Adolphe Appia, Attore musica e scena Capitolo terzo Lo spazio vivente Finora ci siamo occupati più particolarmente della musica e del corpo vivente. L’idea di spazio ci è stata data solo dai movimenti del corpo, proporzionati alle durate musicali. Questi movimenti si svilupperanno ora nello spazio che li circonda, nell’atmosfera che li avvolge, e cercheranno nell’uno e nell’altra degli alleati. Il corpo è l’interprete della musica presso le forme inanimate e sorde. Possiamo pertanto abbandonare momentaneamente la musica: il corpo l’ha assorbita e saprà guidarci e rappresentarla nello spazio. Il corpo disteso, seduto o in piedi su di un punto del suolo, si esprime, nello spazio che esso occupa e misura, attraverso i movimenti delle braccia, combinati con quelli, più limitati, del busto e della testa. Le gambe riescono a conservare una parvenza di mobilità, senza cambiare il posto su cui poggia il corpo; ma la loro attività normale è tuttavia quella di percorrere lo spazio. Possiamo dunque, fin da principio, distinguere due ordini di piani: i piani destinati al moto, più o meno rapido e più o meno interrotto, e i piani consacrati alla valorizzazione del corpo nel suo insieme, ad esclusione del moto. Questi due ordini, va da sé, si compenetrano: sono i movimenti del corpo che conferiscono ad essi questa o quella destinazione. Sul terreno, i piani inclinati, e soprattutto le scale, possono essere considerati come partecipanti ai due ordini di piani. L’ostacolo che essi frappongono al libero moto, e l’espressione che suscitano nell’organismo, derivano dalla linea verticale. Dovremo pertanto fare i conti con due linee principali: dapprima quella orizzontale, poiché il corpo poggia innanzitutto su un piano per esprimere la sua pesantezza; poi quella verticale, che corrisponde alla posizione del corpo e l’accompagna. La struttura del suolo, derivata dalla linea orizzontale, non perderà mai di vista la pesantezza e cercherà di esprimerla nel modo più semplice e più chiaro possibile. Mi spiego. I vari mobili che costruiamo per la comodità della nostra vita quotidiana e per il riposo del nostro corpo sono concepiti per attenuare il contatto che abbiamo con la materia. Disponiamo di molle, imbottiture e linee curve che si adattano alle nostre forme; smussiamo gli spigoli, ammorbidiamo le superfici rigide per mezzo di stoffe che smorzano i rumori ed attutiscono i contatti. Spingiamo così lontano questa attenuazione del semplice piano che l’espressione stessa dei nostri movimenti ne risulta profondamente diminuita. Per convincersene, basta spogliarsi completamente in una stanza ben ammobiliata: il nostro corpo, senza veli, senza l’intermediario di un vestito, diventa subito estraneo a ciò che lo circonda; diventa indecente nel senso etimologico della parola, cioè fuori luogo, e la sua espressione rasenta molto da vicino l’oscenità. Ma, si dirà, una signora messa a suo agio, che si accomodi con eleganza su una poltrona, è di un’espressione deliziosa. Indubbiamente. Ma che ella si svesta e si sieda allo stesso modo sulla stessa poltrona...? Una stanza da bagno, con tendaggi, divani e cuscini, evoca idee contrarie alla vera espressione del corpo. Se invece la stessa stanza offre solo superfici piane e rigide, il corpo nudo vi appare, in anticipo e implicitamente, presente e valorizzato dal punto di vista estetico. Dei piedi nudi che salgono una scalinata coperta da un tappeto saranno dei piedi scalzi, e ce ne chiederemo la ragione. Su una scalinata senza tappeto essi saranno semplicemente nudi e pieni di espressione. È evidente che i piedi dei musulmani sui tappeti delle loro moschee sono scalzi e non nudi; essi rivelano un’intenzione religiosa e non estetica. Ma uscite dalla moschea e guardate i piedi nudi della donna che scende i gradini di una fontana: i suoi piedi nudi saranno felicemente nudi... Ogni alterazione della pesantezza, qualunque sia lo scopo che essa persegue, indebolirà l’espressione corporea. Il principio primo, forse anzi l’unico da cui tutti gli altri derivano poi automaticamente, consisterà dunque, per l’arte vivente, nel fatto che le forme che non fanno parte di quelle del corpo, cercheranno di mettersi in opposizione e mai in accordo