La battaglia di Ravenna (1512)

La battaglia di Ravenna (1512)
Indice
1. Premessa
2. La rivoluzione militare del Rinascimento
3. Il contesto storico
4. Le marce di avvicinamento e gli schieramenti
5. La battaglia
6. Conclusioni
Appendice A
Documenti
D.1. Le forze in campo secondo i “Diarii” di M.Sanuto
D.2. La lettera di Fabrizio Colonna
D.3. La lettera di Baiardo
Bibliografia
Illustrazioni
O maledetto , o abominoso ordigno,
Che fabricato nel Tartareo fondo
Fosti per man di Belzebù maligno
Che ruinar per te disegnò il mondo,
All’inferno, onde uscisti, ti rasigno.”
Così dicendo lo gittò in profondo.
(Orlando Furioso, Canto Nono)
1. Premessa
La battaglia di Ravenna e, ancora di più, il susseguente feroce saccheggio della città da parte delle
truppe francesi vittoriose hanno lasciato nell’immaginazione popolare e nella memoria storica dei
ravennati un lungo strascico che, come chi scrive può personalmente testimoniare, non era ancora
esaurito nell’ultimo dopoguerra.
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Naturalmente, come succede in questi casi, tali ricordi si concentravano su episodi di interesse
soprattutto locale, quali certe vicende del suddetto saccheggio o della difesa della città nei giorni
precedenti alla battaglia, o la forte impressione lasciata dai cumuli di morti rimasti sul campo.
Tuttavia la battaglia di Ravenna merita di essere rivissuta anche in un contesto più ampio, perché si
trattò di un evento di portata più che italiana, europea, di un episodio, senza dubbio il più violento e
sanguinoso, del confronto fra due vaste alleanze che, a livello diplomatico se non militare, stava
allora interessando l’Europa intera.
Più ancora che per i suoi effetti nell’ambito di tale confronto, che, come vedremo, furono in
definitiva sorprendentemente modesti, la giornata di Ravenna è però significativa come pietra
miliare nella complessa evoluzione degli eserciti europei e del loro modo di combattere, che
costituisce un aspetto importante e caratteristico del passaggio dal Medioevo all’Età Moderna.
Alla nostra ricostruzione della battaglia stessa ci è quindi parso necessario far precedere una breve
analisi di tale evoluzione, che era in corso già da alcuni decenni, nonché una succinta narrazione
della sequenza di eventi che condusse Francia e Spagna (e anche truppe italiane e tedesche) a darsi
battaglia nella pianura romagnola.
La ricostruzione di una battaglia, soprattutto se avvenuta in tempi ormai lontani, presenta sempre
grosse difficoltà e non può quindi non avere, anche nel migliore dei casi, un carattere in qualche
misura congetturale; il fatto è che una battaglia è un evento complesso di cui anche i testimoni
oculari, ivi compresi quelli che dovrebbero essere i più qualificati, come i capi delle due parti,
difficilmente possono avere una visione che non sia parziale, oltre che più o meno consciamente
interessata; inoltre gli scritti che ci hanno lasciato non si propongono, di regola, un’analisi
sistematica dell’evento narrato, ma ne riassumono succintamente solo i tratti che sono parsi più
importanti ai loro autori.
Il caso della battaglia di Ravenna è relativamente fortunato, perché i testimoni oculari sono
numerosi e perché alcuni di loro erano effettivamente in posizione di comando; tuttavia non sempre
queste fonti si prestano ad un’interpretazione univoca ed inoltre, mentre presentano un buon grado
di concordanza su una serie di aspetti fondamentali, differiscono e si contraddicono su diversi
aspetti più particolari ma comunque significativi.
Ciò vale, oltre che per l’andamento della battaglia, anche per le notizie relative alla consistenza
numerica dei due eserciti e dei vari tipi di truppe, nonché alla loro organizzazione e struttura di
comando; ci è sembrato necessario dedicare a questi punti, che sono fondamentali, a nostro avviso,
per una corretta valutazione dell’importanza dell’evento nel suo contesto sociale, un’analisi
dettagliata che, d’altra parte, per evitare un eccessivo appesantimento dell’esposizione, abbiamo
preferito svolgere separatamente nell’Appendice A.
2. La rivoluzione militare del Rinascimento
L’evoluzione delle concezioni militari europee, di cui la battaglia di Ravenna costituisce un
momento significativo, è tanto più notevole in quanto in precedenza queste erano state a lungo
contrassegnate da un notevole grado di staticità, collegato ad una tradizione molto particolare, che
aveva le sue radici nella società feudale e cavalleresca. E’ dunque da questa tradizione che
dobbiamo partire, per potere pienamente apprezzare la portata rivoluzionaria, sul piano militare ma
anche su quello sociale e culturale, del suddetto processo di trasformazione.
Nel periodo che abbraccia i secoli dall’XI fino a buona parte del XV, protagonista di gran lunga
maggiore, ed a volte quasi unico, della guerra fu infatti, in Europa, la cavalleria, ed anzi una
cavalleria di un tipo ben definito, caratterizzata dalla preminenza del cavaliere pesantemente
armato.
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Questi era la naturale espressione militare di una società, quella feudale, in cui le armi ed il loro uso
erano riservati ad una classe sociale aristocratica piuttosto ristretta, quella appunto dei detentori di
feudi e dei loro consanguinei e clienti, che proprio a questo suo monopolio della funzione bellica
doveva la sua posizione dominante.
La parola “cavaliere” riassumeva quindi tutta una serie di significati sociali, emotivi e perfino
religiosi, che andavano ben oltre quello strettamente militare e che, per gran parte, erano destinati a
conservare a lungo il loro peso, anche in epoche in cui la cavalleria medioevale, in quanto fatto
militare, era divenuta ormai solo un ricordo.
Il cavaliere andava in battaglia tutto chiuso in un’armatura che, nel corso di una lunga evoluzione, si
era andata facendo sempre più completa e sofisticata, ma anche più pesante e costosa, a mano a
mano che l’originaria maglia di ferro veniva sostituita sempre più completamente da placche
metalliche (Fig.1); il suo cavallo, il destriero, più potente che veloce, era appositamente selezionato
in modo da poter sopportare il non indifferente peso del suo padrone e del suo armamento ed era a
sua volta fornito di una qualche protezione, sebbene, per forza di cose, non altrettanto completa; per
risparmiare le energie del destriero, tuttavia, il cavaliere montava normalmente un cavallo di riserva
di minor pregio e si trasferiva sul destriero solo all’ultimo momento prima della battaglia; di solito
dava inizio al combattimento caricando lancia in resta, cioè tenendo la lunga (circa 4m) e pesante
lancia sotto l’ascella destra in posizione orizzontale (Fig.1); dopo il primo urto seguiva solitamente
una mischia (melée) in cui il cavaliere, spezzata o gettata la lancia, si batteva con la grande spada a
due tagli o con la mazza ferrata o con l’ascia di guerra.
Ogni cavaliere andava in guerra con un suo piccolo seguito, la cui composizione poteva variare in
funzione delle sue risorse e delle sue preferenze, nonché delle abitudini e tradizioni della sua zona
di provenienza, cui si dava il nome di “lancia”, giustificato dal fatto che il cavaliere medesimo, il
capo-lancia, era l’unico del gruppo ad essere equipaggiato con la lunga lancia di cui si è detto.
Gli altri componenti tipici della lancia, anch’essi tutti a cavallo, erano:
- uno scudiere (lat: scutifer), anch’egli un membro della classe cavalleresca, non di rado un
consanguineo più giovane del capo-lancia; come dice la parola, in origine aveva il compito
di portare lo scudo del suo signore ogni volta che questo gli potesse essere d’impaccio, ma
lo scudo fu poco a poco abbandonato, perché reso superfluo dai perfezionamenti
dell’armatura, e lo scudiero finì con l’evolvere in un combattente a tutti gli effetti, che, a
meno della lancia, era armato ed equipaggiato in modo poco diverso dal cavaliere, ed era
quindi in grado di seguirlo da presso nella carica e di combattere al suo fianco nella mischia
susseguente. In effetti, la distinzione fra cavaliere e scudiere andò perdendo di significato,
quanto meno sotto il profilo militare, e divenne sempre più invalso l’uso del termine
comprensivo “uomo d’arme”, che richiamava, appunto, l’armamento pesante ormai comune
ad entrambi.
- due o tre valletti o paggi (lat: pagius, rigazzus ); privi di armatura, i valletti erano anch’essi
presenti sul campo di battaglia ma, salvo casi eccezionali, non per combattere, bensì per
fornire ai loro signori, appesantiti dall’armatura, certi servizi ausiliari ma indispensabili,
come aiutarli a salire e scendere da cavallo, tenere e fornire al momento opportuno una
lancia di riserva, tenere i cavalli se, come a volte succedeva, i cavalieri decidevano di
combattere a piedi, ecc..
- a volte, per uno sviluppo relativamente tardo, uno o due arcieri o balestrieri; erano soldati
professionali al soldo del cavaliere, esperti nell’uso della propria arma, spesso di umile
origine e comunque non facenti parte della classe cavalleresca, che solitamente usavano il
cavallo solo per spostarsi ma combattevano appiedati; i cavalieri non nascondevano un certo
disprezzo per questa gente di bassa origine e per le loro armi “da villani” e non si curavano
gran ché di impiegarli in modo tatticamente utile sul campo di battaglia, ma non potevano
non riconoscerne l’utilità almeno negli assedi.
Del seguito facevano poi parte, naturalmente, vari servitori, stallieri, cuochi, ecc. che svolgevano
servizi utili durante le marce e negli accampamenti, ma non intervenivano minimamente nei
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combattimenti, e fra di loro dovevano certo esserci delle donne, anche se a questo riguardo, di
solito, i cronisti tacciono pudicamente; in generale la composizione della lancia e del seguito aveva
certo, in parte, delle giustificazioni militari, ma rifletteva altresì, per altri aspetti, la signorile
abitudine di ogni cavaliere a vivere contornato dalla “sua gente”, sempre a sua disposizione per i
servizi più vari.
A meno che non si trattasse di qualche faida locale, un tipo di evento peraltro piuttosto frequente, il
cavaliere, col suo seguito personale e, eventualmente, con quelli di altri cavalieri suoi vassalli,
andava in guerra in risposta alla chiamata del suo superiore feudale, che poteva essere un sovrano
oppure un feudatario di rango intermedio, assolvendo così un obbligo cui era tenuto come
corrispettivo dei diritti feudali di cui era titolare; era però un obbligo con molti limiti, cui egli
poteva spesso sottrarsi senza troppi rischi, quando lo riteneva opportuno, ad esempio se riteneva di
avere ricevuto dei torti dal suo signore; ma d’altra parte la guerra era la sua ragione d’essere sociale
e l’attività per cui egli si teneva pronto per tutta la vita, addestrandosi con le cacce ed i tornei e
conservando gelosamente le armi e le armature ereditate dagli avi (ed eventuamente facendole
modificare per adattarle all’evoluzione tecnica ed anche alla moda); la guerra era anche spesso,
insieme ai tornei, la sua unica possibilità di uscire dall’ambiente ristretto del suo feudo e di
acquistare gloria e prestigio.
I rischi, del resto, erano abbastanza limitati, a causa della protezione offerta dall’armatura ma anche
di tutta una serie di atteggiamenti sociali; nell’Europa medievale infatti, la guerra assumeva non di
rado quasi l’aspetto di un affare di famiglia, in cui i cavalieri delle due parti, che si riconoscevano
reciprocamente a causa delle insegne personali e famigliari che orgogliosamente inalberavano,
erano spesso imparentati più o meno alla lontana; vi era comunque, fra di loro, un forte senso di
solidarietà di classe, che portava a non desiderare particolarmente la morte dell’avversario; successo
e gloria consistevano piuttosto nell’abbatterlo, nel disarcionarlo e farlo prigioniero, anche perché
questi casi davano luogo a riscatti che, soprattutto per i personaggi di alto rango, potevano costituire
un grosso affare; del tutto diverso era però l’atteggiamento nei confronti dei combattenti non nobili,
che venivano spesso massacrati senza tanti complimenti.
E’ abbastanza chiaro che, sotto il profilo dell’efficacia militare, gli eserciti medievali presentavano
gravi limitazioni, in parte già implicite in quanto detto finora: le principali erano forse quelle
derivanti dalla mentalità fortemente individualistica del ceto cavalleresco, che si traduceva nella
quasi totale assenza di una disciplina militare nel senso moderno del termine ed in catene di
comando incerte ed incomplete, riconosciute a mezza bocca ma poco rispettate nell’azione
concreta; il cavaliere si batteva ricercando più che altro la gloria (o il profitto) personali o di gruppo,
senza preoccuparsi più che tanto delle sorti dell’esercito di cui faceva parte; questioni di precedenza
legate all’orgoglio del proprio lignaggio avevano, non di rado, sull’ordine degli schieramenti (o sul
loro disordine) un’influenza maggiore di qualsiasi considerazione tattica o strategica (1).
Nella misura in cui riusciva a superare questi difetti congeniti, la cavalleria pesante medievale
poteva certo costituire una temibile forza d’urto, ma il suo comportamento tattico era monocorde,
esclusivamente concentrato, appunto, nella ricerca dell’urto breve e violento, che si supponeva
dovesse essere risolutivo; questo non sarebbe stato un difetto grave se, oltre alla cavalleria pesante,
gli eserciti medievali avessero avuto a disposizione anche truppe di altro tipo ma, per l’appunto, non
era così; in particolare le fanterie medievali erano in genere inesistenti o di scarso valore, né
esisteva una cavalleria leggera capace di azione autonoma.
Ci furono, per la verità, delle eccezioni, quali, soprattutto nel XIII secolo, le fanterie cittadine
italiane e fiamminghe, ma esse furono limitate nel tempo e nello spazio e già all’inizio del Trecento
erano tramontate senza lasciare gran traccia di sé nelle istituzioni militari europee.
Quanto alle esperienze militari fatte in Terra Santa, nell’ambito delle Crociate, in cui i cavalieri
d’Europa si trovarono ad affrontare avversari militarmente più sofisticati, esse portarono sì alla
creazione di una cavalleria pesante più coesa e disciplinata, quella degli ordini militari, ed anche
all’impiego di contingenti di cavalleria leggera (i cosiddetti “turcopoli”, arruolati fra la popolazione
locale), ma non vennero poi reimportate nella madre patria in alcuna misura significativa (2).
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Se, pur con tutti i suoi limiti, il modello militare medievale potè persistere pressoché immutato così
a lungo, ciò si deve senza dubbio, oltre che al suo particolare radicamento sociale, al fatto che
l’Europa ebbe allora la fortuna di non essere sottoposta ad alcuna seria minaccia militare
proveniente dall’esterno; la comparsa, in Ungheria, Polonia e Germania, degli eserciti mongoli
(1240 – 1242), contro i quali la cavalleria europea fece una ben magra figura, fu un fenomeno
traumatico ma breve, che non si ripetè e potè quindi essere presto dimenticato.
Nel corso del secolo XIV e della prima metà del XV, tuttavia, il modello cominciò a mostrare dei
chiari segni di crisi, determinata dal primo emergere di nuovi modelli di fanteria e di cavalleria
leggera, dal lento ma costante sviluppo delle armi da fuoco, ma anche dal rafforzamento
organizzativo e finanziario degli stati, soprattutto Francia ed Inghilterra ma anche alcuni stati
regionali italiani, che erano ora in grado di pagarsi delle truppe e quindi di pretendere da esse un
grado di disciplina maggiore di quella degli eserciti feudali.
Le nuove fanterie erano essenzialmente di due tipi.
Le fanterie inglesi, che si distinsero nella guerra dei Cento Anni, erano costituite da arcieri in
armatura leggera, equipaggiati con l’arco lungo, un’arma dotata di buona penetrazione e gittata e
che permetteva una frequenza di tiro superiore a quella della balestra; occorre però subito notare
che questi arcieri non erano in grado di svolgere un ruolo completamente autonomo, in quanto
agivano sotto la protezione di contingenti di uomini d’arme appiedati e delle loro lance.
Del tutto autonome erano invece le fanterie svizzere, che colsero i loro primi successi significativi
contro la cavalleria feudale asburgica nella seconda metà del Trecento; anch’esse erano
caratterizzate da un’armatura molto leggera o anche dalla sua totale assenza ma, come arma
principale, invece dell’arco usavano l’alabarda e soprattutto la picca ed anziché l’azione di
logoramento mediante il tiro a distanza, cercavano l’urto risolutivo; organizzate in masse compatte
e disciplinate, esse si dimostrarono infatti in grado non solo di reggere a piè fermo alle cariche della
cavalleria pesante, come in fondo erano riuscite a fare già le fanterie comunali del Duecento, ma
anche, e qui sta il fatto nuovo, di passare con successo all’azione offensiva.
Queste nuove truppe erano portatrici di una rivoluzione sociale oltre che militare, in quanto la
grande maggioranza dei loro componenti apparteneva a classi sociali piuttosto basse e combatteva
non per obbligo feudale o per confermare il proprio prestigio sociale ma, essenzialmente, per la
paga ed il bottino (3); con la loro apparizione sui campi di battaglia il monopolio della guerra fino
ad allora detenuto dall’aristocrazia si avviava al tramonto.
Anche la cavalleria pesante si andava però trasformando, non tanto nell’equipaggiamento e nel
modo di combattere, quanto nella sua organizzazione e nelle sue motivazioni.
Vari stati e sovrani d’Europa cominciavano ormai a rendersi conto degli inconvenienti delle truppe
feudali ed erano alla ricerca di formule nuove e più soddisfacenti; uno dei problemi era sempre stata
la consuetudine per cui gli obblighi militari feudali erano limitati nel tempo, in genere a 40 giorni;
passato quel periodo un cavaliere aveva tutto il diritto di tornarsene a casa ed in genere lo faceva, se
solo gli sembrava che il seguito della campagna non gli promettesse niente di interessante; se
acconsentiva a rimanere, comunque, aveva diritto ad un soldo, per sé e per ciascuno dei suoi
dipendenti; aveva poi questo diritto fin dall’inizio se l’azione bellica si svolgeva ad una grande
distanza dalle sue terre (4); il logico sviluppo di un tale sistema era di concordare una volte per tutte
un soldo a fronte del quale un dato contingente rimanesse a disposizione almeno per un’intera
campagna, che voleva dire circa quattro mesi (5), e senza alcuna limitazione di distanza o di altra
natura; questo è proprio ciò che i vari governi presero a fare dal momento in cui cominciarono a
disporre dei necessari mezzi finanziari ed è per questa via che, anche per l’aristocrazia, il servizio
militare cominciò a trasformarsi da obbligo di casta in attività professionale regolarmente pagata.
D’altra parte i governi non avevano ancora un’organizzazione tanto sviluppata da permettere loro di
assumere singolarmente ogni combattente di cui avessero bisogno e si rivolsero quindi naturalmente
a personaggi che, per la loro posizione sociale o il loro prestigio militare, fossero in grado di
supplire arruolando in proprio delle “compagnie”, ossia dei contingenti pù o meno grandi destinati a
confluire poi in un unico esercito; per una compagnia che poteva contare centinaia od anche
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migliaia di combattenti, il governo aveva così il vantaggio di poter parlare con una persona sola, che
della compagnia era, di solito, ad un tempo l’organizzatore ed il capo destinato a comandarla,
definendo con lui un contratto vero e proprio, specificante le dimensioni, la composizione e
l’equipaggiamento della compagnia, nonché i suoi obblighi e compensi.
Assistiamo così ad una professionalizzazione della guerra ma anche ad una sua privatizzazione che
in particolare in Italia, col ben noto sviluppo dei “Condottieri”, raggiunse limiti che, per quanto ne
sappiamo, ne fanno un unicum storico; non ne fu però esente neanche il resto dell’Europa, come
provano, fra l’altro, le vicende dell’interminabile guerra dei Cento Anni in cui le compagnie
svolsero un ruolo importante e crescente sia da parte inglese che da parte francese.
Viste dall’esterno le compagnie assomigliavano molto alla vecchia cavalleria feudale; anch’esse
erano organizzate per “lance” a capo di ognuna delle quali era un uomo d’arme equipaggiato nel
modo solito; nella maggior parte dei casi, inoltre, questi era pur sempre un membro della classe
cavalleresca, anche se il tono prevalente era dato ora da una piccola aristocrazia sempre meno in
grado di vivere dei proventi delle sue terre e costretta quindi a praticare per danaro l’unico mestiere
che conosceva, quello delle armi.
Comunque, però, all’interno delle compagnie il monopolio della nobiltà non era più assoluto, ed era
possibile, a volte, fare una buona carriera anche partendo dalla gavetta; la composizione della lancia
cominciò ad essere standardizzata, pur se in modo diverso nei vari paesi europei, e cessò quindi di
dipendere dalle preferenze del singolo capo-lancia; la disciplina era inoltre maggiore e più chiare e
meno discusse erano le prerogative dei comandanti, per cui le compagnie erano più coese e
maggiormente capaci di operare come un corpo unico rispetto alla cavalleria feudale che avevano
sostituito.
