemonia nei confronti degli altri, nel
senso che in una società complessa ognuno di essi possiede pari dignità con tutti gli altri. Ci sono centri
Armitage J.(a cura di), Virilio Live: Selected Interviews, London 2001, pp.84,71.
Bauman Z., La società sotto assedio, Bari 2003, p.xx.
4 Shils E., Centro e periferia. Elementi di microsociologia, Morcelliana, Brescia, 1984.
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che si alleano e diventano magari egemoni, ma dopo poco questa egemonia viene superata da nuove alleanze.
Il centro è strutturato intorno a un sistema di valori e racchiude al suo interno una potenzialità di carattere ideologico. La potenzialità dinamica di una società è dovuta al fatto che essa normalmente vive
al di sotto dell’ordine dei suoi valori centrali. Ha un proprio sistema di valori che è al centro, ma di
norma vive a un livello più basso rispetto ad esso, perché non riesce a compierlo, a realizzarlo, a tradurlo in pratica. Ma proprio il fatto di vivere al di sotto di questo sistema di valori è ciò che crea una dinamica sociale: anzi è la dinamica sociale. Se le due posizioni coincidessero pienamente non si avrebbe
nessun tipo di dinamica perché il sistema sarebbe perfettamente stabile, anzi, in stallo.
L’esistenza di questo sistema centrale di valori è dovuta a un’esigenza di base che gli esseri umani
hanno: il bisogno di incorporarsi in qualcosa che trascenda e trasfiguri la loro esistenza individuale. Ogni uomo ha bisogno di identificarsi in qualcosa che trascenda, trasfiguri, nobiliti, arricchisca quella che
è la sua esistenza quotidiana individuale. Ogni uomo sente la necessità di porsi in contatto con un ordine simbolico superiore rispetto all’angustia del proprio corpo e della propria vita, eccedente rispetto al
mondo delle sue credenze.
La necessità di trascendenza è una necessità fondamentale dell’essere umano. È la stessa che fa sì che
neppure l’uomo realizzato possa rinchiudersi in se stesso, ma, ad esempio, avverta il bisogno
dell’amicizia, il bisogno di qualcuno da incontrare. Questo rientra, in fondo, nella dinamica identità/alterità di cui si parlerà nell’analisi della seconda modernità.
Questo elemento di trascendenza è quello che fa sì che ogni società abbia comunque bisogno di un
sistema di valori centrali. In ogni società la condivisione di questo sistema centrale è differenziata, perché non tutti condividono in eguale misura i valori, le credenze, i modelli che il sistema centrale propone. Nella società complessa c’è una condivisione del centro molto più ampia di quanto mai sia accaduto
in tutte le società del passato; ma nonostante questo esiste ancora un diverso grado di differenziazione,
una disuguaglianza nella partecipazione al sistema di valori centrale dovuta alle professioni, alla tradizione, alla normale distribuzione delle qualità umane, agli antagonismi, a tutta una serie di fenomeni che
differenziano la partecipazione. Questo significa che ci saranno certe persone più vicine (nel grado di
condivisione) al centro, mentre altre ne saranno più lontane.
Il centro quindi ha questo valore simbolico ed è il valore che struttura e costituisce una società, dunque, una città o un’area geografica.
Per quanto si è accennato il centro della società complessa non va pensato come quello delle società
non complesse, ovvero come costituito da un insieme di valori, di credenze, di ideali e da un potere egemoni, ma da quei valori, da quelle credenze e ideali, da quel potere e da quelle norme e modelli che
garantiscono la coesistenza non distruttiva di una pluralità di centri. Si potrebbe dire che il centro della
società complessa è un “meta-centro” che tesse insieme i vari centri in un tessuto sociale unitario.
Connesso al centro c’è il concetto di periferia, che indica tutte quelle persone che hanno una condivisione minore del sistema centrale. Neppure la periferia va intesa o è individuabile in senso geografico,
geometrico, fisico. Infatti, come il centro non coincide con quello fisico, anche la distanza che individua
la periferia sarà di tipo simbolico. Le periferie sono le zone più distanti in ordine alla condivisione dei
valori, delle norme, degli stili di vita e dei modelli che caratterizzano il sistema centrale. Nel caso della
società complessa più che di periferia occorrerebbe parlare di periferie, nel senso che essendo molti i
centri esistono molte periferie, oltre alla periferia delle periferie, ovvero la “meta-periferia”.
La complessificazione della società è accompagnata dalla crisi del limite prodotta dall’emersione del
pluralismo estremizzato e dalla centralità economica e sociale del consumismo.
La crisi del limite
Il concetto di “limite” con il suo opposto, “illimitato”, è, sin dalle origini, alla base del discorso intorno alla vita umana e alla civiltà, sia dell’occidente che dell’oriente.
Per quanto riguarda l’occidente basta riandare al pensiero greco antico e al concetto di άπειρου, che
spesso viene tradotto impropriamente con infinito, ma che, più propriamente, significa ciò che non ha
limite, e che è, quindi, illimitato.
L’illimitato, diversamente dall’infinito, come ricorda Aristotele nella fisica, «non è ciò al di fuori di
cui non c’è nulla, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa» 5 .
Questo significa che l’illimitato è per sua natura incompleto, oltre ad essere una «potenzialità non attuata e non attuabile» 6 , perché solo ciò che ha un limite, che è, quindi, limitato, è completo e ha una sua
attualità.
Un oggetto per esistere nel dominio dello spazio e del tempo deve essere perciò finito, rinchiuso nel
confine del limite.
Tuttavia se esistesse solo il limite, non esisterebbe il divenire e, quindi, la storia, né alcuna evoluzione, perché la tendenza di ogni oggetto è di permanere rigidamente all’interno dei confini di esistenza
imposti dal limite 7 .
L’illimitato, essendo, invece, il principio che tende a «ricondurre la realtà a uno stato informe e disorganizzato, ove ogni cosa perde la sua riconoscibilità come ente concreto e gli eventi appaiono slegati,
imprevedibili e suscettibili di una evoluzione priva di logica» 8 , dissolve l’ordine imposto dal limite creando una situazione fluida, che può però essere nuovamente solidificata dall’introduzione di un nuovo
limite.
Il divenire richiede perciò una sintesi del limite e dell’illimitato o, meglio, una sorta di dialettica continua tra il limitato e l’illimitato, in cui l’illimitato tenta continuamente di dissolvere il limite, ma questi si
ricostituisce continuamente assumendo nuove forme.
È a questa dialettica che allude Musil, quando nel romanzo “L’uomo senza qualità” fa dire ad un
personaggio «L’attitudine al bene, la quale in qualche modo è pur presente in noi, corrode subito le pareti se la si rinchiude in una forma fissa, e attraverso quella fessura si butta subito al male!… I sentimenti non sopportano di essere legati» 9 .
In altre culture, tra cui in particolare quelle dell’oriente, il discorso intorno all’illimitato si manifesta
attraverso la figura del mito, assumendo il volto della notte, del caos o di antiche divinità come la babilonese Tiâmat o la indù Mŗtyu.
«Tiâmat resasi colpevole di connivenza col Male, viene confinata dal dio Marduk al ruolo di estremo
residuo cosmico e Mŗtyu, la dea della morte e della fame, subisce la stessa sorte per mano dei Deva. Ma
dai confini del Mondo, il Nulla e l’Indefinito, così arginati, continuano a svolgere un ruolo ineliminabile
di avvolgimento (l’ άπειρου di Anassimandro è avvolgente: τό περιέχου) e sostentamento di tutte le cose, e ad essi tutto tende a ricondursi alla fine di ogni ciclo cosmico» 10 .
Anche nell’antica tradizione cinese confluita nel “Tao tê ching”, in termini decisamente più concettuali, viene descritto il ruolo dell’illimitato nella vita umana, laddove si dice che è «grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell’Essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini» 11 .
È comunque all’interno del confine, nel regno dell’Essere, che la vita ha luogo e il prodigio che si
può manifestare nell’oltrepassamento del confine è comunque sempre sul punto di smarrirsi nella disgregazione distruttrice.
È questo il rischio della vita umana, del suo evolversi in forme di civilizzazione sempre nuove. La distruttività è sempre il volto oscuro, latente al di sotto di ogni progresso.
Se il limite senza il suo opposto, l’illimitato, non produce storia ed evoluzione, la sua assenza produce il decadimento dell’uomo dalla condizione umana e lo introduce nel regno della distruttività e della
morte.
L’illimitato è come un veleno, che preso in piccolissime dosi e nel momento appropriato cura, ma
che se preso in dosi troppo grandi e nei tempi inappropriati uccide.
La vita, come si è già accennato, non può esistere senza il limite, anche se esso per continuare a
svolgere la sua funzione ha bisogno dell’incontro/scontro con il potere inquietante dell’illimitato.
Aristotele, Fisica, 203 b 20.
Zellini P.(1980), Breve storia dell’infinito, Adelphi, Milano, p.14.
7 Ivi, p.15.
8 Ivi, p.15.
9 Musil R.(1962), L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, p.731.
10 Zellini P.(1980), Breve storia dell’infinito, cit., p.18.
11 Tao tê ching, Mondadori, Milano, 1973, p.27.
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Nella consapevolezza dell’oriente e dell’occidente il limite rappresenta il profondo fondamento morale dell’uomo, come magistralmente indica il già citato personaggio di “l’uomo senza qualità” in un'altra parte del romanzo.
«Onestà, continenza, cavalleria, musica, la morale, la poesia, la forma, il divieto, tutto ciò non ha altro scopo più profondo che dare alla vita una forma limitata e precisa […] La felicità senza limiti non
esiste. Non vi è grande felicità senza grandi divieti. Anche negli affari non si può correre dietro a qualunque profitto, se non si approda a nulla. Il confine costituisce l’arcano del fenomeno, il segreto della
forza, della fortuna della fede e del problema di sostenersi, uomo microscopico, nell’universo sconfinato» 12 .
Una civiltà che smarrisce il valore del limite si condanna all’autodistruzione, o comunque a piombare
nella notte del caos, da cui solo il limite potrà trarla a nuova vita.
Nella dialettica tra il limitato e l’illimitato l’eccesso svolge una funzione centrale. Infatti, questa funzione può essere considerata quella che dissolvendo il limite apre la via all’irruzione nella dimensione
del finito del caos, delle acque primordiali in cui la creazione non si è ancora separata dalla distruzione.
L’eccesso appare, quindi, essere la via che l’illimitato può seguire per irrompere nel tranquillo territorio
del limitato o, con un altro linguaggio, che il Non-essere percorre per scompigliare il regno dell’Essere.
A causa della potenza distruttrice, ma anche creatrice, dell’illimitato ogni civiltà umana ha in qualche
modo cercato, al fine di proteggere la propria identità e la propria esistenza, di codificare, istituire il
rapporto con esso e, quindi, di controllare le forme dell’eccesso.
Nelle società più conservatrici l’eccesso era confinato in alcuni momenti sociali ritualizzati, come, ad
esempio, il carnevale, il sabba, i culti orfici, la guerra, ecc.. In questi momenti le normali regole sociali
erano abolite e il disordine e il caos potevano, per un periodo di tempo limitato, dissolvere i tradizionali
limiti della vita sociale e individuale delle persone.
L’eccesso poteva anche essere riservato ad alcune categorie particolari di persone, la cui condizione
di sacralità le poneva al di fuori dell’ordinario, dei limiti della vita profana, nel territorio del proibito.
L’uomo invaso dalla follia poteva, in alcune culture, essere riconosciuto come il portatore della sacralità, della diversità che è al di là dei confini, nel luogo proibito dell’illimitato.
Nelle società più aperte all’innovazione esiste un margine di tolleranza che rende possibile, anche se
stigmatizzata, la pratica dell’eccesso, solitamente a una parte minoritaria dei suoi membri, all’interno
della sua vita quotidiana.
Normalmente le società reali hanno un mix dei due tipi di controllo dell’eccesso, con la prevalenza
relativa di uno dei due.
Tutte queste forme di controllo tentano, a volte riuscendoci ma spesso fallendo, di usufruire della
potenza creatrice dell’illimitato senza il costo del disordine, del caos e della distruzione che esso può innescare nella vita della società e degli individui.
Non si da mai tuttavia una situazione in cui l’eccesso non lasci alle proprie spalle una striscia di distruttività, magari riferita a una piccola minoranza di persone e di situazioni.
Ogni forma codificata o spontanea di eccesso comporta sempre un qualche costo in termini di vite
umane perdute o incompiutamente realizzate.
Nelle società alle soglie della seconda modernità caratterizzate dalla complessità, la dialettica illimitato/limite ha subito delle profonde trasformazioni. In alcuni casi è stata addirittura delegittimata.
Infatti, molte proposte teoriche e pratiche elaborate dalla cultura sociale odierna non solo hanno, di
fatto, demolito molti dei limiti che tradizionalmente segnavano la vita individuale e sociale, ma hanno
addirittura negato il valore del limite nella vita umana.
Questo perché la complessità sociale, con il sostegno dell’ideologia consumista che la pervade, ha
enormemente dilatato lo spazio di espressione del desiderio, che appare, quindi, molto più ampio che
nel passato, così come il rifiuto dei codici normativi entro cui si definisce lo spazio esistenziale delle
persone e, quindi, della realizzazione dello stesso desiderio.
Questa crisi del limite si manifesta nella vita di molti giovani come ricerca ossessiva dell’eccesso,
quasi che l’appagamento della loro sete di vita, di godimento e di felicità possa avvenire solo attraverso
12
Musil R.(1962), L’uomo senza qualità, cit., p.488.
forme che si collocano al di là dei limiti, attraverso cui la cultura sociale si propone di difendere se stessa unitamente all’integrità bio-psichica delle persone.
La ricerca dell’eccesso avviene perciò, solitamente, sia nella trasgressione e nella ricerca del rischio,
sia nello spreco di risorse materiali ed immateriali, interne e esterne al giovane.
In questo tipo di società la conservazione, o più precisamente, la crisi di progettualità e di senso della
storia, più che dalla scarsità del rapporto del limite con l’illimitato, sembra essere prodotta dalla scarsità
di rapporto dell’illimitato con il limite.
Le trasformazioni socioculturali alle soglie della seconda modernità
La crisi del limite non è la sola trasformazione in atto nel mondo contemporaneo perché come si è
accennato all’inizio nel mondo contemporaneo è attivo un vero e proprio crogiolo di trasformazioni
sociali e culturali che stanno producendo una frattura nei confronti del passato, e anche del futuro, priva di qualsiasi riscontro in altre epoche della storia umana.
Frattura che si fonda su una radicale trasformazione delle dimensioni del tempo e dello spazio che
hanno caratterizzato le epoche precedenti, tra cui in particolare quella moderna, e dal ruolo assunto
all'interno di questa trasformazione dall'immaginazione.
Questa crisi culturale, secondo le letture più aggiornate, sarebbe il prodotto di due fenomeni congiunti - l'avvento dei media elettronici e le migrazioni - sull'opera dell'immaginazione, che, come è noto,
è un tratto caratteristico della soggettività moderna.
Le migrazioni di massa, pur essendo un evento che costella la storia umana fin dalla preistoria, hanno assunto nel mondo contemporaneo un carattere assolutamente. nuovo perché esse interagiscono
con il flusso mondiale delle immagini mass mediatiche. Ciò produce la situazione inedita immagini e
spettatori che sono entrambi in movimento. In questo fenomeno, secondo alcuni studiosi, risiederebbe
il nucleo della relazione tra globalizzazione e modernità.
Il tempo noetico, o nootemporalità, è la concezione del tempo tipica della condizione dell'uomo e
nasce dal fatto che esseri umani «sono capaci di comprendere il mondo nei termini di un futuro e di un passato distanti, e non solo nei termini delle impressioni sensoriali del presente» 13 e che le loro azioni nel presente sono influenzate dalla consapevolezza della morte, che appare come «un ingrediente essenziale del tempo dell'uomo maturo, i cui orizzonti si estendono senza limiti nel futuro e nel passato». 14
Il tempo che dal futuro attraverso il presente scorre verso il passato è il telaio che tesse l'ordito della
vita umana nel mondo e che orienta tutte le domande e le risposte di senso degli uomini maturi emersi
alla coscienza. Infatti, almeno nell'orizzonte dell'Occidente, la vita umana trova il suo senso nella storia,
cioè nella memoria e nel progetto di futuro.
Ora nella società della seconda modernità si assiste ad una profonda crisi della nootemporalità che è
il risultato, come si è appena visto, dello sviluppo dei mezzi di comunicazione che hanno prodotto una
percezione sociale del tempo come una scansione meccanica funzionale esclusivamente alla regolazione
della vita sociale.
Questa percezione del tempo è anche caratterizzata dalla frammentazione del fluire del tempo in una
sequenza di istanti, in cui ogni istante è separato ed è autonomo da tutti gli altri.
La solitudine di ogni istante è il segno dell’impossibilità del tempo di proporsi come un flusso dotato
di un senso globale, in cui ogni istante assuma la funzione di un particolare. Ogni istante, infatti, propone il suo significato, irrimediabilmente relativo e soggettivo, senza avere la pretesa di essere un passo
del cammino che prende il nome di storia.
Questa concezione del tempo ossessivamente fissato sul proprio presente, fissato cioè sull’istante in
cui esso appare alla coscienza, porta con sé necessariamente anche la concezione dell’inconsistenza e
della illusorietà del tempo essendo questi considerato solo come la manifestazione di ciò che accade
nello spazio.
In altre parole questa concezione postula che il tempo esista solo come prodotto degli eventi che accadono nello spazio. Senza eventi non si avrebbe tempo e sono quindi questi a dare la qualità del tempo.
13
14
Fraser J.T., Il tempo una presenza sconosciuta, Feltrinelli, Milano 1993, p.17.
ivi, p.22.
Questa trasformazione del vissuto del tempo si è verificata a causa della rottura dell’equilibrio tra sociotemporalità e nootemporalità e del predominio della prima.
