Da Beneficio a Feudo
di Cristian Mazzoni
Pre-requisiti
Il feudalesimo è posto con certa approssimazione come la particolare forma di ordinamento sociale
(con propri rapporti economici, strutture politiche e giuridiche) che ha caratterizzato i paesi
dell’Europa centrale e occidentale a partire dalla crisi dell’Impero Carolingio (seconda metà IX sec.
D.C.) sino alle soglie del XIII secolo (la definizione è tratta da “Storia e Storiografia”, di Antonio
Desideri, casa editrice D’Anna, volume 1, cap. 6, pg. 241). Già in campo economico, tuttavia, si
parla di una rinascenza intorno al Mille. E’ chiaro, quindi, che tale periodizzazione è del tutto
approssimativa.
In verità, rispetto a tale periodizazzione e collocazione storica del feudalesimo, oggi la storiografia
tende a riferire quanto passa comunemente nella nozione di “sistema feudale” ad un periodo storico
successivo all’XI secolo (XII, XIII secolo in particolare), non includendo più in quello che è detto
“sistema feudale” l’ordinamento sociale e istituzionale di epoca carolingia (VIII –IX secolo).
In breve: “Feudalesimo” è correntemente posto come il periodo che va dall’epoca tardo-carolingia
(fine IX secolo d.C.) alle soglie del XIII secolo – l’epoca che si inaugura col XIII secolo sarebbe la
cosiddetta “Età comunale”. A tale visione corrente (almeno sino a poco tempo fa), se ne oppone
un’altra, oggi più accreditata presso la storiografia, per la quale l’epoca feudale è da rintracciarsi
a partire dal XI secolo, in specie nei secoli XII e XIII (cioè nell’epoca tradizionalmente considerata
“comunale”).
Questo, ovviamente, pone uno slittamento anche sui pre-requisiti, che divengono, ora,
effettivamente l’epoca carolingia e post-carolingia.
Posta la cosa in termini di date, potremmo richiamare come pre-requisito la seguente scansione
cronologica:
800 Incoronazione imperiale di Carlo Magno
814-840 Il titolo imperiale, alla morte di Carlo Magno, passa a suo figlio Ludovico, detto il Pio.
Alla sua morte, nonostante la Ordinatio Imperii (817) con la quale Ludovico il Pio aveva inteso
regolare la successione al trono dopo la sua morte, scoppiano lunghe e accanite guerre fra gli eredi
(Lotario, Ludovico il Germanico, Pipino, Carlo il Calvo)
843 Col trattato di Verdun Carlo il Calvo, Lotario e Ludovico il Germanico si spartiscono l’Impero
in tre porzioni: a Carlo il Calvo le terre della Francia, a Ludovico il Germanico quelle della
Germania, a Lotario il titolo imperiale, l’Italia, la Provenza e un ampia fascia di territorio comprese
fra le Alpi e il Mare del Nord (Lotaringia).
855-875 Ludovico II succede a Lotario.
877 Carlo il Calvo promulga l’editto di Quercy.
881-887 Carlo il Grosso imperatore, a seguito di vicissitudini dinastiche, riunifica l’Impero
888 muore Carlo il Grosso
Sul feudalesimo collocato storicamente a ridosso dell’epoca carolingia (definizione del Desideri)
grava poi un notevole pregiudizio relativamente alla sua genesi, ossia si ritiene che vi sia in essa una
responsabilità diretta carolingia.
Nel dettaglio il pregiudizio di cui si tratta è il seguente.
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Il pregiudizio da rigettare
La frantumazione del potere pubblico in epoca tardocarolingia (seconda metà IX secolo D.C.) e
post-carolingia (X, XI secolo in particolare) quale risultato della pratica carolingia di attribuire ai
vassalli del re (compagni d’armi) terre in usufrutto (feudi, di qui “feudalesimo”) quale ricompensa
per il servizio militare prestato. Nel pregiudizio è inclusa altresì l’attribuzione al vassallo
dell’esercizio della funzione pubblica sulle terre dategli in feudo. Da ultimo, il rapporto feudale
sarebbe riprodotto dai vassalli stessi a seguito di sub-infeudazioni ai valvassori, e da questi ai
valvassini, con il risultato di una frantumazione sempre maggiore del potere pubblico e di un
controllo sempre minore del re sul territorio (dalla sua persona dipenderebbero infatti unicamente i
vassalli, non pure i valvassori, che dipendono dai vassalli, e i valvassini, che dipendono dai
valvassori, sicché per arrivare ai valvassini il re avrebbe bisogno del medium di vassalli e
valvassori) - Zerbi, pg. 81. In ciò si darebbe luogo a quella che è detta con espressione figurata, la
“piramide feudale”, con all’apice il sovrano e alla base i valvassini. E’ chiaro che, con una piramide
così strutturata, in cui l’autorità del re è già in se stessa mediata più volte prima di arrivare alla base,
laddove venisse in qualche modo a mancare la figura regia (ad esempio per una lotta dinastica, etc.)