I governi non tardarono però a scoprire che anche il nuovo sistema presentava grossi inconvenienti
che, con particolare riguardo all’esperienza italiana, furono messi in evidenza, con sguardo ormai
retrospettivo, da vari scrittori del primo Cinquecento e, segnatamente, da Machiavelli e
Guicciardini; quello principale era, per usare un termine moderno, l’evidente conflitto di interessi
fra i governi stessi, ovviamente interessati a concludere vittoriosamente la guerra nel minor tempo
possibile e i condottieri delle compagnie che, da bravi imprenditori, dovevano salvaguardare il più
possibile il proprio “capitale”, costituito dai soldati medesimi, ed avevano inoltre ogni convenienza
a tirare le cose in lungo, perché la fine della guerra voleva dire, di solito, che i loro lucrosi contratti
non sarebbero stati rinnovati.
Nel corso della guerra dei Cento Anni, in un contesto politico e sociale molto diverso da quello
delle guerre italiane, si manifestò inoltre in forma acuta un altro inconveniente; ogni volta che
veniva conclusa una tregua, motivata il più delle volte dall’esaurimento finanziario di entrambe le
parti, le compagnie, rimaste senza lavoro e quindi senza paga, anziché sciogliersi si davano a
saccheggiare indiscriminatamente le campagne, meritandosi così un soprannome che non ha
bisogno di commenti, quello di écorcheurs (scorticatori).
Fu questa una delle ragioni che indussero il re di Francia Carlo VII, nel 1445 – 1446, a creare per la
prima volta, mediante una selezione delle truppe che erano allora al suo servizio, le prime
compagnie permanenti, destinate cioè a non essere smobilitate neanche in tempo di pace; furono
queste le ben note Compagnies d’Ordonnance (Compagnie d’Ordinanza), costituite, dapprima, da
1.800 lance che, durante il regno del successore, Luigi XI, salirono a 4.000; ognuna di esse era
composta da 6 uomini a cavallo, l’uomo d’arme capo-lancia, un secondo uomo d’arme chiamato
aiutante che era in pratica l’equivalente dello scudiere, due arcieri o balestrieri e due valletti; quanto
a questi ultimi è probabile che essi avessero assunto già prima funzioni almeno parzialmente
militari, consistenti non tanto nella partecipazione all’azione d’urto, quanto nelle operazioni di
esplorazione e foraggiamento.
Era quest’ultimo uno sviluppo che tendeva a convergere con quello, indipendente, della cavalleria
leggera vera e propria e con la scoperta dell’importanza delle sue funzioni, alla base del quale stava
tutta una serie di esperienze militari fatte da vari stati europei nelle zone di confine dell’Europa di
allora, e precisamente dai polacco-lituani nelle loro lotte con i tartari dell’Orda d’Oro, dagli
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ungheresi (5) e dai veneziani nelle campagne balcaniche contro i turchi ottomani e dagli spagnoli
nelle guerre contro i Mori.
A poco a poco si era cominciato a capire che, seppure una cavalleria leggermente armata poteva
svolgere solo un ruolo marginale nel momento fatidico della battaglia e dell’urto, essa era per
contro preziosa nelle azioni di sorpresa, nel foraggiamento e nella protezione dei rifornimenti,
nonché nel rendere impossibili o almeno più difficoltose queste stesse attività al nemico, in una
parola nel controllo del territorio; risultò anzi a volte, nei casi più favorevoli, che un’azione
prolungata di questo tipo, se condotta con successo, poteva logorare il nemico al punto da rendere la
battaglia superflua.
Era questa un’altra realtà dura da riconoscere per la mentalità cavalleresca, per la quale il mito
dell’urto breve e decisivo faceva tutt’uno con la concezione della battaglia come giudizio di Dio,
radicata nel profondo del Medioevo e supportata anche da reminiscenze classiche.
A cavallo fra Quattrocento e Cinquecento ed in particolare nelle campagne d’Italia le più apprezzate
cavallerie leggere furono quelle dei veneziani “stradiotti”, composte di elementi di origine balcanica
(prevalentemente albanese) (6), e quelle spagnole dei jinetes, ma, come abbiamo già accennato,
anche gli elementi armati alla leggera delle lance tendevano ormai spesso ad operare in modo
indipendente dai loro uomini d’arme, cosicché vediamo i cronisti parlare sempre più di uomini
d’arme da un lato e di “cavalli leggeri” dall’altro e sempre meno di lance, anche se queste ultime
continuavano a sussistere come forma di inquadramento.
Quanto alle armi da fuoco, esse erano note ed usate in Europa almeno dalla seconda metà del
Trecento, tuttavia la loro evoluzione tecnica fu lunga e laboriosa e il loro ruolo rimase, di
conseguenza, a lungo marginale.
Il primo campo in cui si affermarono concretamente fu comunque quello della guerra d’assedio; già
nei primi decenni del Quattrocento era infatti divenuto abbastanza comune l’impiego, negli assedi,
di enormi bombarde capaci di sparare grosse palle di pietra (dell’ordine di 30 cm di diametro), per
la cui azione distruttiva si faceva affidamento più sul peso che sulla velocità, piuttosto bassa; di
questi ordigni nuovi e mostruosi i cronisti ci parlano con un ammirato stupore non esente da una
certa repulsione, ma, almeno per una prima fase abbastanza lunga, si ha l’impressione che la loro
efficacia fosse dovuta più agli effetti psicologici che a quelli reali; il loro peso ne rendeva
estremamente laboriosi il trasporto e la messa in posizione, tanto che gli ottomani, in questo periodo
non secondi a nessuno nello sviluppo dell’artiglieria, preferivano spesso fondere i loro cannoni sul
posto; la loro cadenza di fuoco era molto bassa e non di rado avveniva che esplodessero dopo pochi
colpi; quanto ad un loro utilizzo come artiglieria campale esso era, a questo stadio di sviluppo,
chiaramente fuori questione.
Nel frattempo avevano fatto la loro apparizione diversi tipi di armi di piccolo calibro, ancora però
troppo pesanti e difficili da maneggiare per poter servire come armi individuali; i primi a farne un
uso efficace furono, quasi certamente, gli ussiti (7), cui riuscì di compensare, almeno in parte, le
intrinseche limitazioni di queste nuove armi con l’invenzione del cosiddetto “wagenburg”; era
questo una fortezza mobile di carri opportunamente attrezzati, dove venivano piazzate le armi da
fuoco e dove prendevano posto i loro serventi, che potevano quindi far fuoco da posizioni
sopraelevate, relativamente comode e protette.
Questa tecnica di combattimento ottenne grandi successi nel periodo delle guerre ussite (terzo
decennio del Quattrocento) contro gli eserciti “crociati” costituiti essenzialmente da una cavalleria
pesante di tipo ancora molto tradizionale, ma non lasciò grandi strascichi nei decenni seguenti,
probabilmente a causa dei gravi limiti che i carri ponevano alla mobilità, soprattutto su terreno
malagevole; l’unico residuo si può forse individuare nell’accresciuta cura che, nella seconda metà
del secolo, si cominciò a dedicare alla difesa degli accampamenti e talvolta anche delle posizioni
campali mediante trincee o palizzate guarnite appunto da armi da fuoco oltre che da arcieri e
balestrieri; occorre dire però che in questo ebbero certamente un’influenza anche le tradizioni
militari romane che gli umanisti andavano riscoprendo nei classici.
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Mentre le armi di piccolo calibro facevano lenti ma costanti progressi, non ancora però tali da dare
luogoad armi propriamente individuali e da rimpiazzare completamente archi e balestre, verso la
fine del Quattrocento si affermò, soprattutto ad opera dei francesi, un nuovo tipo di artiglieria,
consistente in cannoni di bronzo a canna relativamente lunga, che sparavano palle di ferro; la
maggiore velocità del proiettile permetteva, a parità di effetto, una consistente riduzione del calibro
e quindi del peso complessivo, tanto che i cannoni potevano ora essere trainati da cavalli e seguire
l’esercito senza troppo rallentarne la marcia. Vale la pena di riportare qui ciò che, di questa nuova
artiglieria, dice il Guicciardini (Storia d’Italia, Libro I,. Cap.XI, RG.3):
“Ma i franzesi, fabricando pezzi molto più espediti né l’altro che di bronzo, i quali chiamavano
cannoni, e usando palle di ferro, dove prima di pietra e senza comparazione più grosse e di peso
gravissimo s’usavano, gli conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi, come in Italia si
costumava, ma da cavalli, con agilità tale d’uomini e di instrumenti deputati a questo servigio che
quasi sempre al pari degli eserciti camminavano, e condotte alle muraglie erano piantate con
prestezza incredibile; e interponendosi dall’un colpo all’altro piccolissimo intervallo di tempo, sì
spesso e con impeto sì veemente percotevano che quello che prima in Italia fare in molti giorni si
soleva, da loro in pochissime ore si faceva; usando ancora questo più tosto diabolico che umano
instrumento non meno alla campagna che a combattere le terre, e co’ medesimi cannoni e con altri
pezzi minori, ma fabricati e condotti, secondo la loro proporzione, con la medesima destrezza e
celerità.”
I nuovi cannoni rappresentavano, senza dubbio, un importante progresso, tuttavia i loro effetti sono
stati forse un poco sopravvalutati; certo essi sparsero il terrore in occasione della calata di Carlo
VIII, nella quale però furono impiegati più che altro contro fortezze minori e poterono avvalersi
dell’effetto sorpresa; solo pochi anni dopo però, ad esempio negli assedi di Barletta (1503) e di
Padova (1509), apparve chiaro che, contro una difesa decisa e capace di adottare le opportune
contromisure, essi non erano irresistibili; quanto ad un loro impiego determinante sul campo di
battaglia bisogna attendere proprio fino alla battaglia di Ravenna, che costituì, da questo punto di
vista, un momento di svolta.
Fra tutte le nuove armi ed i nuovi modi di combattere che abbiamo appena passato in rassegna, gli
effetti più rivoluzionari lo ebbero comunque, almeno a breve termine, le fanterie svizzere (o di tipo
analogo) che, per quanto, come abbiamo visto, esistessero già da tempo, affermarono per la prima
volta in modo indiscusso la loro supremazia nella guerra contro il duca Carlo (il Temerario) di
Borgogna (1476 - 1477), il cui esercito era basato sulle “lance” di cavalleria delle compagnie e su
una fanteria caratterizzata da una forte proporzione di tiratori (archi, balestre, armi da fuoco di
piccolo calibro), spesso trincerata e appoggiata dall’artiglieria campale; a grande sorpresa di tutta
l’Europa tale esercito, che andava allora per la maggiore, fu ripetutamente travolto dall’attacco delle
fanterie svizzere, condotto con feroce determinazione.
Gli svizzeri combattevano schierati in massicce formazioni (quadrati), che poteva avere da 25 a 100
uomini di fronte ed altrettanti o quasi in profondità (8), con armati di picca ai bordi ed alabardieri al
centro del quadrato; la loro tattica preferita era l’attacco a fondo, picche abbassate, condotto però
mantenendo rigorosamente l’ordine dello schieramento (9) e sopportando stoicamente le perdite
indotte dal tiro di sbarramento nemico; nel tardo Quattrocento, in effetti, il verdetto del campo di
battaglia fu invariabilmente a favore di questa tattica, in quanto l’efficacia e la cadenza di tiro di
archi e balestre e delle armi da fuoco dell’epoca si dimostrarono regolarmente insufficienti a
bloccare un attacco risoluto; solo al nostro sguardo retrospettivo appare chiaro che i progressi delle
armi da fuoco erano destinati, prima o poi, ad inficiare tale verdetto ed infine a ribaltarlo.
Il successo degli svizzeri fece ben presto sì che in varie parti d’Europa si facessero tentativi di
imitarli più o meno pedissequamente, ma i risultati furono molto variabili, buoni o anche ottimi in
certi casi, pressochè fallimentari in altri, cosicchè, per quanto riguarda le nuove fanterie di elite, si
arrivò ad una sorta di specializzazione a livello regionale o nazionale; i migliori imitatori furono i
lanzichenecchi (landsknechte) tedeschi e, solo un poco più tardi, le fanterie spagnole.
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Stranamente proprio la Francia, che pure, per quanto riguarda l’artiglieria e le truppe di cavalleria
permanenti, era stata, come si è visto, all’avanguardia del progresso militare, non riuscì mai, nel
periodo di nostro interesse, a sviluppare una propria fanteria di livello comparabile (10).
Perciò i re di Francia, a partire da Luigi XI, si procurarono la loro migliore fanteria assoldando in
grandi quantità dapprima gli svizzeri e poi, dopo la rottura coi cantoni (vedi Cap.3), i
lanzichenecchi; chiaramente era un pericoloso punto debole, perché, per quanto mercenari, questi
arruolamenti presupponevano un rapporto privilegiato con lo stato da cui gli arruolati provenivano,
cioè coi cantoni in un caso e coll’impero tedesco nell’altro, e quindi, come si vedrà, la Francia si
trovò in grave difficoltà ogni volta che questo rapporto venne a deteriorarsi.
Sotto questo profilo risultò invece fortemente avvantaggiata la Spagna, che ebbe presto a
disposizione un’ottima fanteria propria, la quale anzi, per quanto anch’essa stipendiata, mantenne
sempre, più delle altre, un accentuato carattere nazionale, nel senso che combattè sempre e solo al
servizio del regno di Spagna.
Questa peculiarità spagnola sembra essere stata radicata anche in certi fattori di carattere sociale;
certo è che, a differenza di quelli degli altri paesi, i nobili spagnoli, gli hidalgo, non ritenevano
disdicevole arruolarsi in fanteria, “trascinare una picca”, come allora si diceva.
Se erano soprattutto le nuove fanterie di tipo svizzero che avevano ormai scalzato la cavalleria
pesante dal suo antico ruolo di regina delle battaglie, da un punto di vista concettuale la novità
maggiore rispetto al Medioevo consisteva forse nella acquisita molteplicità di tipi di truppe e di
armi, e nel fatto conseguente che la principale chiave del successo in battaglia risiedeva ormai nel
loro efficace coordinamento.
Scomparsa ormai era anche l’aria di famiglia e di torneo delle vecchie buone battaglie medievali; se
essa resisteva ancora, in parte e con difficoltà, fra gli uomini d’arme, tutti gli altri combattevano
ormai per uccidere e per non essere uccisi, preoccupandosi assai poco del rango e della prosapia di
coloro che avevano di fronte; in particolare, gli attacchi a fondo delle falangi di fanti armati di picca
davano regolarmente luogo a massacri feroci, molto concentrati nel tempo e nello spazio.
Note al Cap.2:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
E’ ben nota la cocciutaggine, che a noi sembra quasi infantile, con cui i capi del contingente francese, nella
Crociata di Nicopoli (1396), rivendicarono la posizione d’avanguardia, ritenuta la più onorevole; alla fine la
spuntarono ma con conseguenze disastrose per sé stessi e per l’intero esercito crociato.
Una parziale eccezione è rappresentata dall’Ordine Teutonico; tuttavia la sua attività militare si svolse in
un’area piuttosto marginale dell’Europa e non sembra comunque essersi scostata di molto dal solco della
tradizione.
Erano però anche capaci di battersi per una causa fortemente sentita, come era certamente il caso per gli
svizzeri all’epoca delle loro lotte per l’indipendenza contro gli Asburgo; anche le fanterie ceche degli ussiti
(vedi appresso), nella loro fase iniziale, furono animate da un forte entusiasmo nazionale e religioso; anch’esse
tuttavia, come gli svizzeri sebbene in modo meno vistoso, conobbero in seguito sviluppi di tipo mercenario.
Quanto grande fosse questa distanza dipendeva, naturalmente, da una grande varietà di consuetudini locali.
Per quanto riguarda gli ungheresi che, in definitiva, traevano origine, come turchi e tartari, dal mondo delle
steppe, si deve pensare che queste esperienze non facessero che dare nuovo impulso ad una tradizione che non
era mai morta.
Questa tradizione militare probabilmente si formò (o almeno si consolidò) durante le lunghe guerre contro i
turchi condotte dagli albanesi sotto la guida di Giorgio Castriota (Skanderbeg); a sua volta essa si rifaceva
senza dubbio alle tradizioni degli stessi turchi, come è facile capire se si pensa che lo stesso Skanderbeg, così
come molti dei suoi, aveva combattuto prima a lungo al servizio degli ottomani. La prima apparizione in Italia
di queste truppe avvenne probabilmente nel 1461, quando lo stesso Skanderbeg prese parte, come alleato di
Ferrante d’Aragona (e di papa Pio II), alla guerra di successione nel Regno di Napoli.
Così chiamati da Jan Hus, il riformatore religioso ceco mandato al rogo come eretico a Costanza nel 1415; i
suoi seguaci presero il controllo del regno di Boemia nel 1419, dopo la morte di Venceslao di Lussemburgo, e
per più di dieci anni respinsero vittoriosamente tutte le “crociate” organizzate da papato ed impero per
ricondurli all’ordine.
I quadrati più grossi potevano quindi contare fino a 100x100 = 10.000 uomini o poco meno.
9
9.
Quest’ordine veniva accuratamente mantenuto anche nelle marce; c’era però anche un certo grado di flessibiltà
e di capacità di manovra, che permetteva di distaccare dei reparti minori per operazioni ausiliarie e di
reintegrarli poi nello schieramento principale senza provocare confusione (Guicciardini, Storia d’Italia, Libro
IX, Cap. VII, RG.3).
10. Identico o anche più grave fu, come è noto, l’insuccesso delle potenze italiane ed in particolare di Venezia.
3. Il contesto storico
Nel 1512 due potenze non italiane, la Francia e la Spagna, controllavano già, da alcuni anni, estesi
territori nella penisola.
La Francia, dopo che era fallito, nonostante il rapido successo iniziale, il tentativo del re CarloVIII
di rivendicare l’eredità angioina e conquistare il regno di Napoli (1494 ÷ 1495), era tornata alla
carica con maggior fortuna sotto il successore di Carlo, Luigi d’Orléans, divenuto Luigi XII; oltre a
vantare, come re di Francia, gli stessi diritti sul regno di Napoli che Carlo VIII aveva tentato di far
valere, Luigi, in nome del proprio casato di Orléans, ne accampava degli altri derivanti da sua
nonna Valentina, figlia di Galeazzo Visconti, sul ducato di Milano, che, in due successive
campagne (1499 ÷ 1500) riuscì effettivamente a conquistare a spese di Ludovico Sforza detto il
Moro; questi chiuse così la sua movimentata carriera come prigioniero a Loches (Turenne), dove
morì dieci anni più tardi.
Nel 1501 poi Luigi concluse col re d’Aragona, Ferdinando, che, insieme alla moglie Isabella di
Castiglia, governava l’intera Spagna, un accordo per la spartizione del regno di Napoli, che potè
essere messo in atto senza difficoltà e senza che il re di Napoli, Federigo, esponente di un altro
ramo della stessa casa d’Aragona, fosse in grado di opporre alcuna seria resistenza all’azione
combinata delle due potenze; ma fra i due alleati sorsero ben presto divergenze sull’interpretazione
dell’accordo e ne scaturì una guerra fra francesi e spagnoli per la divisione della preda, in cui rifulse
il genio del comandante spagnolo, Consalvo di Cordova, il “gran capitano”; l’abile tattica di
logoramento da questi impiegata e poi due battaglie, a Cerignola ed al Garigliano, determinarono,
entro la fine del 1503, la piena sconfitta francese; il regno di Napoli divenne appannaggio della
corona di Spagna e tale sarebbe rimasto per due secoli.
Francia e Spagna non erano però le uniche due potenze non italiane con ambizioni sulla penisola;
un'altra era rappresentata da Massimiliano d’Asburgo, re dei Romani (cioè di Germania) e quindi
imperatore di diritto, anche se l’incoronazione formale, che, secondo la tradizione, doveva avvenire
in Roma per mano del papa, nel suo caso non fu mai effettuata.
Il regno di Germania si era ridotto, ormai da tempo, ad un’informe congerie di principati laici ed
ecclesiastici e di città più o meno autonome, con istituzioni comuni molto deboli che Massimiliano,
come i suoi predecessori, tentò invano di rivitalizzare; in queste circostanze le uniche risorse
materiali su cui egli poteva effettivamente contare erano quelle dei suoi domini personali, che
comprendevano, oltre al ducato d’Austria ed agli altri domini della casa d’Asburgo, l’eredità dei
duchi di Borgogna, pervenutagli attraverso la sua prima moglie Maria, figlia ed unica erede del
duca Carlo il Temerario, morto nel 1477 combattendo contro gli Svizzeri; egli era però stato
costretto a devolvere il governo di questi ultimi territori, grosso modo corrispondenti agli attuali
Paesi Bassi, a suo figlio Filippo (il Bello), la cui libertà d’azione, per di più, era fortemente limitata
dagli organismi rappresentativi locali, poco disposti ad allentare i cordoni della borsa in favore delle
avventure militari in paesi lontani in cui le ambizioni asburgiche avrebbero potuto trascinarli.
Nonostante questi limiti, Massimiliano di ambizioni ne coltivava non poche, sia per carattere, sia
perché esse gli erano in qualche modo imposte dal suo ruolo imperiale, povero di potere effettivo
ma ricco di prestigio, ed una buona parte di esse riguardava proprio l’Italia.