La sociotemporalità è null'altro che la socializzazione del tempo che si esprime nella sincronizzazione e nella pianificazione delle azioni collettive senza cui nessuna società può esistere. Il tempo sociale è
fondato sull'esistenza del presente sociale, che è l'intervallo di tempo necessario a consentire alle persone di agire di concerto. Il presente sociale si forma e si mantiene attraverso la comunicazione che interrela i membri di un determinato gruppo sociale e l'ampiezza dell'intervallo temporale che lo costituisce
dipende dalla velocità dei processi di comunicazione. E' chiaro che quando i messaggi venivano portati
da corrieri a cavallo il presente sociale era molto esteso, mentre ora che i messaggi viaggiano alla velocità della luce esso è molto piccolo.
La sociotemporalità è tanto più sviluppata nella vita delle persone che fanno parte di una società
quanto più esse sono in relazione. Più la sociotemporalità è sviluppata più gli stili di vita, i valori e le
condotte delle persone divengono omogenei.
La sociotemporalità mantiene il suo valore solo se si armonizza con la nootemporalità, ovvero solo
se le esigenze della sincronizzazione sociale non entrano in conflitto, o ostacolano, il progetto particolare di vita dell'individuo, non mettono cioè in pericolo la sua unicità, la sua differenza particolare, ovvero
non minano la sua identità personale e storico culturale.
Oggi si assiste, invece, ad una dilatazione della temporalità sociale prodotta dai bisogni delle economie e delle culture delle società complesse della seconda modernità.
Infatti «Via via che i bisogni e le necessità politiche costringono il genere umano ad adottare un comune ritmo di lavoro, procedimenti industriali simili e ragionamenti scientifici identici, viene a mancare la base stessa della molteplicità dei modi di socializzazione e di valutazione del tempo, che ci ha accompagnato sin dall'inizio della
storia». 15
Le tecnologie della comunicazione che relano gli individui nelle società complesse tendono sempre
più a far dipendere, per la loro sopravvivenza, questi individui dalla rete del sistema informativo in cui
sono inseriti. La possibilità di lavorare a distanza, di avere diagnosi sulla loro salute via telefono, di ricevere tutto quanto ciò che hanno bisogno a domicilio, di avere informazioni in tempo reale attraverso la
televisione e la radio, di partecipare a video conferenze, ecc, tutto questo fa si che le persone debbano
occuparsi solo del loro presente, mentre la capacità di fare progetti a lunga scadenza, come l'imparare
dal passato dipende sempre di più dagli specialisti.
Il presente diventa l'unica dimensione esistenziale significativa per la vita delle persone. La storia, invece, diventa un impaccio perché è molto più semplice garantire «la collaborazione tra persone prive di
senso storico, che non fra popolazioni con storie diverse e solitamente antagoniste» 16 .
L'omogeneizzazione della temporalità degli individui, oltre che dall'abolizione della loro dimensione
esistenziale di tipo storico è causata anche dall'ingrigimento del calendario, ovvero alla riduzione delle
differenze tra il giorno e la notte, delle distinzioni tra i giorni della settimana, tra i giorni feriali e quelli
festivi e, infine, delle diversità tra le stagioni.
Negli Stati Uniti ci sono negozi, banche e supermercati che stanno aperti 24 ore, in Italia si cerca di
abolire la chiusura domenicale dei negozi e con alcuni contratti di lavoro si sta tentando di abolire il riposo festivo dei lavoratori, per distribuire in modo più funzionale l'alternanza dei giorni di lavoro e di
riposo. Ma oltre a questo si mangiano frutti e verdure senza più alcun riferimento alla stagione della loro maturazione e la gente pratica le stesse attività in inverno come in estate.
L'ingrigimento del calendario non è, quindi, che il segno della colonizzazione del tempo che oggi è
in atto. A questo proposito un sociologo, Murray Melbin «ha osservato che la vita sociale notturna nelle aree urbane assomiglia alla vita di frontiera, e ha chiamato questo fenomeno colonizzazione del tempo...Ma come
è avvenuto per le vecchie zone di frontiera, il mondo notturno si prepara a diventare l'abitazione di tutti». 17
La colonizzazione del tempo e l'abolizione progressiva del calendario creano le condizioni preliminari alla costruzione di un ordine temporalmente omogeneo su scala planetaria.
La lingua corrente nomina questo processo utilizzando la parola “globalizzazione”.
ivi, p.300.
ivi, p.304.
17 ivi, p.305.
15
16
«Infatti è molto più facile garantire la collaborazione tra persone che non hanno un calendario piuttosto che
fra persone che hanno al riguardo tradizioni diverse, tenute in vita fra l'altro proprio allo scopo di conservare la
propria diversa identità di gruppo» 18 .
Tutto il processo di omogeneizzazione del tempo e, quindi, dei modi di vita delle persone è finalizzato all'aumento della produttività del lavoro umano e a migliorare la qualità della vita delle persone. Tuttavia proprio perché sradica le persone dalla temporalità noetica produce esattamente il contrario di ciò
che si propone, ovvero un abbassamento della qualità della vita delle persone e una perdita della loro
capacità di governare e di dare senso alla propria vita.
Secondo altri autori 19 questo fenomeno è prodotto dalla “spazializzazione del tempo” che non sarebbe altro che il risultato della supremazia nell’attuale vita sociale delle coordinate spaziali su quelle
temporali che, di fatto, anestetizza l’idea del tempo e della storia, del vissuto diacronico a favore della
sincronicità spazializzante.
Immersi in questo tempo spazializzato gli individui perdono la coscienza della propria appartenenza
alla storia e, quindi, anche la propria capacità di produrre storia e divengono delle comparse prive di
memoria e di sogni di futuro.
Questo fa si che solo ciò che è immediato e simultaneo venga vissuto come reale. Le dimensioni del
passato e del futuro sono espulse dalla coscienza, la memoria e il sogno sono esiliati. L’istante diviene
un punto nello spazio in cui non vi è durata ma solo l’appartenenza atemporale ad un insieme spaziale.
All’origine di questa trasformazione della temporalità vi sarebbero quei fenomeni sociali complessi
come l’urbanizzazione, l’espansione della tecnologia, la presenza dei fondamenti tecnico scientifici di
tipo universalistico nelle culture locali, il predominio del senso ottico, ovvero al predominio delle immagini rispetto alla parola parlata e scritta e, infine, l’influenza dell’industria culturale che per evitare che
l’effetto del rapidissimo succedersi delle sue proposte abbia effetti distruttivi sulla sua stessa produzione
deve appiattire l’esperienza del tempo a favore della simultaneità.
Uno degli effetti di questa trasformazione della temporalità prodotta dallo spazio-velocità è anche
l’annullamento della distinzione tra causa ed effetto. E’ infatti noto che la relazione di causa ed effetto
si regge sul fatto che la causa precede temporalmente l’effetto, ma se la percezione del tempo rende gli
eventi “simultanei” la relazione causale si dissolve e viene sostituita da relazioni di tipo sistemico. Da
relazioni, cioè, in cui i singoli eventi si influenzano reciprocamente e dove nessuno di essi è solo causa o
solo effetto, ma dove ognuno di essi è tanto causa quanto effetto.
Crisi della progettualità e degli impegni di lunga durata
Questa trasformazione della temporalità ha degli effetti profondi sull’identità delle persone, sulla loro coscienza e sulla possibilità di dare un senso alla propria esistenza.
Non è casuale che oggi il percorso di conquista dell’identità che le nuove generazioni debbono percorrere sia frammentato, accidentato e che spesso conduca a quelle forme che vengono definite “deboli”. Allo stesso modo la vita priva del tessuto del progetto e della storia appare sempre di più come un
caotico susseguirsi di opportunità a volte positive ed a volte negative, piacevoli o spiacevoli ma in cui
comunque il paradigma del consumo si manifesta come dominante. La coscienza della propria responsabilità personale e sociale risulta indebolita e la persona sembra avere responsabilità, spesso illusoria,
solo verso se stessa e le persone che le sono spazialmente ed affettivamente prossime.
Il risultato è una persona che vive senza un'etica che non sia quella dell'utilità personale e dell'adattamento alla realtà sociale ed alla sua cultura.
Occorre poi sottolineare che tutto il processo di omogeneizzazione del tempo e, quindi, dei modi di
vita delle persone è finalizzato all'aumento della produttività del lavoro umano e a migliorare la qualità
della vita delle persone. Tuttavia proprio perché sradica le persone dalla temporalità noetica produce
esattamente il contrario di ciò che si propone, ovvero un abbassamento della qualità della vita delle persone e una perdita della loro capacità di governare e di dare senso alla propria vita.
Questa incapacità delle persone di governare la propria vita lungo l'asse storico del tempo si manifesta in una concezione di vita a-progettuale, di una vita cioè che si costruisce, all'interno della sociotem18
19
ivi, p.306.
Gross D., Space, Time and Modern Culture, Telos, 1981, p.50
poralità, attraverso la capacità di cogliere con un atteggiamento pragmatico e utilitaristico le occasioni e
le opportunità che la vita quotidiana offre, senza la necessità di porsi domande se queste stesse occasioni sono coerenti o meno con il proprio progetto di vita, ovvero se sono compatibili con i propri sogni
di futuro e con la propria storia, individuale e sociale.
Il risultato è una persona che vive senza un'etica che non sia quella dell'utilità personale e dell'adattamento alla realtà sociale ed alla sua cultura.
Di una persona che non sa assumere impegni a medio e a lungo termine, che non sa sacrificarsi e rinunciare alle gratificazioni che il presente offre in nome della coerenza a un impegno di costruzione di
un futuro personale e sociale.
Crisi delle grandi narrazioni e oscuramento del futuro
L’incapacità di assumere impegni di lunga durata rivela anche l’opacità dello sguardo verso il futuro
che sembra affliggere l’uomo contemporaneo. Opacità che si ascrive necessariamente alla crisi della nootemporalità ma che ha alla radice, tra le altre cause, la fine delle grandi narrazioni o delle ideologie che
ha attraversato l’ultima parte del secolo scorso.
Ideologie che hanno rappresentato una sorta di messianismo scientifico che postulava un futuro luminoso e felice prodotto dallo sviluppo della scienza e della tecnica che avrebbe progressivamente condotto alla sconfitta delle malattie, della povertà e delle condizioni che rendevano degradata e infelice la
vita di molte persone. Non ultima delle speranze era addirittura quella di vincere la morte.
«Il futuro non era allora nient’altro che la metafora di una promessa messianica. Nelle nostre culture
occidentali non era solo il giorno dopo a venire… No, quella di essere il proprio messia, il proprio redentore era davvero una promessa che l’umanità aveva fatto a se stessa: così futuro faceva rima con
promessa, era la promessa». 20
Il sogno prometeico dell’uomo di essere il proprio salvatore si è dissolto e la speranza di un futuro
migliore è stata sostituita da una radicale pessimismo che lascia intravedere un futuro pieno di minacce
e angoscianti incognite: inquinamento e degrado ambientale, disuguaglianze sociali, disastri economici,
nuove malattie, terrorismo, ecc.
Il sapere tecnico scientifico, pur essendosi enormemente sviluppato, sembra incapace di offrire speranza per il futuro e nello stesso tempo molte persone hanno smarrito i saperi esistenziali e religiosi che
erano in grado di aprire alla speranza verso il futuro.
Questa asimmetria tra sapere tecnico scientifico e sapere umano è il varco attraverso cui passa la fuga dal futuro, il rinchiudersi nel presente nel tentativo di esorcizzare l’angoscia evitando di osservare
l’orizzonte da cui in ogni istante possono provenire minacce impreviste e imprevedibili.
L’esperienza del “mondo pieno”
La crisi della nootemporalità che, tra l’altro, è alla base delle differenze socioculturali, si manifesta a
livello spaziale nell’esperienza di abitare un “mondo pieno” 21 . Di abitare un mondo dove non è più
possibile trovare una distinzione tra il dentro e il fuori, dove, quindi, non è più possibile trovare un luogo in cui fuggire che consenta l’esperienza della fuga dal mondo o l’ingresso in un luogo realmente altro. Lo spazio planetario sta divenendo realmente uno spazio globale in cui i confini che formalmente
continuano ad esistere non sono in grado di garantire una separazione e, quindi, una reale protezione a
chi abita al loro interno. L’11 settembre è il simbolo dell’impossibilità dei confini di garantire protezione
a chi è incluso al loro interno.
Come afferma Bauman i confini sono diventati «labili, fragili e porosi. I confini presentano una nuova proprietà di dissolvimento: scompaiono subito dopo essere stati tracciati, lasciandosi dietro – come
fa lo “stregato” di Alice nel paese delle meraviglie con il suo sorriso – solo il (parimenti volatile) ricordo della
loro traccia. La discontinuità geografica non conta più nulla dal momento che lo spazio velocità, abbracciando la totalità della superficie del globo, porta ogni luogo quasi alla stessa distanza-velocità rispetto a tutti gli altri e rende tutti i luoghi reciprocamente contigui» 22 .
Benasayag M. Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005, p.19.
Bauman Z.,, op.cit., p.xix.
22 ivi, pp.xx-xxi.
20
21
I non luoghi
Lo spazio-velocità e i tempo spazializzato rendono l’esperienza del mondo in cui non ci sono più
luoghi.
Occorre a questo proposito ricordare che, dal punto di vista antropologico, un “luogo” indica quella
costruzione concreta e simbolica dello spazio che assolve alla funzione identitaria, a quella relazionale e
a quella storica. Esso offre a chi lo abita un principio di senso e a chi lo osserva l’intelligibilità. 23
Questo vuol dire che il luogo non è semplicemente uno spazio, ma è uno spazio umanizzato e abitato. Uno spazio che non solo è interpretato ma che fornisce a chi è al suo interno le chiavi di interpretazione e di attribuzione di senso della realtà. E questo avviene perché il luogo inserisce le persone
all’interno di una storia, di una memoria e di un progetto di futuro e perché esso offre le informazioni
e le norme che fanno sì che le persone che lo abitano assumano particolari comportamenti e vivano le
relazioni primarie e secondarie in un modo affatto particolare.
Oggi, come si è visto, nel mondo pieno si sono rotti i legami che univano determinati comportamenti, atteggiamenti e stili di vita a determinati spazi fisici e simbolici.
Questo legame era costituito, da un lato, dalle convenzioni situazionali che fissavano per i vari luoghi
i comportamenti appropriati e, dall’altro lato, dal fatto che chi stava in un medesimo luogo condivideva
delle particolari informazioni e valori che potevano essere conosciute solo all’interno di quel particolare
luogo e non altrove.
I mezzi di comunicazione rompendo questo legame tra collocazione fisica e situazione sociale hanno
confuso le identità di gruppo che un tempo erano separate.
Questo è avvenuto perché gli individui attraverso i media hanno potuto sfuggire dal punto di vista
informativo ai gruppi ancorati in un luogo definito e hanno potuto invadere molti luoghi a cui erano estranei senza neppure entrarci. 24
L’identità di gruppo, come è noto, si fonda sulla condivisione di sistemi simbolici comuni e particolari e, quindi, sia la diffusione agli “estranei” dei contenuti del sistema simbolico legato ad un luogo particolare, sia il venire a conoscenza per gli abitanti di un luogo dei sistemi simbolici presenti in altri luoghi ha di fatto prodotto una omogeneizzazione dei luoghi che è il primo passo verso il luogo unico.
Accanto alla omogeneizzazione e, quindi, alla progressiva scopmparsa dei luoghi è in corso poi una
rapida e per ora irreversibile espansione dei nonluoghi.
Il nonluogo è uno spazio che non può definirsi né come identitario, né come relazionale e né come
storico, ed è quello che in misura ragguardevole si sperimenta quando si viaggia in autostrada, quando si
acquista una bevanda al distributore automatico o si preleva denaro al bancomat, quando si fa la spesa
al supermercato o si sta aspettando all’aeroporto un volo.
Lo spazio che oggi le persone abitano è in gran parte costituito da non luoghi ed è, quindi, uno spazio che non offre alcuna identità e non pone particolari richieste situazionali ma solo prescrizioni astratte e impersonali, che non sono in grado di connetterle ad uno spazio oggettivo e le lasciano in balia della loro soggettività.
Questo significa una ulteriore indebolimento dell’identità personale e storico culturale delle persone
ed il loro inserimento in sistemi relazionali anonimi e massificati, in cui i sistemi simbolici non offrono
più chiavi significative e particolari di interpretazione della realtà.
Deterritorializzazione e globalizzazione
Oltre che dell'individuo l'immaginazione odierna è una proprietà della collettività. Infatti, i media
rendono possibile la creazione di una «comunità di sentimenti», di un gruppo, cioè, che immagina collettivamente. La fruizione collettiva di video e film può creare quelli che vengono definiti sodalizi di culto e carisma.
Questi sodalizi sono comunque sempre comunità che possono passare dall'immaginazione condivisa
all'azione collettiva.
23
24
Augè M., Nonluoghi, Introduzione ad una Antropologia della Surmodernità, Elèuthera, Milano 1996, p.51.
Meyrowitz J., Oltre il Senso del Luogo, Baskerville, Bologna 1993.
Un esempio di questo sodalizio è quello che si è sviluppato, all'interno dell'islamismo radicale, intorno al terrorista Bin Laden.
Il fatto che questi sodalizi siano spesso transnazionali, fa sì che al loro interno si possano intrecciare
le diverse esperienze locali, che convergono nella produzione dell'azione translocale.
Questo fenomeno è leggibile in particolare nella de-territorializzazione, che, nel mondo moderno vivono grandi masse di persone che emigrano dal loro luogo di origine alla ricerca di lavoro
Basti pensare agli immigrati che attraverso i media elettronici possono restare in contatto con l'immaginario del proprio paese. Il tassista pakistano che nel suo taxi a New York ascolta la cassetta dell'omelia del mullah che gli hanno spedito i suoi parenti. o, ancora, l'immigrato turco che in Germania ogni
.sera vede i programmi televisivi del suo paese di origine.
Per non parlare della possibilità offerta da internet, non solo di contatti in tempo reale con i propri
connazionali, ma anche, più semplicemente, di leggere i quotidiani appena editati dei propri paesi di origine.
In alcune situazioni la deterritorializzazione «crea sentimenti esagerati o intensificati di critica o attaccamento emotivo verso a politica dello stato di provenienza e, quindi essa è spesso al centro di fondamentalismi
globali, compreso quello islamico».
In altri casi la deterritorializzazione è al centro della creazione di vere e proprie patrie inventate Un
esempio è il «Khalistan» che è una patria inventata dalla popolazione sikh residente in Inghilterra, Canada e Stati Uniti.