si avrebbe pressocchè una disgregazione totale del potere pubblico, che trova precisamente nella
figura regia il suo punto d’unione.
Definizione dei termini
- Vassallaggio
Il termine vassallaggio denota una particolare forma di dipendenza personale (dell’uomo sull’uomo)
nella quale il servigio reso dall’inferiore è di carattere prettamente militare. Questo significato di
“vassus” si fissa sul finire del VIII sec nella Francia Carolingia. Prima (sec. VI, VII, prima metà
VIII) il termine vassus designava il dipendente di un signore, in ciò non facendo distinzione fra
colui che rende un servigio (serve) il signore prestando opere di basso livello o di alto livello
(vassus denota indifferentemente colui che presta al signore servizio armato, come i garzoni, i
valletti, i servi) – Zerbi, pg. 93; Bloch, pg. 182 -.
Con il tempo il rapporto di vassallaggio si fissa altresì in procedure esteriori (bacio sulla bocca,
mani nelle mani, con la successiva cristianizzazione, a ciò è addizionato il giuramento di fedeltà sul
Vangelo o su una reliquia – in proposito si veda in “Fonti”) rigorose e canonizzate.
Il vassallaggio, al di là del termine particolare che lo denota, era diffuso ampiamente nel mondo
germanico come legame di fedeltà che lega i compagni d’arme al loro capo, presso cui dimorano e
da cui ricevono il loro stesso sostentamento.
Nel mondo latino ha un lontano precedente nell’istituzione del patronato.
A seguito della sovrapposizione, ad es. in Gallia dopo la conquista romana, fra Galli e Romani, la
pratica del rapporto di fedeltà personale fra uomo e uomo (che esisteva già in ambito Gallico e
barbarico in generale), si definì con termini e concetti latini (commendatio, accommendarsi ad un
potente, etc. – in “Fonti”) – Bloch, pg. 175. In ambito germanico per definire il protettorato
esercitato dal signore sul suo sottoposto si parla di mundio – Bloch, pg. 176 -.
La pratica della accomendatio ai potenti è diffusissima nel secoli IV e V (Bloch, pg.176).
Ciò che discrimina il vassallaggio da ogni altra forma di dipendenza personale, almeno nel
significato stretto che esso prese sul finire dell’ VIII secolo, s’è detto, è la peculiarità del servizio
reso al signore, ossia il servizio armato.
Coloro che esercitavano questo servizio divennero col tempo una vera e propria classe privilegiata
rispetto a tutti gli altri dipendenti di un signore. I motivi di questo processo sono essenzialmente
due:
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1) lo stanzializzarsi dei popoli barbarici in regioni territorialmente determinate e la connessa
trasformazionedell’economia in senso agricolo
2) la sostituzione progressiva della cavalleria alla fanteria quale nerbo dell’esercito.
Relativamente al primo punto è da notare questo: da principio presso i popoli barbarici ogni libero
era all’occorrenza un guerriero, tuttavia, quando il popolo iniziò a stanzializzarsi e comparve la
figura del contadino, la leva generalizzata ed obbligatoria non poté più essere applicata
indifferentemente , ma dovette tenere conto delle esigenze connesse alla conduzione dei campi. La
disponibilità di ogni uomo libero per l’esercito non fu più, pertanto, così automatica. Per ovviare a
tale difficoltà e disporre di un esercito ad ogni istante mobilitabile, si dovette ricorrere ad un nerbo
fisso e stabile di guerrieri di professione, il quale, all’occorrenza, veniva integrato a mezzo della
leva obbligatoria nei modi e nei limiti, tuttavia, di quanto sopra.