Formalmente infatti, l’Italia centro-settentrionale (l’antico regno d’Italia) faceva ancora parte
dell’impero, anche se, ormai da alcuni secoli, questo non era più stato in grado di far valere questi
10
suoi diritti; e tuttavia, nella mentalità del tempo, questo fatto giuridico manteneva un certo peso, ed
avrebbe potuto acquisire nuova sostanza ove e quando la costellazione delle forze materiali fosse
tornata favorevole.
In particolare Massimiliano non dimenticava che i Visconti e poi gli Sforza avevano governato
Milano come duchi e vassalli dell’impero (almeno formalmente) e trovava quindi difficile da
accettare il fatto che il re di Francia, con cui egli era già in rapporti tesi a causa di un nutrito
contenzioso che gli derivava dall’eredità borgognona, se ne fosse impadronito contro la sua volontà
(1); egli rivendicava inoltre i diritti dell’impero sul Friuli e sul Veneto, di cui la Repubblica di
Venezia si era impadronita all’inizio del Quattrocento dopo una serie di guerre con l’imperatore
dell’epoca, Sigismondo di Lussemburgo.
Inoltre Massimiliano aspirava, legittimamente, a farsi incoronare in Roma ma, diversamente da
quanto aveva fatto suo padre Federico III, intendeva scendere nella penisola alla testa di un esercito
numeroso, con l’evidente intenzione di affermarvi la propria influenza, ed aveva perciò cominciato,
fin dal 1506, a tempestare i veneziani di ambasciate affinchè gli concedessero libero passaggio
attraverso il loro territorio.
Era questo un programma che non poteva certo piacere né al re di Francia, con cui i rapporti, dopo
un breve intermezzo (vedi nota 1), si erano fatti di nuovo tesi, né alle potenze italiane, in particolare
alla stessa Repubblica di Venezia ed al papa, Giulio II. Venezia era in rapporti d’alleanza con la
Francia, che aveva aiutato a conquistare Milano, ottenendo in ricompensa il possesso di Cremona;
per questo motivo, oltre che per le proprie riserve e diffidenze nei confronti di Massimiliano, la
repubblica respinse le richieste dell’imperatore, dichiarandosi disposta a permettere il passaggio suo
e del suo seguito, ma non di un esercito, una posizione, peraltro, che coincideva perfettamente con
quella di papa Giulio.
Ne seguì, nel 1508, una guerra in cui il tentativo di Massimiliano di mobilitare a suo favore le
risorse del regno di Germania andò incontro ad un fallimento penoso; le truppe che gli pervennero
da quel lato furono infatti scarse e non tardarono a sbandarsi di nuovo a causa della carenza di
denaro, mentre quelle del ducato d’Austria e delle altre terre asburgiche, malgrado qualche successo
iniziale, si rivelarono insufficienti.
Venezia fu in grado di respingere l’attacco senza neanche bisogno di aiuti dall’alleato francese; un
piccolo esercito nemico che era penetrato nel Cadore fu circondato ed annientato dalle truppe
veneziane comandate da Bartolomeo d’Alviano, il quale passò poi alla controffensiva,
impadronendosi in breve spazio di tempo di Gorizia, Trieste, Fiume e Postumia.
Questi brillanti successi furono però, per Venezia, forieri di una vera e propria catastrofe
diplomatica; costretto ad un’umiliante tregua triennale, che lasciava nelle mani dei veneziani le loro
recenti conquiste, Massimiliano reagì con un completo rovesciamento di alleanze, rappacificandosi
col re di Francia e concludendo anzi con lui a Cambrai, il 10 dicembre di quello stesso anno 1508,
un’alleanza diretta proprio contro Venezia, a cui aderirono anche re Ferdinando ed il papa.
Nonostante un proemio tanto ampolloso quanto ipocrita sulla necessità di unire le potenze cristiane
in vista della Crociata contro i turchi, nella sua parte più sostanziale, che fu tenuta segreta, l’accordo
definiva una vera e propria associazione a scopo di rapina; la Francia voleva non solo Cremona, che
essa stessa aveva ceduto a Venezia in ricompensa dell’aiuto prestato contro il Moro, ma anche
Bergamo e Brescia, che Venezia aveva acquisito fin dalla prima metà del XV secolo; Massimiliano
aspirava ad un boccone ancora più grosso, l’intero Veneto ed il Friuli, territori che erano veneziani
dall’inizio del Quattocento; Ferdinando, la cui adesione non era peraltro esente da perplessità,
intendeva comunque approfittare dell’occasione per recuperare alcuni porti pugliesi, di cui Venezia
si era impadronita a seguito del suo intervento nelle guerre dell’Italia meridionale seguite alla
discesa di Carlo VIII; il papa infine voleva la Romagna, su cui la Chiesa accampava diritti che
erano rimasti per secoli lettera morta, ma della quale Venezia si era appropriata in varie fasi una
parte cospicua (2).
Venezia stessa non era esente da colpe; negli ultimi tempi aveva praticato una politica gretta e di
corto respiro, volta ad approfittare delle varie situazioni per nuove acquisizioni territoriali; a breve
11
termine era stata una politica di successo, che le aveva fruttato il possesso di Cremona, Faenza,
Rimini e dei porti pugliesi, ma che le aveva altresì alienato molte simpatie in Italia e fuori; i
rappresentanti della Repubblica avevano poi tenuto un contegno inutilmente arrogante nelle
trattative con Massimiliano e nei confronti del papa (3), contribuendo così a determinare il proprio
completo isolamento diplomatico.
I calcoli dei veneziani si basavano, probabilmente, sull’apparente impossibilità di un accordo fra
tante potenze che avevano fino a poco prima combattuto l’una contro l’altra e che erano tuttora
guidate da interessi ed ambizioni manifestamente contrastanti e, senza dubbio, l’alleanza di
Cambrai era quanto di più eterogeneo si possa immaginare ed infatti durò ben poco; ma durò
tuttavia abbastanza per sottoporre Venezia ad una prova durissima, che superò a stento dopo una
lotta lunga ed angosciosa e che le costò comunque gravi perdite.
Già nel Maggio del 1509 l’esercito veneziano subì, per mano dei francesi, una grave sconfitta ad
Agnadello, presso l’Adda, dove Bartolomeo d’Alviano cadde prigioniero; sul piano strettamente
militare non si trattò di una sconfitta totale (le forze veneziane erano state impegnate solo
parzialmente, a causa della divergenza di vedute fra i due comandanti, lo stesso d’Alviano ed il
conte di Pitigliano) ma fu sufficiente a determinare un rapido sfacelo degli stati veneziani di Terra
Ferma, con le varie città che, una dopo l’altra, aprivano senza resistenza le loro porte ai vincitori; lo
stesso Senato della Repubblica sembrò aver perso ogni fiducia nel futuro e, per un breve periodo,
apparve rassegnato al totale abbandono dei possessi di Terra Ferma.
La Repubblica fu salvata da due fattori; anzitutto Massimiliano, ancora una volta, si dimostrò
incapace di raccogliere e tenere continuativamente in campo forze proporzionate ai suoi ambiziosi
obbiettivi, mentre i francesi, che avevano viceversa già interamente realizzato i propri, lo aiutavano
bensì, ma in misura limitata; inoltre, se l’aristocrazia di Terra Ferma aveva dimostrato scarsa lealtà
alla Repubblica, per contro le classi popolari, sia delle città che delle campagne, dopo un primo
momento di sbandamento si schierarono decisamente dalla sua parte, impegnando a più riprese
seriamente le genti dell’imperatore e rendendogli difficile il controllo del territorio.
Così i veneziani poterono tenere Treviso, dove si fortificarono, e già nel Luglio, con un colpo di
mano, ripresero Padova, che poco di poi, in Settembre, resistette vittoriosamente a 17 giorni
d’assedio delle truppe di Massimiliano; essi riuscirono parimenti, pur con qualche momentaneo
arretramento, a mantenere il controllo del Friuli e dell’Istria; solo Verona cadde in potere
dell’imperatore e vi rimase per qualche anno, mentre Vicenza cambiava più volte di mano.
Intanto la Lega di Cambrai già cominciava a sfaldarsi; Ferdinando aveva ricuperato i suoi porti
adriatici ed era chiaro che non intendeva più muovere un dito; anche il papa si era reso padrone
della Romagna e non vedeva affatto di buon occhio un ulteriore indebolimento di Venezia.
Giulio II era uomo di grandi ambizioni e d’indole imperiosa e passionale, confacente ad un principe
temporale assai più che ad un capo spirituale; nella sua azione egli perseguì costantemente due
scopi, peraltro a volte contraddittori; il primo era la creazione di un organico Stato della Chiesa,
comprendente tutti i territori su cui il papato vantava diritti antichi, che però era riuscito fino ad
allora a tradurre in pratica solo in piccola parte; con la conquista della Romagna, che seguiva a
quella di Bologna, egli era ora giunto assai vicino alla sua meta, ma aspirava anche a Ferrara, sede
del ducato estense, esteso anche a Modena e Reggio, che era uno dei più forti fra gli stati minori
d’Italia e che, per di più, era uno stretto alleato della Francia.
L’altro scopo, di più alto profilo, seppure anch’esso di carattere esclusivamente temporale, era la
“cacciata dall’Italia dei barbari”, fossero essi spagnoli, francesi o tedeschi, un obbiettivo che
rientrava certamente nella politica tradizionale della Chiesa, ma che corrispondeva anche a certe
tendenze dell’opinione informata italiana, sviluppatesi come naturale reazione agli eventi degli
ultimi anni; ora è chiaro che, da questo secondo punto di vista, il papa, partecipando all’alleanza di
Cambrai, si era posto in una situazione assurda, dato che contribuiva all’indebolimento proprio
dell’unica potenza italiana, a parte la Chiesa medesima, che, dopo la scomparsa di Napoli e Milano,
conservasse un certo peso nel contesto internazionale (4); inoltre Venezia era già in guerra col duca
di Ferrara, Alfonso d’Este, che l’aveva attaccata dopo Agnadello impadronendosi del Polesine,
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destinato poi a passare più volte di mano, ed appariva quindi come un’alleata naturale del papato
nelle sue rivendicazioni su Ferrara.
Non può quindi stupire che, già all’inizio del 1510, Giulio II “perdonasse” Venezia, togliendo
l’interdetto con cui l’aveva colpita, e che, poco di poi nello stesso anno, pontifici e veneziani si
trovassero a collaborare militarmente contro lo stesso Alfonso; inevitabilmente, la Francia inviò
delle truppe in soccorso del suo alleato cosicché, per quanto, proprio per rispetto al papa, lo facesse
dapprima in modo limitato ed esitante, i rapporti fra Luigi XII e Giulio II si deteriorarono
rapidamente.
Nel 1511 lo scontro si fece sempre più aspro; i francesi si impadronirono di Bologna (19 Maggio)
mettendo in rotta le truppe veneto-pontifice, mentre re Luigi si spingeva fino a patrocinare la
convocazione di un Concilio, che Giulio II vedeva giustamente come orientato a priori contro di lui
e che si riunì effettivamente in Pisa ai primi di Settembre; il papa rispose indicendo un “suo”
Concilio (5) e minacciando le più gravi sanzioni contro i cardinali che sostenevano il progetto
pisano; ma reagì risolutamente, ed efficacemente, anche in campo temporale con una serie di
iniziative diplomatiche che coinvolgevano tutta l’Europa e che miravano a mobilitare contro Luigi
Spagna ed Inghilterra e ad indurre l’incostante Massimiliano a rompere l’alleanza francese.
Ma forse potenzialmente ancora più pericolosa era l’iniziativa presa dal pontefice nei confronti
degli svizzeri; le fanterie svizzere, che erano giustamente reputate le più valide d’Europa, erano
state infatti fino ad allora a disposizione della Francia, che proprio nel campo della fanteria aveva
un punto debole, per un ampio reclutamento mercenario che avveniva sulla base di accordi fra i re
francesi ed i cantoni svizzeri, risalenti a Luigi XI ed alle guerre contro il duca di Borgogna Carlo il
Temerario; tuttavia recentemente, avendo gli svizzeri cercato di alzare il loro prezzo, si era giunti ad
una rottura, che aveva suscitato nei cantoni una forte irritazione ed alla quale Luigi XII aveva
ovviato con l’impiego delle fanterie tedesche dei lanzichenecchi (landsknechte), parimenti
mercenarie ma reclutate grazie al beneplacito di Massimiliano; ma la perdita, a vantaggio di questi
concorrenti, della lucrosa fonte di reddito francese esasperò i cantoni e diede al papa il destro per
entrare in trattativa con loro al fine di assoldarne egli stesso le truppe.
Tutte queste iniziative ebbero alla fine successo, determinando, come si vedrà, il completo sfacelo
delle posizioni francesi in Italia settentrionale, tuttavia richiesero un certo tempo per andare a buon
fine; all’inizio della campagna del 1512 l’unica che fosse stata perfezionata era l’alleanza con la
Spagna, mentre Enrico VIII d’Inghilterra non si era ancora dichiarato apertamente e Massimiliano
rimaneva un alleato della Francia, anche se instabile; quanto agli svizzeri la loro buona disposizione
era acquisita ma si era fino ad allora materializzata in due tentativi di discesa in Lombardia, nel
1510 e 1511, mal preparati e poco convinti, che i francesi non avevano avuto difficoltà a respingere;
solo dopo la battaglia di Ravenna il nuovo e più deciso intervento svizzero svolse un ruolo decisivo.
Per il momento quindi Gastone di Foix (6), un nipote di Luigi XII che, nonostante fosse appena
ventiduenne, si era già distinto nella campagna dell’anno precedente ed era stato recentemente
nominato vicerè di Milano e supremo comandante francese in Italia, doveva preoccuparsi solo dei
veneziani che, da oriente, minacciavano il bresciano, e dell’esercito della Lega Santa, cioè
dell’alleanza ispano-pontificia, che, sotto la guida del vicerè di Napoli, Raimondo di Cardona (7),
aveva appena intrapreso l’assedio di Bologna; i francesi erano però ben coscienti delle nuvole che,
da varie parti d’Europa, si stavano addensando sulla loro testa, e quindi Gastone, in pieno accordo
con le istruzioni ricevute dallo zio, intendeva condurre la campagna in modo risolutamente
aggressivo per infliggere al nemico una sconfitta decisiva prima che gli giungessero nuovi alleati.
Egli si mosse dapprima in soccorso di Bologna assediata e vi entrò con una marcia talmente rapida
da sorprendere completamente l‘esercito della Lega, che si ritirò precipitosamente verso la
Romagna; non potè però sfruttare immediatamente il vantaggio perché, in quegli stessi giorni, gli
giunse notizia che i veneziani, col concorso delle popolazioni, si erano impadroniti di Brescia e
Bergamo; ritornò allora verso nord con una marcia altrettanto fulminea e, sbaragliato per via un
contingente veneziano, riprese Brescia d’assalto, abbandonandola poi, per sette giorni, al
saccheggio delle sue soldatesche, dopo di ché anche Bergamo pensò bene di sottomettersi
13
spontaneamente; libero per il momento da preoccupazioni da questo lato, egli potè ora tornare a
Bologna, riunirvi un esercito poderoso ed avanzare risolutamente in Romagna.
Naturalmente se Foix, per le ragioni viste, era alla disperata ricerca di un’azione decisiva, i capi
della Lega, seguendo esplicite istruzioni dello stesso re Ferdinando, cercavano per quanto possibile
di evitarla, in parte per le stesse ed opposte ragioni, ma anche perché le loro forze erano
sensibilmente inferiori a quelle francesi; si ritirarono quindi lentamente, stando attenti ad
accamparsi sempre in posizioni forti, in modo che per il nemico fosse troppo rischioso attaccarli.
Il comandante francese, che nel frattempo si era congiunto col duca di Ferrara, che aveva con sé un
contingente di truppe di modeste proporzioni ma una numerosa ed ottima artiglieria, decise allora di
stanarli marciando su Ravenna, nella convinzione, che si rivelò corretta, che essi non avrebbero
potuto esimersi dall’accorrere in soccorso della città; dopo aver espugnata Russi, il 9 di Aprile si
accostò alla città ponendo l’accampamento fra Ronco e Montone e, il giorno stesso, fece un
tentativo di prenderla d’assalto; la Lega aveva però fatto a tempo a far entrare in città un
contingente spagnolo, comandato da Marcantonio Colonna, che si aggiungeva alla preesistente
guarnigione pontificia, e l’attacco francese fu respinto con sensibili perdite.
Il giorno seguente i francesi, cui era ormai giunta notizia che l’intero esercito della Lega stava
avanzando verso di loro, stettero fermi sulle loro posizioni, consigliandosi sul da farsi; in effetti gli
ispano-pontifici, che all’inizio di questa fase delle operazioni si trovavano a Faenza, si erano poi
portati a Forlì, da dove, passato il Ronco a breve distanza dalla città, avanzarono tenendosi sulla
riva destra del fiume e vennero ad accamparsi, quello stesso 10 Aprile, a pochi chilometri da
Ravenna.
Per i dettagli sulle forze in campo nonché sul loro schieramento e sull’andamento della battaglia
che, per la risoluta volontà di Gastone di Foix, fu ingaggiata il giorno seguente 11 Aprile (che era il
giorno di Pasqua) rimandiamo, rispettivamente, all’Appendice A ed ai capitoli che seguono.
Qui ci basta completare la nostra narrazione degli avvenimenti di quell’anno 1512, il cui sviluppo,
lo diciamo subito, fu tale da rendere del tutto inutile la vittoria francese di Ravenna, che pure era
stata completa come poche.
Ciò fu dovuto non tanto alla pur grave perdita subita dai francesi per la morte del loro brillante
giovane comandante, ucciso a battaglia ormai vinta, quanto al fatto che, nei mesi seguenti, vennero
rapidamente a maturazione le grandi manovre avviate in tutta Europa dalla diplomazia pontificia.
Enrico VIII d’Inghilterra, gettata la maschera, si preparava ad inviare un esercito nel continente e
tale minaccia, che rievocava le tristi memorie della guerra dei Cento Anni, indusse Luigi XII non
solo a rinunciare ad inviare rinforzi in Italia, ma anzi a richiamare parte delle truppe che già vi si
trovavano; nel frattempo anche gli svizzeri, dopo tante false partenze, scendevano in forze in Italia
e, in congiunzione con i veneziani, attaccavano la Lombardia da oriente; in queste circostanze il La
Palisse, cui, dopo la morte di Foix, era toccato il comando dell’esercito vittorioso a Ravenna,
nonché marciare su Roma, fu costretto a ripiegare in Lombardia.
La Palisse, il cui nome, a causa di uno strano equivoco, era destinato ad una fama postuma
altrettanto strana (8), non possedeva certo l’intuito e la fulminea rapidità di decisione di Gastone di
Foix, ma era pur sempre un soldato di lunga esperienza; senonché, insieme agli altri capi francesi,
egli si trovò in una situazione senza speranza, perché anche Massimiliano ruppe l’alleanza e, di
conseguenza, i lanzichenecchi tedeschi, che si erano distinti a Ravenna, abbandonarono l’esercito
francese, privandolo così della sua unica fanteria di qualità proprio mentre le temute fanterie
svizzere si aggiungevano alle forze dei suoi nemici.
Così ai francesi non restò altro che abbandonare l’Italia senza combattere, lasciandosi dietro nelle
fortezze di Milano, Brescia, Genova e di alcuni altri luoghi, dei presidi che non poterono comunque
sostenersi a lungo; prima che finisse l’anno 1512 papa Giulio II poteva quindi vantare, non senza
ragione, un trionfo completo; solo gli anni successivi avrebbero mostrato quanto fosse effimero, e
quanto fosse ormai difficile “liberare l’Italia dai barbari”.
14
Note al Cap.3:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Dopo la prima cacciata di Lodovico il Moro da Milano, l’imperatore aveva in effetti favorito il suo tentativo di
recuperare il ducato, che si era però rivelato effimero; successivamente (1505) si era adattato a concedere
l’investitura del ducato al re francese, ma solo nella prospettiva di un futuro matrimonio fra suo nipote Carlo,
figlio di Filippo (il futuro Carlo V, che all’epoca aveva solo cinque anni) e la figlia di Luigi, Claudia, che
avrebbe dovuto avere come dote proprio il ducato di Milano; tuttavia, di lì a poco, Luigi XII fece saltare
l’accordo, fidanzando Claudia con Francesco di Angouleme (il futuro Francesco I) il quale, non avendo egli
figli maschi, appariva destinato a succedergli come re di Francia.
I veneziani avevano occupato Ravenna, cui si aggiunse in seguito Cervia con le sue saline, fin dal 1441, al
tempo delle guerre con Filippo Maria Visconti; più recente era il possesso di Rimini e Faenza, acquisito nella
confusione che aveva fatto seguito alla morte di Alessandro VI ed alla caduta del Valentino (Cesare Borgia); in
questa stessa occasione la Chiesa era almeno riuscita a recuperare Cesena e Forlì, nonché Bologna.
Sembra che, almeno in un primo momento, Giulio II fosse disposto ad accontentarsi di Rimini e Faenza, che
erano acquisizioni recentissime e certo non di vitale importanza, ma Venezia rifiutò qualsiasi concessione.