In alcuni casi tutto questo è all'origine di azioni violente, ma nel contempo è anche all’origine di
forme di business come ad esempio delle agenzie di viaggio che prosperano sul bisogno di contatto da
parte della popolazione deterritorializzata con la patria, reale o inventata.
In ogni caso, per l'effetto congiunto di migrazioni e media elettronici, i nazionalismi che compaiono
in molte parti del mondo sono basati su forme di patriottismo che non sono esclusivamente di tipo territoriale. Anche perché, in questo contesto, gli stati nazionali non sembrano essere in grado di regolare,
nel lungo periodo, la relazione tra modernità e globalità.
Basta pensare ai dibattiti sul multiculturalismo e, quindi, alla perdita di legittimità della possibilità da
parte di uno stato nazionale di imporre a tutti i suoi cittadini e quindi, anche alle proprie minoranze, un
modello culturale. Anche perché gli stati nazionali non possono impedire alle minoranze etniche presenti nei loro territori di collegarsi alle più ampie aggregazioni di affiliazione etnica o religiosa.
Tutto questo porta all'emersione di un ordine postnazionale basato sulle relazioni tra soggetti eterogenei come i gruppi di pressione, i movimenti sociali, i gruppi di pressione, i corpi professionali, le
ONG, le forze armate e di polizia, i corpi giudiziari.
La domanda che sorge tra gli studiosi di questa trasformazione è se questo ordine postnazionale riuscirà a creare alcune convenzioni minime intorno ad alcune norme e valori, senza per questo chiedere
l'adesione ai principi della tradizione democratico-liberale della modernità occidentale.
Per ora questo processo, negoziale, è ben lungi dall'aver prodotto risultati apprezzabili, e in questa
fase storica la violenza e la barbarie sembrano espandersi prive di un efficace controllo.
La ricerca dell'omogeneizzazione culturale non è comunque la via per vincere la violenza e la barbarie, per cui la sola speranza concreta è che i processi di globalizzazione riescano a costruire questo nuovo ordine basato sulla eterogeneità.
Per raggiungere questo obiettivo è però necessario tenere conto che il mondo è diventato un sistema
di interazioni di tipo nuovo e di nuova intensità, che lo rende molto diverso da quello del passato, in cui
le «transazioni culturali erano solitamente contenute, a volte per via di costrizioni geografiche ed ecologiche, altre volte per una voluta resistenza all'interazione con l'Altro».
La guerra e il proselitismo religioso sono stati sino al XX secolo le due forme principali di interazione sistematica tra i diversi gruppi sociali.
Questo significa che il mondo attuale si trova a vivere una situazione inedita nella storia umana che,
spesso, non viene compresa perché ad essa si applicano modelli che sono antecedenti o inadeguati per
affrontare questo nuovo mondo.
Basti pensare alle paure indotte dal considerare la globalizzazione come il luogo dell'omogeneizzazione. Omogeneizzazione che alcuni vedono come il prodotto della americanizzazione e, altri, della
mercificazione.
I fautori di queste tesi, semplificatrici, non riescono ad osservare che le «cose» quando vengono importate in società diverse tendono, abbastanza rapidamente, ad essere indigenizzate e che spesso queste
paure sono sfruttate dagli stati nazionali per allontanare lo sguardo dei loro cittadini dalle ingiustizie e
dalla minacce egemoniche locali.
Per sfuggire al riduzionismo è necessario osservare che la complessità della nuova economia culturale globale nasce dalle disgiunzioni in essa presente tra economia. cultura e politica. Disgiunzioni che sono osservabili solo attraverso la lente delle cinque principali dimensioni dei flussi culturali globali.
Queste dimensioni sono costituite dalle persone in movimento (turisti, immigrati, rifugiati, esiliati,
lavoratori ospiti, ecc.), dalla ineguale distribuzione della tecnologia prodotta dalla relazione complessa
tra flussi di denaro, possibilità politiche, disponibilità di forza lavoro specializzata o generica, dalla disposizione del capitale globale, dalla distribuzione della capacità di produrre e - diffondere informazione
e dalla distribuzione di termini, immagini e idee di tipo politico come libertà. democrazia benessere sovranità, rappresentanza, ecc.
Occorre tenere conto che ognuno di questi flussi risponde da un lato alle sue regole e alle sue situazioni interne, ma, dall'altro lato, esso è condizionato e condiziona gli altri flussi e questo rende l'economia culturale imprevedibile e disgiuntiva.
E' all'interno di questi flussi culturali che potrà essere disegnato il nuovo mondo in cui la globalizzazione diventa garanzia della eterogeneità ma anche del rispetto di norme e di valori essenziali al di là dei
diversi orizzonti religiosi politici, etnici e dei diversi mondi immaginati.
La condizione perché questo si realizzi è anche, se non soprattutto, che l'immaginazione mediatica
sia trasformata in conoscenza dalla riscoperta dell'alterità e da una progettualità umana e sociale che restituisca il tempo alla storia.
Un tempo in cui l'uomo possa scoprire e tessere il senso della sua vita.
L’indebolimento dei legami comunitari e la centralità dell’individuo
La comunità, nelle sue varie forme e manifestazioni culturali, ha sempre rappresentato il luogo in cui
le persone potevano inscrivere il proprio progetto personale di vita all’interno di un progetto collettivo
e, quindi, condividerlo attraverso i vincoli di solidarietà e altruismo che caratterizzano le comunità autentiche.
Oggi, in questa seconda modernità, si assiste alla attribuzione all’individuo di una centralità assoluta
che gli assegna, in modo esclusivo, l’onere di tessere l’ordito della sua vita e la responsabilità totale del
successo o del fallimento, che cade principalmente sulle sue spalle.
Si sta passando dai “gruppi di riferimento” pre-assegnati a quella del “rapporto universale” in cui la
destinazione dei singoli sforzi di auto-costruzione non è data in anticipo.
I modelli anziché precedere le politiche della vita, e incanalarne il corso futuro, la seguono.
Questo genera una profonda angoscia, essendo ogni individuo sottodeterminato rispetto alla propria
autocostruzione, che viene esorcizzata in vari modi, ma in particolare con espressioni di forme di egoismo radicale che sconfinano verso il narcisismo e che sono socialmente validate attraverso i miti
dell’autorealizzazione.
La dissoluzione dei legami comunitari tocca anche quella particolare comunità che è la famiglia, che
perde la sua caratteristica di luogo del progetto collettivo per divenire, in molte situazioni, il luogo della
convivenza, all’interno di una relazione di intimità, di progetti individuali reciprocamente impermeabili.
In questa famiglia nessun membro sembra disponibile a rinunciare a una parte del proprio progetto
personale per sostenere o il progetto dell’altro o la costruzione di un progetto, che realizzi il bene comune della famiglia.
Questo individualismo, che si nutre dell’illusione della assoluta libertà individuale, si manifesta
all’interno di sistemi sociali che appaiono sempre più rigidi e immodificabili dall’azione dei singoli.
Questo genera una libertà illusoria, come si vedrà anche analizzando le trasformazioni del tempo.
L’identità e l’alterità virtuale: il ruolo dell’immaginazione mediatica
L'immaginazione nel mondo post elettronico ha abbandonato i territori tipici in cui ha sempre abitato, come, ad esempio, quelli dell'arte, del mito e del rito, per entrare a far parte del lavoro quotidiano
della gente comune in molte società.
Infatti, nella vita sociale attuale, l'immaginazione ha assunto un ruolo inedito che la vede non più
come un'opera della fantasia, una forma di evasione, un passatempo per élite colte, ma come forma di
azione individuale e sociale.
In questo contesto i media elettronici sono divenuti per le persone.delle risorse per la sperimentazione di costruzioni di sé. Infatti, «consentono di intrecciare sceneggiature di vite potenziali con il fascino delle star dello schermo e di trame cinematografiche fantastiche, ma consentono anche a quelle vite
di agganciarsi alla plausibilità degli spettacoli di informazione, dei documentari, e di altre forme in bianco e nero di telemediazione e di testi a stampa. Solo per via della molteplicità delle forme in cui appaiono (cinema, televisione, computer e telefoni) e a causa della rapidità con cui si muovono attraverso le
ordinarie attività quotidiane, i media elettronici forniscono risorse l'immaginazione del sé come un progetto sociale quotidiano» 25 .
E interessante notare come l'adattamento degli immigrati, e la loro stessa decisione di partire, sia
spesso profondamente influenzato dall'immaginario mass mediatico.
Questo fa sì che la vita delle persone sia sempre più immersa nella «finzione», ovvero nel mondo
delle immagini prodotto dai mass media elettronici.
Questa immersione sembra aver dilatato enormemente le conoscenze di cui sono in possesso le persone, mentre in realtà ha solo reso astratti gli oggetti del loro conoscere.
Infatti sempre più oggi si è convinti di conoscere, quando in realtà si è in grado solo di riconoscere.
Solo perché una cosa la si è vista si pensa di conoscerla, come ad esempio accade nei confronti dei
personaggi televisivi che la gente crede di conoscere ma che in realtà riconosce solamente, perché vedere non significa necessariamente osservare, comprendere e interpretare.
Questa immersione nel regime della finzione mass mediatica fa sì che si produca un indebolimento
della capacità di rapportarsi all'altro, che è si visto ma che, contemporaneamente, è privato della sua realtà complessa e astratto in una immagine, in un simulacro.
L'aver sostituito i media alle mediazioni simboliche ha, infatti, prodotto una interruzione o un rallentamento la dialettica identità/alterità. I media, infatti, consentono spesso solo di ri-conoscere, dando
però l'illusione di conoscere. Questo indebolisce indubbiamente la possibilità di stabilire un contatto
con l'altro reale offrendo in cambio possibilità di un contatto esteso con il simulacro dell'altro. Se l'alterità è simulacro anche l'identità diviene un simulacro. Perdere il contatto con l'altro significa perdere il
contatto con se stessi.
Questa crisi della capacità di alterità mette in crisi anche l'identità del persone che, come è noto, si
nutre della dialettica identità/alterità.
Alcuni studiosi osservano, sulla scia della lezione di Durkheim, nell'indebolimento della dialettica tra
alterità ed identità un fattore di produzione della violenza.
Nel labirinto prodotto dalla virtualità relazionale e dalla complessità sociale il non avere una identità
stabile, coerente e unitaria è ritenuto normale. Il modello di identità che viene proposto, infatti, è quello
di una identità frammentata, composita, in continua evoluzione, ambivalente, contraddittoria e mai
compiutamente raggiunta. Questo tipo di identità è teorizzato sia a livello filosofico che sociologico.
Nel rapporto con la realtà esterna si tenta di accreditare, in coerenza con il concetto di identità debole, l'impossibilità di comprendere e di dominare efficacemente la realtà. L'unica modo possibile per l'abitante delle società odierne di porsi nei confronti della realtà è quello di chi tace e se formula una domanda non pretende risposta.
L’identità debole frantuma l'esperienza dell'appartenenza sociale delle persone facendo che i loro
vissuti siano divisi in tanti frammenti, tra loro isolati, che non riescono a dar vita ad una esperienza esistenziale unitaria.
25
Appadurai A., Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2000.
Nutrite in questo dalla complessità sociale che ha, a sua volta, frantumato la cultura sociale facendo
si che essa non sia più organizzata attorno ad un unico centro simbolico, ma attorno ad una pluralità di
centri che forniscono ai valori sociali una legittimità parziale e precaria.
Il non avere un centro simbolico unico che conferisca legittimità ai valori rende impossibile qualsiasi
scelta o semplice gerarchizzazione, oltre che degli stessi valori, dei bisogni e delle opportunità presenti
nella società. L'impossibilità di scegliere e di gerarchizzare i valori, i bisogni e le opportunità segna
l’orizzonte di senso di chi abita la complessità che caratterizza le società della tarda o della seconda modernità.
In conseguenza di questo ogni esperienza che la persona vive ha un significato relativo che si esaurisce all'interno dell'esperienza stessa, non riuscendo a collegarsi alle altre esperienze esistenziali e quindi
ad un senso più generale. Questo comporta, tra l'altro, una forte difficoltà da parte della persona a dare
coerenza ai suoi atteggiamenti e comportamenti che manifesta lungo l'asse del suo tempo quotidiano.
La crisi della parola
Nella produzione dell’alterità virtuale e della frammentazione dell’esperienza esistenziale e
dell’identità personale un ruolo importante è giocato dalla crisi della parola e, quindi, della lingua. Per
comprendere questa crisi è necessario sottolineare che un segno linguistico deriva il suo significato tanto dal suo opporsi e distinguersi dagli altri segni del sistema linguistico, quanto dalla sua relazione con
l'oggetto mentale e/o fisico a cui rimanda. Nella cultura della società complessa il segno è andato sempre di più autonomizzandosi dall'oggetto per manifestare il suo significato quasi esclusivo in relazione
con gli altri segni.
Questa trasformazione profonda della lingua ha portato le persone a sganciarsi sempre di più dalla
realtà per collocarsi all'interno di un mondo immaginario.
La parola si è fatta astratta perdendo la sua cosalità.
La parola greca "logos" ha prevalso sulla parola ebraica "dabar".
Come è noto, infatti, in ebraico dabar oltre che parola significa anche cosa, mentre in greco logos oltre che parola significa anche concetto, idea astratta.
Questo differente modo di intendere e di usare la parola si manifesta nei differenti modelli culturali
del mondo greco e di quello ebraico. Infatti mentre nella tradizione ebraica la parola è lo strumento che
l'uomo ha a disposizione per dominare la realtà del mondo storico che abita e la verità è la fedeltà nella
vita quotidiana all'alleanza, nel mondo greco, invece, la parola rimanda all'essenza della realtà, ai concetti astratti o ideali che la realtà nasconde o maschera e la verità, conseguentemente, consiste nel portare
alla luce, nello svelare queste essenze nascoste.
Questo spostamento della parola verso l'astratto e il suo mondo: l'immaginario, tradisce quell'equilibrio tra "dabar" e "logos" che ha caratterizzato dopo l'avvento del cristianesimo la cultura dell'occidente. Questo tradimento è stato prodotto tra l'altro dalla perdita di memoria che, come si è visto, è tipica
dell'attuale vita sociale, e che si è manifestata anche, se non soprattutto, nel mancato deposito della
memoria nel significato delle parole che, come è noto, è frutto di diversi strati temporali al pari della
crosta terrestre.
Questo mancato deposito della memoria nel significato delle parole è una delle cause più rilevanti
della perdita della capacità delle parole di avere un significato stabile e di essere fedeli alla storia in cui
sono dette. Invece esso è oltremodo funzionale alla creazione di un linguaggio che serve per fuggire dal
mondo e dissolvere il reale nel virtuale.
Una seconda trasformazione rilevante riguarda la dimensione sintattica del linguaggio. Esso, infatti,
sta perdendo la sua struttura logica lineare consequenziale per assumere quella di una struttura d'insieme.
Come so è visto, la logica della comunicazione visiva si è sostituita a quella della comunicazione orale con risultati devastanti, soprattutto sull'uso della lingua parlata, anche se manifesta alcune conseguenze anche al livello della lingua scritta.
Come è noto per motivi legati alla fisiologia degli organi del senso uditivo umani la lingua parlata per
essere correttamente decodificata deve essere strutturata in sequenze logiche lineari, ovvero i vari suoni
che si susseguono nel tempo devono essere legati da una trama logica. Al contrario la percezione
dell'immagine è simultanea, in quanto i vari elementi che la formano si presentano insieme nello stesso
istante e, quindi, la logica che la struttura è quella di una relazione tra le parti.
Gli effetti di questa trasformazione della struttura logica della lingua, oltre che degli effetti sulla sua
efficacia comunicativa, ha l'effetto di ridurre la capacità delle persone di strutturare gli eventi in una logica temporale di tipo storico e, quindi, di attribuire ad essi un significato che trascenda quello contingente. Questo elemento si lega strettamente alla crisi della progettualità che sarà ora descritta ed alla incapacità di percepire il senso della storia.
Trasformazioni culturali ed esperienza religiosa
L’individualismo
L’individualizzazione della seconda modernità è alla base di alcune caratteristiche tipiche della attuale
esperienza religiosa.
La prima è costituita dalla fluidità e dalla mobilità dell’appartenenza religiosa. Le persone, tendono a
impegnarsi in modo limitato o da una scadenza o dall’entità dei benefici che pensano di ottenere
dall’appartenenza. Quando si vive una delusione si tende ad andare a ricercare una nuova adesione altrove.
La seconda caratteristica è data dal legame tra impegno e crescita e autorealizzazione personale. Non
vale la pena impegnarsi in qualcosa che non produce felicità e che sia svolto senza gioia. La disaffezione
nei confronti della pratica religiosa è una manifestazione concreta di questa caratteristica è può essere
sintetizzata dalla frase: «la messa domenicale mi annoia e non ne ricavo niente».
La terza caratteristica è la scomparsa dello spirito di sacrificio. Per la stragrande maggioranza delle
persone e dei cristiani “perdere la propria vita in nome della Fede e della vita futura è assolutamente
impensabile.
La quarta caratteristica è costituita dall’emergere di un individuo solistico, che ha preso il posto della
società olistica. Questo significa che la persona percepisce in modo completo e integrato, ciò che sino a
poco tempo fa considerava in modo separato e settoriale. Ecco, quindi, la necessità, nella sua esperienza
religiosa, di prendere in considerazione tutte le dimensioni di cui si sente formata razionale ed emotiva,
spirituale e materiale, psichica e corporea.
L’insieme di queste quattro caratteristiche spiegano la comparsa di una religione alla carta: «scelgo di
andare la perché ….», oppure ci si costruisce con il proprio gruppo una esperienza religiosa su misura.
Una scelta alla carta che vale anche per le prescrizioni morali, nel senso che si accettano quelle più gradite e si rifiutano le altre. Un esempio tipico riguarda la morale sessuale.
Anche per quanto riguarda gli articoli di fede si assiste a una scelta soggettiva. Ad esempio, nella fase
storica attuale i cattolici privilegiano l’umanità di Gesù, il Dio Amore rispetto al Dio del giudizio, al Cristo maestoso e lontano, così come, spesso, escludono l’esistenza dell’inferno e del diavolo.
Nella esperienza religiosa della maggioranza delle persone non vi è più la distinzione tra il bene e il
male, ma tra il gradevole e il penoso o tra ciò che può essere creduto o non creduto.