Circa il secondo punto: rispetto al fante, il cavaliere necessita di apposita e costosa armatura, di
cavalli (generalmente più d’uno), di scudieri, soprattutto di un addestramento molto maggiore e più
accurato. Ma non tutti per posizione economica sono in grado di assicurarsi armatura e seguito, non
tutti, del resto, possono applicarsi sin da giovane età all’apprendimento dell’arte della guerra a
cavallo. Tutto questo concorre alla necessità di creare una classe specializzata di guerrieri a cavallo
di professione. In quanto questa classe ha un elevato livello di specializzazione ed è così
indispensabile per la mansione che svolge (le guerre si decidono essenzialmente in forza della
cavalleria), è tenuta anche in particolare pregio e considerazione.
E’ da notare che la commendatio ad un potente (dominus) di cui il vassallaggio è una
specializzazione non implica un obbligazione unilaterale, ma bilaterale: l’inferiore si sottomette al
superiore e si impegna a fornirgli servigi ed obbedienza in cambio di protezione e, spesso, anche
del suo stesso sostentamento (si veda in “Fonti”). Laddove il signore non sia più in grado di
assicurare (Zerbi, pg. 96-97, Bloch) protezione all’inferiore, questi è rimesso dall’obbligo di
prestargli il servizio. In tutto questo vi sarebbe in nuce il principio parlamentare della resistenza al
sovrano laddove questi venga meno ai suoi doveri.
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- Feudo/beneficio
Feudo. Il termine latino “feudum” compare sul finire dell’IX sec. ; esso è la latinizzazione di due
termini germanici che, nel complesso, significano “possesso di bestiame”. In particolare con questa
accezione si designava da principio il bestiame (o un bene mobile in generale) dato come
ricompensa (remunerazione) per un servizio ricevuto.
In territori di lingua d’oc e d’oil il termine, perdendo il contatto con la sua naturale origine e col suo
significato primitivo, prese a designare la ricompensa data per il servizio prestato (purchè questo
comportante un elevato grado di specializzazione, ossia tale che non chiunque potesse compierlo:
ad. es la ricompensa per orafi, artisti, non soltanto servitori armati) a prescindere dalla natura
mobile o immobile del bene dato in ricompensa; tuttavia, dal momento che presso le case di signori
la remunerazione era spesso rappresentata da terre e che questa prese ad essere col tempo la
normale forma di remunerazione per il servizio armato (ossia il “vassallaggio” nel senso preso da
questo termine sul finire dell’VIII secolo), il termine si focalizzò su quest’ultimo significato, ossia
come terra data in ricompensa al vassallo per il servizio. E’ da notare come non è da sorprendersi se
spesso si parla di feudi dati a fabbri, palafrenieri, etc. Questo si spiega, come detto sopra, per il fatto
che feudo designava la remunerazione per il servizio specializzato (non solo militare),
remunerazione che presso i signori generalmente si esprimeva in terra data in usufrutto e da cui
ricavare il proprio sostentamento; solamente per gradi successivi l’accezione fu riservata alla
remunerazione terriera per il servizio vassallatico (Bloch, pg. 195).
Il termine beneficio, di origine latina, è un termine alto (e più antico) per esprimere lo stesso
concetto che, a livello basso, è espresso dal termine feudo (in un documento del 1087 citato da
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Bloch – pg. 193 - si legge: “Il beneficio, che volgarmente vien detto feudo”). In particolare, il
beneficio, dopo aver designato le liberalità provvisorie elargite, contro la corresponsione di servigi,
a favore di persone addette alle case di signori, si specifica nel senso di bene immobile (terra) data
al vassallo a fronte del servizio armato da lui reso. Se il signore dapprima ricompensa i propri
vassalli con donazioni di terre, successivamente non si tratterà più di donazioni, cioè di
trasferimenti di proprietà, ma unicamente di trasferimenti di usufrutto: tale ultimo significato sarà
incorporato in quello di beneficio, il quale denoterà la terra data in usufrutto (generalmente
vitalizio) al vassallo come ricompensa per il servizio armato.