Firenze, tornata alla repubblica dopo la discesa di Carlo VIII, era stata da allora in poi assorbita dalla lotta per
il ricupero di Pisa, ribellatasi in quella stessa occasione, lotta che era riuscita a concludere con successo solo
nel 1509; il suo era comunque un regime debole ed instabile, continuamente sotto l’incubo del ritorno dei
Medici, i quali disponevano di forti aderenze interne ed esterne, e che si sentiva quindi obbligato a seguire una
politica di timorosa neutralità.
Esso si svolse effettivamente a Roma, in Laterano, ma iniziò solo nel Maggio del 1512, ossia un po’ dopo la
battaglia di Ravenna.
Gastone di Foix, duca di Nemours, era nato il 10 Dicembre 1489 da Giovanni di Foix e da una sorella di Luigi
XII; sua sorella, Germana di Foix, aveva sposato qualche anno prima il vecchio Ferdinando di Spagna, vedovo
di Isabella di Castiglia, ed era quindi, in quel momento, la regina di quegli stessi spagnoli con cui Gastone si
apprestava a battersi.
Re Ferdinando aveva deciso di non servirsi del gran capitano, Consalvo di Cordova, della cui gloria militare
era, a quanto sembra, geloso; non c’è dubbio che la sua scelta sia stata poco felice.
Jacques de Chabannes de La Palice, o La Palisse, è infatti passato alla storia, senza sua colpa, attraverso il
termine “lapalissiano” che è, come noto, sinonimo di ovvio. Dopo la sua morte, avvenuta nella battaglia di
Pavia (1525), la stessa in cui il re di Francia, Francesco I, cadde prigioniero, i suoi soldati, per celebrare la sua
memoria, avevano composto una strofetta che recitava fra l’altro: hélas, s’il n’estoit pas mort il ferait encor
envie (ahimé, se non fosse morto susciterebbe ancora invidia); disgraziatamente, a causa di un errore di
trascrizione facilmente comprensibile, la strofetta riemerse dall’oblio nel secolo successivo nella forma: hélas,
s’il n’estoit pas mort, il serait encor en vie (ahimé, se non fosse morto sarebbe ancora in vita), un’affermazione
senza alcun dubbio “lapalissiana”.
4. Le marce di avvicinamento e gli schieramenti
Dopo aver espugnato Russi, l’esercito francese raggiunse Ravenna, provenendo da ovest, nella
giornata del 9 Aprile 1512, Venerdì Santo; passato il Montone, su cui fu rapidamente gettato un
ponte, si accampò fra i due fiumi, Montone e Ronco, che allora cingevano la città, il primo da nordovest ed il secondo da sud-est, per poi congiungersi prima di raggiungere il mare (vedi carte
Figg.2-3) (1).
Come si è già visto la difesa di Ravenna, originariamente affidata ad una guarnigione pontificia di
un migliaio d’uomini, era stata tempestivamente rafforzata dal vicerè Raimondo di Cardona, che vi
aveva inviato Marcantonio Colonna con i 100 uomini d’arme della sua compagnia e 500 fanti
spagnoli (2).
Quel giorno stesso i francesi, piazzata la loro poderosa artiglieria, sottoposero ad intenso
bombardamento tutto il tratto di mura fra i due fiumi, dalla torre Zancana alla porta S. Mamante;
sembra anzi che la torre suddetta fosse sottoposta anche al fuoco di un reparto di artiglieria rimasto
appositamente in sinistra del Montone; una breccia fu infine aperta fra porta Gazza e porta
15
S. Mamante ma i successivi attacchi francesi, sebbene condotti con grande decisione, incontrarono
un’ostinata resistenza e furono respinti con sensibili perdite; sembra che particolarmente efficace
nella difesa sia stata una colubrina che, facendo fuoco da una feritoia della torre Roncona (o dei
Preti) colpiva gli attaccanti di fianco (vedi carta, Fig.2).
Nel corso della giornata del 10 anche l’esercito della Lega si andò avvicinando a Ravenna
provenendo da Forlì; all’inizio si tenne sulla riva sinistra del Ronco ma poi, all’incirca all’altezza di
Durazzanino, passò su quella destra (3) per seguirla fino a 2 miglia (circa 3 chilometri) da Ravenna
o, più probabilmente, dal campo francese (4) (Fabrizio Colonna, D.2); dato che i francesi erano
sull’altra riva, le avanguardie a cavallo della Lega non dovettero trovar difficoltà a spingersi fino
alla città in corrispondenza della porta Assisi (o Sisi) dove, presumibilmente, poterono entrare in
contatto con i difensori ed avere da loro notizie sugli eventi del giorno prima; Fabrizio Colonna ed
altri capitani della Lega avrebbero voluto accamparsi nel punto che avevano raggiunto, che avrebbe
costretto i francesi, ove avessero voluto dar battaglia, ad allontanarsi alquanto dalla città; i loro
suggerimenti furono però respinti dal vicerè Raimondo di Cardona, il quale ritenne preferibile
seguire i consigli di Pedro Navarro, comandante della fanteria spagnola, che aveva invece già scelto
una posizione di circa un miglio più avanzata.
E’ opportuno, a questo punto, spendere due parole sull’organizzazione di comando della Lega che,
come emerge chiaramente da tutta la vicenda, non era delle più soddisfacenti.
Infatti se per l’esercito francese, di per sé abbastanza eterogeneo, il suo comandante, già esperto
nonostante la giovane età, e che aveva dimostrato anche recentemente visione strategica e rapidità
di esecuzione, rappresentava un punto di forza, lo stesso non sembra proprio si possa dire per
Raimondo di Cardona.
Nato nel 1467 da una delle migliori famiglie della nobiltà aragonese (5), questi era stato nominato
vicerè di Napoli fin dal 1509 ed avrebbe mantenuto quest’alta carica fino alla sua morte (1522); non
era privo di esperienza militare, ma era soprattutto un politico e comunque non aveva la forte
personalità che sarebbe stata necessaria per far dimenticare il grande assente, Consalvo di Cordova;
inoltre in diverse occasioni, nel corso della campagna, si mostrò incerto ed indeciso ed apparve
come sballottato fra le contrastanti opinioni dei suoi subordinati.
Fra questi Fabrizio Colonna (6), che comandava gli uomini d’arme dell’avanguardia, era certamente
uno dei più prestigiosi e di più lunga esperienza militare e poteva contare, per di più, sul sostegno di
altri membri del suo clan familare, suo nipote Marcantonio Colonna che, come si è visto,
comandava ora la guarnigione di Ravenna, e suo genero, il giovane marchese di Pescara,
comandante della cavalleria leggera (7); ciò nonostante il vicerè finiva quasi sempre per respingerne
i suggerimenti e seguire quelli, spesso opposti, del comandante della fanteria Pedro Navarro, cosa
che faceva non poco imbestialire il vecchio guerriero, tanto più che il Navarro, cosa rara per
l’epoca, non era di origine aristocratica ed era quindi considerato un parvenu.
Pedro Navarro, al contrario del vicerè, sembrava non avere mai dubbi sul da farsi; aveva iniziato la
sua carriera come semplice marinaio (anzi come mozzo), ma aveva poi preso parte ad innumerevoli
azioni di guerra, per mare e per terra, e, nelle campagne del Regno di Napoli, era stato uno dei
principali collaboratori di Consalvo di Cordova, distinguendosi soprattutto nella difesa e
nell’espugnazione di fortezze; si era così fatto la reputazione, probabilmente meritata, di uno dei
maggiori ingegneri militari del suo tempo, particolarmente esperto di fortificazioni e di mine, ed era
stato ricompensato da re Ferdinando con l’attribuzione della contea di Alvito (nel Regno di Napoli,
presso il confine degli stati della Chiesa); per quanto riguarda la sua mentalità, sembra essere stata
quella di un capitano di ventura pronto a servire il miglior offerente, visto che più tardi, poiché il
suo sovrano tardava a riscattarlo dalla prigionia francese, risolse il problema passando al servizio
proprio della Francia, in cui restò per il resto della sua carriera (8); bisogna dire, peraltro, che, in
quest’epoca, un comportamento del genere era ancora considerato abbastanza normale e non
particolarmente disdicevole.
Le idee del Navarro non corrispondevano gran ché alle prudenti istruzioni di re Ferdinando (vedi
Cap.2); in realtà, per quanto si può capire, egli non era affatto alieno dall’accettar battaglia, purchè
16
la si potesse ingaggiare su una posizione opportunamente trincerata, lasciando al nemico l’onere
dell’attacco; basandosi soprattutto sull’esperienza della giornata di Cerignola, cui aveva partecipato,
egli riteneva che, nonostante la superiorità numerica francese, in tali condizioni la vittoria sarebbe
stata possibile; al senno del poi risulta chiaro che il suo calcolo era sbagliato, soprattutto perché
sottovalutava l’effetto della superiore artiglieria nemica, tuttavia, nel quadro della sua epoca, il suo
errore è comprensibile, perché, fino ad allora, l’artiglieria non era mai riuscita a svolgere un ruolo
veramente decisivo nelle battaglie in campo aperto.
Fu dunque Navarro, come abbiamo già visto, a scegliere il luogo dell’accampamento nel
pomeriggio del 10 e fu lui, la mattina della battaglia, di nuovo in contraddizione con Fabrizio
Colonna e con altri, a convincere il vicerè a rinunciare a qualsiasi tentativo di ostacolare il
passaggio del fiume da parte dei francesi per attendere invece l’attacco sui trinceramenti che egli
aveva fatto predisporre nel frattempo; consistevano questi di un fossato e di un terrapieno ad esso
parallelo, ottenuto colla terra di riporto, che iniziavano a pochi metri dall’argine del Ronco (20
braccia secondo Pandolfini (RP.1) e Guicciardini (RG.3)) e correvano per circa mezzo chilometro
perpendicolarmente ad esso; dalla parte opposta al fiume la trincea faceva probabilmente un angolo
di circa 90 gradi, per terminare dopo un breve tratto in quest’ultima direzione (vedi Fig. 4a).
Subito dietro il terrapieno Navarro aveva schierato da 30 a 50 carrette di sua invenzione, su cui
erano piazzate della armi da fuoco, presumibilmente dei grossi archibugi (9); altre fonti (Loyal
Serviteur, RL.1) parlano di circa 200 archibugi distribuiti lungo la fronte spagnola e, poiché è
difficile che su ogni carretta ne stessero più di due, gli altri dovevano essere semplicemente
appoggiati sul terrapieno.
Quella di servire da supporto per gli archibugi non era comunque l’unica funzione assegnata alle
carrette; esse dovevano anche ostacolare l’avanzata dei quadrati di fanteria nemici creando
confusione nei loro ranghi serrati e determinando vuoti nella siepe delle loro picche; a questo fine
erano anche corredate di una sorta di spiedi rivolti verso il nemico e di un perno, che poteva essere
infisso nel suolo per bloccarle in posizione; è presumibile che siano state schierate col lato lungo, di
circa 2 metri, disposto parallelamente al terrapieno e subito dietro di questo.
L’intera artiglieria della Lega, costituita da 24 cannoni, era stata piazzata poco dietro il terrapieno
alla sua estremità sinistra (dalla parte del Ronco), dove può aver occupato uno spazio di 120 metri
circa (10); un po’ piu indietro stavano gli uomini d’arme dell’avanguardia, il reparto comandato da
Fabrizio Colonna; a destra dei cannoni, dietro la rimanente lunghezza del terrapieno, nonché dietro
ad archibugi e carrette, stava schierata la fanteria dell’avanguardia, circa 5.000 spagnoli che
costituivano i reparti più scelti a disposizione di Navarro.
Precisiamo qui che, per quanto riguarda gli effettivi, sia della Lega che francesi, la presente
esposizione si basa su un’analisi delle fonti che, per evitare di appesantire troppo la narrazione,
abbiamo preferito svolgere separatamente nell’Appendice A; rimandiamo in particolare alla Tab.3,
che ne riassume i risultati.
La battaglia e la retroguardia della Lega stavano schierate la prima a debita distanza dietro
l’avanguardia, la seconda dietro la prima, entrambe con gli uomini d’arme a cavallo a sinistra,
presso l’argine del fiume e le fanterie a destra (11); gli uomini d’arme della battaglia, presso i quali
aveva preso posizione anche Raimondo di Cardona col suo seguito, erano comandati dal marchese
di Padula, quelli della retroguardia da Alonso Carvajal; la cavalleria leggera, comandata, come già
sappiamo, dal marchese di Pescara, si teneva su una posizione alquanto arretrata ma tale da coprire
il fianco destro dell’intero dispositivo (vedi Fig.4a) (12).
Il legato di Giulio II, il cardinale Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e futuro papa
Leone X, si era aggregato al vicerè; uomo di indole pacifica, oltre tutto molto miope, doveva
sentirsi poco a suo agio nell’imminenza dello scontro (Guicciardini).
Ciò che colpisce maggiormente in un tale dispositivo è la posizione dei tre reparti di uomini d’arme,
schierati uno dietro l’altro presso il Ronco, quando, dal momento che, come abbiamo visto, la
trincea di Navarro arrivava fin quasi all’argine, vi era ben poco spazio per attaccare da quella parte;
evidentemente l’idea era di tenere queste truppe il più possibile al riparo ed al di fuori delle prime
17
fasi della battaglia che, in base all’impostazione ispirata soprattutto dal Navarro, dovevano avere
carattere esclusivamente difensivo; gli uomini d’arme avrebbero potuto intervenire più tardi, dopo
che il nemico si fosse sufficientemente logorato, ma allora avrebbero dovuto quasi certamente
spostarsi sulla destra.
L’esercito della Lega, che non doveva effettuare alcuna marcia di avvicinamento, assunse queste
posizioni già di buon ora nella mattinata dell’11 Aprile, che era il giorno di Pasqua; da parte sua
Gastone di Foix, probabilmente già il giorno prima, aveva fatto gettare un ponte sul Ronco a circa
un miglio di distanza dalle posizione nemiche (Fabrizio Colonna), cosicchè fin dalla prima mattina
il suo esercito si era messo in movimento ed aveva cominciato a passare il fiume; per la verità
questo sembra essere stato facilmente guadabile, come del resto è anche oggi la più parte del tempo,
per cui dobbiamo supporre che il ponte servisse soprattutto per l’artiglieria; il resto del bagaglio
pesante rimase nell’accampamento sulla sinistra del fiume, sotto la protezione di un contingente di
fanti italiani (vedi App.A, nota 6).
Mentre le colonne del suo esercito marciavano incontro al nemico, Gastone di Foix, precedendole,
si spinse a cavallo lungo l’argine del fiume per osservare più da vicino il dispositivo avversario; con
lui era una ventina di brillanti cavalieri fra cui suo cugino Odet de Foix, visconte di Lautrec (11),
Yves d’Alégre e Baiardo, il “cavaliere senza macchia e senza paura” al cui fedele cronista, “le loyal
serviteur” (14), dobbiamo l‘episodio che segue.
Incontro a loro si fece un drappello parimenti esiguo di cavalieri spagnoli, spintosi anch’esso in
avanscoperta, di cui facevano parte il marchese di Padula, comandante degli uomini d’arme della
battaglia, e Pedro de Paz, uno dei capitani della cavalleria leggera; non ci fu scontro ma anzi, nella
più pura tradizione cavalleresca, uno scambio di fiorite cortesie; gli spagnoli riconobbero Baiardo,
famoso anche fra di loro per i suoi atti di valore, e da questi appresero di trovarsi di fronte al
comandante nemico Gastone di Foix, oltretutto fratello della loro regina (Cap.3, nota 6), dopodiché
i due gruppi di cavalieri si separarono pacificamente; notiamo per inciso che, dei sei personaggi
appena citati, solo Baiardo uscì libero ed illeso dalla battaglia; Odet de Foix rimase ferito in modo
grave, il marchese di Padula cadde prigioniero, e gli altri tre persero la vita.
Fin qui si sarebbe potuto parlare, con Ludovico Ariosto, della “gran virtù dei cavalieri antiqui”, ma
a questo punto assistiamo ad un brusco cambio di registro; dal punto che avevano raggiunto i capi
francesi potevano osservare chiaramente lo schieramento nemico ed in particolare gli uomini
d’arme di Fabrizio Colonna che si trovavano, come sappiamo, presso l’argine del fiume; Baiardo e
d’Alègre fecero allora notare al Foix che questo reparto avrebbe potuto essere colpito con
particolare efficacia piazzando dei cannoni all’incirca alla sua altezza sull’argine opposto (sinistro)
del Ronco e Gastone, cogliendo al volo l’opportunità, diede subito disposizioni affinchè due
cannoni (o colubrine) venissero riportati sull’altra riva (o forse non avevano ancora passato il
fiume) e piazzati come suggerito; di nuovo viene in mente l’Ariosto ma, questa volta, per notare
come gli epigoni della cavalleria avessero ormai accettato il “maledetto , abominoso ordigno” e
stessero anzi imparando ad usarlo in modo tatticamente efficace.
A conclusione della loro marcia di avvicinamento le truppe francesi presero posizione secondo uno
schieramento decisamente aggressivo; all’estrema destra, e cioè vicino al fiume e di fronte
all’artiglieria nemica ed al reparto di Fabrizio Colonna, fu piazzata la parte maggiore
dell’artiglieria, un po’ più indietro stavano gli uomini d’arme dell’avanguardia sotto la guida del La
Palisse (15), subito a sinistra, di fronte alla parte rimanente della trincea nemica, era tutta la
numerosa fanteria dell’avanguardia, comprendente i lanzichenecchi, organizzati in quattro
compagnie, i cui capitani erano Jacob Empser, il bastardo di Cleves e i due fratelli Gaspar, Jacob e
Filippo, ed altrettante compagnie francesi o guascone, guidate dai signori di Molard, Maugiron,
Bonnivet e dal barone di Grammont (Sanuto, D.1).
Secondo Guicciardini il resto delle fanterie francesi (battaglia e retroguardia) e la cavalleria leggera
si schierarono ancora più a sinistra, secondo una linea arcuata a “forma di mezza luna” , che già
faceva presagire un movimento aggirante oltre l’estremità orientale della trincea spagnola; sembra
però più probabile che, in realtà, la fanteria della battaglia abbia assunto una posizione un po’
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arretrata dietro quella dell’avanguardia, come appare implicito in un’annotazione ad essa riferita,
che il Sanuto riporta (Si agiongerà a l’avanguarda o a la dernier guarda, s’el bisognarà, vedi D.1,
anche nota 1) e nel suo effettivo successivo utilizzo in un movimento aggirante sulla destra, cioè
dalla parte del fiume (vedi Cap.5); gli uomini d’arme della battaglia si posizionarono da qualche
parte al centro ed alquanto più arretrati (16), mentre quelli della retroguardia, sotto il comando di
Yves D’Alègre, almeno nella fase iniziale, rimanevano indietro, presso il ponte sul Ronco
(Pandolfini); cavalcava coi primi il cardinale di Sanseverino, legato del Concilio filo francese, che,
fisicamente poderoso ed armato da capo a piedi, aveva un aspetto ben altrimenti marziale del
cardinale de’ Medici; sempre Guicciardini ci dice che, fin dalle prime fasi della battaglia, il duca di
Ferrara condusse all’estrema ala sinistra un cospicuo reparto di artiglieria (probabilmente la sua che,
come sappiamo (Cap.3), era numerosa); ci troviamo qui di fronte ad una seconda e più cospicua
manifestazione di spirito inventivo nell’impiego dell’artiglieria, che avrebbe esercitato un influsso
decisivo sull’andamento della battaglia (17); naturalmente questo tipo di manovre era reso
possibile, per la parte francese, anche dalla netta superiorità numerica in fatto di cannoni (vedi
Appendice A, Tab.3).
A questo punto, quindi, i due schieramenti avevano assunto la forma che abbiamo cercato di
ricostruire in Fig.4a.
Note al Cap.4:
1.
Come è noto la situazione attuale, in cui Ronco e Montone si congiungono e procedono poi verso il mare
rimanendo alcuni chilometri a sud della città, è il risultato di un intervento di sistemazione idrica del XVIII
secolo, motivato dal pericolo di inondazioni cui la città era esposta a causa della vicinanza dei due fiumi.
2. Ciò è quanto risulta dalla lettera di Fabrizio Colonna (D.2), secondo cui il presidio originario consisteva di 100
cavalli leggeri agli ordini di Pedro de Castro e di 1000 fanti; Guicciardini parla di un rinforzo di 60 uomini
d’arme della compagnia del Colonna, 100 cavalli leggeri sotto Pedro de Castro e 600 fanti spagnoli, ma non dà
alcuna indicazione riguardo all’entità del presidio preesistente.
3. A quell’epoca esisteva una strada vera e propria fra Ravenna e Cesena, che seguiva a un di presso l’attuale
tracciato (strada del Dismano), ma, per quanto riguarda il collegamento fra Ravenna e Forlì, ci si serviva
indifferentemente di uno o dell’altro argine del Ronco.
4. E’ infatti presumibile che il campo francese, per evitare di essere fatto segno a tiri di cannone dalla città, ne
fosse distante almeno un miglio.