Una variante estrema della religione alla carta è costituita dalla religione “fai da te” che quasi sempre
è un bricolage sincretistico.
Esempi di questo tipo di esperienza religiosa sono rintracciabili nei comportamenti delle persone che
seppur sedotte dal buddismo tibetano si recano in pellegrinaggio a Compostela, oppure di quei cattolici
che visitando Benares non si limitano a fare i turisti ma cercano di sperimentare l’esperienza religiosa
che gli indiani fanno in quel luogo.
La globalizzazione e la comunicazione di massa rendono disponibile nel mercato dell’immaginazione
un numero ampio di soggetti e di materiali con cui costruire la propria sceneggiatura religiosa.
La centralità del corpo
L’esperienza religiosa in questa seconda modernità è caratterizzata dal ruolo assolutamente dominante che in essa ha acquisito la dimensione emozionale. Infatti in essa vi è il primato delle relazioni interpersonali e quello del sentimento sulla ragione.
Questo comporta una accentuazione del valore dell’esperienza personale soggettiva, dell’autenticità
affettiva, della dipendenza da leader carismatici e della ricerca del coinvolgimento del corpo e dei sensi
nell’esperienza religiosa.
Una esperienza religiosa viene sperimentata come autentica e vera solo se lascia una qualche impronta nel corpo della persona che la vive. La verità dell’esperienza religiosa, infatti, non può essere detta dai
discorsi razionali o dogmatici, ma solo dall’intensità e dall’autenticità dei sentimenti sperimentati.
Ecco il successo di quei riti, di quelle posture, di quei gesti ed espressioni corporee capaci di suscitare emozioni all’interno di contesti di preghiera o di riunione.
Tutto questo fa anche si che le esperienze religiose di tipo “iniziatico” acquisiscano un fascino affatto particolare.
La religione dell’esperienza sostituisce la religione della Fede.
Un’altra prova del legame tra verità e corpo presente nell’attuale esperienza religiosa è fornito dalle
esperienze taumaturgiche di tipo religioso.
In molte esperienze religiose contemporanea la ricerca della guarigione occupa un posto centrale.
Questo a differenza della tradizione cristiana in cui la guarigione era considerata secondaria rispetto alla
fede, nel senso che essa non era ricercata per se stessa ma come possibile dono supplementare.
Questo è spiegabile con la centralità che il corpo e il suo benessere, la forma fisica hanno assunto
nell’attuale cultura sociale.
La religione diviene per molte persone una via della ricerca del benessere psico-fisico e non è un caso, perciò, che mentre un tempo a ricercare la guarigione fossero persone sfortunate e disgraziate oggi,
invece, la ricerchino persone benedette dalla vita eppure deluse e insoddisfatte da essa perché non hanno ancora ottenuto la felicità e la libertà a cui aspirano.
Questo persone manifestano spesso anche un certo risentimento nei confronti della Chiesa, accusata
di non valorizzare a sufficienza le qualità emotive e terapeutiche della religione e di insistere, invece,
troppo, sugli aspetti morali ed etici e di gestire, quindi, il patrimonio spirituale in modo burocratico.
In questo è leggibile l’effetto dissolutorio della modernità nei confronti della tradizione. Modernità
che, invece, chiede alle persone di cambiare e innovare per diventare se stesse.
Per molte persone la religione è anche una sorta di compensazione della delusione per le promesse
non mantenute dalla scienza e dalla tecnica in ordine alla ricerca della felicità, della perenne giovinezza e
dell’immortalità.
La negazione delle distinzioni tra Dio e uomo
Uno degli effetti della seconda modernità sull’esperienza religiosa si manifesta nella negazione delle
distinzioni classiche che nel fenomeno religioso esistono tra Dio e uomo, Dio e natura, tra uomo e natura e tra religione e religione, che alla fine sarebbero identiche.
Alla radice di questo sincretismo vi è la credenza nell’esistenza di una realtà comune a tutte le realtà
che di solito viene chiamata energia o con altri nomi. Questa credenza più che verso il panteismo sembra orientata verso un naturalismo animistico.
A questa credenza appartiene l’attuale moda nei confronti del mondo degli angeli che sarebbe un
mondo parallelo invisibile e reale.
Il Dio personale del cristianesimo trascolora verso un Dio impersonale o, addirittura, delle forze e
delle energie impersonali.
In questo contesto sparisce anche ogni forma di Alterità, non esiste più il dialogo tra Io e Tu ma solo la ricerca interiore del proprio Sé, unico luogo in cui si manifesta la verità e lo stesso Dio.
A questo proposito un settimanale francese intitolava un suo articolo: «come buttare via Dio e tenere la religione».
In questa concezione religiosa la spiritualità riguarda esclusivamente l’interiorità della persona, sia
che riguardi il superamento dell’Io sia che, al contrario, riguardi il suo rafforzamento.
Tutte le religioni appaiono identiche perché ognuna di esse, con le proprie tradizioni mistiche, garantirebbe questa via all’interiorità. La conseguenza di questo atteggiamento è la relativizzazione delle forme storiche concrete in cui si sono manifestate le religioni a favore dei loro aspetti esoterici e mistici.
Basti pensare al tentativo di rivalutazione del vangelo di Tommaso rispetto ai canonici.
Il tradizionalismo
Accanto a queste caratteristiche dell’ esperienza religiosa contemporanea prodotte dalla seconda
modernità ne è presente una che sembra andare in direzione contraria.
Si tratta di quelle esperienze religiose fondate su una reazione fortissima nei confronti della modernità e della secolarizzazione e della tendenza del cristianesimo di venire a patti, a scendere a compromessi
con queste ultime.
A volte questa reazione si manifesta solo in modo parziale perché i movimenti che la manifestano
possiedono anche alcuni tratti identitari moderni.
C’è nei movimenti che manifestano questa reazione l’orgoglio di esibire e di manifestare la differenza
che contraddistingue la propria religione dalle altre, soprattutto attraverso segni esteriori.
Il vestiario, le grandi assemblee unitarie che superano le divisioni ideologiche, politiche, sociali ed
economiche delle persone, le processioni nel cuore della città, la pubblicizzazione delle conversioni e,
infine, l’uso massiccio della comunicazione mediatica.
La reazione identitaria può essere promossa sia dal vertice che dalla base della Chiesa.
Concludendo
L’aspetto consolante è che le caratteristiche dell’esperienza religiosa descritte sono, da un lato, strettamente relate alla seconda modernità e, dall’altro lato, strettamente individuali e, quindi, legate alla mutevolezza ed alla fragilità delle persone e, quindi, prive dei requisiti necessari alla loro trasmissione verso
le nuove generazioni.
Questo significa che il futuro non è compromesso. E’, quindi, possibile prevedere un ritorno verso
l’Alterità, di una Trascendenza non immanente. Forse le reazioni integraliste, con la loro inaudita violenza, sono il sintomo paradossale dell’esistenza di questa possibilità.
Parte II. Essere giovani oggi
Il primo effetto prodotto dalle trasformazioni culturali riguarda l’insieme del mondo giovanile sovente definito come “condizione giovanile” che si manifesta da un lato con il prolungamento dell’età
giovanile e, dall’altro lato, con la frammentazione/individualizzazione dell’esperienza di essere giovani e
dei percorsi di crescita.
Il prolungamento dell’età giovanile
L’età giovanile, in misura decisamente maggiore delle altre età in cui si articola lungo l'asse del tempo
la vita delle persone, è una costruzione sociale e culturale. 26
Questo perché l'età giovanile "si colloca all'interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e
l'autonomia dell'età adulta, in quel periodo di puro cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le
promesse dell'adolescenza, tra l'immaturità sessuale e la maturità, tra la formazione ed il pieno dispiego
delle facoltà mentali, tra la mancanza e l'acquisizione di autorità e di potere. In questo senso, nessun limite fisiologico è sufficiente a identificare analiticamente una fase della vita riconducibile piuttosto alla
determinazione culturale delle società umane, al modo in cui esse cercano di identificare, di dare ordine
e senso a qualcosa che appare tipicamente transitorio, vale a dire caotico e disordinato". 27
Basta osservare come in questo periodo in tutta l’Europa l’età giovanile si stia prolungando e come,
quindi, la transizione all’età adulta stia avvenendo in tempi progressivamente più tardivi.
Oltre ad allungarsi il tempo della giovinezza si sta differenziando in modo netto da quello
dell’adolescenza. Occorre, a questo proposito, ricordare che l’adolescenza è stata inventata all’inizio di
questo secolo sotto la spinta delle trasformazioni sociali e della rivoluzione concettuale verificatasi nella
considerazione della crescita umana in seguito allo sviluppo delle scienze psicologiche ed umane in genere. Infatti nella prima metà del secolo l’adolescenza coincideva quasi completamente con l’età giovanile.
Il prolungamento dell’età giovanile è visto dagli studi sulla cosiddetta condizione giovanile all’interno
degli scarti significativi che si sono prodotti tra le frontiere che segnano da un versante il termine della
giovinezza e dall’altro versante l’ingresso nella vita adulta.
Infatti in quasi tutti i paesi europei esistono degli scarti, ad esempio, tra la fine degli studi e l’inizio
della vita professionale e tra l’abbandono della casa dei genitori e il matrimonio.
Questi scarti fanno si che non vi sia più la connessione tra queste quattro soglie e che il tradizionale
momento di fine della giovinezza non sia immediatamente seguito dall’ingresso nell’età adulta ma, da un
periodo dai caratteri ambigui che però viene ascritto alla giovinezza.
C’è da dire che questa sconnessione in cui si annida una parte del prolungamento della giovinezza
non è uguale in tutti i paesi dell’Europa.
Galland 28 ad esempio ha individuato tre differenti modelli che descrivono il prolungamento della
giovinezza in Europa: il modello mediterraneo, quello nordico e quello inglese.
Il modello mediterraneo è caratterizzato da quattro tratti:
il prolungamento della scolarità;
una fase lunga di precarietà professionale alla fine degli studi;
la permanenza tardiva della coabitazione con i genitori, anche dopo la stabilizzazione economica,
che è associata ad una forte autonomia dei giovani;
la contrazione del matrimonio subito dopo il distacco dalla casa dei genitori. Ci sono relativamente
pochi giovani che vivono da soli o in coppie non sposate.
Il modello nordico del prolungamento della giovinezza, che comprende anche la Francia, è caratterizzato da un distacco relativamente precoce dalla casa dei genitori ma da un ritardo significativo nella con-
26Levi G. E Schmitt J.C., Storia dei giovani. 1.Dall'antichità all'età moderna, Laterza, Bari 1994, p.VI.
27Ivi, p.VI.
28Galland
O., Che cosa è la Gioventù, in Cavalli A. Galland O. (a cura di), Senza Fretta di Crescere, Liguori Editore, Napoli 1996, p.7
trazione del matrimonio e nella generazione dei figli. Anche in questo modello vi è il proprolungamento
degli studi e una fase abbastanza significativa di precarietà professionale alla fine degli stessi studi.
Il modello inglese, che si distingue da quello di tutti gli altri paesi europei, vede un ingresso precoce dei
giovani nella vita professionale e il prolungamento della vita in coppia senza figli.
La conseguenza prodotta da questi modelli di prolungamento della giovinezza, che hanno in comune
il differimento della procreazione dei figli, ha degli effetti evidenti sulla composizione della popolazione
europea per quanto riguarda l’età.
Infatti l'Europa sta vivendo una trasformazione demografica caratterizzata da un progressivo e per
ora, scarsamente reversibile, invecchiamento della popolazione in buona parte del suo territorio. Questo fenomeno costituisce il terzo problema anche se, a rigore, esso non è comune a tutti i paesi CEE, in
quanto dal punto di vista demografico l'Europa sembra muoversi a due differenti velocità. Infatti le
proiezioni demografiche all'anno 2020 dimostrano che vi sarà una contrazione della popolazione in
Germania, Italia, Belgio e Danimarca mentre per i restanti paesi vi sarà al contrario un incremento della
popolazione.
Tuttavia il saldo complessivo tra paesi in calo e in crescita di popolazione è lievemente negativo essendo uguale a -0.06%.
Da notare poi che al 2020 in Germania le previsioni indicano un calo del 31.7% della popolazione da
0 a 14 anni, del 15.18% di quella tra i 15 ed i 64 anni e un aumento del 34.86% di quella oltre i 65 anni.
In Italia questo dato è ancora più accentuato essendo previsto il calo del 40.84% della popolazione
da 0 a 14 anni, del 12.66% di quella tra i 15 ed i 64 anni e un aumento del 46.76% di quella oltre i 65
anni.
La Francia presenta una dinamica ancora diversa in quanto le proiezioni registrano a quella data un
incremento della popolazione da 15 a 65 anni del 2.78%, una riduzione di quella da 0 a 14 del 16.45% e
un aumento di quella oltre i 65 anni addirittura del 64.11%.
Il Regno Unito mantiene invece un trend in cui all'aumento della popolazione anziana non corrisponde una diminuzione delle altre fasce di popolazione, avendo un ricambio generazionale assicurato da
una adeguata natalità. Infatti la popolazione da 0 a 14 anni si mantiene pressoché stabile calando solo
dello 0.06%, quella da 15 a 64 anni aumenta del 2.78% e quella oltre i 65 anni cresce del 25.39%. Questi
quattro paesi da soli costituiscono il 71% della popolazione della Comunità Europea.
Esiste ancora una condizione giovanile?
L’analisi del mondo giovanile considerato come una vera e propria condizione si afferma in Italia alla
soglia degli anni ’70. E’ in quegli anni, infatti, che si assiste allo sviluppo delle indagini sulla condizione
giovanile. Significativa, ad esempio, fu l’indagine della Doxa “Questi Giovani” svolta per la Shell che fu
pubblicata proprio nei primi mesi del 1970.
Non è casuale che lo sviluppo delle inchieste sociali sui giovani sia avvenuto in quegli anni. Infatti è
a cavallo del ’68, ovvero dei movimenti collettivi che tradizionalmente si ascrivono a quel periodo cronologico, che nel nostro paese si afferma l’approccio al mondo giovanile in termini di condizione. Il
termine condizione, come è noto, presuppone l’esistenza nei giovani “di una forte identità collettiva, di una
altrettanto consistente capacità di produrre cultura autonoma (cioè progetti e modelli alternativi di uomo e di società) e di
una forte propensione alla mobilitazione sociale.” 29
In quegli anni i giovani apparivano infatti a molti osservatori come un nuovo soggetto politico, in
grado di influenzare il mutamento sociale insieme ad altri soggetti sociali e politici, tra cui in primo luogo la classe operaia e poi i soggetti emergenti come le donne e gli emarginati di ogni tipo.
Con la fine degli anni ’70 in coincidenza con l’estenuazione dei movimenti collettivi del ’68 e dintorni, oltre che delle ideologie che li avevano sostenuti, si assiste ad una lenta e progressiva evaporazione
della condizione giovanile, ovvero dei giovani in quanto universo unitario e distinto dal resto della società.
29 Milanesi G., Il Disagio: Una Concettualizzazione Preliminare, in Pollo M. (a cura di), La Gioventù Negata, Labos - TER,
Roma 1994, p.43.
Dall’evaporazione della condizione giovanile resta un insieme di cristalli sparso e frammentato, in cui
ognuno di essi rappresenta un vissuto soggettivo e privato. In altre parole questo significa che alla fine
degli anni ’70 i giovani non sono più un sottosistema sociale, dotato di un forte protagonismo e di una
rilevanza sociale, ma un semplice insieme di individui dispersi nell’oceano del sistema sociale incapaci o
impossibilitati ad assumere un ruolo di protagonismo sociale.
Non è un caso perciò che proprio in quegli anni i giovani divengano socialmente invisibili e che cominci ad essere teorizzata la impossibilità di una lettura con categorie universali dei giovani.
Questo processo iniziato alla fine degli anni ’70 prosegue negli anni ’80 e ’90 sotto la spinta della
complessificazione della società e conduce ad una ancor più forte marginalizzazione dei giovani e ad
una ancora maggiore loro chiusura nella dimensione del soggettivo e del relativo.
Questo significa che oggi non si può più parlare di giovani in un senso generale perché occorre confrontarsi con un insieme composito di soggettività giovanili.
L’individualizzazione e la soggettivizzazione dei percorsi di crescita
Questo insieme composito è il prodotto di una vera e propria individualizzazione del percorso personale di crescita dei giovani in conseguenza del fatto che nella loro transizione verso l’età adulta seguono un cammino sempre più personale e soggettivo, che è solo parzialmente legato alla loro età anagrafica.
Ma non solo come afferma Heinz “Lo scorrere della vita non trova più le sue radici nella classe sociale, in regole
di età o di genere o in una pretesa normalità. Si assiste nelle nostre società ad una destandardizzazione della vita degli
uomini e delle donne e ad una diversificazione delle scelte di vita. La vita diviene così una successione complessa di situazioni transitorie che gli individui devono selezionare, organizzare e controllare loro stessi. Ognuno deve concepire se stesso
come una agenzia pianificatrice delle decisioni di vita. Le persone oramai sono ritenute responsabili della loro vita, la quale assume forme più individualizzate, ma anche più selettive. La nuova sfida consiste ormai nello sfruttare al meglio le opportunità del mercato, i dispositivi istituzionali ed il reticolo delle relazioni sociali per orientare in modo calcolato la propria traiettoria di vita.” 30
Questa tendenza alla soggettivizzazione, di cui l’individualizzazione è un volto, che caratterizza il
mondo giovanile è presente anche nel mondo adulto, anche se in modo meno evidente e leggibile, perché essa il frutto dell’intreccio di quei fenomeni culturali, sociali e psicologico esistenziale che sono
all’origine dell’attuale particolare fase della transizione dalla modernità a quella che qualcuno chiama
seconda modernità e che sono stati descritti nella prima parte.
Il primo di questi fenomeni è costituito, come si è visto, dalla complessità sociale che attraverso il
suo politeismo di valori, di idee, di concezioni del mondo e della vita, oltre che di poteri, il suo relativismo e la sua posizione fragile verso il “reale” ha prodotto la frammentazione della cultura sociale in un
arcipelago in cui non trovano posto né la verità né l’oggettività.