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Ora, i concetti di vassallaggio e beneficio/feudo da principio non si implicavano vicendevolmente:
un capo poteva avere dei vassalli, cioè persone strette a lui da un vincolo di fedeltà e che gli
fornivano un servizio di natura militare, le quali però non erano da lui remunerate con
l’assegnazione di terre in proprietà o in usufrutto, come, del resto, s’è visto, un signore poteva
remunerare colui che gli forniva un servizio con un bene immobile (una terra), anche se quel
servizio non era un servizio armato.
I due concetti si legarono grazie a Pipino il Breve, il quale per primo prese a remunerare con
l’usufrutto di terre di sua proprietà (e, spesso, di proprietà degli enti ecclesiastici) i suoi vassalli.
Questa pratica tendeva essenzialmente a legare ancor di più il vassallo, giacché la terra, in quanto
data in usufrutto e non in proprietà, era reclamabile dal signore se il vassallo non assolveva ai suoi
obblighi.
In generale i Carolingi, cercarono di utilizzare i vincoli di fedeltà ( e obbedienza) vassallatica che
legavano i signori (i capi) ai loro fedeli (vassalli) , vincoli, si noti bene, già esistenti nella forma
generale già vista della fedeltà ad un capo militare, per assicurare a se stessi un controllo ed una
direzione sul territorio. In particolare essi fecero responsabili dell’apparizione presso i tribunali e
della presentazione alle convocazioni dell’esercito regio ogni signore per i suoi vassalli, così come
in generale pretesero che ogni signore imponesse ai suoi stessi vassalli l’osservanza delle
disposizioni regie. Per fare questo cercarono in primis di legare a sé con altrettanti vincoli di
vassallaggio e con l’attribuzione di terre demaniali (o ecclesiastiche) in usufrutto (feudi) i grandi
signori, i quali a sua volta avevano legate a sé schiere di compagni d’armi a loro fidati (Bloch pg.
184-185). Pertanto, sia gli effettivi compagni d’armi del re, sia i nuovi suoi vassalli, i quali, pur
essendo signori di schiere di armati a loro fedeli non avevano mai militato a fianco del re, vennero a
trovarsi rispetto al re in posizione di suoi vassalli ed investiti in ragione di ciò di feudi.
Il re, in altri termini, cercò di ricondurre i vari e dispersi rapporti di fedeltà vassallatica entro una
struttura piramidale al cui apice si trovava il re stesso.
La pratica del vassallaggio entrò tuttavia entro l’amministrazione pubblica in una maniera molto più
specifica, ad opera di Carlo Magno.
Egli, infatti, dovendo amministrare il regno, lo ripartì in frazioni territoriali dette marche e contee
(marche quelle poste lungo i confini e contee quelle più interne) e affidò l’amministrazione di tali
unità territoriali a suoi fedeli (suoi vassalli), attribuendo a costoro, come ricompensa per il servizio
prestato, una porzione del territorio della contea, nonché parte delle entrate (un terzo delle
ammende) – ciò, ovviamente è da attribuire, date le condizioni economiche, all’impossibilità di
assegnare loro una remunerazione in denaro. Ora, la terra data al conte per l’esercizio della funzione
comitale non era affatto un beneficio (feudo), ma la ricompensa per l’esercizio della funzione ed,
essendo quest’ultima ad ogni momento revocabile a discrezione del re (eventualmente per deputare
il conte ad una mansione più importante: ad es. l’amministrazione di una contea più grande), pure la
remunerazione per la funzione era del tutto revocabile e transitoria.
In ciò le fonti cercano accuratamente di distinguere gli onori o feudi di dignità (contee e marche),
dai feudi veri e proprio o benefici (Bloch, pg. 221). Essendo le due cose distinte, l’una non seguiva
le sorti dell’altra: se anche il beneficio tendeva ad essere vitalizio e poi ereditario, l’onore, in quanto
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funzione pubblica, era revocabile a discrezione del re, e, con esso, revocabile era la sua
remunerazione. Tuttavia erano poste le premesse per il fraintendimento, operatosi poi in epoca postcarolingia: il vassallo del re che si vedeva investito della carica comitale, in quanto già vassallo del
re, tendeva ad intendere, non solo la remunerazione per la carica, ma la carica stessa come un
beneficio e, d’altro canto, gli altri beneficiari del re tendevano a vedere il beneficio come un onore,
cioè legato a funzioni amministrative, delle quali quindi si arrogavano (Zerbi pg. 85)
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Ereditarietà dei feudi
E’ evidente che agisce da parte del vassallo un forte interesse nel senso dell’ereditarietà del feudo,
cioè della trasmissione del feudo sul suo asse ereditario. Questo è ancor più vero per i cosiddetti
feudi oblati, cioè per quei feudi che, pur essendo un antico patrimonio allodiale (cioè una piena
proprietà) della famiglia, un membro della famiglia è stato costretto a cedere ad un potente in
cambio di protezione, restituendogli poi costui la terra degli avi in forma di feudo e previo
giuramento di fedeltà vassallatica (Bloch, pg. 219-220).