5. Correvano poi delle voci che ne facevano un figlio illegittimo dello stesso re Ferdinando.
6. Fabrizio Colonna conte di Tagliacozzo e gran conestabile del Regno di Napoli, era nato prima del 1452 ed
aveva quindi almeno sessant’anni; al pari del suo parente ed all’incirca coetaneo Prospero Colonna, altro
famoso condottiero dell’antica famiglia aristrocratica romana, che peraltro non era presente a Ravenna, poteva
vantare una lunga e brillante carriera militare; aveva sposato Agnese di Montefeltro, figlia del duca di Urbino,
Federico, e di Batista Sforza.
7. Fernando de Avalos, marchese di Pescara, futuro vincitore della battaglia di Pavia (1525) in cui cadde
prigioniero il re di Francia, Francesco I; era nato nel 1490 e quindi aveva allora 22 anni; nel 1509 aveva
sposato Vittoria Colonna, figlia di Fabrizio, a sua volta un personaggio di rilievo nel quadro culturale del
Rinascimento, poetessa nonchè ammiratrice ed amica di Michelangelo.
8. Re Ferdinando reagì togliendogli la contea di Alvito ed assegnandola proprio al suo antico superiore, il vicerè
Raimondo di Cardona, che poteva non essere un fulmine di guerra ma era almeno fedele.
9. Pandolfini e Guicciardini parlano di artiglieria minuta, ma in quest’epoca la distinzione fra artiglieria ed armi
individuali era alquanto sfumata, dato che gli archibugi più grossi erano troppo pesanti perché un uomo solo
potesse portarli comodamente; le carrette del Navarro ricordano quindi un po’ i carri dei wagenburg ussiti,
anche se non è detto che il capitano spagnolo ne abbia mai sentito parlare.
10. Il dato numerico è di Zurita (RZ.1) ed è sostanzialmente confermato dal “Loyal serviteur” che parla di 20
cannoni; la posizione dell’artiglieria sulla sinistra è indicata con chiarezza dal solo Guicciardini:
“
l’artiglierie erano poste alla testa delle genti d’arme”; sia Pandolfini che il “Loyal Serviteur” dicono che i
cannoni erano situati davanti all’avanguardia, il ché è un po’ più vago ma non necessariamente in
contraddizione con quanto sopra; diversa l’opinione di Zurita che colloca l’artiglieria presso un bosco, di cui
nessuna altra fonte fa menzione, e che non è facile situare; nel seguito e nella stesura delle carte abbiamo
seguito Guicciardini.
19
11. I termini “avanguardia”, “battaglia” e “retroguardia” erano diventati di uso comune già nel corso del
Medioevo; in origine il più importante dei tre corpi era la battaglia, con la quale, durante le marce, procedeva il
bagaglio pesante ed anche il comandante in capo col suo seguito personale; ciò non toglie che un posto
nell’avanguardia, ritenuto più pericoloso, fosse proprio per questo particolarmente ambito e prestigioso. A
Ravenna troviamo una situazione un po’ diversa, poiché, per entrambi i contendenti, almeno per ciò che
riguarda le fanterie, l’avanguardia era chiaramente il corpo più numeroso e più scelto.
12. La Fig.4a si basa, sia per le forze della Lega che per quelle francesi, sui numeri della Tab.3 dell’Appendice A,
con le distanze indicate in calce alla figura medesima; l’entità e la disposizione dei reparti, benché in parte
ipotetiche, sono coerenti con quel tanto che sappiamo dalle fonti, soprattutto dal Sanuto. I criteri seguiti nella
compilazione di questa cartina, da cui derivano le seguenti, sono esposti più in dettaglio nell’Appendice A.
13. Odet de Foix, visconte di Lautrec, che, come vedremo, fu assai gravemente ferito nella battaglia, fu poi uno dei
più importanti e prestigiosi capi militari francesi sotto il regno successivo, quello di Francesco I.
14. Pierre du Terrail, signore di Bayard, universalmente noto per i suoi atti di valore, fu riconosciuto dai suoi
contemporanei come il prototipo del combattente impavido e del perfetto cavaliere; si era distinto nelle
campagne nel Regno di Napoli ed aveva partecipato alla disfida di Barletta; morì a Rovasenda (Vercelli), in
seguito a ferita d’arma da fuoco subita mentre copriva la ritirata dell’esercito francese, dopo la battaglia di
Romagnano Sesia (1524). Principale fonte sulle sue gesta è la “Histoire du bon chevalier sans paour et sans
reproche, gentil seigneur de Bayard ” (RL.1), scritta da un suo compagno d’armi, Jacques de Mailles, che si
presenta semplicemente, appunto, come suo “loyal serviteur”.
15. Per qualche notizia su questo personaggio vedi Cap.3, nota 9. Secondo Pandolfini questo reparto era sotto il
comando congiunto del La Palisse e del duca di Ferrara (che era anzi l’unico in comando secondo il Sanuto),
però, come vedremo, quest’ultimo si spostò quasi subito sull’ala sinistra, per cui fu il la Palisse ad esercitare il
comando effettivo.
16. Veramente Guicciardini ci dice che gli uomini d’arme della battaglia si schierarono più indietro presso la riva
del fiume, ma ciò sembra assai poco logico ed è in contraddizione con quanto sappiamo sull’andamento della
scontro di cavalleria (vedi Cap.5); del resto Guicciardini su questo punto fa chiaramente un po’ di confusione,
perché attribuisce il comando di questo reparto al La Palisse che invece, secondo tutte le altre fonti, era a capo
degli uomini d’arme dell’avanguardia.
17. L’idea di questa manovra viene generalmente attribuita allo stesso Alfonso d’Este, tuttavia non è pensabile che
essa sia stata effettuata senza almeno l’approvazione di Gastone di Foix.
5. La battaglia
Anche se avevano assunto uno schieramento decisamente offensivo, i francesi non avevano però
alcuna intenzione di gettarsi a testa bassa contro le ben preparate posizioni avversarie; al contrario,
essi si proponevano di stanare le forze della Lega, di costringerle a passare dalla difesa all’attacco e
ad uscire dai propri trinceramenti, e per questo contavano essenzialmente sull’azione della propria
superiore artiglieria.
In accordo con questo disegno, le loro fanterie si fermarono ad una certa distanza dal fronte nemico
(1), dopo di ché, per circa tre ore, non si ebbe altra azione che il duello delle opposte artiglierie.
Questo sembrò dapprima svolgersi con vantaggio per la Lega, i cui cannoni, già in posizione fin dal
mattino, poterono aprire subito il fuoco mentre i francesi stavano ancora piazzando i loro; ultimo ad
entrare in azione fu, senza dubbio, il reparto d’artiglieria che, come abbiamo visto, il duca di Ferrara
condusse sulla sinistra, con un’operazione che deve aver richiesto un certo tempo (2).
Soffrì gravi perdite, in questa fase, soprattutto la fanteria dell’avanguardia francese, su cui i cannoni
nemici facevano fuoco da breve distanza; non vengono invece riferite perdite significative degli
uomini d’arme dell’avanguardia, che devono essersi tenuti alquanto più indietro, né, ed è ben
comprensibile date le posizioni assunte, delle truppe (cavalleria e fanteria) della battaglia e della
retroguardia.
Man mano che le artiglierie francesi entravano a loro volta in azione la situazione cominciò a
ribaltarsi; stando appiattiti a terra dietro la loro trincea, come Navarro aveva loro raccomandato di
fare, i fanti spagnoli dell’avanguardia potevano forse essere abbastanza al sicuro dal tiro del reparto
principale dell’artiglieria nemica, ma è dubbio che ciò potesse proteggerli dal fuoco aperto contro il
loro fianco dai cannoni di Alfonso d’Este, che, dalla loro posizione, potevano anche colpire senza
contrasto la fanteria della battaglia e la cavalleria leggera della Lega; quanto ai cannoni francesi
20
sull’altra riva del fiume, anche se pochi, essi erano piazzati in posizione ideale per colpire gli
uomini d’arme della Lega, soprattutto quelli di Fabrizio Colonna (vedi Fig.4a).
Col passare del tempo la tortura, che le artiglierie nemiche infliggevano loro, diventava sempre più
insopportabile per le truppe della Lega, per le quali quella di dover restare immobili sotto il fuoco
era un’esperienza nuova e sconvolgente; quasi tutti i comandanti avrebbero voluto rompere gli
indugi ed andare all’attacco, ma a questo continuava ad opporsi il Navarro, tenacemente coerente
con la sua prima impostazione.
Alla fine, secondo Fabrizio Colonna, fu il vicerè a rompere gli indugi, dando ordine di attaccare agli
uomini d’arme della battaglia (marchese di Padula) e della retroguardia (Carvajal);
contemporaneamente, forse per sua decisione indipendente, andò all’attacco anche il marchese di
Pescara, la cui cavalleria leggera si scontrò con quella francese, nettamente superiore di numero,
mentre i primi due contingenti puntarono contro gli uomini d’arme della battaglia francese;
quest’ultimo fatto, che risulta chiaramente dalle testimonianze di Fabrizio Colonna e del “loyal
serviteur”, implica che, nello schieramento delle fanterie francesi esistesse uno spazio vuoto
abbastanza ampio da permettere il loro passaggio, secondo lo schema evidenziato in Fig.4b.
Lo scontro degli uomini d’arme, violento e prolungato, è così descritto dal “loyal serviteur” che era
con ogni probabilità della partita: “… et dura plus d’une grande demi heure ce combat. Ilz se
reposoient les ungs devant le autres, pour reprendre leur alayne, puis baissoient la veue, et
recommençoient de plus belle, … (e questo combattimento durò parecchio più di mezz’ora (3). Si
riposavano gli uni in vista degli altri, per riprendere fiato, poi tornavano ad abbassare la celata e
ricominciavano più forte di prima, …)”
All’inizio gli spagnoli godevano di una certa superiorità numerica, anche se non di due a uno come
ci dice il “loyal serviteur”, comprensibilmente portato a magnificare il valore dimostrato dalla sua
parte; la nostra tabella assegna infatti 490 e 430 uomini d’arme, rispettivamente, alla battaglia ed
alla retroguardia della Lega, per un totale di 920, e 650 alla battaglia francese; tuttavia D’Alègre si
era certamente già congiunto alla battaglia coi circa 200 uomini d’arme della retroguardia, come
prova il fatto che proprio lui andò a cercare rinforzi, e quindi i francesi erano in totale 850;
comunque per qualche tempo i francesi si trovarono evidentemente in difficoltà perché, appunto,
d’Alègre, presumibilmente per ordine di Gastone di Foix, che partecipava personalmente al
combattimento, corse verso gli uomini d’arme dell’avanguardia francese che, come sappiamo, si
trovavano presso la riva del Ronco, chiedendo a gran voce soccorso; il comandante di quel reparto,
La Palisse, reagì prontamente, inviando un contingente di cui non ci viene detta la forza, ma che
possiamo ragionevolmente ipotizzare fosse dell’ordine di 200 uomini d’arme, e l’arrivo di queste
forze fresche decise finalmente le sorti dello scontro (e in certo senso anche quelle dell’intera
battaglia).
Fabrizio Colonna che, a quanto ci dice, non era stato consultato né informato dal vicerè a proposito
dell’attacco, avrebbe comunque voluto unirsi ad esso coi suoi uomini d’arme e chiese a Pedro
Navarro di passare anch’egli all’attacco con le sue fanterie, ma incontrò un rifiuto; quando, alla
fine, si decise a mettersi comunque in movimento, le sorti del combattimento erano ormai segnate,
perché gli uomini d’arme sconfitti della battaglia e della retroguardia già stavano rifluendo in
disordine per lo stesso corridoio che avevano percorso andando all’attacco; i suoi sforzi per fermare
la rotta risultarono quindi vani, anzi anche i suoi uomini, già decimati e demoralizzati per il lungo
tormento inflitto loro dai cannoni francesi, si lasciarono in gran parte travolgere nello sbandamento
generale (4).
Poiché, nel frattempo, anche la cavalleria leggera della Lega era stata travolta da quella nemica, il
combattimento delle opposte cavalleria si chiudeva con una completa vittoria francese; l’intera
cavalleria della Lega, spazzata via dal campo di battaglia, fuggì in piena rotta verso Cesena,
inseguita da una forte aliquota di uomini d’arme (con Baiardo) e, presumibilmente, di cavalli
leggeri francesi, la quale, di conseguenza, non partecipò neanch’essa al successivo svolgimento
della battaglia; Fabrizio Colonna, con un pugno di uomini d’arme che non si erano dati alla fuga, si
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riportò nella sua precedente posizione presso il fiume, deciso a combattere fino in fondo a fianco
della fanteria.
La sconfitta della Lega era ora praticamente certa, ma rimanevano da definirne le proporzioni;
sembrerebbe che, a questo punto, la linea di condotta più logica, per la Lega, avrebbe dovuto
consistere in una ordinata ritirata delle truppe residue, cioè delle fanterie (5), che non avevano
ancora subito perdite troppo gravi; ciò era tutt’altro che impossibile, perché, come anche alcuni
eventi successivi avrebbero dimostrato, delle fanterie solide e capaci di mantenere la propria
coesione anche durante la marcia, come erano certamente quelle della Lega, avevano ottime
probabilità di respingere con successo qualsiasi attacco della cavalleria nemica.
Sarebbe toccato evidentemente a Raimondo di Cardona prendere in mano la situazione e dare i
comandi necessari, ma il vicerè sembra aver perso completamente la testa, perché, senza
preoccuparsi di chi restava, si diede alla fuga col suo seguito subito dopo la sconfitta della
cavalleria (6); quanto a Navarro, non sembra aver mai preso in considerazione la possibilità di una
tempestiva ritirata; occorre dire che egli non ebbe molto tempo per pensare, perché ora anche le
fanterie francesi, rotti gli indugi, andarono all’attacco.
La lotta delle fanterie, che ora seguì, può essere vista come suddivisa in tre settori, centro, ala destra
francese (lato fiume) ed ala sinistra.
Al centro i lanzichenecchi e le altre fanterie dell’avanguardia francese andarono a cozzare contro le
fanterie spagnole dell’avanguardia, schierate dietro il lato lungo della loro trincea; qui, dall’una e
dall’altra parte, erano impegnate le truppe più numerose e migliori ed il risultato fu uno stallo
prolungato e sanguinoso.
Non sentiamo più parlare, in questa fase, delle carrette del Navarro, ed è quindi lecito pensare che
non abbiano svolto un ruolo importante; quanto agli archibugi, che certamente erano stati utili nella
fase precedente, non potevano più esserlo molto una volta ingaggiata la mischia; diede ottima
prova, secondo il generale giudizio, la fanteria spagnola, caratterizzata da una più elevata
proporzione, rispetto agli armati di picca, di soldati equipaggiati con scudo e armi corte (spada), più
efficaci quando si trattava di combattere in spazi ristretti (7).
Sulla destra, dopo che Fabrizio Colonna ed i suoi uomini d’arme avevano evacuato la loro primitiva
posizione presso l’argine del fiume, rimaneva un certo spazio libero fra le fanterie spagnole ed il
fiume ed i francesi tentarono di approfittarne con una manovra aggirante; per questa furono
impiegate le fanterie della battaglia (circa 2500 uomini in totale), composte per due terzi da truppe
guasconi, prevalentemente arcieri, sotto la guida del cadetto di Durac e del capitano Odet e e per il
resto da fanti della Piccardia, armati di picca e comandati dal signor di Moncaure (D.1 ed RL.1);
secondo Guicciardini queste forze avanzarono nello stretto spazio fra argine e fiume in modo da
sfuggire alla vista del nemico; non sembra comunque che siano riusciti a realizzare la sorpresa,
perché furono subito fieramente contrastati da fanti italiani, con ogni probabilità facenti parte della
battaglia della Lega; in un secondo momento si buttarono nella mischia da parte francese un piccolo
contingente di uomini d’arme, fra cui Yves D’Alègre e suo figlio, che rimasero entrambi uccisi,
dalla parte della Lega un contingente spagnolo, proveniente forse in parte dall’avanguardia in parte
dalla battaglia (vedi Fig.4c)
Alla fine i francesi (soprattutto i guasconi, il cui armamento era di scarsa utilità nel corpo a corpo)
non poterono reggere all’impeto nemico e si sbandarono in rotta; trascinato dal suo slancio il
contingente spagnolo, forte di un migliaio di uomini o forse più (8), raggiunse l’argine del Ronco e
qui i suoi capitani dovettero porsi la domanda di cosa loro convenisse fare adesso; a quanto sembra
essi decisero dapprima di attaccare l’artiglieria francese situata poco più a nord e presero ad
avanzare verso di essa lungo l’argine; ben presto però, osservando la situazione dalla loro posizione
sopraelevata, dovettero rendersi conto che la battaglia era ormai perduta per la loro parte e,
invertendo la direzione di marcia, cominciarono a ritirarsi in buon ordine, sempre seguendo
l’argine; ma, come vedremo fra poco, avrebbero ancora recitato un ruolo importante nella giornata.
Le nostre fonti, che pure sono concordi nell’evidenziare come, già nel loro schieramento iniziale, le
forze francesi accennassero ad una manovra di aggiramento sulla propria sinistra, sono poi avare di
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notizie sullo svolgimento della battaglia su questa ala; eppure ci sono tutte le ragioni per credere
che, proprio su questo lato, si sia verificato il crollo finale del dispositivo difensivo della Lega.
Qui i francesi potevano contare sui circa 3000 fanti (prevalentemente italiani) della loro
retroguardia e, senza dubbio, su forti aliquote di uomini d’arme e cavalli leggeri che non erano
andati con Baiardo all’inseguimento della cavalleria nemica, nonché, naturalmente, nella continuata
azione di sostegno dell’artiglieria del duca di Ferrara; contro queste forze non c’era, dalla parte
della Lega, che quella parte della fanteria della battaglia che non era stata risucchiata dai
combattimenti sull’ala opposta, che abbiamo appena descritti, probabilmente non più di un migliaio
di uomini e non dei più scelti; Navarro ed i suoi fanti dell’avanguardia, impegnati a fondo
com’erano, possono aver fatto poco o niente per venire in aiuto; quanto ai fanti della retroguardia
(circa 1500 uomini), Fabrizio Colonna ci dice di essere corso, presumibilmente in accordo col
Navarro, a chiedere al loro comandante, l’italiano Ramazzotto, di impegnare anche questi, ma di
aver incontrato un rifiuto.
Quella di Ramazzotto non fu certo una decisione eroica, ma può ben darsi che fosse, dopo tutto, la
più sensata; è ben difficile, infatti, data la situazione, che questi fanti avessero potuto fare altro che
andare ad aumentare ulteriormente il conto delle perdite; e comunque Ramazzotto aveva un grosso
alibi nel fatto che il comandante in capo, Raimondo di Cardona, se l’era già data a gambe.
Anche Fabrizio Colonna, comunque, a questo punto decise di ritirarsi e lo fece mettendosi sulle
orme del contingente spagnolo che stava ripiegando lungo l’argine ma, poiché era a cavallo, non
potè inserirsi nella sua formazione compatta, fu preso a bersaglio dagli archi (o dagli schioppetti)
dei fanti francesi incalzanti, ferito, disarcionato e fatto prigioniero; a quanto egli stesso ci dice,
dovette la salvezza al duca di Ferrara, che evidentemente aveva lasciato ad altri la direzione della
sua artiglieria per partecipare alla fase finale dei combattimenti e che, conoscendolo bene, arrivò in
tempo a strapparlo dalle mani dei fanti che stavano per ucciderlo; questo episodio, insieme a quello,
che vedremo fra poco, della morte di Gastone di Foix ed a non pochi altri, ci fa capire quanto le
fanterie, dell’una e dell’altra parte, fossero pronte ad uccidere e poco inclini a fare prigionieri; col
vecchio spirito cavalleresco esse non avevano, evidentemente, nulla da spartire.
E’ implicito in tutto ciò che, in questo mentre, l’ala sinistra francese abbia potuto dilagare senza
essere seriamente contrastata, accerchiando completamente o quasi le fanterie dell’avanguardia
nemica; a questo punto, quindi, la battaglia assunse le caratteristiche che, secoli più tardi ed in
contesti geografici ben più ampi, lo stato maggiore tedesco avrebbe riassunto nel termine
“Kesselschlacht (battaglia-calderone)”, il calderone essendo lo spazio sempre più ridotto, in cui
continuavano a battersi fino ad esaurimento, ormai circondate e condannate, le forze della Lega che
ancora resistevano.
Aggirandosi per il campo di battaglia con un piccolo seguito personale di uomini d’arme, Gastone
di Foix seguiva da vicino, con legittima soddisfazione, il sempre più netto profilarsi della vittoria
che aveva così fortemente voluta; come abbiamo visto, egli si era impegnato personalmente nello
scontro degli uomini d’arme, tanto che Baiardo l’aveva visto, subito dopo, tutto coperto di sangue,
peraltro non suo; in questo breve incontro lo stesso Baiardo, in procinto di partire all’inseguimento
della cavalleria nemica, gli aveva fatto promettere che non si sarebbe più gettato nella mischia (9).