Il secondo fenomeno è costituito dalla crisi delle grandi narrazioni, ovvero dei grandi sistemi ideologici e di pensiero attraverso cui le persone interpretavano se stesse, la loro vita ed il mondo facendo riferimento ad un punto di vista a loro esterno e che era in grado di proiettarle, magari in modo irrealistico, verso il futuro.
Il terzo fenomeno è costituito dalla perdita della capacità delle persone di interpretare il fluire del
tempo lungo l’asse lineare della storia e, quindi, di dare alla propria vita la coerenza e l’unitarietà di un
progetto capace di dare un senso al frammento di tempo i cui confini sono la nascita e la morte,
all’interno del frammento di tempo più grande i cui confini sono, invece, l’inizio e la fine della storia
umana.
L’intreccio di questi tre fenomeni culturali nella vita dei giovani ha prodotto in gran parte la deriva
del soggettivismo e la loro conseguente chiusura in quell’orizzonte di senso costituito principalmente
dai bisogni personali, dalle argomentazioni del desiderio, dai sentimenti, espressi o non, e dai sistemi
simbolici interiorizzati.
Questa chiusura si attenua solitamente nelle micro aperture disegnate dalla relazionalità primaria con
le persone con cui si condivide, in un clima di solidarietà affettiva, il piccolo mondo vitale quotidiano.
30 Heinz W.R., L’ingresso nella vita attiva in Germania ed in Gran Bretagna, in Cavalli A. Galland O. (a cura di), Senza Fretta di Crescere, Liguori Editore, Napoli 1996, pp.83-84
Anche se spesso, in questi casi, più che di vere aperture si tratta di una reciproca accettazione della propria soggettività.
Alcuni segni del mondo giovanile in bilico tra soggettivizzazione implosiva e
alterità esplosiva
Il processo di soggettivizzazione implosiva che i giovani vivono e che, come si è accennato, è figlio
dei fenomeni culturali della seconda modernità si manifesta in vari aspetti della loro condizione esistenziale. I principali di questi aspetti sono rintracciabili nel relativismo etico, nella a-progettualità e nella
prigionia del presente che si esprime anche nella reversibilità delle scelte, nella frammentazione dell'identità, nel vissuto virtuale dell’alterità e in alcuni caratteri della loro esperienza religiosa.
Anche se questi segni sembrano proporre alla lettura adulta una interpretazione “negativa” essi debbono essere invece considerati come segni perlomeno ambivalenti, in quanto accanto alla potenzialità
regressiva del “disordine” che contengono, esprimono anche una potenzialità evolutiva che, però, può
diventare attuale solo se viene educata e fatta esplodere attraverso l’incontro con l’Altro.
Occorre infatti ricordare che nei fondamenti della cultura dell’occidente è presente la consapevolezza che il disordine possiede una potenzialità creatrice e che è attraverso di esso che spesso la condizione
umana raggiunge un livello evolutivo più avanzato.
Era questo il motivo che induceva Eraclito ad affermare che: “il più bell’ordine è un mucchio di rifiuti gettati a caso” e che induce un antropologo come Edgar Morin a sostenere che: “E’ dunque possibile esplorare
l’idea di un universo che costituisce il suo ordine e la sua organizzazione nella turbolenza, nell’instabilità, nella devianza,
nell’improbabilità, nella dissipazione energetica”. 31
La lettura dei segni cercherà perciò di individuare in essi anche quegli aspetti che sono portatori di
una potenzialità evolutiva.
Il relativismo etico
Anche se la credenza che mediamente i giovani oggi non abbiano valori è alquanto diffusa occorre
rilevare che essa è falsa. Infatti quando si indaga sulla presenza dei valori nel mondo giovanile si ha la
sorpresa di scoprire che la maggioranza dei giovani condivide molti di quei valori che il mondo adulto
ritiene importanti per la realizzazione di una condizione umana evoluta e matura.
I problemi inerenti i valori dei giovani non sono legati alla loro assenza ma piuttosto al prevalere nella loro gerarchizzazione della dimensione personale e soggettiva.
Infatti i sistemi di valore che i giovani hanno interiorizzato vedono nelle posizioni centrali quei valori che sono funzionali alla realizzazione personale ed alla relazionalità all’interno del mondo vitale quotidiano che essi abitano.
Non è un caso perciò che le ricerche mettano in evidenza che le tre cose più importanti per la maggioranza dei giovani oggi siano la famiglia, l’amore e l’amicizia.
Quella relazionale è indubbiamente la dimensione esistenziale centrale nell’orizzonte di senso della
maggioranza dei giovani italiani come lo è, quasi certamente, per gli adulti.
La chiusura dell’orizzonte esistenziale di molti giovani nella dimensione della relazionalità primaria è
anche sottolineata dall’importanza, assolutamente straordinaria, che il gruppo dei pari ha nella vita quotidiana dei giovani.
Questa importanza la si ha anche purtroppo in negativo, in quanto in alcuni casi il gruppo primario
assume la funzione di stimolatore e facilitatore dei comportamenti trasgressivi e devianti.
Comunque il gruppo dei pari assume una sua rilevanza particolare non tanto per le attività che offre
o le discussioni che consente al suo interno ma solo per le relazioni il cui scopo è quello di rassicurare
ogni membro sul fatto di esistere e di essere accettato e riconosciuto dagli altri membri del gruppo.
Il gruppo dei pari è da questo punto di vista il luogo della relazione per la relazione.
L’importanza della dimensione relazionale è testimoniata anche dal fatto che nel rapporto amoroso
di coppia ciò che viene ritenuto più importante dai giovani è il rispetto, la comprensione, la fedeltà e la
31
Morin E., Il Metodo. Ordine disordine organizzazione, Feltrinelli, Milano 1987, p.53
capacità di comunicare. Si noti che l’intesa sessuale è ritenuta meno importante di questi aspetti relazionali immateriali.
Questa centralità dei valori legati al loro mondo vitale quotidiano nei giovani si esprime normalmente anche in un modo di vivere la responsabilità etica che, di fatto, è la negazione dell’esistenza di norme
a carattere universale o comunque esterne al sentire del soggetto.
Infatti vi è solo una minoranza di giovani che accetta come fondamento del proprio agire un codice
etico, religioso o laico, esterno alla loro esperienza personale.
Una parte consistente dei giovani, specialmente nel periodo dell’adolescenza, tende, invece, a porre
come fondamento dell’agire etico o i propri bisogni e desideri, oppure la rivendicazione della centralità
della propria coscienza.
Questa rivendicazione di libertà soggettiva nell’agire etico si manifesta soprattutto nella sfera della
sessualità.
Infine vi è un’altra parte dei giovani, specialmente tra coloro che sono usciti dall’adolescenza, che riconosce come fondamento dell'agire etico una relazione dialogica tra la scoperta della propria finitudine
e del proprio limite personale con quella della responsabilità verso l'altro, verso la sua dignità, la sua libertà ed i suoi diritti. Dove però l’altro è solo quello con cui si ha una relazione primaria, personale.
Questa parte dei giovani rivela la maturazione di una concezione di alterità che, pur essendo sempre
di breve raggio relazionale, può favorire la scoperta di un fondamento etico più solido ma che tuttavia
se non è educato non riesce ancora farli uscire dalla gabbia dorata del mondo vitale quotidiano e dalle
spire del relativismo.
Relativismo che, come si accennato prima, è uno dei prodotti nella attuale cultura sociale della surmodernità del politeismo etico e che fa si che per una gran parte di giovani sia spesso impossibile acquisire la certezza che i valori che sono loro proposti o che hanno già scelto come fondamento del proprio
agire siano veri, importanti e giusti perché essi formano soltanto uno dei tanti sistemi valoriali presenti
con pari dignità nella vita sociale che abitano.
Il relativismo prodotto dal policentrismo non si ferma a questo effetto ma va ben oltre frammentando il tessuto culturale della società in un puzzle matto, in cui ogni tessera pretende di contenere il disegno del tutto. In modo meno ermetico si può dire che il giovane nel corso del suo quotidiano vivere
sperimenta luoghi differenti che, sovente, gli offrono valori, modelli di vita, codici e norme assai diversi
tra di loro quando non addirittura antagonisti.
Il passaggio quotidiano del giovane dalla famiglia alla scuola, al lavoro, al gruppo dei pari, alle associazioni, alle polisportive ed ai mass media è l'esperienza di un cammino in una realtà sociale disomogenea e frammentata che lo invita a vivere in modo pragmatico ed aprogettuale, ad evitare scelte coerenti
se vuole poter usufruire di tutte le promesse che ogni luogo che attraversa gli fa.
La centratura delle scelte etiche alla sfera della propria coscienza e delle relazioni di mondo vitale in
questo quadro sociale è non solo congruente al relativismo etico presente nella cultura sociale ma è anche un modo che consente al giovane di godere delle opportunità di appagamento dei suoi desideri e
bisogni che la realtà sociale gli offre.
Tuttavia i giovani che hanno sperimentato l’educazione del germe di alterità che è presente nel loro
vissuto etico sono riusciti ad uscire dalle spire del relativismo ed a entrare in un mondo in cui esistono
gerarchie di valori e in cui è possibile dare un senso progettuale unitario alla loro vita.
I giovani nel labirinto della crisi della nootemporalità
Uno degli effetti della radicale trasformazione della temporalità che è stata prima descritta sul percorso di crescita umana e personale dei giovani è visibile in particolare dal loro porsi in modo incerto,
ed a volte angoscioso, nei confronti del futuro, dalla debolezza delle loro radici nella memoria culturale,
dal come vivano debolmente, nella maggioranza dei casi, le relazioni intergenerazionale con gli adulti,
dalla sperimentazione, molto diffusa, dell'assenza dei padri dalla funzione di trasmissione dei valori e
delle norme che costituiscono il canone culturale e dal come, al contrario, essi vivano in modo fortemente significativo la relazionalità con i pari età nel loro percorso di crescita personale.
Infatti, in questa trasformazione della temporalità le generazioni tendono sempre di più ad isolarsi
all'interno del loro segmento temporale indebolendo il legame della solidarietà intergenerazionale nel
presente.
La contemporanea indifferenza del mondo degli adulti per quello degli anziani e dei giovani non è
che un segno di questa trasformazione.
Questa trasformazione della temporalità ha degli effetti profondi sull’identità dei giovani, sulla loro
coscienza e sulla possibilità di dare un senso alla propria esistenza.
Questo significa che oggi il percorso di conquista dell’identità che le nuove generazioni debbono
percorrere è frammentato, accidentato e che spesso conduce a quelle forme che vengono definite “deboli”. Allo stesso modo la vita priva del tessuto del progetto e della storia appare sempre di più come
un caotico susseguirsi di opportunità a volte positive ed a volte negative, piacevoli o spiacevoli ma in
cui comunque il paradigma del consumo si manifesta come dominante. La coscienza della propria responsabilità personale e sociale risulta indebolita e la persona sembra avere responsabilità, spesso illusoria, solo verso se stessa e le persone che le sono spazialmente ed affettivamente prossime.
L'identità debole e frammentata, l'impossibilità di pensare alla propria vita come un progetto seppur
aperto, l'incoerenza con i suoi corollari del pragmatismo e dell'opportunismo, l'angoscia vestita di depressione o di fuga nell'evasione della ricerca di gratificazioni attraverso il consumo ossessivo che sembra segnare la vita di molti giovani, affondano le loro radici in questa crisi dell’esperienza del tempo che
segna la società contemporanea.
I giovani emergendo alla vita si sono trovati immersi in questo nuova temporalità ed essa è, comunque, quella in cui debbono, volenti o nolenti, costruire la loro vita.
Tuttavia questa trasformazione non è ancora compiuta ed esistono alcuni spiragli che indicano che il
nuovo tempo della vita può essere diverso da quello che i segni di questa cultura sociale lasciano presagire.
Uno di questi spiragli è costituito dal rapporto dei giovani con l'evento della morte, che come si è visto, è uno degli elementi costitutivi della nootemporalità e che, come si vedrà nel capitolo seguente, essi
non hanno rimosso dal loro orizzonte esistenziale.
Questa mancata rimozione della morte da parte dei giovani indica la possibilità di costruire un nuovo
modo di vivere il tempo che pur accentandone l'estensione orizzontale non ne vanifichi quella verticale.
Questa apertura sfida la responsabilità educativa degli adulti e della loro capacità di dare anima e vita,
accogliendo con fiducia e amore la costruzione di sé di ogni giovane con cui entrano in relazione.
Tuttavia per ora questa possibilità rimane un semplice spiraglio su cui agire educativamente sostenendo la ricerca da parte dei giovani di una progettualità autentica, ovvero di una capacità di vivere il
presente in coerenza con il passato personale e storico culturale e, soprattutto, con il sogno di futuro.
Il fatto che la crisi non sia ancora risolta a favore del tempo spazializzato nasce, tra l’altro,
dall’osservazione della consapevolezza dell’esistenza del legame tra l’agire nel presente ed il futuro nella
coscienza della stragrande maggioranza degli intervistati.
È però necessario sottolineare che questa consapevolezza appare più legata al pensiero astratto che
al reale vissuto dei giovani, in quanto la maggioranza relativa di essi non manifesta un vero atteggiamento progettuale nei confronti del futuro in quanto si limita a vivere alla giornata o, al massimo, cerca di
progettare il futuro a breve termine.
Il rapporto con il futuro 32
L’assenza di una vera progettualità esistenziale è ben evidenziata dalla carenza di aspirazioni, e spesso di speranza, nei confronti del futuro sia personale che sociale.
Per quanto riguarda le aspirazioni dei giovani nei confronti del loro futuro personale occorre sottolineare che esse, nella grande maggioranza dei casi, riguardano quasi esclusivamente il farsi una famiglia e
l’accedere ad un lavoro soddisfacente. Anche se per quanto riguarda quest’ultimo aspetto compaiono
spesso le ombre prodotte dalla forte disoccupazione giovanile presente nel nostro paese.
32 Questa parte sul vissuto del tempo da parte dei giovani è ricavata dalla ricerca esposta nel volume: Pollo M., I labirinti del tempo,
Franco Angeli, Milano 2000.
L’assenza della speranza è leggibile poi, ed in modo affatto particolare, nell’atteggiamento che i giovani manifestano nei confronti del futuro della società e dell’umanità.
Infatti la maggioranza di essi è convinta che la società italiana nel futuro sarà peggiore di quella attuale soprattutto per quanto riguarda la solidarietà, la libertà, la giustizia ed il benessere.
Questo però non significa che i giovani non abbiano dei sogni circa il futuro della società ma solo
che essi pensano che i loro sogni non potranno realizzarsi. Alla base di questa loro sfiducia vi è una sorta di rassegnazione fatalistica, fondata sulla convinzione che il futuro della società non può in alcun
modo essere influenzato dalla loro azione individuale e politica nel presente.
Infatti per la quasi totalità dei giovani il futuro della società è determinato da poteri e fatti che sfuggono al loro controllo e non hanno perciò alcuna fiducia nei confronti delle azioni di cambiamento sociale che possono essere prodotte dal loro eventuale impegno sociale e politico.
L’immagine che rende bene l’atteggiamento di questi giovani verso il futuro sociale è quella dello
spettatore disincantato e passivo.
Si tratta, tra l’altro, di una situazione paradossale, in quanto i sogni di questi giovani nei confronti del
futuro della società appaiono spesso concreti e realizzabili e sono molto distanti dalle proiezioni ideologiche astratte che hanno caratterizzato nel passato i sogni di altre generazioni di giovani.
Passando dall’atteggiamento verso il futuro della società a quello verso il futuro dell’umanità il pessimismo manifestato dai giovani appare ancora più profondo.
I due terzi di essi, ad esempio, sono convinti, o perlomeno temono, che nel futuro possa scoppiare
una guerra mondiale. La stessa quota di giovani è sicura poi che la fame e la povertà nel mondo non potranno essere sconfitte e che, quindi, le disuguaglianze tra i paesi ricchi e quelli poveri continueranno ad
esistere se non ad incrementarsi.
Questo sguardo pessimistico nei confronti del futuro dell’umanità è ulteriormente arricchito dalle
paure delle catastrofi naturali, degli effetti delle manipolazioni genetiche e, in generale, dalla convinzione dell’esistenza di tendenze autodistruttive nell’essere umano.
Da notare poi che la totalità dei giovani intervistati in questa ricerca è convinta che non potrà mai
realizzarsi la pace universale.
Anche riguardo al futuro dell’umanità compare perciò lo stesso senso di impotenza già rilevato nei
confronti del futuro della società.
Impotenza che nasce da un senso di profonda estraneità, condito di sfiducia, nei confronti della politica, che non viene assolutamente percepita come lo strumento di azione sociale attraverso cui le persone cercano di realizzare quelle condizioni di vita in cui i loro bisogni possano trovare una adeguata risposta e che, nello stesso tempo, siano il più prossime possibile alla loro visione del mondo.
Occorre però sottolineare che questa estraneità non deriva necessariamente e sempre dal fatto di
considerare la politica un qualcosa di “sporco”, perché essa è sovente il frutto di una sorta di disillusione cinica circa la possibilità dell’azione politica di cambiare la realtà del mondo; vuoi perché secondo
molti giovani il potere economico è in grado di imporre comunque le sue regole al gioco sociale; vuoi
perché secondo altri giovani le persone sono fondamentalmente egoiste e poco inclini, quindi, a rinunciare ai loro privilegi in nome dell’interesse comune.
Un altro fattore che contribuisce a formare nei giovani la scarsa fiducia nella possibilità di costruire
un futuro della società e dell’umanità migliore del presente è costituito dal fatto che una parte consistente dei giovani è convinta che il futuro sia solo parzialmente nelle sue mani, in quanto crede che esso
sia il frutto di un mix complesso tra le scelte delle persone ed il destino.
Al di là di ogni considerazione resta comunque il fatto che l’orienta- mento esistenziale dominante
negli adolescenti e nei giovani è sostanzialmente rivolto a consumare il presente.
Questo nonostante a livello cognitivo negli stessi giovani sia presente la consapevolezza della possibilità di agire sul futuro personale attraverso le scelte nel presente e dell’esistenza di un legame profondo tra passato presente e futuro, che tra l’altro fonda la loro identità personale.