Il figlio è quindi assolutamente disposto a subentrare al padre nel giuramento di fedeltà vassallatica
e ad assumersi gli stessi oneri.
E’ vero, però che da parte del signore non agisce affatto un interesse in senso contrario, cioè nel
senso del non trasmettere al figlio il feudo che era stato del padre, purché, ovviamente, il padre
abbia ben servito ed il figlio giuri di fare lo stesso. A che pro privare il figlio di un buon vassallo del
feudo paterno per darlo ad altri?
Di fatto, nella prassi invalse quindi sempre la tendenza , da parte del signore, a non ricusare
all’erede legittimo la reinvestitura del feudo paterno, previo atto di sudditanza vassallatica. A ciò si
faceva eccezione solamente in casi ben circoscritti e determinati (Bloch, pg. 219).
Posto come l’ereditarietà fosse invalsa nella pratica, si pongono poi tutta una serie di questioni
molto più pragmatiche:
se l’unica erede è una donna, assenza di eredi in generale, figlio in minore età o, addirittura neonato:
in tutti questi casi come regolare la successione?
E’ un fatto come il feudo transitò sempre più in senso patrimoniale, cioè nel senso
dell’incorporazione di esso nel patrimonio allodiale della famiglia, come è testimoniato dal fatto che
ad esso talora si applicarono agli stessi criteri di trasmissione ai quali erano sottoposti i beni di
proprietà della famiglia, ad es., la trasmissione al ramo collaterale in assenza di figli, la trasmissione
a donne in assenza di figli maschi, talora la divisione fra i figli (Bloch, 229-238), cose tutte, che
contrastano in linea di principio con la fedeltà e l’aiuto militare che è richiesto al vassallo: come
può una donna servire in armi?
Da ultimo si giunse a legare l’onere al feudo e non alla persona, assumendo nell’alienazione totale
del feudo la trasmissione all’acquirente dell’onere. In ciò, tuttavia, il signore cercò, almeno in una
fase iniziale, di riaffermare la propria supremazia pretendendo che l’acquirente del feudo fosse di
suo gradimento e che gli prestasse atto di sottomissione vassallatica per poi ricevere da lui stesso il
feudo. Il segno, tuttavia, che il feudo era entrato nel patrimonio personale del vassallo è dato dal
fatto che costui poteva venderlo in tutto o in parte ricavandone un compenso (si noti: vendere un
bene di cui, in teoria, non avrebbe potuto disporre, essendo di proprietà di altri – del suo signore) –
Bloch, pg. 238-240.
L’ereditarietà dei feudi maggiori non fu affermata, come spesso si ritiene, con il capitolare di
Quercy, emanato da Carlo il Calvo re di Francia nel 877, ma in via di principio legislativo non fu
mai affermata (per quanto essa costituiva, s’è visto, la prassi usuale).
Nel citato capitolare si tratta semmai dell’ereditarietà della funzione comitale, che è tuttavia
concessa in via del tutto provvisoria e limitata. (Zerbi pg. 97-98; Bloch, pg. 223 –224). E’ chiaro
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poi che, legandosi la funzione comitale alla sua remunerazione, ed essendo questa un bene
immobile (una terra), l’ereditarietà passa anche su quest’ultima.
In verità, come nella prassi era invalsa l’ereditarietà per i benefici (distinti dagli onori), questioni
prettamente pragmatiche indussero col tempo i re a non ricusare la trasmissione dell’ufficio che era
stato del padre al figlio.
Infatti era inevitabile che i conti utilizzassero della loro funzione pubblica per crearsi nel territorio
comitale vasti possessi allodiali loro propri e, con essi, vincoli di natura personale che li legavano
agli abitanti, clientele armate, etc.