con queste ultime. Se si presentassero tuttavia dei casi in cui l’ammorbidimento di una linea fosse desiderabile per attenuare momentaneamente l’espressione di un movimento o di un atteggiamento, il solo fatto di costituire un’affermazione eccezionale ne farebbe un oggetto di espressione. Ma se questi casi diventeranno troppo frequenti, la presenza del corpo ne risulterà sempre più indebolita, fino alla sua completa soppressione: il corpo sarà presente, ma senza effetto corporeo; i suoi movimenti diventeranno superflui, e perciò ridicoli, oppure si ridurranno a semplici indicazioni e allora ricadremo nella vita quotidiana e nel teatro di costume. Allo 100 Adolphe Appia, Attore musica e scena stesso modo, abbiamo visto che in architettura la pesantezza è la conditio sine qua non per l’espressione corporea. La pesantezza, e non la grevità! La pesantezza costituisce un principio; è per mezzo suo che la materia si afferma; e i mille gradi di questa affermazione rappresentano la sua espressione. Il volume, da solo, può volare per aria, come un pallone: la sua consistenza è illusoria; esso rappresenta una porzione di spazio momentaneamente racchiusa, nulla di più. È come la bambola di pelle gonfiata6, e, in questo senso, la danzatrice all’italiana sembra davvero un pallone frenato che viene ricondotto ogni volta, ed a tempo, al punto di partenza. Per ricevere dal corpo vivente la sua parte di vita, lo spazio deve fare opposizione a questo corpo. Adattandosi alle nostre forme esso aumenta infatti la propria inerzia. D’altra parte, è l’opposizione del corpo che anima le forme dello spazio. Lo spazio vivente rappresenta la vittoria delle forme corporee sulle forme inanimate. La reciprocità è perfetta. Questa tensione si manifesta in due modi: o tramite l’opposizione delle linee, quando osserviamo un corpo in contatto con le forme rigide dello spazio; oppure quando è il nostro stesso corpo a provare le resistenze che queste forme gli oppongono. Il primo modo non è che un risultato; l’altro costituisce un’esperienza personale, e perciò decisiva. Facciamo un esempio: supponiamo di avere un pilastro verticale quadrato dagli spigoli nettamente marcati. Questo pilastro poggia, senza basamento, su delle lastre di pietra orizzontali. Esso dà un’impressione di stabilità e di resistenza. Un corpo vi si avvicina. Dal contrasto fra il movimento di quest’ultimo e l’immobilità tranquilla del pilastro scaturisce già una sensazione di vita espressiva, che il corpo senza pilastro, e il pilastro senza quel corpo che viene avanti, non avrebbero mai ottenuto. Inoltre le linee sinuose ed arrotondate del corpo differiscono essenzialmente dalle superfici piane e dagli spigoli del pilastro, e questo contrasto è già da solo espressivo. Ma ecco che il corpo tocca il pilastro; l’opposizione si accentua ulteriormente. Infine il corpo si appoggia al pilastro, la cui immobilità offre a quello un solido punto d’appoggio: il pilastro resiste. Esso agisce! L’opposizione ha creato la vita della forma inanimata: lo spazio è divenuto vivente! Supponiamo ora che il pilastro sia solido solo in apparenza, e che il materiale che lo compone al minimo contatto estraneo possa adattarsi alla forma del corpo che lo tocca. Il corpo vivente penetrerebbe, in tal caso, nella materia molle del pilastro, e vi seppellirebbe la sua vita. Nello stesso tempo ucciderebbe il pilastro (divani profondi come tombe. Baudelaire). Tutto questo è troppo evidente per aver bisogno di altre dimostrazioni. La stessa esperienza potrebbe essere fatta con il terreno, per esempio con un terreno elastico che lasciasse affondare il piede ad ogni passo, ma che si risollevasse subito dopo per ricomporre la sua superficie uniforme. Questo terreno si muoverebbe dunque: ma sarebbe vivente la sua mobilità? Guardiamo la superficie che riprende la sua forma dietro i passi del corpo vivente: essa attende, per cedere ancora. Non fornendo nessuna opposizione, essa è morta; non c’è, anzi, niente di più morto. E poiché i piedi che la calpestano non incontrano nessuna resistenza, anche il gioco dei muscoli è smorto, nel vero senso della parola. Si potrebbe persino arrivare a non avvertire più il movimento volontario del corpo, e