Paradossalmente il rapporto con il futuro che indica l’apertura della possibilità di un recupero significativo della nootemporalità è dato dal modo attraverso cui gli intervistati hanno affrontato nella loro
storia di vita il rapporto con la consapevolezza dell’esistenza nella loro esistenza del limite radicale della
morte.
Come è stato prima l’uomo è emerso alla nootemporalità quando è emerso alla coscienza della morte
come limite invalicabile della propria vita.
La coscienza della morte nei giovani è presente e tutt’altro che rimossa, e questo indica che essa è
uno dei luoghi da cui può essere ritessuta quella ricerca del senso della vita lungo l’asse del tempo storico lineare e intorno all’interrogativo sul mistero dell’oltre la morte.
È interessante a questo proposito osservare come la grande maggioranza dei giovani e degli adolescenti, al di là della loro fede religiosa, manifesti la convinzione e la speranza in una vita oltre la morte
in cui tutto ciò che stato vissuto nell’arco che va dalla nascita alla morte trovi il suo compimento e, per
alcuni, la sua retribuzione in una giustizia finalmente piena.
Questo dato indica anche come la ricerca del senso della vita in questi giovani li conduca, necessariamente, a confrontarsi con il tema del limite della morte e del suo oltre.
Che la vita, cioè, non possa trovare il suo vero senso se non all’interno di un orizzonte che la trascenda.
Viene alla mente la riflessione in cui Wittgenstein afferma che il «il problema della vita si risolve
quando svanisce».
Il passato
La crisi della nootemporalità, oltre che nella direzione presente/futuro, si manifesta anche nella direzione presente ⇒ passato, ovvero nella crisi del fondamento storico dell’identità personale e culturale
dei giovani.
Anche in questo caso si tratta di una crisi i cui esiti non sono ancora leggibili ed in cui perciò sono
presenti elementi contraddittori o perlomeno ambigui.
Infatti, da un lato appare essere presente nei giovani la memoria storica, spesso nutrita, magari ambiguamente, dal suo fondamento arcaico costituito dal patrimonio leggendario, fiabesco e mitico, mentre
dall’altro lato è evidente una carente identificazione con la cultura sociale del luogo in cui vivono insieme con la manifestazione di una identità personale fortemente allocata sul piano relazionale e scarsamente su quello della storia personale.
È interessante osservare come la storia, sia locale che generale, sia percepita a livello cognitivo come
un fattore importante sia per la comprensione del presente, sia per la progettazione del futuro da una
parte consistente dei giovani. Tuttavia questa percezione non produce atteggiamenti e comportamenti
conseguenti perché la conoscenza della storia non ha prodotto “memoria” in quanto ha coinvolto quasi
esclusivamente il livello cognitivo degli intervistati. Lo stesso livello, cioè, della conoscenza scientifica,
che, solitamente, per la sua astrazione asettica è assai lontano da quello del vissuto che, invece, è profondamente intriso di connotazioni emotive/affettive.
Si può affermare che in molti giovani è presente la convinzione razionale che la storia è maestra di
vita, ma senza però che essa riesca a divenire maestra della loro vita personale e, quindi, ad influenzare
le loro scelte esistenziali personali e di gruppo.
Questo significa che la storia non è riuscita a diventare un racconto sapienziale di formazione per i
giovani che l’hanno incontrata. Forse perché spesso l’insegnamento di vita che i giovani ricevono per
mezzo della storia a scuola viene, di fatto, ignorato nella vita quotidiana concreta del sistema sociale e
politico in cui vivono.
Una situazione dello stesso tipo, seppur prodotta da fattori diversi, è riscontrabile anche per quanto
riguarda la memoria arcaica veicolata dalle fiabe, dalle leggende e dai miti.
Infatti anche per queste forme del discorso al riconoscimento, a livello razionale, del loro valore
formativo in quanto consentono l’acquisizione dei principi e dei valori profondi, archetipici, su cui si
fonda la civiltà che abitano, non corrisponde una interiorizzazione degli stessi a livello esistenziale ed
emotivo profondo.
Per quanto riguarda in particolare il mito esso condivide nel vissuto dei giovani lo stesso destino
dell’insegnamento della storia in quanto la sua conoscenza si colloca esclusivamente nel dominio cognitivo.
Non è perciò un caso che la grande maggioranza dei giovani manifesti l’assenza di radici o abbia perlomeno un rapporto ambivalente con la cultura locale.
D’altronde l’identità culturale ha una base emotiva/affettiva molto forte senza la quale essa non può
esistere e non può declinarsi nei legami temporali e spaziali che la caratterizzano.
I giovani e gli adolescenti intervistati nella maggioranza dei casi abitano dei luoghi esclusivamente
funzionali che sono stati privati della loro dimensione esistenziale profonda.
La geografia che orienta il rapporto con lo spazio dei giovani non è quella mitica ma esclusivamente
quella fisica e quella politico-economica.
Di fatto questo produce, unitamente alla fuga della storia dalla memoria, una deprivazione dei luoghi
geografici, e, quindi, dello spazio umanizzato, di quella componente temporale che tesse il senso
dell’essere dell’uomo nel mondo.
I nonluoghi, di cui prima si è parlato, sono anche il prodotto della perdita della memoria sia storica,
sia mitico/leggendaria. Prodotto che, nello stesso tempo, appare anche come causa all’interno di una
circolarità retroattiva che tende a rendere stabile e irreversibile questa sorta di secolarizzazione dello
spazio che è presente nella realtà sociale e culturale abitata dai giovani.
Rilevante risulta essere il contributo offerto dai media contemporanei a questa omogeneizzazione/secolarizzazione culturale dei luoghi geografici.
Basti pensare, oltre agli ampiamente noti effetti della televisione, a quelli prodotti dalla traduzione
delle fiabe in cartoni animati, film, fumetti, ecc. a diffusione mondiale di cui si è accennato nel secondo
capitolo.
Tuttavia nonostante la presenza di questi effetti permane in una minoranza di giovani un radicamento nel luogo e, quindi, in una memoria storica e mitica.
Questo fatto consente di affermare che la crisi della nootemporalità in atto non è ancora risolta e che
rimangono perciò aperte le possibilità verso una temporalità in cui la storia non è ancora smarrita, ed in
cui il presente può ricercare le sue radici nella trama del racconto che si snoda nel fluire del tempo limitato in cui si dice la vita umana sulla terra.
Tuttavia perché questo avvenga è necessario un impegno educativo che aiuti i giovani a collocare il
loro cammino nel tempo all’interno di una storia capace di fornire la base per una ricerca del senso del
mistero della vita nel futuro sempre aperto dal loro presente.
Il presente
La non risoluzione della crisi della nootemporalità è espressa anche nella concezione del tempo che i
giovani e gli adolescenti manifestano nei racconti delle loro storie di vita.
Infatti per la maggioranza di essi il tempo che tesse la loro vita è costituito da una trama in cui si intrecciano più tempi.
La concezione del tempo, magistralmente espressa dal libro biblico di Qoèlet, sembra sopravvivere
nella loro coscienza.
Ma non solo, il fluire del tempo è percepito come irregolare e discontinuo e, quindi, questo significa
che è presente nella maggioranza dei giovani una concezione relativa post (o pre?) newtoniana del tempo, di un tempo, cioè, che non scorre regolarmente come quello dell’orologio perché esso è, almeno in
parte, prodotto dalla loro vita, dalle loro esperienze e dagli eventi naturali e sociali in cui sono immersi.
I diversi tempi della loro vita formano per una parte dei giovani il fiume del cambiamento in cui si
sentono immersi.
Questa percezione del cambiamento non produce in una buona parte di loro una sensazione di impotenza in quanto, pur essendo consapevoli dell’impossibilità di influire sul corso del fiume del tempo,
sono convinti di poter gestire la loro navigazione quotidiana al suo interno attraverso una rigorosa organizzazione dei loro tempi di vita.
C’è però anche una minoranza che vive, invece, questa sensazione di impotenza abbandonandosi
passivamente alla corrente del tempo.
C’è da osservare che i giovani che hanno questo atteggiamento vivono prevalentemente all’interno
dello scorrere di quello che nella prima parte è stata definita come sociotemporalità.
La percezione del tempo sociale come qualcosa che costringe, che impone i ritmi e le attività della
propria vita non è espressa però solo da chi si abbandona passivamente allo scorrere del tempo, ma anche da chi tenta di governarlo.
Non è un caso che la maggioranza dei giovani sia convinta di non avere abbastanza tempo a disposizione per svolgere tutte le attività quotidiane in cui è impegnata e che è, perciò, secondo l’espressione di
un vecchio re melanesiano, malata di tempo.
C’è da osservare che vi è anche una minoranza consistente di giovani che è convinta di possedere
abbastanza tempo per fare tutte le cose necessarie alla propria vita quotidiana.
La percezione dell’essere immersi nel fiume del tempo produce però anche in una minoranza consistente di giovani un senso di angoscia o di malessere che esprime la loro paura ancestrale di essere un
qualcosa di precario che emerge dal nulla e che rapidamente nel nulla ritorna.
Ma a questa minoranza che vive in modo non sereno lo scorrere del tempo fa da contrappunto una
forte maggioranza che con una certa regolarità si ritaglia degli spazi, dei piccoli santuari del tempo, in
cui cerca un rapporto più profondo con la propria interiorità attraverso la meditazione, la riflessione su
di sé e la propria vita e, in alcuni casi, la preghiera.
Questo dato che emerge dalla ricerca smentisce una certa immagine del mondo giovanile dominante
nell’immaginario collettivo.
Come si vede il vissuto del tempo da parte dei giovani e degli adolescenti che hanno raccontato la
loro storia di vita appare molto complesso e, almeno per quanto riguarda la dimensione personale, non
certamente omologato a quello che caratterizza il cosiddetto tempo spazializzato.
Un ulteriore rafforzamento di questa considerazione emergente dalla ricerca è dato dal fatto che la
maggioranza di essi vive, anche se in modo diverso da quello delle precedenti generazioni, un rapporto
significativo con le scansioni del tempo prodotte dal calendario della loro cultura e dal fluire delle stagioni. Questo significa che il loro tempo soggettivo è ancora armonicamente inserito, anche se a volte
debolmente, in quello della natura e della cultura che abitano.
Tuttavia è necessario segnalare una minoranza consistente che è sradicata sia dalle scansioni temporali della natura sia da quelle della cultura.
Anche per quanto riguarda il vissuto del tempo presente vi è quella dicotomia, già registrata per il
passato ed il futuro, che indica l’esistenza della crisi della temporalità che attraversa le nuove generazioni. Crisi che però è ben lontana, come vorrebbero le più pessimistiche previsioni, dall’essere risolta con
la fuga dalla nootemporalità, che nonostante tutte le trasformazioni della seconda modernità, resta la
temporalità caratteristica e specifica dell’essere umano emerso alla coscienza ed alla ricerca del senso
della vita.
Anche se la ricerca del senso della vita di questa generazione di giovani è spesso fortemente circoscritta alla sfera del personale e del soggettivo e si realizza in forme deboli, tuttavia è falso affermare che
essa è assente.
Nella crisi della temporalità che attraversa il mondo giovanile vi sono anche i segni della speranza e
delle potenzialità evolutive che questa generazione può offrire alla storia che abita.
Sta al mondo adulto ascoltare questi segni e fare in modo che essi fioriscano dando forma ad un discorso compiuto.
La reversibilità delle scelte e il rischio
Alla progettualità debole che è emersa nel rapporto dei giovani con il futuro appartiene anche la tendenza, rilevata da ricerche recenti, da parte dei giovani di vivere le scelte come reversibili, tra cui anche
quelle legate a comportamenti rischiosi o distruttivi.
Questo dato emerge dalle ultime inchieste dello IARD 33 in cui si osserva che una quota molto consistente di giovani dichiara di essersi assunto dei rischi nel presente che potevano avere dei riflessi negativi sulla loro vita futura. Rischi che vanno da quelli relativi alla salute a quelli inerenti la guida dell’auto o
della moto in stato di ubriachezza.
C’è da notare che l’assunzione dei rischi da parte dei giovani avviene all’interno di una cultura sociale
che, come si è visto, è fortemente segnata dalla crisi del futuro che ha indebolito l’agire razionale nel
presente e ha espanso le promesse del rischio.
33
IARD, L’essere giovani, oggi,
Il pericolo, la possibilità che un’azione possa rivelarsi come nociva e addirittura distruttiva per la persona, è diventato un fattore che invece di dissuadere dal compiere l’azione ma un elemento di forte fascino dell’azione stessa.
Infatti, nella cultura sociale attuale si è molto distanti da quel sapere sufficiente che secondo Kant avrebbe dissuaso le persone a rifiutare quelle azioni in cui il rischio di autodistruzione era presente. Egli
affermava che un uomo a cui fosse stato che la bella dei suoi sogni era in una stanza a cui egli poteva
accedere e in cui poteva fare tutto ciò che desiderava, ma che questo avrebbe comportato all’uscita della
stanza una morte quasi certa avrebbe rifiutato una promessa di questo tipo. «Oggi sappiamo il contrario:
non solo molti accetterebbero tale patto, ma per di più il rischio cui si va incontro si rivela spesso più attraente
della “bella nella stanza”». 34
Per quanto riguarda gli adolescenti questi comportamenti spesso sono sperimentazioni atte a favorire il distacco dalla gestione della loro vita da parte dei genitori e, quindi, l’uscita dal nido protettivo della
dipendenza infantile e dell’ambiente strutturato e protetto tessuto dalla famiglia.
Questa ricerca di autonomia attraverso esperienze rischiose e trasgressive espone gli adolescenti
che la attuano a potenziali conseguenze negative derivanti dalla propria condotta, come ad esempio gli
incidenti stradali, le gravidanze indesiderate, le malattie sessualmente trasmesse, l’abuso di sostanze che
in alcuni casi costituisce un vero e proprio ingresso nella tossicodipendenza.
Le ricerche, di carattere epidemiologico, hanno messo in evidenza come gli adolescenti siano più
implicati degli adulti nei comportamenti ad elevato rischio.
Occorre ricordare che nell’attuale cultura sociale spesso i comportamenti di rischio svolgono il ruolo
di veri e propri riti di iniziazione attraverso cui gli adolescenti cercano il riconoscimento sociale del loro
ingresso nel mondo adulto.
Riti di iniziazione che però non sono socialmente accettati e riconosciuti ma che sono visti invece
come delle scorciatoie del percorso che dalla dipendenza infantile conduce all’autonomia adulta.
In ogni caso però questi comportamenti consentono all’adolescente di mettere alla prova le proprie
abilità e competenze, di concretizzare i livelli di autonomia e di controllo raggiunti e di sperimentare
nuovi e diversificati stili di comportamento.
Da questo punto di vista i comportamenti di rischio oggi sono considerati “normali” in quanto funzionali al raggiungimento dell’identità personale, dell’autonomia e della maturità.
Oltretutto, come è stato detto prima, i comportamenti rischiosi in questa cultura sociale sono funzionali a chi voglia farsi strada nella vita.
Purtroppo c’è un volto negativo nella ricerca del rischio che è costituito dal cosiddetto “ottimismo
irrealistico” che fa si che l’adolescente spesso sottostimi il rischio, e che si esponga a una maggiore probabilità del verificarsi di eventi indesiderati. Eventi che non fanno parte dell’esperienze personale
dell’adolescente e che sono percepiti come al di fuori delle sue possibilità di controllo e associati a forti
stereotipie sociali. Questo, tra l’altro, produce, una significativa riduzione dell’ansia che è associata alle
conseguenze negative del comportamento e, quindi, consente anche la salvaguardia della sua stima di
sé.
La conseguenza di questo ottimismo irrealistico è che l’aspettativa dei benefici derivanti dal comportamento di rischio fanno superare l’ostacolo costituito dalla valutazione delle possibili conseguenze negative della propria azione.
Se a questo si aggiunge la sensazione di invulnerabilità prodotta dall’egocentrismo adolescenziale e la
“sensation seeking”, o ricerca di sensazioni, che può essere definita come la necessità continua di sperimentare sensazioni varie, nuove e complesse, si comprende come il rischio sia assunto dagli adolescenti senza una adeguata valutazione delle possibili conseguenze negative per la propria integrità biopsichica.
Questo significa che il comportamento di rischio non può essere considerato un rito iniziatico perché manca della necessaria valutazione del rischio e, quindi, della capacità di affrontare le prove in modo relativamente sicuro, pur sperimentando la paura, il senso di distacco e la solitudine durante il loro
svolgimento.
34
Benasayag M. e Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005, p. 61.
Questa situazione lancia una sfida all’educazione: ricostruire percorsi di iniziazione e riti di passaggio
socialmente riconosciuti e validati che certifichino l’uscita dalla dipendenza infantile e l’ingresso nella
società adulta.
Occorre poi tenere conto che la propensione al rischio di adolescenti e giovani nell’attuale cultura
sociale è rinforzata, a causa della perdita del senso lineare e monodirezionale del tempo della storia di
cui si parlava prima, dalla presenza in essa della concezione della reversibilità del tempo. Questa concezione si manifesta nel fatto che molti giovani ritengono che da ogni loro scelta, per impegnativa o rischiosa che sia, si possa sempre, o quasi, tornare indietro e ripartire in un’altra direzione. Questo consente ai giovani che vivono la reversibilità della scelte di non negarsi nulla, anche di ciò che è ritenuto
trasgressivo, perché sono convinti che tanto si tratta di una scelta da cui è possibile tornare indietro.
Purtroppo, invece, in molte situazioni esistenziali la reversibilità è solo parziale e relativa o, perlomeno, molto difficile. E’ questo il caso, ad esempio, del consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope
che vede molti giovani imprigionati nella distruttività della dipendenza in cui erano entrati con
l’illusione di poterne uscire quando volevano.
L’ideologia della reversibilità delle scelte è perciò da considerarsi molto pericolosa, vista la forte esposizione che i giovani in questa fase storica hanno all’abuso dell’alcool e delle droghe e la maturazione in una quota significativa di essi della concezione dell’ammissibilità del consumo di droghe cosiddette leggere che, molto spesso, non sono affatto leggere o che comunque per alcuni svolgono la funzione
di iniziazione al consumo di droghe pesanti.
Eccessiva-mente 35
La propensione dei giovani al rischio e ad alcune forme di eccesso nasce dal fatto che essi percepiscono, spesso confusamente, che esso svolge nella vita sociale e personale alcune funzioni importanti.