Dinnanzi al radicamento territoriale del conte, il re aveva una effettiva difficoltà ad attribuire ad
altri la funzione comitale, poiché chiunque altro, insediandosi sul territorio, avrebbe dovuto
fronteggiare un potentato territoriale già precostituito (in ciò una parziale soluzione al fine di
indebolire l’autorità comitale era quella di concedere, in genere ad enti ecclesiastici, appositi
diplomi di immunità, i quali creavano, entro il territorio comitale, che rimaneva di pertinenza del
conte, apposite aree giurisdizionali autonome – “Fonti” -). Operava poi una situazione in senso
inverso, data cioè la presenza ormai radicata di potentati territoriali in mano a determinate famiglie
in forza dei loro stessi possessi e patrimoni allodiali (signorie), questo anche indipendentemente dal
possesso dell’ufficio pubblico, potentati generalmente creatisi fra fine IX e inizio X secolo (vedi
sotto: signorie), come ricusare a costoro ed ai loro eredi l’investitura dell’ufficio pubblico su quei
territori nei quali già, di fatto, esercitavano tali funzioni a titolo privato? L’investitura dell’ufficio
pubblico, in verità, rappresentava anzi per il re l’unica modalità di riaffermare la sua supremazia e il
suo predominio (Tabacco, pg. 129-130) – circa questo si vedano più avanti le “Conclusioni”, “Di
nuovo sul pregiudizio iniziale.”).
L’ereditarietà dei feudi minori, per contro, fu sancita con apposito atto legislativo dall’Imperatore
Corrado II il Salico nel 1037 (Bloch, pg. 227 – si vedano anche “Fonti”).
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Signorie di banno
La frammentazione politica e territoriale operatasi in epoca post-carolingia (secoli X, XI) è da
attribuirsi, non da ultimo, al crearsi delle signorie di banno, ossia di veri e propri potentati
territoriali da parte di famiglie illustri a seguito di fortificazioni o opere di incastellamento operate
durante i secoli nei quali la presenza regia era pressochè assente in ragione dei torbidi delle
successioni (in Francia e Italia) e il pericolo saraceno, normanno e ungaro particolarmente
stringente (fine IX sec., inizi X). Il signore, accordando difesa al debole, acquistava su di lui un
diritto in tutto e per tutto simile a quello dell’ufficiale pubblico (conte o marchese). Il fatto che entro
le proprie castellanie (cioè il territorio che faceva capo ad un castello) ogni signore avesse la stessa
autorità dell’ufficiale pubblico, rompeva ovviamente l’unità della compagine statale, creando aree
protette, aree che cadevano al di fuori della giurisdizione dello stesso re (Zerbi, pg. 86-88).
L’unico modo, s’è detto, che il re aveva per recuperare la propria autorità era di attribuire la
funzione pubblica, previo connesso giuramento di fedeltà vassallatica, precisamente ai signori che
già, de facto, la esercitavano.
Le signorie di banno o territoriali si pongono sulla scia delle antiche proprietà fondiarie di epoca
carolingia, nelle quali già erano poste le premesse per la creazione di un rapporto di dipendenza
personale fra uomo e uomo tale da introdurre un conflitto fra l’obbedienza che un soggetto doveva
all’autorità pubblica e l’obbedienze che lo stesso soggetto doveva ad un’autorità privata (in
proposito, per distinguere, si parla di signorie di banno, signorie fondiarie, domestiche, etc –
Manuale Donzelli, lezione X, pg. 260). Posto, infatti, come in tali proprietà si debba distinguere fra
una pars dominica e una parsa massaricia (spesso non contigue l’una all’altra), ossia fra una parte
gestita direttamente dal padrone attraverso un intendente ed in cui lavoravano gli schiavi domestici
(prebendari), alloggiati in abitazioni contigue alla casa padronale, ed un’altra parte, frazionata in
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varie unità di conduzione agricola (i mansi), ciascuno dei quali affidato ad una famiglia di liberi o
schiavi. Ora, se su tutti i conduttori di mansi vigeva l’obbligo di versare un censo annuo
(generalmente in natura) al padrone, nonché di compiere prestazioni d’opera in periodi prefissati,
sugli schiavi che avevano in conduzione mansi, vigevano anche obblighi di natura meno circoscritta
e determinata (dalla consuetudine o da espliciti contratti), obblighi che si configuravano come veri e
propri rapporti di dipendenza personale. Questi obblighi, successivamente, si generalizzeranno
anche ai contadini conduttori di manso liberi, ed anche, spesso, ai piccoli proprietari allodiali
(l’”allodio” è la piena proprietà libera da vincolo). Infatti accadeva, che, data la configurazione
della parsa massaricia, spesso confinante con piccole proprietà allodiali, i proprietari di tali piccoli
appezzamenti, vessati dai funzionari pubblici, si affidassero a mezzo dell’ accomendatio al grande
proprietario per averne in cambio protezione. A fronte della protezione cedevano a costui la
titolarità della proprietà del fondo, che generalmente riottenevano da questi sotto corresponsione di
un censo. Ora, anche in questo caso, spesso si legavano alla corresponsione del censo obblighi di
natura personale (Zerbi 83-84).