Ad un certo punto, però, qualcuno attirò la sua attenzione sulla sconfitta subita dai guasconi e sul
contingente spagnolo che l’aveva inflitta che, come sappiamo, si stava ritirando lungo l’argine del
Ronco, in buon ordine e con le bandiere al vento; il giovane duca di Nemours non potè resistere alla
tentazione di precipitarsi a caricare, col suo piccolo seguito, quell’unico reparto nemico ancora non
sconfitto, ma fu disarcionato, forse da un colpo d’arma da fuoco, e, in un battibaleno, crivellato di
ferite d’arma bianca ed ucciso (vedi Fig.4d); suo cugino Odet de Foix, visconte di Lautrec, subì
quasi la stessa sorte ma non morì e, ben curato a Ferrara dopo la battaglia, potè ristabilirsi per
andare ad occupare, nei decenni successivi, un ruolo militare di primaria importanza nel regno di
Francia.
Gli spagnoli, che probabilmente non si erano neanche resi conto di aver fatto delle vittime così
illustri, continuarono a ripiegare lungo l’argine e, alquanto più tardi, incontrarono Baiardo che, con
23
un distaccamento di uomini d’arme, tornava dal suo inseguimento; dopo qualche esitazione gli
ufficiali delle due parti entrarono in parlamentari ed infine si trovarono d’accordo nel ritenere che,
la battaglia essendo ormai stata combattuta e decisa, non fosse il caso di fare altri morti; così
ognuno proseguì per la sua strada e Baiardo se ne ritornò verso il suo esercito, senza sapere di aver
parlato con gli uccisori del suo comandante, della cui morte non era ancora al corrente (10).
Intanto la battaglia, che era durata dalle otto di mattina alle quattro del pomeriggio (loyal serviteur)
(11), si stava concludendo e nelle sue ultime fasi, nel “calderone”, deve aver assunto l’aspetto di un
vero e proprio massacro; ne fu vittima soprattutto la fanteria dell’avanguardia spagnola, che si era
battuta con grande valore, ma che, ormai circondata da ogni lato, non aveva alcuna possibilità di
ritirarsi; Navarro, ferito, fu fatto prigioniero, ma abbiamo tutte le ragioni di pensare che la massa dei
fanti sia stata semplicemente passata per le armi, perché le nostre fonti non fanno alcun riferimento
a quantitativi rilevanti di prigionieri, ma solo a singoli personaggi, tutti di una certa importanza;
fra questi, oltre a Fabrizio Colonna e Pedro Navarro, sono particolarmente da notare il marchese di
Padula, capo degli uomini d’arme della battaglia, il giovane marchese di Pescara, comandante della
cavalleria leggera ed alcuni grandi nobili del seguito del vicerè, quali il conte di Monte Leone ed il
marchese di Bitonto, nonché lo stesso legato pontificio, il cardinale Giovanni de’Medici.
Le morti erano comunque numerose anche fra le fila della nobiltà; nel reparto di Fabrizio Colonna
su 11 capitani (comprendendo lo stesso Fabrizio) ne rimasero uccisi ben 6, mentre negli altri due
reparti di uomini d’arme, quello del marchese di Padula e quello di Carvajal, la mortalità fu assai
inferiore; questa differenza si spiega, molto probabilmente, col fatto che molti se non tutti i capitani
di Fabrizio, anche dopo che i loro uomini si erano sbandati, tornarono con lui a combattere fino alla
fine a fianco dei fanti, mentre i capitani degli altri due reparti si lasciarono coinvolgere nella rotta
generale dei loro uomini, abbandonando il campo di battaglia (12).
Possiamo ora tentare un bilancio delle perdite della Lega.
Per quanto riguarda la cavalleria ci sembra evidente che, a parte quanto appena detto a proposito di
Fabrizio Colonna e dei suoi capitani, il grosso, capi e gregari, potè salvarsi con la fuga, per cui le
sue perdite si riducono a quelle subite nel corso del bombardamento iniziale e del successivo
scontro con la cavalleria nemica, le quali, su un totale di 2700 cavalieri (1500 + 1200, vedi Tab.3),
non possono aver superato di molto le 500 unità (fra morti e prigionieri); ben diverso è il discorso
per i fanti dell’avanguardia che, per le ragioni già viste, ebbero una percentuale di perdite
elevatissima, oltre tutto con pochissimi prigionieri; se a tali perdite aggiungiamo quelle, senza
dubbio non indifferenti, della fanteria della battaglia, siamo indotti ad ipotizzare un totale di oltre
5.000 (quasi tutti morti) pari quindi a qualcosa più della metà delle fanterie impegnate (13); si
salvarono solo i 1500 di Ramazzotto (14), i 1000 ÷ 2000 uomini ritiratisi lungo l’argine e,
naturalmente, un certo numero di fuggiaschi sbandati.
Pesanti furono, comunque, anche le perdite dei vincitori; anche qui fu soprattutto la fanteria
dell’avanguardia a pagare il maggior tributo di sangue, sia durante la fase del reciproco
bombardamento, sia durante la successiva lotta, lunga e sanguinosa, con i fanti spagnoli; rimasero
uccisi tutti e quattro i capitani dei lanzichenecchi (Pietro Martire d’Anghiera, RA.2), di cui almeno
uno, Filippo Gaspar, cadde già durante la fase del bombardamento, così come il capitano francese
signor di Molard, mentre il signor di Maugiron ed il barone di Grammont persero la vita nel corpo a
corpo (RL.1); non c’è quindi da dubitare che anche la truppa abbia subito gravi perdite. Gravemente
malmenata fu anche la fanteria della battaglia nel suo fallito tentativo di aggiramento sulla destra,
nel quale trovò la morte, fra gli altri, il capitano dei fanti di Piccardia, il signor di Moncaure,
mentre, nonostante alcune morti illustri, quali quelle di d’Alègre e dello stesso Gastone di Foix, le
perdite della cavalleria francese, sia pesante che leggera, sembrano essere state relativamente
modeste.
Non sembra quindi troppo lontana dal vero, per la parte francese, la valutazione complessiva del
“loyal serviteur”: “(y finirent leurs jours)Des gens de pied environ trois mille hommes, et quatre
vingtz hommes d’armes des ordonnances du roy de France, avecques sept de ses gentilz hommes et
neuf archiers de la garde ((vi trovarono la morte) 3000 uomini della fanteria, 80 uomini d’arme
24
delle compagnie d’ordinanza del re di Francia, con sette dei suoi gentiluomini e nove arcieri della
sua guardia) (15). E tuttavia può essere opportuno ridimensionarla un po’, portandola a circa 2500
in totale, per avvicinarsi al rapporto di 1 a 3 fra le perdite delle due parti su cui insistono varie fonti
(vedi Taylor, RT.1).
Tutto ciò significa che, nel tardo pomeriggio di quel giorno di Pasqua, 8000 o 9000 morti giacevano
sul campo di battaglia accatastati in breve spazio, uno spettacolo che lasciò un’impressione penosa
in tutti coloro che ne furono testimoni, spesso inducendoli, come facilmente succede in questi casi,
a stime manifestamente esagerate (fino a 20.000 morti).
Anche con la valutazione più sobria che abbiamo appena fornito la percentuale delle perdite,
rispetto al totale dei combattenti delle due parti, risulta comunque vicina ad un terzo; si tratta di una
percentuale del tutto “moderna”, paragonabile cioè a quella di battaglie particolarmente sanguinose
dell’Età Moderna, quali Malplaquet (1709) o Borodinò (1812)
Note al Cap.5:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
200 passi, ossia circa 150 metri, secondo Pandolfini (200 braccia secondo Guicciardini); senza dubbio
entrambi hanno in mente il fronte principale, su cui la fanteria dell’avanguardia francese si trovava di fronte il
tratto lungo della trincea nemica, ma è da presumere che anche sulla loro ala sinistra le fanterie francesi si
siano fermate ad una certa distanza dalla parte ad angolo della trincea.
Può anche darsi che questo reparto di artiglieria, a differenza degli altri cannoni, sia stato portato in posizione
seguendo la strada di Cesena anziché quella sull’argine del fiume, che deve essere stata già abbastanza intasata
dai cannoni del reparto principale; in ogni caso si trattava di un percorso sensibilmente più lungo.
E’ questa una durata poco usuale per un combattimento di questo tipo che, di solito, si risolveva in un solo
urto, violento ma breve e decisivo.
La testimonianza di Fabrizio Colonna su questa fase ci sembra particolarmente degna di fede, anche perché
non si può dire che egli vi faccia una grande figura; è infatti evidente che peccò di irresolutezza e che la sua
decisione di intervenire fu troppo tardiva; se si fosse mosso in modo più tempestivo lo scontro di cavalleria
avrebbe potuto avere un esito ben diverso. E’ comunque ben chiaro nel suo racconto che egli non attaccò dalla
parte del fiume ma accorse verso la stessa zona dove già si combatteva (vedi Fig.4b).
Sarebbe invece stato probabilmente inevitabile l’abbandono dell’artiglieria, ma questo era un sacrificio
accettabile, date le circostanze.
Per la verità il Sanuto (D.1) dà il vicerè come ferito, il chè fa pensare che egli sia stato personalmente
coinvolto nella fase finale dello scontro di cavalleria e nella rotta susseguente; risulta del resto evidente,
secondo la stessa fonte, che anche gran parte del suo seguito, se non tutto, prese parte alla lotta; infatti, dei 14
personaggi elencati, 4 persero la vita, uno fu ferito e due catturati.
Era questa una modifica, rispetto al modulo svizzero classico, che già Consalvo di Cordova aveva introdotto
durante le campagne in Italia meridionale; essa comportava una minore forza d’urto, ma era vantaggiosa in una
mischia serrata, dove manovrare la picca diventava difficile.
Fabrizio Colonna ed altri parlano addirittura di 3000 uomini, il chè sembra però eccessivo; il “loyal serviteur”
parla invece di due bandiere il che fa pensare, appunto, a 1.000 uomini o poco più; può però anche darsi che
altri minori reparti e/o fanti sbandati si siano aggregati durante la ritirata.
Dobbiamo questi particolari, peraltro plausibili, al “loyal serviteur”; Baiardo stesso, nella sua lettera del 14
Aprile (D.3), non ne fa alcun cenno ma conferma che Gastone aveva preso parte allo scontro degli uomini
d’arme ed aveva anzi trafitto un nemico con la sua lancia.
Ancora una notizia plausibile del “loyal serviteur” di cui però lo stesso Baiardo non fa cenno.
Di queste otto ore all’incirca le prime tre, come abbiamo visto, erano trascorse nel duello di artiglierie, mentre
lo scontro di cavallerie era durato poco più di mezz’ora; la battaglia delle fanterie si era quindi prolungata per
più di quattro ore.
Per l’elenco degli uccisi, nonché dei prigionieri e dei feriti, si veda il Sanuto (D.1); che alcuni dei capitani di
Fabrizio abbiano seguito fino in fondo la sua sorte lo dice egli stesso, citando in tale contesto Pietro Cunio,
priore di Messina, Diego di Guinove (Chignone?), entrambi uccisi, ed un non meglio identificato Guidone
(D.2).
Lo stesso Zurita che pure, come l’altra fonte spagnola, l’autore della “Relacion”, tende a minimizzare le
perdite della sua parte, dichiara che “se pusiero en salvo, segun se affirmava, mas de quatro mil infantes
Españoles: por que el dia de la batalla, segun se tuvo por cierto, no se hallaron en ella ocho mil” (si posero in
salvo, secondo quanto fu affermato, più di 4.000 fanti spagnoli: perché il giorno della battaglia, secondo
quanto si teneva per certo, non vi parteciparono in più di 8.000); ammette quindi, in sostanza, che circa metà
della fanteria spagnola rimase sul campo.
25
14. Veramente sembra, da alcune fonti, che lo stesso Ramazzotto rimanesse seriamente ferito ed il Sanuto ci dice
che i suoi fanti “morirono quasi tutti”; può darsi che essi siano stati attaccati durante la ritirata e abbiano subito
seri danni; ciò non modifica però di molto il quadro generale.
15. E’ invece decisamente eccessiva la valutazione delle perdite della Lega dello stesso cronista, come del resto
egli va molto vicino ad ammettere: “dix mille hommes, ou peu s’en faillit” (10.000 uomini, o poco ci mancò).
6. Conclusioni
Il carattere di transizione della battaglia di Ravenna, da noi sottolineato fin dalla premessa,
risulta già implicito nella narrazione che precede, ma non ci sembra comunque inutile
evidenziarne, a mo’ di conclusione, gli aspetti più salienti.
Nelle tattiche e nel modo di combattere e, più in generale, nel comportamento di capitani e
truppe, così come, del resto, nell’atteggiamento mentale delle nostre fonti, non è infatti difficile
individuare tratti che possiamo a buon diritto definire medievali, accanto ad altri, presenti a
volte nella stessa persona, che, altrettanto chiaramente, preannunciano l’Età Moderna.
Prendiamo in esame, per cominciare, il comando francese.
E’ piuttosto evidente che Gastone di Foix, ben coadiuvato da un gruppo di collaboratori fidati
(D’Alègre, La Palisse ed il duca di Ferrara sopra gli altri), riuscì ad esercitare un buon grado di
controllo sulle sue truppe, il ché rappresenta già un progresso non piccolo rispetto alla
tradizione cavalleresca medievale, anche se, ci sembra di poter dire, ciò fu dovuto molto più al
prestigio del giovane comandante ed alla qualità dei suoi rapporti personali con i suoi capitani,
che non ad un’organizzazione di comando chiaramente definita e stabile, della quale, tutt’al più,
cominciava a manifestarsi solo qualche elemento; inoltre Gastone, ma anche il duca di Ferrara e
d’Alègre, diedero una notevole dimostrazione di spirito inventivo e capacità di esecuzione
nell’impiego dell’artiglieria.
Eppure, d’altra parte, in certi momenti il comportamento di Gastone ci appare addirittura
irresponsabile; che senso poteva avere che egli, colla responsabilità dell’intero esercito che
gravava sulle sue spalle, si gettasse prima personalmente nella mischia degli uomini d’arme e
corresse poi incontro alla morte sull’argine del Ronco? Non ne aveva evidentemente alcuno da
un punto di vista moderno, ma Gastone ed i suoi commilitoni vedevano le cose in modo diverso
perché, sotto questo profilo, essi erano ancora dei “cavalieri”, nel pieno significato medievale
del termine, dei cavalieri il cui sport preferito continuava ad essere il torneo e per i quali il
perseguimento della gloria, così come essi l’intendevano, rimaneva primario rispetto a quello
della vittoria; e cosa c’era di più glorioso di una bella carica a lancia in resta e, eventualmente,
quale morte più bella per un cavaliere?
Per inciso, altrettanto caratteristica di questa stessa mentalità è la reazione dei cavalieri della
Lega sotto il bombardamento; non era certo la morte in quanto tale che faceva loro paura,
quanto un modo di morire che essi trovavano avvilente.
Delle carenze del comando della Lega abbiamo già parlato a sufficienza; anche qui però si ha
l’impressione che abbia giocato in senso sfavorevole, così come giocò in senso favorevole da
parte francese, più che altro una particolare costellazione di rapporti personali, cioè un elemento
in certa misura casuale, non intrinsecamente legato alle strutture organizzative, ma reso
determinante dal fatto che queste, dall’una e all’altra parte, si trovavano ancora ad uno stadio
embrionale.
Ci troviamo di nuovo in pieno in ambiente cavalleresco, naturalmente, con gli scambi di cortesie
che abbiamo narrato, prima della battaglia, fra i capitani spagnoli ed il seguito di Gastone di
Foix, alla fine della stessa fra Baiardo e gli spagnoli in ritirata sull’argine; ed anche da un punto
di vista strettamente militare è chiaro che lo scontro delle cavallerie, ma soprattutto quello degli
uomini d’arme, fu del tutto in linea con la tradizione cavalleresca, anche perché ebbe effetti
innegabilmente determinanti sull’esito dell’intera battaglia, un fatto questo, peraltro, che era
destinato a ripetersi raramente nelle battaglie dell’epoca successiva.
26
Resta però il fatto che esso ebbe luogo a seguito di un attacco cui la Lega fu indotta dall’azione
dell’artiglieria nemica, in contraddizione con la tattica che si era inizialmente proposta di
seguire, e che risultò decisivo solo alla lunga, dopo una sanguinosa battaglia di fanterie durata
diverse ore.
Appendice A: Le forze in campo
I dati riportati dalle nostre fonti più importanti sono riassunti nelle due tabelle che seguono:
Tab. 1: Forze francesi
Sanuto
(D.1)
Guicciardini
(RG.3)
Bayard
(RB.1)
700
Pandolfini Loyal
(RP.1)
serviteur
(RL.1)
900
800
Zurita
(RZ.1)
1000
Relacion
…
(RC.1)
N.P
Uomini
d’arme:
avanguardia
Uomini
d’arme:
battaglia
Uomini
d’arme:
retroguardia
Totale uomini
d’arme
910
780
600
600
500
400
N.P
N.P
310
400
400
---
---
N.P
N.P
2000
1700
1900
1300
1400
2000
2400
3000
1000
---
N.P
Fanteria
avanguardia
Fanteria
battaglia
Fanteria
retroguardia
Totale fanteria
9500
(1)
3000
5000 (3)
6000 (3)
10000 (5)
N.P
2000
(1200)
(7)
6000
(4000)
(7)
N.P
Cavalli leggeri
N.P
8000
8000
2000
N.P
N.P
N.P
4900
(2)
17400
6000 (4)
6000 (4)
4000 (6)
N.P
N.P
N.P
19000
20000
16000
N.P
24000
Totale effettivi
21800
23700
22900
17300
N.P
Pezzi
d’artiglieria
N.P.
N.P
N.P
N.P
N.P
24000
(16000)
(7)
32000
(21200)
(7)
N.P
N.P
4000 (8)
30000
50
Note Tab.1:
1.
2.
3.
4.
Di cui 5000 tedeschi (lanzichenecchi).
Senza alcuna spiegazione il totale viene diviso in due contingenti, rispettivamente di 3.150 e 1.750 uomini; è
possibile che la seconda cifra si riferisca alla parte rimasta a guardia dell’accampamento.
Tutti lanzichenecchi.
Di cui però 1000 rimasero a guardia dell’accampamento sotto Ravenna.
27
5.
6.
7.
8.
Comprendono i lanzichenecchi, il cui numero non viene però precisato.
Questi fanti italiani sarebbero rimasti tutti a guardia dell’accampamento.
Fra parentesi le forze che avrebbero effettivamente partecipato alla battaglia, le altre essendo rimaste sull’altra
riva del Ronco.
Abbiamo aggiunto ai 2000 esplicitamente indicati i circa 2.000 arcieri a cavallo che dovevano essere abbinati
agli uomini d’arme.
Tab. 2: Forze della Lega
Uomini
d’arme:
avanguardia
Uomini
d’arme:
battaglia
Uomini
d’arme:
retroguardia
Totale uomini
d’arme
Cavalli leggeri
Fanteria
avanguardia
Fanteria
battaglia
Fanteria
retroguardia
Totale fanteria
Totale effettivi
Pezzi
d’artiglieria
Sanuto
Guicciardi
ni
Pandolfi
ni
Loyal
serviteur
Bayard
Relacion Zurita
…
800
Giovanni
da Fino
(RF.1)
N.P.
670
800
800
N.P
5000
N.P
(4)
565
600
500
N.P.
400
N.P
1000
500
490
400
100
N.P.
---
N.P
700
700
1725
1800
1400
1500
1200
1700
2200
1200
N.P.
N.P
N.P.
6000
1500
6000
--N.P
--N.P.
N.P
N.P
2500
2000
2000
N.P
N.P.
4000
4000
N.P
2000 (2)
N.P
3500 (3)
N.P
N.P.
4000
3000
N.P
---
N.P
2700
N.P
11000
(1)
12725 +
Cavalli
leggeri
N.P
14000
13000
12000
N.P
14000
8200
15800 +
Cavalli
leggeri
N.P
15900
13500
N.P
12900
N.P
N.P
20
15700 +
Cavalli
leggeri
N.P
10000
(5)
13200
N.P
24
Note Tab.2:
1.
2.
3.
4.
5.
Di cui 9000 spagnoli e 2000 italiani sotto il comando di Ramazzotto; non viene precisato come questi fanti
fossero distribuiti fra avanguardia, battaglia e retroguardia.
Fanti italiani di Ramazzotto.
Comprende la fanteria italiana di Ramazzotto che, secondo l’anonimo, era posizionata fra battaglia e
retroguardia.
Zurita sembra essersi dimenticato completamente del contingente di Fabrizio Colonna.
Fra varie affermazioni contraddittorie scegliamo quella di 8.000 fanti spagnoli, cui sono da aggiungere
probabilmente circa 2.000 italiani
28
Come da esse risulta, le informazioni in nostro possesso, abbastanza copiose e provenienti in larga
misura da testimoni oculari e/o da persone che è ragionevole supporre ben informate, presentano
discordanze tutto sommato limitate e concorrono quindi a formare un quadro abbastanza ben
definito; un’eccezione parziale è costituita dalle due fonti spagnole (Relacion e Zurita) che, per
trovare una spiegazione alla disfatta della loro parte, tendono abbastanza chiaramente a sottostimare
le forze della Lega e, soprattutto, a sovrastimare quelle francesi (1).