La prima funzione che essi percepiscono è quella dell’eccesso come agente di cambiamento che consente di superare il vecchio limite e di scoprirne uno nuovo, ridefinendo i comportamenti personali o
quelli collettivi, conquistando, limitatamente o radicalmente, un nuovo modo di essere. Questo cambiamento è però sempre aperto, sia in senso evolutivo sia in senso regressivo, e rappresenta sempre un
rischio, ridotto però dal fatto che, secondo questi giovani, nella situazione di eccesso riemergerebbero i
valori e le regole assimilate nei processi socializzanti ed educativi.
Una seconda funzione dell’eccesso che i giovani avvertono è quella che esso sarebbe una sorta di segnale della presenza nella vita sociale di forme di disagio.
Molto più interessante è articolata appare la terza funzione dell’eccesso che viene individuata, in cui
si afferma che esso consentirebbe l’introduzione di nuove regole o la riaffermazione delle vecchie nella
vita quotidiana della società.
Infine un’ultima funzione dell’eccesso che viene descritta dai giovani è quella liberatoria, o meglio
dell’eccesso come rito che celebra la liberazione da una situazione vissuta come costrittiva e/o oppressiva.
Infine occorre sottolineare come dai giovani venga evidenziata la caratteristica dell’eccesso di manifestarsi all’interno di una progressione continua, nel senso che superato un limite si propone di superarne un altro in un movimento senza fine.
Nella funzione dell’eccesso si manifesta in modo chiaro ed evidente la concezione classica della dialettica limitato illimitato.
Il vissuto dell’eccesso
I giovani percepiscono la società in cui vivono come la società dell’eccesso.
Ma non solo. La loro vita è percepita come tracciata ai bordi dell’eccesso.
Un primo insieme di eccessi, che si può ricavare dagli esempi di eccessi sociali che i giovani hanno
indicato, riguarda il tentativo prometeico di controllare la vita e il corpo umano che è presente
nell’attuale cultura sociale e che si esprime nelle pratiche dell’aborto, dell’eutanasia, nelle biotecnologie e
35
In questa parte si fa riferimento alla ricerca pubblicata nel volume: Pollo M., Eccessiva-mente, Franco Angeli, Milano 2002.
nella manipolazione della natura in genere, nella pratica del doping e delle droghe e nella ricerca di una
impossibile eterna giovinezza.
Un secondo insieme, molto più esteso, riguarda la dimensione relazionale della vita sociale che produce, da un lato, anonimato e, dall’altro lato, forme di esibizionismo per tentare di sfuggire ad esso, e in
cui i rapporti tra le persone tendono a divenire sempre più virtuali e in cui l’identità spesso si riduce
all’immagine di se stessi.
Il tutto all’interno di un diffuso conformismo sociale in cui spesso la stessa trasgressione non è altro
che una impropria richiesta di aiuto.
Il terzo insieme, infine, riguarda alcuni valori della vita economico-sociale, in cui accanto al consumismo, alla ricerca esasperata del successo, al carrierismo, alla ricerca del guadagno facile, compaiono fenomeni come la globalizzazione, l’eccesso e l’impoverimento dell’informazione, la giapponesizzazione
della produzione e dei consumi, l’eccesso di armamenti, la carenza del lavoro, da un lato, e il lavoro minorile, dall’altro lato.
Oltre a questa critica radicale di alcuni valori fondanti l’attuale cultura sociale, i giovani hanno affrontato la descrizione dei loro eccessi personali che, si manifestano nella sfera delle dipendenze, del carattere personale e degli stili di vita.
Le dipendenze che alcuni giovani vivono sono più numerose di quelle degli adolescenti e riguardano
l’alcol e le droghe, il cibo, le comunicazioni telematiche, il tifo sportivo, il cinema, la velocità,
l’automobile, il lavoro, i videogiochi e i videopoker.
L’elenco degli eccessi personali caratteriali indicano l’esistenza in questi giovani di una discreta capacità di introspezione e di percezione dei propri limiti personali.
Infine, tra gli eccessi relativi agli stili di vita compaiono alcune interessanti notazioni che riguardano
la perdita di senso del proprio lavoro ridotto a merce, la dissoluzione dei ritmi sociotemporali, la difficoltà di elaborazione del lutto, l’eccesso di spese e la difficoltà a vivere la dimensione della gratuità e del
dono nella vita sociale.
Questi ultimi eccessi sembrano essere più indotti dalla vita sociale che il frutto di libere e autonome
scelte dei giovani.
Limiti e regole
Nella maggioranza dei giovani emerge chiaramente la consapevolezza che il limite è necessario alla
vita umana, ma che però esso può essere, nello stesso tempo, sia giusto che ingiusto. Ogni limite, infatti, è sempre percepito come relativo, in quanto si manifesta nelle particolarità delle situazioni individuali, sociali e storiche, ed è disegnato dai valori della cultura sociale e da una moltitudine di altri fattori.
Tuttavia nei giovani vi è la consapevolezza non si dà né educazione né vita civile senza limite. Lo
stesso benessere dell’organismo umano dipende dall’esistenza dei limiti.
Il limite è quasi sempre visto come sinonimo di norma e di regola.
Oltre ai limiti esterni alla persona, come quelli costituiti dalle regole e dalle norme sociali, i giovani
individuano anche i limiti personali, costituiti dalle effettive potenzialità e capacità del proprio organismo e della propria personalità.
Molte volte viene però denunciata una sorta di impotenza rispetto alla capacità di gestire efficacemente i propri limiti personali. Impotenza che si traduce in un handicap per la persona tanto nella vita
lavorativa, quanto in quella relazionale. Tra l’altro i giovani individuano nell’eccesso un modo per esplorare i propri limiti personali e spostarli, aumentando in questo modo le risorse che essi hanno a disposizione per realizzare il proprio progetto di vita.
E’ interessante la considerazione che i giovani fanno secondo cui sia le norme e le regole sociali che
quelle personali garantiscono la libertà personale. E questo indica che la connotazione del significato sia
di regola che di norma appare pienamente positiva.
Ai limiti e, quindi, alle norme ed alle regole viene riconosciuta la funzione di argine nei confronti delle forze istintuali, che spesso possono essere distruttive o quanto meno inadeguate a sostenere la vita
sociale e personale dell’individuo. I limiti aiutano perciò le persone a costruirsi secondo un progetto eticamente ed esistenzialmente evoluto.
Un esempio che viene spesso utilizzato dai giovani per sottolineare la funzione sociale delle regole è
quello del gioco. La vita sociale è vista come un gioco, che va giocato non con le regole fisse dei giochi
tradizionali, ma con delle regole flessibili in grado di evolversi, adattandosi alla complessità delle situazioni e accompagnando le trasformazioni della società.
Le regole, quindi, se evolvono continuamente e si adattano alle trasformazioni sociali e culturali,
consentono la convivenza sociale e garantiscono la libertà delle persone proprio perché la limitano.
Dai giovani viene anche sottolineata in modo forte la funzione formativa delle regole, ragione per
cui i bambini dovrebbero essere abituati a regolare la propria condotta attraverso regole chiare e precise, a iniziare da quelle alimentari. Tra l’altro esse servirebbero anche a favorire i vari passaggi attraverso
cui avviene la crescita. Passare da una fase dello sviluppo ad un'altra richiederebbe, secondo questo
punto di vista, la capacità di agire secondo delle regole specifiche dell’età.
Concludendo si può affermare che i giovani, specialmente quelli che già lavorano, manifestano un livello esteso di accettazione delle regole, delle norme e dei limiti che caratterizzano la società che abitano. In altre parole, i giovani esprimono un totale rispetto della legalità, sia di quella costituita dalle leggi
dello stato, sia di quella fatta dal codice etico non scritto della cultura sociale. Anche se si riconosce che
quest’ultimo è molto più legato alla soggettività delle persone e, quindi, meno normabile.
Come si vede tra i giovani esiste, al di là degli stereotipi sociali, una visione della dialettica eccesso/
limite che sembra in grado di far evolvere positivamente al crisi del limite che sembra segnare l’attuale
cultura sociale.
La frammentazione dell’identità
L’incontro virtuale con l’altro
Se è vero che nella cultura sociale della seconda modernità vi è l’emergere della coppia identità/alterità virtuale è altrettanto vero che vi sono dei segni che indicano che tra i giovani è in atto un
processo di riappropriazione dell’alterità che, anche se per ora si sta giocando solo all’interno del mondo vitale quotidiano, potrà comunque portare alla scoperta di una autentica alterità.
A questo proposito è da segnalare l’esistenza di una minoranza di giovani che ha messo al centro
della propria vita una costellazione di valori che può essere definito dell’alterità solidale e che è formata da
valori quali: l'uguaglianza, ovvero l'esistenza di uguali opportunità per tutti, la giustizia sociale, intesa
come tutela dei più deboli, la disponibilità ad aiutare promovendo il benessere degli altri, la responsabilità, nel senso di essere affidabile per gli altri, l'armonia interiore, il rispetto di sé, la libertà di pensiero e
di azione, l'apertura mentale e la tolleranza e la relazione negativa di tutti questi valori con quelli del potere sociale e della ricchezza materiale.
Questa costellazione valoriale è importante perché segnala la presenza di un sistema di valori ascrivibile, come si è detto, alla categoria della alterità, che è un vero e proprio fondamento etico in grado di
ristrutturare l'intero sistema di valori della cultura sociale, restituendo ad esso quella gerarchia che la
complessità ha fatto smarrire, imprigionando le scelte etiche di molti giovani nell'angusto limite dei loro
bisogni e desideri soggettivi. L'alterità, infatti, è in grado di restituire al soggetto quel confronto con l'altro da me essenziale per la realizzazione di una eticità meno narcisistica.
La potenzialità trasformatrice della cultura sociale che la presenza di questa costellazione di valori
può innescare offre un fondamento concreto alla speranza.
L’esperienza religiosa 36
I risultati delle ricerche di tipo qualitativo consentono di affermare che per la grande maggioranza
degli adolescenti e dei giovani l’esperienza religiosa si colloca interamente all’interno dei confini del vissuto soggettivo.
Questo dato sembra confermare l’osservazione formulata nella prima parte relativamente alla prevalenza della dimensione emozionale nell’esperienza religiosa, che va letta certamente come reazione
36
2002.
Questa parte è tratta dalle ricerche pubblicate nei volumi: Pollo M., Il volto giovane della ricerca di Dio, Piemme, Casale Monferrato
all’aridità del positivismo, che si esprime in una riscoperta della conoscenza attraverso il vissuto soggettivo.
Infatti «alle certezze che si acquisiscono lentamente e che richiedono una lunga ricerca tra le idee, le
dottrine e i testi sacri, si contrappone volentieri una conoscenza scaturita da un’esperienza vissuta personalmente: “Dio esiste, io l’ho incontrato” è l’affermazione perentoria di una conoscenza immediata,
appena formulata, ma che è fonte di una certezza assoluta». 37
La fede in Dio e in Gesù
Tra i giovani italiani vi è una elevata percentuale di credenti in Dio che si attesta intorno all’82%. Di
questi il 75% crede alla religione cattolica, un 1% a altre fedi cristiane e il restante 6% a altre fedi religiose mentre gli atei sono l’11% e gli agnostici il 6%. 38 Questo significa che il problema dell’attuale fase
storica non è quello della fede nell’esistenza di un Essere Supremo, di un Dio, ma nel modo di pensare
e vivere questa fede.
Andando oltre il dato statistico si osserva che tra i giovani italiani, che pur si dichiarano cattolici,
emergono differenti modi di credere in Dio e in Gesù.
Per quanto riguarda la credenza in Dio si osserva che nella maggioranza dei giovani più lontani dalla
chiesa è presente o una credenza che ha chiaramente un carattere sincretistico, nel senso che una buona
parte di essi ritiene che è lo stesso Dio che si manifesta in modi e forme diverse nelle varie religioni o
una credenza che identifica Dio semplicemente in una forza sovrannaturale, impersonale che non possiede i tratti della bontà o della misericordia, ma solo quelli della onnipotenza e onnipresenza. Una variante a questa credenza è quella che concepisce Dio come una forza interna che l’uomo possiede e che
si manifesta nei sentimenti di amore e di amicizia. Si può dire che nei giovani e negli adolescenti che
non fanno parte dei gruppi e delle associazioni ecclesiali emergono chiaramente dei caratteri che sono
tipici della cosiddetta “religione alla carta”.
Vi è anche tra questi giovani “lontani” una minoranza che esprime un autentico credo cristiano ma
formata in gran parte da giovani di genere femminile. L’appartenenza alla fede cristiana è leggibile in
questi giovani nel loro credo trinitario e, quindi, in Gesù. Nella fede in Gesù è leggibile un significativo
cambiamento rispetto ad alcuni anni fa, in cui era presente una sorta di rimozione di Gesù e dello Spirito Santo dall’orizzonte della fede giovanile.
Tra i giovani più vicini alla chiesa, ovvero tra quelli che partecipano ai gruppi e alle associazioni ecclesiali è massicciamente presente la fede in un Dio personale che è presente nella loro vita e che si è
rivelato nella storia attraverso Gesù. Occorre sottolineare che questa credenza è espressa con molta più
precisione dalle femmine che dai maschi. Si può dire che tra i giovani Gesù ha un ruolo assolutamente
centrale nella loro esperienza religiosa, e questo indica un’inversione di tendenza rispetto a un passato
recente a cui quasi sicuramente non sono estranee le giornate mondiali della gioventù e le catechesi del
Papa Giovanni Paolo II.
Approfondendo il discorso intorno alla fede in Gesù si osserva che è qui che le trasformazioni della
cultura sociale e del suo immaginario rivelano maggiormente il loro influsso, in alcuni casi devastante, in
particolare tra gli adolescenti maschi più lontani dalla chiesa. Tra di essi infatti è dominante la convinzione che Gesù sia stato un grande uomo carismatico, un profeta, un grande rivoluzionario, ma sempre
e comunque solo un uomo.
Dall’analisi del modo di pensare Gesù da parte degli adolescenti emergono molto chiaramente tre
considerazioni.
La prima è che l’immagine di Gesù come Figlio Unigenito di Dio sembra andare progressivamente
restringendosi agli adolescenti che hanno un’appartenenza più stretta e solida con la Chiesa. Questo significa che la comunicazione della memoria di Gesù non è più diffusa nella comunicazione sociale ma
solo in quella interna alla comunità ecclesiale o che da questa è emessa. Mentre sino a non molti anni fa
una certa qua socializzazione religiosa cristiana poteva avvenire all’interno delle relazioni/comunicazioni della vita sociale quotidiana, oggi questa può avvenire solo all’interno del frammento
di società costituito dalla comunità ecclesiale.
37
38
Meslin M., l’esperienza religiosa, in Lenoir F. e Masquelier Y.T., La religione, Vol. VI : i temi, Utet, Torino 2001, p.166.
Grassi R. (a cura di), La religiosità giovanile in Italia, Istituto Iard, Milano 2005.
La seconda considerazione mette in luce come la catechesi e la comunicazione intorno alla Trinità
sembra essere o inesistente o inadeguata, vista la confusione e la bizzarria che segna alcune concezioni
di essa.
La terza, invece, ha un carattere positivo in quanto indica come rispetto ad alcuni anni fa, tra gli adolescenti ed i giovani vicini alla chiesa, vi sia una maggior centralità di Gesù nella loro esperienza di fede.
Dopo un periodo di apparente eclisse, la fede e il rapporto con Gesù sembrano caratterizzare nuovamente l’esperienza religiosa di quegli adolescenti e giovani che la vivono all’interno della comunità
ecclesiale.
La fede in Dio creatore
Passando ad analizzare la fede in Dio creatore dell’universo e della vita, si osserva che essa è minore
di quella generica in Dio. Questo significa che ci sono degli adolescenti e dei giovani che credono in
Dio ma non nel suo essere il Creatore.
Oltre a questo c’è da segnalare che una parte di coloro che credono che Dio sia il loro creatore non
riconosce alcun legame di dipendenza nei suoi confronti, anche perché non percepisce alcun carattere
terrifico in Lui, ma quasi esclusivamente benevolenza e capacità di comprensione e di perdono.
Anche in questo caso sono leggibili i segni della cultura della modernità che enfatizza l’autonomia,
l’autosufficienza e la libertà del soggetto e, quindi, la capacità di autodeterminazione pressoché totale
della propria vita.
Il rapporto con Dio
La differenza tra i giovani più vicini e quelli più lontani dalla chiesa si gioca nel modo di vivere il
rapporto con Dio. Se è vero che la stragrande maggioranza degli adolescenti e dei giovani ha una qualche forma di rapporto con Dio, è altrettanto vero che la totalità dei giovani più lontani dalla chiesa ha
un rapporto personale e solitario con Dio, abbastanza discontinuo e, soprattutto, al di fuori delle forme
tradizionali della liturgia e della preghiera comunitaria ecclesiale.
Anche nel rapporto con Gesù si osserva una forte differenza tra i giovani vicini e quelli lontani. Infatti tra i giovani la maggioranza dei lontani non ha alcun rapporto con Gesù, ma ha solo rapporti con
Dio. Tra i giovani vicini la situazione si ribalta completamente. Essi manifestano l’esistenza nella loro
vita di rapporti molto vivi, forti e intensi con Gesù che sono considerati indispensabili per dare un orientamento e una direzione di senso alla propria vita, per dare speranza e per superare le difficoltà, le
sconfitte e i fallimenti che segnano la propria vita.
Infine occorre osservare che per quanto riguarda la pratica religiosa c’è da osservare che essa, sia tra i
giovani vicini che tra quelli lontani, coincide quasi interamente con la partecipazione alla celebrazione
eucaristica.
L’importanza della religione
L’analisi dell’importanza che la religione ha concretamente nella vita dei giovani è alquanto complessa, nel senso che non attraversa solo la vicinanza o la lontananza dalla chiesa ma anche le età. Infatti essa appare più importante nei giovani rispetto agli adolescenti e, naturalmente, tra i vicini rispetto ai lontani.
Per la maggioranza degli adolescenti la dimensione religiosa è poco o niente importante nella loro vita. occorre osservare che in questa maggioranza non ci sono solo i lontani ma anche una quota significativa di vicini. Questi ultimi si dividono in tre categorie: quelli per cui la religione è importante solo
quando sono nel gruppo ecclesiale; quelli che mettono la religione dopo le esigenze della loro vita personale; e, infine, quelli che vanno a corrente alternata, per i quali la religione alcune volte è importante e
altre no.