Conclusioni
Di nuovo sul pregiudizio iniziale
Siamo ora in grado di analizzare nel dettaglio il pregiudizio da cui avevamo preso le mosse.
Innanzitutto si è già rilevato come la pratica di remunerare i vassalli (i compagni d’arme del re) con
terre date in usufrutto non si legava, di per se stessa e automaticamente, all’esercizio della funzione
pubblica su quel territorio. Infatti occorre distinguere fra feudi di dignità o onori, e normali feudi.
Secondariamente, il beneficio non era affatto di per se stesso ereditario, ma vitalizio – e, in verità,
anche in riferimento ai feudi maggiori, mai fu sancita per legge la loro ereditarietà. L’ereditarietà
invalse nella pratica per una serie di ragioni di carattere, appunto, prettamente pratico, e nelle quali
convergevano, sì, gli interessi dei feudatari nel senso dell’ereditarietà, ma neppure operava un
interesse contrario da parte del sovrano.
Da ultimo c’è anche e soprattutto da rilevare che la disgregazione del potere pubblico se è,
certamente, in parte attribuibile alla sopra citata pratica carolingia, non è imputabile soltanto ad
essa. Infatti, a latere, è da rilevare un corrispondente processo del tutto autonomo per il quale a
partire dalla proprietà fondiaria di epoca carolingia, si vennero a costituire le Signorie, cioè
potentati territoriali assolutamente autonomi rispetto al potere regio, ed esercitanti poteri di natura
prettamente pubblica. E’ bensì vero, tuttavia, che, da parte regia, per lo più si tollerò (per non dire si
avvallò) il costituirsi di tali potentati territoriali autonomi, come ad esempio rileva il Tabacco
relativamente al regno d’Italia (Tabacco, pg. 95), laddove Ludovico II, subentrato al padre Lotario
nella titolarità del regno d’Italia e nella corona imperiale ad esso associata , nel 856 emanò un
capitolare a Pavia, nel quale non soltanto rimproverava agli ufficiali pubblici gli atti di coazione
operati ai danni di liberi risiedenti su terre private al fine di condurli al placito pubblico, ma
prevedeva altresì apposite sanzioni nel caso tali atti si verificassero, in ciò favorendo l’assunzione di
competenze di pertinenza dell’autorità pubblica da parte di soggetti privati (ciascun signore per i
liberi risiedenti nelle terre di sua proprietà), cui è demandato esplicitamente tale compito.