Occorre dire, comunque, che tutti questi dati devono essere sottoposti a qualche riserva, legata alla
loro intrinseca natura; è infatti assai probabile che, in ultima analisi, essi, o quanto meno i migliori
fra essi, provengano dalle risultanze delle “ mostre”, cioè delle verifiche degli effettivi che venivano
usualmente fatte agli inizi di ogni campagna o anche in altre occasioni particolari, e che siano
quindi soggetti a due tipi di errori, entrambi per eccesso.
Il primo è legato al fatto ben noto che i capi delle varie compagnie, per evidenti motivi di guadagno
personale, avevano una certa tendenza a dichiarare effettivi maggiori del reale, che, anche in
occasione delle mostre, riuscivano spesso, con vari accorgimenti, a far passare per veri; il secondo,
tanto più importante quanto più lungo era l’intervallo di tempo trascorso dall’ultima mostra, ossia, il
più delle volte, dall’inizio della campagna, era proporzionale al logorio prodotto dalla campagna
stessa in termini di morti, malattie, diserzioni ecc.
E’ quindi ragionevole pensare che le cifre riportate nelle precedenti tabelle siano tutte, più o meno,
affette da tali errori e che in particolare il secondo sia tutt’altro che trascurabile, visto che la
battaglia di Ravenna si situa dopo alcuni mesi di una campagna che, per entrambi gli eserciti, deve
essere stata piuttosto logorante; riteniamo quindi che, se vogliamo avere un’idea realistica
dell’entità delle masse di uomini in campo a Ravenna, sia opportuno apportare alle cifre medesime
una riduzione che, a titolo inevitabilmente congetturale, stabiliamo intorno al 15%.
A parte questo, ci sembra che, fra i dati delle precedenti tabelle, maggiormente meritevoli di essere
presi come base di riferimento siano quelli del Sanuto (vedi Documenti, D.1), perché
particolarmente ricchi di dettagli sulle varie compagnie, sia di cavalleria che di fanteria, e perché
proprio questa loro struttura analitica fa pensare che essi abbiano origine in qualche rapporto dei
servizi segreti veneziani; alcune annotazioni inserite nella parte riguardante le forze francesi fanno
addirittura pensare che l’estensore di questo rapporto abbia avuto sotto mano un’ordinanza dello
stesso Gastone di Foix.
Passiamo quindi ad esaminare le principali discrepanze fra questa fonte e le altre.
Per quanto riguarda gli uomini d’arme francesi i numeri del Sanuto sono i più alti di tutti; la
differenza non è grande rispetto a Pandolfini e Guicciardini ma è notevole rispetto al “Loyal
serviteur” e a Bayard che, oltre tutto concordano nel non menzionare alcuna retroguardia e nel far
figurare Yves d’Alègre, che secondo Sanuto ed altri ne era a capo, come facente parte della
battaglia; può darsi che, nei due francesi, giochi una certa tendenza a diminuire questi effettivi per
far apparire ancora più gloriosa la vittoria; d’altra parte, però, non si può ignorare che almeno
Bayard faceva personalmente parte di queste forze ed era quindi in grado di valutarne l’entità in
modo molto diretto, mentre le altre fonti, in particolare Sanuto, si basano presumibilmente sui dati
di qualche mostra alquanto precedente e quindi vanno, come minimo, assoggettati alla nostra
suddetta correzione del 15% circa, tanto più che le cifre del Sanuto per le singole compagnie
appaiono molto “tonde” e quindi un po’ sospette; in conclusione ci sembra ragionevole pensare che
gli uomini d’arme francesi effettivamente in campo fossero circa 1600 e che la retroguardia di
d’Alègre fosse poco numerosa e si sia presto congiunta agli altri reparti, cosa che potrebbe spiegare
il silenzio dei due francesi.
Per i cavalli leggeri Sanuto dà una cifra totale di 2400 unità, abbastanza congrua con quella di
Guicciardini (3000) ma non con quella di Pandolfini (1000); d’altra parte, se si detraggono i 400
cavalieri attribuiti a due compagnie particolari (fra cui quella di Alfonso d’Este), ne restano 2000
che, data l’esatta coincidenza dei numeri, hanno tutta l’aria di non essere altro che la “parte leggera”
delle lance, che, nella maggior parte dei casi, si supponeva, almeno in teoria, numericamente
29
equivalente agli uomini d’arme (2); per coerenza con quanto ipotizzato più sopra dobbiamo quindi
ridurre questa frazione a 1600 unità ed il totale dei cavalli leggeri a circa 2000.
Per la fanteria il numero totale del Sanuto è un po’ inferiore a quelli di Guicciardini e Pandolfini,
ma un po’ superiore a quello del “Loyal serviteur”; con quest’ultimo il grado di coincidenza è poi
notevole anche per quanto riguarda le singole componenti (avanguardia, battaglia, retroguardia); dal
dettaglio delle compagnie, che il Sanuto è l’unico a fornire, si vede che l’avanguardia comprendeva
5000 tedeschi (lanzichenecchi) delle compagnie di Jacob Empser, del bastardo di Cleves e dei due
fratelli Gaspar ed era per il resto formata da francesi (e guasconi), che la battaglia era interamente
francese (guasconi e piccardi per la precisione) e che la retroguardia era in prevalenza italiana e per
il resto francese; i numeri “tondi” riportati dal Sanuto ci inducono ad apportare anche qui la nostra
riduzione del 15% circa, coi risultati riportati in tabella; questi tengono anche conto del fatto che
una forte aliquota della retroguardia, solo 1.000 uomini secondo Guicciardini e Pandolfini ma la
totalità secondo il “Loyal serviteur”, rimase a guardia dell’accampamento sotto Ravenna (3); nella
tabella ci siamo attenuti all’opinione dei primi, dato che, a nostro avviso, sarebbe stato poco logico,
per i francesi, immobilizzare molto più di un migliaio di uomini per difendere l’accampamento.
Passiamo ad occuparci delle forze della Lega: per quanto riguarda gli uomini d’arme anche qui è
opportuna una certa riduzione delle cifre del Sanuto, per le solite ragioni ed anche per tener conto
dei dati di Pandolfini e Giovanni da Fino (RF.1); d’altra parte non si può ignorare la testimonianza
di Fabrizio Colonna, che, nella lettera scritta a poche settimane dalla battaglia, mentre era
prigioniero a Ferrara (vedi Documenti, D.2), ci dice che le forze francesi erano “equali a noi de
gente d’arme, et cum el terzo plui de fanti et doppio di cavalli legieri”; è vero che egli fa questa
valutazione con riferimento ad una fase della campagna un poco precedente, ma ci sembra
ragionevole supporre che i rapporti di forza non si siano modificati sostanzialmente nel breve
periodo intercorso; abbiamo quindi ritenuto opportuno, per la nostra tabella, adottare un numero
totale solo di poco inferiore a quello degli uomini d’arme francesi, il ché, del resto comporta,
rispetto al Sanuto, un fattore di correzione molto vicino al nostro solito.
Se supponessimo anche qui un rapporto unitario fra uomini d’arme e cavalli leggeri dovremmo
adottare anche per questi ultimi la stessa cifra di 1500; abbiamo però preferito ridurla a 1200 per
tener conto dell’indicazione di Fabrizio Colonna sopra riportata; ciò significa ipotizzare che le lance
della Lega, per quanto riguarda la loro componente “leggera”, fossero notevolmente incomplete.
Per la fanteria il Sanuto, senza specificare la divisione in avanguardia, battaglia e retroguardia, ci
fornisce un totale di 11000, di cui 9000 spagnoli, il rimanente italiani sotto il comando di
Ramazzotto; si tratta di un numero inferiore, anche se non drasticamente, a quello di tutte le altre
fonti ad eccezione delle spagnole; come già detto queste sono spesso inficiate da una certa tendenza
a ridurre gli effettivi della Lega ed a magnificare quelli francesi, tuttavia in questo caso esse
sembrano plausibili (4): in particolare la “Relacion” riconosce che in base ai dati delle paghe si
dovrebbe parlare di 9.000 fanti spagnoli e 2.000 italiani (gli stessi numeri del Sanuto, cosa che è
difficile sia una pura coincidenza) ma poi, sulla base di considerazioni molto simili alle nostre,
riduce questi effettivi, rispettivamente, a 6.700 e 1.500 (il contingente di Ramazzotto); questa
riduzione può essere un po’ troppo drastica, ma ci sembra comunque che i numeri del Sanuto
debbano essere ridotti in una qualche misura, anche se forse un po’ inferiore alla nostra solita, per
cui, nella tabella, abbiamo ipotizzato 8.000 fanti spagnoli e 1.500 italiani, ossia 9.500 in totale, il
ché fra l’altro ci dà, anche per le fanterie, un rapporto molto vicino a quello di 2 a 3 indicato da
Fabrizio Colonna.
Lascia invece perplessi la suddivisione in reparti indicata dalla “Relacion”, secondo la quale i 6.700
spagnoli si sarebbero suddivisi in parti pressoché uguali (più precisamente 2.000, 2.000 e 2.700) fra
avanguardia, battaglia e retroguardia, mentre Ramazzotto, coi suoi 1.500 italiani, avrebbe assunto
una posizione indipendente fra battaglia e retroguardia; ci sembra comunque probabile che, al più
tardi dopo le prime cannonate, i fanti della battaglia siano andati a schierarsi con l’avanguardia a
ridosso del terrapieno, cosa che, fra l’altro, assicurava loro la migliore protezione possibile contro
30
l’artiglieria francese; in questo caso lo schieramento verrebbe a coincidere, a parte i numeri un po’
diversi, con quello che abbiamo ipotizzato nella Tabella 3.
Sembra poi risultare da alcune fonti, ad esempio Guicciardini, che anche nella battaglia della Lega
fossero presenti fanti italiani; l’apparente contraddizione si spiega però, probabilmente, con
l’ambiguità del termine “spagnoli” usato in questo contesto; bisogna infatti presumere che fossero
presenti consistenti aliquote di fanti del Regno di Napoli che, in quanto anch’essi sudditi di re
Ferdinando, possono bene essere stati compresi sotto l’etichetta onnicomprensiva “spagnoli”.
Quanto all’artiglieria le indicazioni sono più scarse, perché il Sanuto non fornisce alcun numero, né
lo fanno le altre fonti, ad eccezione di Zurita, che attribuisce 24 cannoni alla Lega e 50 alla parte
francese, e del Loyal Serviteur, che ne assegna 20 alla Lega; anche questi dati, comunque,
concordano con la valutazione di Fabrizio Colonna (vedi D.2), secondo cui il rapporto di forze era
più che doppio a favore dei francesi.
Abbiamo in conclusione la situazione della seguente tabella:
Tab.3: Riepilogo degli effettivi
Uomini d’arme:
avanguardia
Uomini d’arme:
battaglia
Uomini d’arme:
retroguardia
Totale uomini
d’arme
Cavalli leggeri
Fanteria
avanguardia
Fanteria battaglia
Fanteria
retroguardia
Totale fanteria
Totale effettivi
Pezzi d’artiglieria
Francesi
750
Lega
580
650
490
200
430
1600
1500
2000
8000 (5)
1200
5000
2500
3000 (6)
3000
1500 (7)
13500
17100
50
9500
12200
24
Ci restano da dare alcune delucidazioni sui criteri seguiti nella compilazione della cartina di Fig. 4a,
da cui derivano consequenzialmente quelle delle Figg.4b,c,d; è evidente che l’adozione di criteri
ben definiti di questo tipo era necessaria ai fini della rappresentazione, ma è altrettanto chiaro che,
per quanto a nostro avviso plausibili, quelli scelti non sono gli unici possibili.
Quanto agli uomini d’arme di entrambe le parti, si è supposto che avanguardia, battaglia e
retroguardia fossero tutte schierate in un altrettanti unici reparti a forma di quadrato pieno, con le
distanze fra cavaliere e cavaliere indicate nella Fig. 4a; gli effettivi di ognuno di questi reparti
coincidono quindi con quelle della Tabella 3.
Per le cavallerie leggere, più che altro per semplicità di rappresentazione, si è supposta un’unica
formazione rettangolare piena di circa 30 cavalieri (120 metri) in profondità, il ché, con gli effettivi
della tabella, porta ad un fronte di 67 cavalieri (268 metri) per i francesi e di 40 cavalieri (160 metri)
per la Lega; quanto ai cannoni delle due parti si è supposto che, come sembra logico, essi fossero
schierati in un'unica linea.
Il discorso è un po’ più complesso per le fanterie, in quanto si è ritenuto che rappresentare le
relative avanguardia, battaglia e retroguardia come reparti unici fosse troppo semplicistico e, d’altra
parte, il Sanuto, almeno per la parte francese, ci dà una buona guida sulla loro suddivisione in
reparti; per quanto riguarda i francesi abbiamo quindi preso i reparti indicati dal Sanuto, ne abbiamo
31
moltiplicato gli effettivi per 0,85 in base alle considerazioni fatte più sopra, e li abbiamo
rappresentati come quadrati pieni; ad esempio il reparto di lanzichenecchi di Jacob Empser (vedi
D.1) appare nella cartina come un quadrato di 1.700 uomini (2.000x0,85), ossia di circa 41 uomini
(82 metri) per lato; il discorso è appena un po’diverso per la retroguardia per cui abbiamo ipotizzato
che i reparti fossero quelli del primo gruppo riportato dal Sanuto (vedi D.1); poiché i suoi effettivi
complessivi corrispondono quasi esattamente ai 3.000 della Tabella 3, non è stata qui introdotta
alcuna riduzione.
Per le fanterie della Lega il Sanuto non ci fornisce alcuna suddivisione in reparti, ma ci dà l’elenco
dei colonnelli spagnoli che li comandavano, in numero di 15 (8), cui bisogna aggiungere il reparto
che Pedro Navarro comandava personalmente che era forte di 500 uomini (Pandolfini); abbiamo
quindi 16 reparti per un totale di 8.000 uomini (avanguardia e battaglia), con una forza media di 500
uomini ciascuno; al solito li abbiamo rappresentati come altrettanti quadrati pieni; per analogia
abbiamo poi supposto che anche il contingente di Ramazzotto fosse composto di 3 reparti di 500
uomini ciascuno.
Note:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Altrettanto esse fanno nella valutazione delle perdite, in una misura del tutto improponibile.
Nella lettura delle fonti una certa confusione può essere generata dall’uso del termine “lance”; come abbiamo
visto, tale termine dovrebbe comprendere, a rigore, sia gli uomini d’arme, sia gli arcieri a cavallo ad essi
abbinati, il più delle volte in una proporzione di uno ad uno (nonché un certo numero di valletti non
combattenti); di conseguenza, quando i vari cronisti ci forniscono dei numeri relativi ai “cavalli leggeri”, non è
sempre facile capire se essi comprendano o meno gli arcieri a cavallo delle lance.
L’autore della “Relacion” (RR.1) che dà, per l’insieme delle fanterie francesi, la valutazione abbastanza
spropositata di 24.000 uomini, afferma d’altra parte che rimasero a guardia dell’accampamento, sull’altra riva
del Ronco, niente meno che 8.000 fanti, 800 uomini d’arme e 2.000 cavalli leggeri.
Vedi anche Taylor, RT.1 pag. 206, nota B.
Di cui 4250 lanzichenecchi.
Si suppone che il resto della retroguardia, un migliaio di uomini o poco più, sia rimasto a guardia
dell’accampamento sotto Ravenna.
Il contingente italiano di Ramazzotto.
Un elenco analogo figura anche nella”Relacion” (RR.1), ma comprende solo 12 nomi che, per di più,
coincidono solo molto parzialmente con quelli del Sanuto.
32
Documenti
D.1: Le forze in campo secondo i “Diarii” di M. Sanuto (RS.1 pagg. 170 - 174)
Lista de li capitanii et zente erano nel fato d’arme nel campo di spagnoli.
Et nota. Dove è signà O davanti è morti; dove è C presi; dove è la * vulnerati, dove è E vulnerati e
presi, et fo nel facto d’arme di Ravena.
L’ antiguarda de Spagna.
E La conduce lo illustrissimo signor Fabrizio Colona
* Joan Turcho locotenente dil signor Prospero Colona
O Diego di Chignone locotenente dil gran capitanio
* Don Zoan de Givara
O Don Zoan de Cordova conte d’Avellino
O Piero Cunio prior di Messina
O Don Hironimo Lhores
* Antonio de Leyva
O Alverado
* Gaspar Pomaro
O Raphael de’ Pazi, fiorentino, capo di la Chiesia
lanze 100
“ 60
“ 100
“ 50
“ 60
“ 50
“ 50
“ 50
“ 50
“ 50
“ 50
Summa lanze 670
La bataglia.
C La conduce lo illustrissimo marchese di la Padula
* Troylo Pignatello locotenente dil ducha diTermene
C El conte de Populo Restaino Cantelmo
* Joane Vitello per la Chiesia
O Joanne Conte per la dita
* Joanne Antonio Ursino per la dita
* Comendator de Capua per la dita
* Joanne Saxatello
* Malatesta Baiono
33
lanze 90
“ 90
“ 50
“ 100
“ 40
“ 40
“ 60
“ 70
“ 25
Summa lanze 505
La retroguarda
* Don Alfonxo Carvagial
El lochotenente de Diego Velasches
El lochotenente dil conte de Alta Mira
El lochotenente de domino Diego de Mendosa
El lochotenente de l’Adelantado de Galizia
El lochotenente de Judicho Velasches
El lochotenente di Piero Zabaeta
El lochotenente di Diego Urtado
El lochotenente de Piero Lopes de Padiglia
El lochotenente de Sicilia in persona
lanze 100
“ 50
“ 40
“ 60
“ 70
“ 15
“ 40
“ 40
“ 50
“ 25
Summa lanze 490
C El signor marchexe di Pescara capo di cavali lizieri.
O Don Petro de Pax.
O El conte Romeo di Pepoli.
Antonello de Trani maestro di l’artelaria.
Noto
* Lo illustrissimo vicerè stette ne la bataglia con li signori e baroni infrascripti:
* Honorato Caietano duca di Traiecto
C Hector Pinatello conte di Monte Leon
C El marchese de Bitonte
O Hironimo Centiglia prior di Roma
Caraziolo marchese de l’Atella
Consalvo Botelio Lusitano
O Turellio di Barzelona
Morelio
Beltrando Roverus
Tristan Duartes
O Pallatio fiol dil podestà di Napoli.
Jordano Valentino.
Aloysio Gordo.
O Lopes Gartias.
|
|
|
|
|
Italiani
Fanti furno 9000 di natione spagnola soto il conte Pietro Navaro; li colonelli forono li
infrascripti:
Joanne Navaro
Vaymo Diecio
34
Bargas
Samvolio
Samaneco
Martino Gomis
Chiaves
Riaga
Arteta
Alvaro Paredes
Peralta
Paniques
Guza Mono
Vergario
Spinosa
Soto a Ramazoto erano Capocia Romano furno 2000 italiani, quali morirno quasi tutti.
Dentro di Ravena erano con el signor .Marco Antonio Colona, quando fu combatuta, i capi
de’fanti:
Pietro Rilliuno
Don Galeazo
Cristophoro Paredes
Salazaro
Don Petro de Castro, capo di cavali lizieri, fu ferito.
Lista di le zente francese.
L’ avanguardia.
La conduce lo illustrissimo signor duca di Ferara
Monsignor Lautrech
Monsignor la Palissa
Monsignor de Barbon
Monsignor lo gran scudier
Monsignor lo conte de Misocho
Monsignor de Umbricurt
Monsignor di Satiglion
Monsignor di Boysi
Monsignor lo sinischalco di Roverga
Monsignor de Frontaial
Monsignor de Plesir
Monsignor di Sedan
Monsignor di Masiers et li bastardi di Ridure
lanze 100
“
50
“
50
“ 50
“ 100
“ 100
“ 40
“ 50
“ 50
“ 40
“ 40
“ 100
“ 100
“ 40
Suma lanze 910
Cavali lizieri.
Missier Joanne Bernardino Caraciolo
Lo bastardo de Bellana
cavalli 2000
“
100
35
Li cavali lizieri dil signor ducha di Ferara
“
300
Suma 2400
Gente a piede
Monsignor de Molard
Lo capitan Jacob Empser
Lo bastardo de Cleves
Lo capitan Filippo
El fratello del soprascrito capitan Jacob Gaspar
Monsignor de Mongiron
Monsiguor de Bonivet
Lo baron de Grandiment
fanti
“
“
“
“
“
“
“
2000 (1700)
2000 (1700)
1000 (850)
1000 (850)
1000 (850)
1000 (850)
1000 (850)
500 (425)
Suma fanti 9500 (8075)
Tutta la banda di l’artelaria con monsignor di Spano.
La bataglia
Monsignor lo gran sinischalco la conduce con li zentilomeni
Monsignor de Corsul
La compagnia de monsignor de Nemors
Monsignor de Ubignì
Monsignor de Lorena
Monsignor de Dars
Monsignor lo Almiral
El signor Theodoro Triulzio
lanze 200
“ 200
“ 100
“
50
“
80
“
50
“
50
“
50
Suma lanze 780
Gente a piede in la bataglia.
Lo cadet de Durac
Lo capitan Odet
Monsignor de Moncoral
fanti 1000 (850)
“ 1000 (850)
“ 1000 (850)
Suma fanti 3000 (2550)
Si agiongerà a l’avanguarda o a la dernier guarda, s’el bisognarà(1).