In tutti e tre i casi sono leggibili gli effetti della polverizzazione della modernità in atto che, da un lato, opera una ipervalorizzazione del soggetto e, dall’altro lato, frantuma ulteriormente l’esperienza di vita delle persone in tanti istanti relativamente autonomi gli uni dagli altri.
La minoranza, costituita oltre che da una maggioranza da adolescenti appartenenti a gruppi/associazioni ecclesiali anche da una minoranza di lontani, affida un ruolo importante alla dimensione
religiosa nella propria vita per due diverse ragioni. La prima, di tipo psicologico, è costituita dalla convinzione che l’esperienza religiosa influenza positivamente la loro crescita personale, umana e spirituale,
mentre la seconda, di tipo esistenziale, sottolinea il fatto la religione riempie la loro vita di quel senso
che altrimenti non avrebbe. Al di là di questo risulta evidente che in ogni caso la presenza della religione
è sentita da questi adolescenti come la presenza di Dio che sostiene la vita. Si tratta, comunque, sempre
di un’importanza relativa alla vita personale, interiore del soggetto ma che quasi sempre si esaurisce sulla soglia delle scelte di vita sia personali che sociali. Infatti, per la grande maggioranza degli adolescenti
la dimensione religiosa della vita rimane rinchiusa nell’alveo di una esperienza intima, personale e non si
riflette nella vita sociale e relazionale delle persone.
Una fede nascosta, che non diventa vita se non indirettamente. Anzi quando le esigenze della vita
sociale lo richiedono si possono tradire i principi religiosi per poter essere come le circostanze relazionali di quel momento richiedono.
Il policentrismo etico tipico che deriva verso l’individualismo di questa fase della seconda modernità
si manifesta qui in tutta la sua evidenza. La prospettiva del regno sembra essersi dissolta all’interno di
una religiosità disincarnata dalla vita.
Passando dagli adolescenti ai giovani si osserva un riconoscimento molto più ampio, di quello registrato tra gli adolescenti, dell’importanza della religione nella loro vita personale. Tra questi giovani si
registrano grosso modo tre diversi atteggiamenti nei confronti della dimensione religiosa dell’esistenza.
Un primo gruppo è formato da giovani per i quali la religione non ha alcuna importanza per la loro
vita in quanto si dichiarano non credenti.
Un secondo gruppo è formato da persone che non riconoscono alla religione una importanza per la
loro vita personale ma, bensì, una importanza a livello sociale e politico.
Un terzo gruppo, infine è formato da coloro per i quali la religione assume una concreta importanza
nella loro vita personale. I motivi dell’importanza sono da ricercare negli orientamenti valoriali, nei
principi che essa offre e che, quindi, consentono di orientare il percorso esistenziale dei giovani.
È interessante notare come tra le giovani anche lontane vi sia un riconoscimento quasi unanime che
la religione è importante per la loro vita. La differenza tra i maschi e le femmine in questa fase storica
appare molto accentuata. Tra l’altro a sostegno del loro atteggiamento le giovani esprimono riflessioni
molto profonde e articolate, qualitativamente superiori a quelle dei loro coetanei maschi.
Passando dai giovani lontani a quelli vicini si osserva un riconoscimento dell’importanza della religione per la vita personale pressoché unanime. Ma anche qui si nota una qualche differenza tra i maschi
e le femmine. Infatti tra i maschi i motivi che fondano questo riconoscimento vi è la constatazione che
la religione lega insieme tutte le parti in cui si declina la vita di una persona e influenza, quindi, le scelte
e l’agire personale e sociale del credente, offendigli anche la speranza, anche se alcune volte vi è
l’impossibilità di una comprensione piena della propria esperienza religiosa, che possiede un alone di
mistero e di indecifrabilità.
Tra le femmine c’è, rispetto ai maschi, una maggiore articolazione dei motivi che vengono addotti a
sostegno dell’affermazione dell’importanza della religione per la loro vita. Una prima motivazione riguarda il fatto che la religione costituisce il fondamento dell’agire personale e sociale, ciò che lo orienta
e lo sostiene. Una seconda motivazione è data dal riconoscimento che la religione è, prima di tutto, una
relazione con Dio e con Gesù e, quindi, una esperienza di fede più che un insieme di pratiche e di rituali. Essa è anche un rifugio in cui rigenerarsi, trovare consolazione ed essere educati ad affrontare le fatiche, le sconfitte e le sofferenze della vita quotidiana.
Una terza motivazione, infine, è costituita dal sentire la religione come un cammino verso Dio, un
cammino di crescita personale a livello umano e spirituale e, quindi, dal considerare la religione come
una parte essenziale dell’essere umano.
L’appartenenza ecclesiale
Per quanto riguarda il sentimento di appartenenza ecclesiale sono presenti forti differenze tra i maschi e le femmine e, naturalmente, tra gli appartenenti ai gruppi/associazioni ecclesiali e gli altri adolescenti e giovani.
Infatti, la rande maggioranza degli adolescenti e dei giovani maschi che non appartengono a un
gruppo o a una associazione ecclesiale dichiara di non sentirsi appartenenti alla Chiesa Cattolica. Tra le
femmine questa situazione si ribalta in quanto la maggioranza delle giovani si sente parte della chiesa.
Tra i giovani che fanno parte di gruppi e associazioni ecclesiali si osserva un sentimento di appartenenza alla chiesa che si articola in tre diverse forme.
La prima forma è quella del sentimento che può essere definito di appartenenza forte, che è manifestata da giovani che percepiscono l’appartenenza ecclesiale come un elemento fondamentale per la loro
vita personale, oltre che per la loro fede. E’ un sentimento in cui sono presenti anche l’entusiasmo, la
gioia, la fierezza e la fedeltà.
La seconda forma è quello del sentimento che può essere descritto come dell’appartenenza critica.
Infatti i giovani che vivono questo senso di appartenenza ecclesiale non condividono spesso alcuni modelli dell’organizzazione e alcuni aspetti della vita ecclesiale, magari perché la sentono distante dalla vita
delle persone che abitano il mondo reale. Nonostante questo però hanno scelto, facendo un deciso atto
di fede, di stare al suo interno.
La terza forma è quella che può essere definita, paradossalmente, dell’appartenenza senza appartenenza. Questa posizione verso la chiesa è espressa da chi non si sente appartenente alla chiesa, ma che
però non può fare a meno di partecipare alla vita della comunità ecclesiale per poter condividere la celebrazione eucaristica.
A questo proposito è necessario rilevare che il far parte di gruppi e associazioni ecclesiali non garantisce sempre un senso forte di appartenenza ecclesiale, in quanto in alcuni casi l’appartenenza si manifesta solo nei confronti del movimento, dell’associazione o del gruppo.
Esperienza etica
L’esplorazione dell’esperienza etica degli adolescenti e dei giovani può essere condotta intorno a tre
fuochi. Il primo è quello del vissuto dei sensi di colpa, il secondo quello della sessualità e il terzo quello
della percezione di un limite alla propria libertà.
Il vissuto dei sensi di colpa
Tra gli adolescenti e i giovani si può rilevare come i sensi di colpa siano vissuti più intensamente e in
modo più angoscioso dai maschi, soprattutto da quelli non appartenenti ai gruppi e alle associazioni ecclesiali.
Tra gli appartenenti ai gruppi e alle associazioni ecclesiali l’esperienza dei sensi di colpa appare, invece, meno intensa e drammatica.
E’ questo un dato significativo perché indica che in questi anni c’è stato un profondo cambiamento
nella catechesi relativa alla colpa e, quindi, al peccato, che fa si che coloro che vivono più intensamente
l’appartenenza ecclesiale tendano sperimentare minori sensi di colpa di chi la vive più tenuemente.
Questo fa si che mentre per gli adolescenti lontani la religione non giochi alcun ruolo nell’alleviare o
nell’aggravare i sensi di colpa, per quelli vicini essa giochi un ruolo importante nel loro superamento.
Tra le femmine vi è, invece, l’assegnazione di un ruolo molto più marginale all’esperienza religiosa
nel superamento dei sensi di colpa anche perché esso produce un profondo malessere, specialmente
quando è il risultato di un comportamento che tradisce un loro proposito, perché spesso il peccato è
compiuto nonostante la consapevolezza di stare facendo qualcosa di male, che tradisce la volontà e
l’amore di Dio.
Passando dagli adolescenti ai giovani il rapporto esistente tra il vissuto dei sensi di colpa e la religione si modifica profondamente. Infatti, tra i giovani lontani emergono quattro diversi tipi di esperienze.
Il primo tipo di esperienza, vissuta da una minoranza, è quella in cui la fede religiosa accresce il senso di colpa, rendendolo più forte e angosciante.
Un secondo tipo di esperienza è quella in cui la fede religiosa ha un rapporto non lineare con il vissuto della colpa, nel senso che in alcune circostanze lo rende più gravoso e in altre lo allevia.
Nel terzo tipo di esperienza, quello più diffuso, la fede religiosa in un Dio che è un padre misericordioso, sembra alleviare, aiutando a superarlo, il senso di colpa.
Infine, il quarto tipo di esperienza, molto minoritaria, postula una totale indipendenza tra senso di
colpa ed esperienza religiosa.
Come già per gli adolescenti, i giovani che fanno parte di gruppi ed associazioni ecclesiali manifestano un rapporto meno angosciante con la colpa perché per la maggioranza di essi l’esperienza religiosa è
un aiuto decisivo all’accettare serenamente e a superare i sensi di colpa.
I modi attraverso cui il superamento dei sensi di colpa avviene sono almeno cinque.
Il primo modo si basa su una doppia azione della esperienza religiosa in quanto essa, da un lato, rende i giovani più consapevoli, evidenziandole, delle proprie colpe e, dall’altro lato, attraverso la confessione e la fede nell’amore di Dio, aiuta questi stessi giovani a superare i propri sensi di colpa.
Il secondo modo, che potrebbe essere definito a-motivazionale, è la semplice esperienza del superamento del senso di colpa che la religione aiuta a fare, senza che le persone sappiano bene come e perché questo avvenga.
Il terzo modo è quello classico del superamento del senso di colpa grazie al sacramento della riconciliazione.
Il quarto modo è prodotto dalla fede in un Dio che ti ama e ti accetta così come sei, con le tue debolezze e con i tuoi pregi e questo aiuta i giovani ad accettare la propria finitudine umana. L’accettazione
della propria debolezza come via alla scoperta della propria forza e della costruzione autentica di sé.
Il quinto modo è quello dell’amore, ovvero a vivere il superamento della colpa attraverso le azioni
che manifestano il proprio amore per la vita, per gli altri e per Dio. La colpa viene superata non con la
macerazione interiore ma facendo ciò che Gesù ha comandato di fare.
Il vissuto della sessualità
Intorno a questo aspetto della loro vita negli adolescenti non compaiono significative differenze tra
la maggioranza dei vicini, ovvero degli appartenenti ai gruppi e alle associazioni ecclesiali, e i cosiddetti
lontani. Infatti c’è solo una minoranza di adolescenti appartenenti, specialmente femmine, che si muove
in una direzione diversa da quella indicata dall’attuale cultura sociale dominante.
I rapporti sessuali sono vissuti concretamente dalla maggioranza degli intervistati e non sembrano
creare loro alcun senso di colpa, anche se hanno una appartenenza ecclesiale stabile e forte.
C’è spesso il rifiuto di sottomettere la propria sessualità a una qualche norma etica che non sia quella
del rispetto dell’altro e il non scendere al di sotto del livello di animalità.
Nel caso degli appartenenti spesso c’è una vera e propria dichiarazione di rifiuto di sottomettere la
propria sessualità ai principi morali indicati dalla chiesa.
L’unica differenza che emerge tra i vicini e i lontani riguarda la masturbazione. Mentre i primi tendono a condannarla i secondi sono spesso propensi a giustificarla.
Da questo conformismo che segna la grande maggioranza degli adolescenti riguardo la sessualità si
stacca un resto di Israele, formato da adolescenti, sia maschi che femmine, anche se queste ultime sono
in numero maggiore, che non hanno ancora avuto rapporti sessuali.
Non si tratta quasi mai di casi in cui la castità è dovuta al caso o a qualche impossibilità. Infatti dietro
di essa c’è sempre una scelta consapevole e libera.
La scelta volontaria e libera della castità nasce sia dal desiderio di farlo con la persona giusta, ovvero
con la persona con cui ci sarà un autentico rapporto d’amore, sia da scelte etiche legate alla propria fede
religiosa. In entrambi i tipi di scelta c’è, comunque, chiaro il rifiuto del consumismo sessuale dominante, che si esprime spesso anche nel progetto di avere il primo rapporto sessuale solo dopo il matrimonio.
Anche tra i giovani si osserva la presenza dello stesso conformismo rilevato tra gli adolescenti, salvo
anche qui per una esigua minoranza, quasi completamente femminile, che ha scelto decisamente la castità prematrimoniale.
La maggioranza dei giovani maschi vive la propria sessualità in modo sereno, come un elemento naturale dell’esistenza e come compimento pieno della relazione d’amore. È interessante che osservare
che i sensi di colpa prodotti dall’attività sessuale sono maggiormente presenti tra i giovani più lontani
mentre sono quasi completamente assenti tra gli appartenenti ai gruppi ecclesiali.
Tra le giovani vi è una maggiore problematicità e una meno facile accettazione della propria condotta sessuale specialmente quando essa avviene all’interno di una relazione in cui non vi è un vero sentimento di amore per il proprio partner e, quindi, essa è solo una risposta al desiderio sessuale.
Passando ad analizzare il rapporto degli adolescenti con gli orientamenti della chiesa e del magistero
nel campo della morale sessuale, si osserva per prima cosa una significativa differenza tra
l’atteggiamento dei maschi e quello delle femmine.
Infatti la quasi totalità dei maschi, sia lontani che vicini, dichiara di essere esplicitamente contraria, o
perlomeno afferma di non seguirli, agli orientamenti morali proposti dal magistero in materia sessuale
specialmente riguardo i rapporti prematrimoniali e la contraccezione.
Tra le femmine, invece, vi è una minoranza consistente che afferma di condividere gli orientamenti
della chiesa e di seguirli senza eccessivi problemi.
In generale si può osservare, quindi, che vi è tra la maggioranza degli adolescenti un rifiuto delle
norme morali della chiesa in materia sessuale, in particolare per quanto riguarda i rapporti prematrimoniali e la contraccezione, ma vi è però nello stesso tempo un rifiuto del consumismo sessuale, dominante nell’attuale cultura sociale, e la volontà di connettere l’esperienza sessuale a quella affettiva.
Passando ai giovani si osserva che sia tra i maschi che tra le femmine non appartenenti solo una esigua minoranza accetta come limite all’espressione della propria sessualità gli orientamenti morali della
chiesa. La maggioranza esprime, infatti, un netto rifiuto di questi orientamenti morali con motivazioni
differenti.
Passando agli appartenenti ai gruppi/associazioni ecclesiali, sia maschi che femmine, la situazione
cambia significativamente perché la maggioranza di questi giovani sembra avere scelto di aderire alle
norme morali della chiesa, affidandosi e vincendo gli eventuali dubbi personali. Anche qui vi è, comunque, una forte minoranza che rivendica come limite alla sessualità unicamente la presenza o l’assenza
dell’amore tra i due partner e, rifiutano, quindi, ogni codice etico eteronomo, oppure che affida solo alla
propria soggettività il giudizio morale intorno alla sessualità, sostenendo magari che il loro giudizio nasce dal loro rapporto personale con Dio.
E’ interessante che la maggioranza che accetta la morale cristiana in ordine alla sessualità, non la segua però concretamente nella propria vita quotidiana.
Esistenza di un limite alla propria libertà di scelta
Solo una esigua minoranza di adolescenti lontani rifiuta di limitare le proprie scelte e la propria libertà di azione. La maggioranza individua, invece, un limite nell’altro, nella sua libertà, nei suoi diritti e nella necessità di garantire la sua integrità, fisica, morale e personale, più che in un codice etico vero e proprio.
C’è anche chi fa riferimento a un codice etico personale, soggettivo, che non coincide con quello sociale o religioso e che rifiuta a priori ogni principio trascendente.
Vi è solo una minoranza che fa riferimento al codice etico consegnatogli dalla tradizione, in particolare da quella cristiana.
Anche tra la quasi totalità degli adolescenti vicini è, stranamente, assente il riferimento a un codice
etico, alla legge divina, alla morale proposta dalla tradizione ecclesiale, perché anche qui il riferimento è
costituito esclusivamente dall’altro da me. Questo significa che l’appartenenza o la non appartenenza
ecclesiale non produce differenze significative tra questi adolescenti.
Tra i giovani la differenza prodotta dall’appartenenza ecclesiale è solo lievemente più visibile.
I giovani, maschi e femmine, lontani riconoscono tre tipi di limite alla propria libertà di scelta. Il
primo è il proprio limite personale e il riconoscimento dei limiti degli altri.
Il secondo tipo di limite, quello condiviso dalla larghissima maggioranza, è costituito dall’altro da me,
dalla sua libertà, dalla sua autonomia e dai suoi diritti. Tra questi ce ne è uno solo che si rivolge non solo all’altro ma al Totalmente Altro.
Infine, il terzo tipo di limite è dato esclusivamente dall’etica personale, soggettiva dell’individuo.
I giovani appartenenti riconoscono, invece, due soli tipi di limite alla propria libertà. Il primo limite,
indicato però solo dalla minoranza di essi è dato dall’amore verso Dio e, quindi, dal riconoscimento della propria creaturalità e dipendenza dalla Sua volontà, mentre la maggioranza individua il proprio limite
nel secondo tipo nel riferimento all’altro. La differenza più significativa rispetto ai lontani è che negli
appartenenti non compare solo il rispetto dell’altro ma anche la donatività dell’amore.
Come si vede il limite costituito da una norma eteronoma, anche se proveniente da Dio, non sembra segnare l’orizzonte etico della maggioranza dei giovani e degli adolescenti.
Comunque il fatto che il limite sia segnato dall’altro è comunque positivo perché l’alterità è comunque il fondamento di ogni costruzione morale.