credere all’azionamento di un meccanismo che sollevi alternativamente un piede dopo l’altro, e dia ad essi la forza per andare avanti. Il terreno e il corpo diventerebbero dunque meccanici, il che è la negazione suprema della vita, e l’inizio del ridicolo (vedi Bergson). Se questo terreno negativo, che cede o aspetta di cedere, si trasforma invece in lastre solide che, al contrario, aspettano il piede per resistergli, per fornirgli nuovo slancio ad ogni passo, e prepararlo ad un’altra resistenza, questo terreno, allora, con la sua rigidità finisce per coinvolgere tutto l’organismo nella volontà di camminare. È opponendosi alla Vita che il terreno può riceverla dal corpo, come il pilastro. Il principio della pesantezza e quello della rigidità sono dunque le condizioni prime per l’esistenza di uno spazio vivente. Da esse sembrerebbe risultare ancora una scelta di linee. Il corpo possiede una struttura definitiva, e noi possiamo modificarla nello spazio solo mediante il movimento: i movimenti sono l’interpretazione del corpo nella durata. In costante opposizione con il corpo, la scelta delle linee dello spazio è a nostra disposizione: ciò rappresenta la compensazione alla loro immobilità, come abbiamo già visto nelle belle arti. Ci sembrerebbe pertanto che, tenendo conto delle espressioni di peso e di rigidità, noi avremmo campo libero e potremmo, come gli altri artisti, operare delle scelte e spingere molto avanti la sottigliezza delle nostre intenzioni e delle nostre invenzioni. A prescindere dal fatto che non siamo più soli davanti ad un blocco di argilla o ad un pezzo di muto da decorare, come il pittore o lo scultore: siamo alle prese con un corpo vivente. È solo con esso che abbiamo a che fare nello spazio; è solo ad esso che diamo ordini; è solo per mezzo e per tramite suo che possiamo rivolgerci alle forme inanimate. Senza il consenso del corpo, tutte le nostre ricerche sarebbero vane e nate morte. Nella gerarchia dell’arte vivente, il posto della nostra immaginazione creatrice è situato fra il tempo e il corpo vivente e mobile; vale a dire, tra la musica che noi componiamo e il corpo che deve compenetrarsene ed incarnarla. Noi siamo dunque, in questo senso, al di qua del corpo. Al di là è solo ad esso che spetta la 101 Adolphe Appia, Attore musica e scena parola: noi diventiamo soltanto suoi interpreti, e non possiamo creare nulla di testa nostra. La nostra fiduciosa e cosciente sottomissione alla musica – espressione della nostra vita interiore – ci ha conferito la capacità di dominare imperiosamente il corpo vivente. A sua volta, il corpo, con la sua completa sottomissione alle nostre richieste, si conquista il diritto di ordinare lo spazio che lo circonda e lo tocca: direttamente, noi non ne saremmo capaci. Questo fenomeno gerarchico è dei più interessanti; è per non averlo riconosciuto e non aver obbedito alle sue leggi che la nostra arte scenica e drammatica si è completamente fuorviata. Il lettore benevolo che avrà voluto seguirmi fin qui si sarà accorto senza dubbio che a poco a poco ho lasciato prendere alla musica il sopravvento sul testo parlato, e se ne sarà forse stupito o adombrato. Per la chiarezza dell’esposizione dovrò tuttavia continuare ancora in questa apparente violenza, e riservarmi di spiegarne fra breve i motivi. Continuiamo a prendere in considerazione solo la musica, per il momento, e stabiliamo, una volta di più, la seguente gerarchia: la musica impone ai movimenti del corpo le sue durate successive; il corpo le trasmette alle proporzioni dello spazio, e le forme inanimate, opponendo al corpo la loro rigidità, affermano, la loro esistenza personale – che, senza questa resistenza, non avrebbero mai potuto manifestare così chiaramente – e chiudono così il ciclo; non c’è infatti niente oltre a ciò. In questa gerarchia noi possediamo solo il testo musicale, al di là del quale tutto il resto segue automaticamente per mezzo del corpo vivente. Lo spazio vivente sarà dunque, per i nostri occhi, e grazie alla mediazione del corpo, la cassa di risonanza della musica. Si potrebbe perfino azzardare il paradosso che le forme inanimate dello spazio, diventare viventi, debbano obbedire alle leggi di un’acustica viva. 102