La darnier guarda.
La conduce monsignor di Alegra con
Monsignor lo marchexe di Monfera’
Monsignor lo sinaschal di Remignac
Monsignor de Pria
Monsignor di Bua
Monsignor de Lanzon
lanze
“
“
“
“
“
50
100
25
60
25
50
Suma lanze 310
36
Gente a piedi in la dernier guarda.
El signor Federico da Bozolo
El conte Nicolò Scotto
El conte Paris Scotto
El marchexe Malaspina
El marchexe Bernabò
Longuevral
fanti 1000
“ 500
“ 500
“ 350
“ 500
“ 300
Suma fanti 3150
Antonio Belet
Joanne Jacobo del Castelazo
Richebuert
Bardasan
fanti 250
“ 500
“ 500
“ 500
Suma tutti fanti 4900
Monsignor de Nemors anderà per il campo con 40 in 50 homeni d’arme e tre o quatro capitani, che
più li piacerano, sopravedendo et metendo ordine dove bisognerà (2)
Questo exercito di francesi era contra spagnoli a dì 30 marzo 1512, et a dì 11 april fo combatuto
apresso Ravena sopra la ripa dil Roncho.
Lo qual exercito era lanze 2000, cavali lizieri 4000 (?); fanti in somma 17 milia et 400.
Note:
1.
2.
Questa annotazione ha tutta l’aria di derivare da un’ordinanza dello stesso Gastone di Foix, presumibilmente
emanata subito prima della battaglia.
Vale quanto detto alla nota 1.
D.2: La lettera di Fabrizio Colonna (dai “Diarii” di M.Sanuto, RS.1, pagg. 176 –
180)
Copia de una lettera dil signor Fabrieio Colonna, data in Castel dì .Ferara a dì 28 april 1512,
narra il modo dil fato d’arme fu facto a Ravena con francesi, drizata a missier Camillo.
Miser Camilo.
S’ io potesse personalmente venire a li piedi de sua alteza per dare conto di me, saria venuto, ma
non possando, ho voluto per la presente far mio debito. Et primo, li baserai la mano per mia parte,
cum farli intendere che mai io ho manchato a lo debito in questa impresa ; et prima li farai intendere
como al partir de Napoli parlai col suo orator in Roma, el qual pregai che operasse che li sguizari
non calasseno fino che non fossemo vicini a Bologna; el qual, son certo fece el debito suo. Ma per
la furia del Papa, quando nui arivassemo a Bologna, li sguizari erano acordati; che certo se ad un
tempo rompevano con nui, havevamo secura victoria.
Apresso, hessendo nui per pigliare la impresa de Bologna, lo parer mio fo che ce metessemo in
parte che lo soccorso non ce potesse intrar senza combater cum noi, che allora eravamo el dopio de
loro, et più presto fatichare alcuna scorta per le victualie che lassar libera la via del socorso. Fo
risposo che ancor che intrasse qual se voglia socorso, che se piglieria. Replicai che mai se piglieria.
Alfine, il signor viceré volse credere più al parlar d’altri che al mio (1), et se pose in parte d’onde
non era possibile prohibire algun socorso;:et mi, che era passato cum l’antiguarda de là de Bologna,
fece retornare di qua; et cussì de dì et de nocte ce intravano li inimici al piacer loro .Alfine
monsignor de Foys cum 700 lanze et 5000 fanti vene al Finale, et io cum el conte di Monte Lione,
37
protestamo che subito lo andasemo a trovare, altramente tutti intrariano in Bologna, che cum quelli
che ce erano ne fariano levare; et che se ne aspectavano li romperiamo, et fugendo piglieriamo tanto
credito cum li populi che Bologna saria perduta, tornando ad poner in parte che non se potesse
sucorere, come io disi. Alcuno de quelli che haveriano voluta la impresa al contrario, perfidiarno
ancora che non se levasse; et cussì monsignor de Foys fra doi dì cum tutto 1’exercito se ne intrò in
Bologna, che non solum li potevamo impedire, ma non lo sapeamo, che le nostre spie forono
retenute a li passi; che certo el campo nostro tanto non fo roto quanto li francesi ce foreno boni
amici. Apresso, retirandose come fu forza, hebeno la nova de Brexa, et io ad ogni hora solicitava
che non perdesemo tempo, o seguitasemo li francesi che andavano ad sucorerla, o pigliassimo altra
che li facessamo lassare quella de Brexa; et in questo ancora era el conte de Monte Lione con el
parer mio et alcun altro. In questo mio tanto importunare, lo signor viceré me disse ch’io era tropo
furioso, che se li francexi andavano per stafeta, esso voleva andar di passo. Tardamo tanto a
moverci, che a la secunda giornata che feceno, ne vene nova che Brexa è persa.
Apreso da poi, li francexi venero con tutte le forze loro equali a noi de gente d’arme, et cum el terzo
plui de fanti et doppio di cavalli legieri. Volse el signor viceré in ogni modo firmarse et fortificarse
ad Castel San Piero come se li inimici non havesseno possuto far altro camino, come io li dissi che
fariano, che non volse venir a Lugo et Bagnacavallo, come io era di parere; perché fortificando solo
Imola et noi stando in Lugo, li francesi non possevano passare avanti et venire a trovar noi, veniano
cum grande disavantagio de passi, et paludi, et fiumi; et se campegiaveno Imola, li haveriamo
combatuti cum plui avantagio, che hessendo Imola gionta cum le montagne in le quale ce erano
castelli nostri, et in una nocte ce potevano agiunger 10 milia fanti tra la valle de Lamon, Faenza et
Forlì, et nui che eramo sette milia (2) col campo, ce ne sariamo venuti a la falda de la montagna, et
cum il favore de esse montagne et de le terre non podevamo altro che vincere. Et non volendo nui
far questo, li inimici feceno quella via de Lugo, como io diceva, et nui se spensemo verso Faenza
per la strada romana, come era ragionevole; et vedendo nui che li francesi podevano, prima de nui,
andar a Ravena, qual era 20 milia soto la strada, fo il parer de tutti che Marco Antonio Colona mio
nepote ce intrasse la note con le soe cento lanze et 500 fanti spagnoli, oltra che ce era dentro don
Petro da Castello cum cento cavali lizieri, et Loyse Dentici cum 1000 fanti italiani. Et cussì li
francesi andorono verso Ravena el dì sequente, come nui dubitavamo, et nui se spensemo soto Forlì
a quella volta; et perché Ravena stà fra due fiumi, benché l’uno et l’altro se squaza, el jovedì el
campo francese se pose in mezo de li doi fiumi, e‘l venerdì ce acostamo vicini 7 milia. El dicto
venerdì li francexi detero la bataglia, et li nostri se deffensorno molto ben non senza grande danno
de’ francexi; et havendo nui tal nova, el sabato se spinsimo ad allogiar vicini doi milia di Ravena a
la vista del campo loro, ita che era tra mezo nui et la terra, ben che era unde li doi fiumi in mezo. Et
essendo noi cussì vicini, io era di parere che la terra non se potesse perdere, perchè vedendo loro dar
la bataglia, nui altri sempre li sariamo stati a le spale, et pigliando loro la terra sariano stati roti per
lo disordine, et per questo mi pareva che ci fortificassemo in quel loco, dove tutte le victualie ce
erano secure a le spale et loro se moriano da fame. El conte Pietro Navaro vene (dire) al signor
viceré che là avanti uno miglio era uno forte alogiamento, che subito ce andassemo ad alogiar; et
partitose, el signor viceré chiamò me e lo conte de Monte Lione, et me dise che volevano che
andassemo subito a quello allogiamento. Io li risposi che tal allogiamento non se poteva far senza
combatere; che sua signoria ce pensasse ben stando tutto lo campo francese in arme, come lo stava.
Me respose con colora, che voleva cusì, presente il conte de Monte Lione. Et cussì me ne andai
desperato al paviglione; et s’el non fosse stato per mancare al servitio de sua alteza, in tal tempo me
ne andava in Napoli. In questo mezo se apresentorno do squadroni de lanze francesi, et spinsero
alcuni homini d’arme et cavalli lizieri ad atachare cum alcuni cavalli nostri, che erano de là dal
fiume, et molti de li nostri, che erano tutti in arme, passorono di là ad aiutar li nostri, però cum tanto
disordine che mi fu forza passare et retirare li nostri, che già se seguiva facto d’arme di là dal fiume
cum nostro disavantagio; et questo ce tardò tanto, che quella sera non potemo più levare il campo.
Et tornando io de là, trovai lo marchexe da la Paluda; li disi la deliberation del signor vicerè, al
quale ancora pareva male, et cussì disi che almeno facesse eh’el signor viceré cavalcasse la matina,
38
una hora avanti zorno, secreto senza son di trombeta, aziò se trovassemo a l’alba in parte che
volendo passar francexi, nui li potessemo tenir el passo. El marchexe fo del parer mio et promesse
de dirgelo. Io disperato me ne andai a lo alogiamento nè mai hebi altro avixo, se non che la matina a
zorno sonarno la trombeta del signor vicerè, et cusì tuti ce posemo in arme. Lo medesmo etiam
fezeno li nimici, li quali erano sì vizini che non solum ce sentivano, ma ce vedevano; e perché dal
nostro logianento fina al loro ponte era cercha milio, prima che nui ce fossemo arivati con l’artelaria
et con el campo in ordene, li nimici, quali alogiavano vizino al ponte, gierano pasati la magior parte;
che se andavemo avanti zorno et secreto, come io dissi, non passavano a tempo senza nostro
grandissimo avantagio. E essendo cusì avicinati una parte et l’altra comenzò adoperar l’artelaria, e
benché la nostra al principio li feze assai dano, perché l’avevemo prima asettata più, da poi che la
loro se asettò, per esser più el dopio che la nostra e meglio manezata, feze tanto dano a tutte le zente
d’arme, che non se poteva resister, e durò più de do hore; et per questo io fui de parere ch’el
marchexe de Peschara con li cavali lizieri se ne andasse atachare solo per dar principio a la bataglia
e levarne de tanta artelaria et cusì feze. El signor vicerè senza dirme mandò el conte de Monte
Lione a Carviale che se atachase con el retrovardia, et il medesimo feze intendere al marchexe de la
Padula che fazese con la bataglia senza ch’io lo sapese; et vedendo io questi dui squadroni andar ad
atacharsi, che lo parer mio saria stato che fossino retirati drieto anche per fuzir l’artelaria, dubitando
che non potriano resister, come fu, rezerchai el conte Petro che tutti volessemo andar a combater
insieme, aziò che non perdesemo a pezi a pezi: me respoxe, che non se voleva mover. Come stava
in questo, el marchexe de la Padula, el marchexe de Peschara, el Caravigial, che havevano
virilmente combatuto un pezo, habiando ancora parte de l’antiguarda francexe contra fono sforzati
voltar le spale; benché el marchexe de Peschara, esendoli morto el cavalo, restò in terra per morto.
Io vedendo questo, me spinsi con l’antìguarda a quella volta per fare che li nostri che fuzivano se
ricoglieseno con meco; de li quali non ne potì recoglier pur uno; che se andavano a la via de Cesena
quelli che non erano prexi. Io vedendo questo, per non lassar li fanti nostri soli, me ne tornai dove
stava, che già l’antiguarda francexe et li fanti tutti li andavano contro, benche la mazor parte de
l’antiguarda nostra se ne fuzì con li altri, et Diego de Guinove, el prior de Messina et alguni de loro
et Guidone, et io me tiro con alcuni mei per tornare in mezo dove erano li fanti, dove trovai lo conte
de Monte Lione el qual travagliò assai per ricoglier qualche homo d’arme, et non ce bastò, et poco
da poi fo prexo facendo sempre tutto el ben che potè. In questo mezo tutti li fanti francexi et le
zente d’arme venero contra li fanti, li quali adiutati de quelli pochi de la nostra antiguarda, ch’io ho
dito, combaterono tanto bene, che me deteno speranza de vittoria. Alfine tutti li sopraditi de la
nostra antiguarda forno morti o presi, et io me ridusi a li fanti nostri, li quali da poi rupero tutti li
fanti loro da li todeschi in fora, in modo ch’io, se haveva 200 altre lanze, sperava la vitoria, et non
havendo più uno solo uomo d’arme per adiutarli, chiamai li 1000 fanti italiani che me erano a la
mano mancha (3), come Ramazoto potrà dire, qual intendo che è vivo, nè mai se volseno movere se
non a fugire. Alfine tuto el campo se ritornò a li poveri fanti nostri et ad me, benché amazasero la
maior parte de li capitani inimici, pur de’ nostri forno in quel medemo morti tutti li capitani et
principali, et zercha 3000 fanti, che erano rimasi vivi, se posero in fuga per l’arzer del fiume in
ordenanza, et cussì se salvorono. Io per non romperli l’ordenanza, non puoti intrar tra loro, ma me
ge puosi a le spale (4), dove da li fanti inimici fui ferito de due ferite, et cussì el cavalo; et s’el duca
de Ferara non me adiutava, qual me era dinanzi, non posseva campare che li fanti non me
occidesseno, et a lui me resi et salvomi con tanto amore che li serò sempre obligato. Da poi che
harai basato la mano al signor Re nostro signor, li legerai la presente, et me ge recomanderai.
In lo Castel di Ferara, a 28 de april.
Fabrizio Colona, manu propria.
Post scripta. Da poi che harai lecta la presente al signor Re nostro signor, tu legerai con alcuni
signori di questi grandi, et presertim con el signor gran capitanio, e‘1 signor Almazan, perché quello
ch’io scrivo è lo Evangelio, per star sempre al paragone.
39
Note:
1.
2.
3.
4.
Probabilmente il riferimento è a Pedro Navarro, che aveva molta influenza sul vicerè. In ogni caso è chiaro
che, fin dalle prime fasi della campagna, il gruppo di comando della Lega fosse frequentemente diviso da forti
differenze di opinione e, è facile intuire, da crescenti animosità.
Non è chiaro se si tratti di tutta la forza o, come è più probabile, dei soli fanti; in ogni caso si tratta di un
numero molto basso ma, d’altra parte, è presumibile che, durante la successiva marcia attraverso Faenza e
Forlì, l’esercito della Lega si stato ingrossato dall’affluire di vari contingenti.
I fanti della retroguardia (che erano 2000 secondo altre fonti); è abbastanza evidente da quanto precede che
Fabrizio partecipò alla lotta sull’ala sinistra della Lega, terminata con una sconfitta francese; poiché dunque
egli stava combattendo con la faccia al fiume, la fanteria della sua retroguardia si trovava alla sua sinistra.
Fabrizio tentò quindi di ritirarsi tenendosi in coda di quello stesso contingente (al quale attribuisce la
consistenza di ben 3000 uomini) combattendo contro il quale trovò la morte Gastone di Foix; evidentemente
all’inseguimento si misero anche dei reparti di fanteria francese ed è da questi che Fabrizio fu ferito e
disarcionato, presumibilmente da colpi d’arma da fuoco o da getto.
D.3: Lettera di Baiardo a Laurent Alleman, suo zio, con il racconto della
battaglia (RB.1)
Monsieur , si treshumblement que faire puis, a vostre bonne grace me recommande.
Monsieur, depuis que dernierement vous ay escrit, avons eu, comme ja avez peu şavoir, la bataille
contre nos ennemis: mais, pour vous en advertir bien au long, la chose fut telle. C’est que nostre
armée vint loger aupres de cette ville de Ravenne; nos ennemis y feurent aussi-tost que nous, afin
de donner coeur à la dite ville; et au moyen, tant d’aucunes nouvelles qui couroient chacun jour de
la descente des Suisses, qu’aussi la faute de vivres qu’avions en nostre camp, monsieur de Nemours
se delibera de donner la bataille, et, dimanche dernier, passa une petite riviere qui estoit entre nos
dits ennemis et nous. Si les vinsmes rencontrer : ils marchoient en bel ordre, et estoient plus de dixsept cens hommes d’armes, les plus gorgias et triomphans qu’on vid jamais, et bien quatorze mille
hommes de pied, aussi gentils galands qu’on sçauroit dire. Si vinrent envìron mille hommes
d’armes des leurs (comme gens desesperez de ce que nostre artillerie les affoloit) ruer sur nostre
bataille, en laquelle estoit M. de Nemours en personne, sa compagnie, celle de M. de Lorraine, de
M. d’Ars, et autres, joisques au nombre de quatre cens hommes d’armes, ou environ, qui receurent
lesdits ennemis de si grand coeur qu’on ne vid jamais mieux combattre.
Entre nostre avant-garde qui etoit de mille hommes d’armes, et nous, il y avoit de grands fossés, et
aussi elle avoit affaire ailleurs que nous pouvoir secourir : si conveint à ladite bataille porter le faiz
desdits mille hommes ou environ. En cet endroict, M. de Nemours rompit sa lance entre les deux
batailles, et perça un homme d’armes des leurs, tout en travers, et demie brassée davantage. Si
feurent lesdits mille hommes d’armes defaits et mis en fuite; et, ainsi que leur donnions la chasse,
vinsmes rencontrer leurs gens de pied aupres de leur artillerie, avec cinq ou six cens hommes
d’armes, qui estoient parqués; et au-devant d’eux avoient des charettes à deux roues, sur les
quelles il y avoit un grand fer à deux aisles, de la longueur de deux ou trois brasses; et estoient nos
gens de pied combattus main à main.
Leurs dits gens de pied avoient tant d’arquebutes, que, quand ce vint à l’aborder, ils tuerent quasi
tous nos capitaines de gens de pied, en voye d’esbranler et tourner le dos; mais ils feurent si bien
secourus des gens d’armes, qu’apres bien combattre, nos dits ennemis furent defaits, perdirent leur
artillerie, et sept ou huit cens hommes d’armes qui 1eur feurent tués, et la plupart de leurs
capitaines, avec sept ou huit mille hommes de pied. Et ne sçait-on point qu’il se soit sauvé
aucuns capitaines que le.viceroy; car nous avons prisonniers les seigneurs Fabrice Colonne, le
cardinal de Medicis, legat du Pape, Petro Navarre, le marquis de Pesquere, don Jean de Cardonne,
et d’autres dont je ne sçay le nom. Ceux qui se sauverent furent chassez huit ou dix milles, et s’en
vont par les montagnes ecartez: encor dit-on que les vilains les ont mis en pieces.
Monsieur, si le Roy a gaigné la bataille, je vous jure que les pauvres gentils-hommes l’ont bien
perdue: car, ainsi puisque nous donnions la chasse, M. de Nemours vint trouver quelques gens de
pied qui se rallioient: si voulut donner dedans; mais le gentil prince se trouva si mal accompagné,
40
qu’il y fut tué, dont de toutes les desplaisances et deuils qui furent jamais faits, ne fut pareil que
celuy qu’on a demené, et qu’on demene encore en nostre camp: car il semnle que nous ayons perdu
la bataille. Bien vous promets-je, monsieur, que c’est le plus grand dommage de prince qui mourut
cent ans a; et, s’il eut veşcu aage d’homme, il eut fait des choses que onques prince ne fit; et
peuvent bien dire ceux qui sont deçà qu’ils ont perdu leur pere; et de moy, monsieur, je n’y sçaurois
vivre qu’en mélancolie; car j’ay tant perdu que je ne le vous sçaurois escrire.
Moasieur, en d’autres lieux furent tuez M.d’Alegre et son fils, M.du Molar, six capitaines
allemands, et le capitaine Jacob, leur colonel; le capitaine Maugiron, le baron de Grantmont, et
plus de deux cens gentils-hommes de nom, et tous d’estime, sans plus de deux mille hommes de pied
des nostres; et vous asseure que de cent ans le royaume de France ne recouvrera la perte qu’y
avons eue.
Monsieur, hier matin fut amené le corps de feu Monsieur, à Milan, avec deux cens hommes
d’armes, au plus grand honneur qe’on a sceu adviser: car on portoit devant luy dix-huit ou vingt
enseignes, les plus triomphantes qu’on vid jamais, qui ont esté en cette bataille
gagnées. Puisque cecy est despeché, je croy qu’aurons abstinence de guerre. Toutesfois les Suisses
font quelque bruit toujours; mais, quand ils sauront cette defaite, peut-estre ils mettront quelque
peu
d’eau en leur vin. Incontinent que les choses seront un peu appaisées, je vous iray voir. Priant
Dieu, monsieur, qu’il vous donne tresbonne vie et longue. Escript au camp de Ravenne, ce
quatorziesme jour d’avril.
Votre humble serviteur,
Bayart
41
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Historia del rey Don Hernando el Catholico
1579
Fig.1: La carica a lancia in resta (particolare dalla “Battaglia di San Romano” di Paolo
Uccello)
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Fig.2: Ravenna all’epoca della battaglia
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Fig.3: Ravenna e dintorni all’epoca della battaglia
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Fig.4a: Gli schieramenti ed il duello delle artiglierie
Nota: La carta è nella scala evidenziata; le distanze ipotizzate sono:
- cavalleria: 4 m in ambedue i sensi
- fanteria: 2 m in ambedue i sensi
- artiglieria: 5 m
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47
Fig.4b: La battaglia delle cavallerie
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Fig.4c: La battaglia delle fanterie
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Fig.4d: La fine
Piero Zattoni
Forlì 2010
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