Ora, posta una tale frammentazione politica in unità territoriali del tutto eterogenee e svincolate le
une dalle altre, nel XII e XIII secolo, si verificò dall’alto (cioè da parte regia) un del tutto peculiare
tentativo di riaffermazione dell’autorità regia: il sovrano prese ad attribuire ai titolari di Signoria
(cioè a coloro che di fatto esercitavano le prerogative dell’autorità pubblica su determinate aree
territoriali, indipendentemente dall’origine di tale autorità) investitura feudale, previo da parte di
costoro, atto di sudditanza vassallatica. In ciò, tuttavia, l’atto di omaggio e l’investitura feudale
perdevano del tutto il loro carattere originario. Non si trattava più di ricompensare con una proprietà
fondiaria data in usufrutto colui che aveva fornito un servizio di natura militare, ma si trattava di
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legittimare mediante un’investitura dall’alto (da parte del re) un potere che si era già
autonomamente costituito dal basso (a riprova di ciò vi sono i numerosi casi di feudi oblati, cioè di
proprietà riottenute dal proprio legittimo proprietario come feudi, dopo l’atto di sottomissione
vassallatica). Convergevano in questo sia l’interesse del sovrano, che era quello di riaffermare la
propria autorità (cosa che egli otteneva mediante l’atto di sudditanza vassallatica), sia quello dei
vari signori, che ambivano ad una legittimazione dall’alto della loro autorità di fatto (cosa resa
peraltro necessaria dal riaffermarsi in quel periodo degli studi giuridici e dalla contestazione a cui
era sottoposta dal basso la loro stessa autorità). E’ solo in questo periodo, e, dunque, affatto in
epoca carolingia, che l’istituto feudale assunse una valenza politica, ed è solo in questo periodo che
si può, perciò, parlare di un vero e proprio sistema feudale gerarchizzato in sovrano, principi, grandi
signori, etc. (si veda in proposito la lezione X del Manuale Donzelli, pg. 265-266). Per riassumere:
1) Quanto è comunemente invalso nel concetto di “feudalesimo” e “sistema feudale” descrive, di
fatto, una realtà storica effettivamente esistita, salvo questa essere da collocarsi intorno all’XIIXIII secolo, non precedentemente (secoli IX, X e XI), come è viceversa richiesto dal concetto
summenzionato, che oppone ad un’epoca feudale un’epoca comunale, che, sorgerebbe, appunto,
in contrapposizione a quella feudale fra XI e XII secolo (Dizionario del medioevo, pg. 112,
Zerbi, pg. 81). E’ viceversa vero che, contro la tesi dell’opposizione fra un periodo feudale ed
un successivo periodo comunale, depone, per altro, l’utilizzo da parte degli stessi Comuni del
vincolo feudale.
2) Nella genesi del cosiddetto “sistema feudale” non è rinvenibile una responsabilità diretta da
parte dei Carolingi. Il sistema feudale non è infatti il prodotto diretto della pratica carolingia di
remunerare i compagni d’arme del re con terre date in usufrutto. Su tale pratica si sono inserite
condizioni ulteriori (in particolare le opere di incastellamento con l’annessa formazione delle
signorie di banno, etc.) rispetto alle quali non vi è una responsabilità diretta dei Carolingi.
Distinzione beneficio/feudo
Si è in verità rilevato come i due termini siano sinonimici, salvo l’uno richiamarsi alla tradizione
latina, l’altro a quella germanica. Una distinzione fra i due può essere fatta unicamente con riguardo
a questo: nella nozione corrente di feudalesimo (da “feudo”, appunto) è attribuito al feudo un
carattere patrimoniale (di ereditarietà) che, almeno quanto a termine, non è attribuito al beneficio,
che è anteriore (infatti col tempo alla dizione “beneficio” è subentrata quella di “feudo”). Il feudo,
dunque, rispetto al beneficio, presenta una deviazione in senso patrimoniale: il feudo tende, cioè, ad
essere concepito quale un bene della famiglia al pari di ogni altro bene di proprietà, e tale da
trasmettersi in via ereditaria di padre in figlio/figlia, in ciò a differenza del beneficio, che era una
proprietà data in usufrutto vitalizio (e, dunque, revocabile alla morte del beneficiario) in cambio di
un servizio prestato.
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Fonti
Monumenta Germaniae Historica: esempio di commendatio, di cerimonia di investitura feudale, di
immunità concessa a monasteri. Il testo tradotto è tratto da Storia e Storiografia, di Antonio
Desideri, vol. 1, pg. 256 –257.
Costituzione di Corrado Secondo il Salico (1037), dalle Fonti di Ludovico Gatti.
Bibliografia
Annamaria Ambrosioni, Pietro Zerbi, “Problemi di Storia Medioevale” quarta edizione, Vita e
pensiero, Milano 1988, prima edizione 1977
M. Bloch, La Società Feudale, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2001, prima edizione 1939
Frugoni, Barbero, Dizionario del Medioevo, Laterza
G. Tabacco, Sperimentazioni del Potere nell’Alto Medioevo, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino
1999.
“Storia Medievale”, Manuali Donzelli, lezioni VII e X.
www.chrisma.it
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